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lunedì 7 dicembre 2015

III Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Sofonìa (Sof 3,14-18)

Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 4,4-7)

Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 3,10-18)

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

 

Rieccoci alle prese con Giovanni Battista.

Il brano di oggi si conclude così: «Giovanni evangelizzava il popolo».

Tenendo presente che “evangelizzare” vuol dire “dare una buona notizia”, non pare che il commento di Luca sia proprio azzeccato: un attimo prima infatti fa dire al Battista: «Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Almeno per la “paglia”, l’annuncio non è lieto, non si tratta proprio di una buona notizia.

Cosa dobbiamo concludere?

mercoledì 2 dicembre 2015

II Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Baruc (Bar 5,1-9)
Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre. Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo. Sarai chiamata da Dio per sempre: «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà». Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti, dal tramonto del sole fino al suo sorgere, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio. Si sono allontanati da te a piedi, incalzati dai nemici; ora Dio te li riconduce in trionfo come sopra un trono regale. Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio. Anche le selve e ogni albero odoroso hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio. Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 1,4-6.8-11)
Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.
 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 3,1-6)
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».
 
In questa Seconda Domenica di Avvento, la Chiesa ci introduce – con le sue letture – in un clima di attesa decisamente più luminoso di quello presentato la settimana scorsa da Lc 21:
-          «Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre» – proclama il profeta Baruc;
-          «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» – gli fa eco Isaia, citato da Luca…
-          E Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, non è da meno: «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù».
Tutta questa effervescenza ovviamente è legata al mistero del Natale di Gesù che – con l’Avvento – ci prepariamo ad accogliere; eppure l’attenzione non è ancora posta precisamente su di Lui: la Chiesa infatti ci invita a concentrarci (e lo farà per due domeniche di seguito) sul Precursore, su Giovanni.
Questo dato è molto interessante: la Chiesa infatti – per parlare della venuta di Gesù – invita sempre a farlo passando da Giovanni Battista.
E questo da sempre, tant’è che tutti e quattro i vangeli attribuiscono grande importanza a questo personaggio e sottolineano come si possa iniziare a parlare di Gesù solo attraverso suo “cugino”…
Diventa indispensabile dunque anche per noi oggi, ripercorrere l’esperienza storica di quest’uomo (storica al 100%, data la puntigliosità di Luca nel collocarla nel quadro dei grandi avvenimenti storico-politici dell’epoca: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto»).
Lo facciamo lasciandoci guidare dalle preziose indicazioni contenute nel capitolo 1 del libro Con Marco in cammino verso il Regno del Monastero delle Carmelitane scalze di Legnano.

martedì 25 novembre 2014

I Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Isaìa (Is 63,16-17.19; 64,2-7)

Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti. Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti. Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui. Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 1,3-9)

Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 13,33-37)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

 

Iniziamo quest’oggi un nuovo anno liturgico (l’anno B) – al seguito del vangelo di Marco.

E iniziamo anche un nuovo avvento, una nuova attesa del Natale di Gesù: non a caso l’invito incalzante del brano odierno è “vegliate!”.

Per comprendere però cosa voglia dire questo appello a non farci trovare addormentati, è necessario approfondire il testo e il suo contesto, perché è chiaro che Gesù non sta parlando del sonno fisiologico, ma che utilizza questa immagine in maniera metaforica.

Qual è allora il sonno (e per converso, la veglia) a cui siamo invitati?

martedì 4 dicembre 2012

II Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Baruc (Bar 5,1-9)

Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre. Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo. Sarai chiamata da Dio per sempre: «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà». Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti, dal tramonto del sole fino al suo sorgere, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio. Si sono allontanati da te a piedi, incalzati dai nemici; ora Dio te li riconduce in trionfo come sopra un trono regale. Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio. Anche le selve e ogni albero odoroso hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio. Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 1,4-6.8-11)

Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 3,1-6)

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».

 

In questa Seconda Domenica di Avvento, la Chiesa ci introduce – con le sue letture – in un clima di attesa decisamente più luminoso di quello presentato la settimana scorsa da Lc 21:

-          «Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre» – proclama il profeta Baruc;

-          «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» – gli fa eco Isaia, citato da Luca…

-          E Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, non è da meno: «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù».

Tutta questa effervescenza ovviamente è legata al mistero del Natale di Gesù che – con l’Avvento – ci prepariamo ad accogliere; eppure l’attenzione non è ancora posta precisamente su di Lui: la Chiesa infatti ci invita a concentrarci (e lo farà per due domeniche di seguito) sul Precursore, su Giovanni.

Questo dato è molto interessante: la Chiesa infatti – per parlare della venuta di Gesù – invita sempre a farlo passando da Giovanni Battista.

E questo da sempre, tant’è che tutti e quattro i vangeli attribuiscono grande importanza a questo personaggio e sottolineano come si possa iniziare a parlare di Gesù solo attraverso suo “cugino”…

Diventa indispensabile dunque anche per noi oggi, ripercorrere l’esperienza storica di quest’uomo (storica al 100%, data la puntigliosità di Luca nel collocarla nel quadro dei grandi avvenimenti storico-politici dell’epoca: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto»).

Lo facciamo lasciandoci guidare dalle preziose indicazioni contenute nel capitolo 1 del libro Con Marco in cammino verso il Regno del Monastero delle Carmelitane scalze di Legnano.

L’autore – p. Giuliano Bettati – scrive infatti: «Anche oggi è necessario, per avvicinare Gesù e riscoprire la possibilità e – se volete – l’approfondimento di una nuova autenticità del nostro personale incontro con Gesù, incontrare prima Giovanni Battista». Egli è infatti la sintesi più riuscita del tentativo umano – prima di Gesù – di arrivare a Dio.

Gesù stesso infatti di lui, dirà: «In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista», Mt 11,11.

Ma questo non è vero solo storicamente – per cui per tutti quelli che sono venuti cronologicamente prima di Gesù, la massima aspirazione religiosa è rappresentata da Giovanni –, ma è vero soprattutto esistenzialmente: anche per chi è nato dopo Gesù e anche per chi già l’ha conosciuto nella sua storia personale, l’esperienza del Battista rimane paradigmatica; dal punto di vista dell’uomo la sua rimane infatti l’esperienza emblematica della nostra ricerca religiosa. Giovanni Battista infatti è il «profeta penitente».

Nella Bibbia questo termine ha un significato un po’ diverso rispetto a quello con cui lo utilizziamo noi oggi, come sinonimo di “mortificazione”, che risulta infatti un senso un po’ parziale. «Penitenza invece è il tentativo umano – che nasce dalla coscienza di peccato, di inadeguatezza, di distanza da Dio – per riprendere coscienza del luogo del vero obiettivo: Dio, la sua giustizia, la sua pace, la sua fraternità. E di girarsi verso di Lui. Per questo il termine greco dice piuttosto convertirsi, girarsi cioè, verso un altro obiettivo che sia alieno da noi e che abbiamo scoperto. Per questo la prima reazione è – e in Giovanni si vede benissimo – far violenza su di sé e sugli altri e dire: “No. Stiamo sbagliando: adesso basta! Bisogna girarsi verso un’altra realtà e quindi mettere in crisi, strappare un po’ di involucro, un po’ di strutture per prendere coscienza che bisogna andare da un’altra parte”. […] Pensate a tutti i Giovanni Battista della storia e a quello che è necessario per ognuno di noi: le leggi, le pene, i castighi, le minacce, i ricatti a livello istituzionale e personale, a livello di comunità. Sono tutti Giovanni Battista: il tentativo, dall’esterno, di convincere noi stessi e la gente con questi grandi strumenti antropologici che l’uomo si è inventato lungo la storia [penitenza, digiuno, silenzio, celibato, ecc…] per scuotere uno e dirgli: “Guarda che sei lontano da Dio, bisogna cercare di arrivarci”».

Eppure…

«La coscienza che c’è dentro è che tutto ciò che l’uomo può fare e che questo istinto di conversione suggerisce, anche violento, è sterile, è inutile», «non converte il cuore. Potete fare tutto quello che volete: digiuni, penitenze ecc.; ma […] il cuore rimane tale e quale». Di questo «Giovanni Battista aveva coscienza acuta. Per questo finisce col dire: “Io battezzo solo con acqua”; ma questa è solo una purificazione esterna, il cuore non cambia: “Dopo di me verrà uno che battezzerà in Spirito Santo e fuoco».

Da un lato dunque il fatto che «le penitenze non mettono in contatto la nostra storia di oggi con la salvezza del Signore», dall’altro il fatto che «la necessità di conversione, di senso della propria lontananza da Dio, di coscienza della propria inadeguatezza sono contemporanee».

Oltre Giovanni Battista dunque, ma mai senza Giovanni Battista…

Infatti: certo che «un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» dice qualcosa dell’esperienza umana, anzi forse addirittura, come si diceva prima, è il massimo che l’uomo di per sé può fare (accorgersi del male che fa o del bene che non fa e cambiare strada), ma Gesù è un’altra cosa.

Infatti «il dolore, la sofferenza del mondo, quindi la penitenza, vanno tenuti in conto; però non sono la chiave interpretativa della storia, come invece per Giovanni Battista. Tutta questa realtà non è più la chiave d’interpretazione del mondo. È a motivo di ciò che il Battista è valido, è contemporaneo, è profeta, è precursore; ma è prima di Gesù Cristo e “Non è degno di sciogliergli i legacci dei sandali” (Mc 1,7).

Perché? Perché il Signore ha portato un’altra parola che riavvolge tutta questa difficile, contraddittoria realtà della storia, nella paternità di Dio».

«C’è [infatti] come un crinale che divide, attraversa i popoli, la storia, la Chiesa, i gruppi, le famiglie e il cuore dell’uomo e che separa e unisce – il crinale fa questo – il mondo della necessità e il mondo della grazia, il Vecchio e il Nuovo Testamento. […] Gesù si è inserito nel tessuto di tutta l’umanità nel paesino di Nazareth, vivendo storicamente, accettando i ritmi biologici, l’economia, la religione, la politica del suo paese; in questa realtà necessaria, dove le cose vanno avanti perché sono sempre andate avanti così o poco diversamente, con la possibilità nuova che noi chiamiamo grazia. Si chiama grazia perché è gratis. Non è la conseguenza del meccanismo delle cose, non è la conseguenza dell’economia, né della santità di sua madre, né della bravura del maestro che gli ha insegnato la Bibbia; non è la conseguenza del Tempio, dove si prega Dio nell’ombra, nel cuore, ecc… Non è la conseguenza di tutte queste cose, neanche le più alte. Neanche di Giovanni Battista. È un puro regalo».

«Se uno non capisce il salto di qualità, allora ritiene che Gesù Cristo sia un grande profeta, un grande fondatore di religione, sia quello che mette l’uomo nella situazione di poter qualche volta incontrare Dio. No, non è niente di tutto questo! Altrimenti lo si confonde con un Giovanni Battista, con un Budda, con un Confucio, con un grande uomo, con Marx, con Freud, con chi ognuno ritiene sia stato un grosso sconvolgimento, un grosso orizzonte nella propria vita», un “uomo normativo” lo chiamano le scienze umane…

«Gesù [invece] è un’altra cosa! È quello che dà la possibilità all’uomo di vivere veramente da uomo; con una grazia di cui l’uomo non è capace (grazia vuol dire questo!) e viene dal di fuori. Ecco: questa è appunto l’esperienza ricevuta in regalo [gratis] dopo che l’uomo ha riscontrato che anche con tutta la dedizione possibile [Giovanni Battista] si ritrova seduto per terra. Allora è possibile la venuta di Gesù», che infatti non è da cercare, ma da accogliere!

Il Natale che viene, allora, e questo tempo di avvento che ci prepara ad esso non sia l’esperienza del nostro sforzo per arrivare a Dio, ma piuttosto la seria presa di coscienza del nostro ritrovarci – di nuovo e sempre (esistenzialmente!) – seduti per terra, ma raggiunti da un Signore, che proprio a noi, si mette in braccio nei panni di un neonato.

domenica 18 dicembre 2011

"Erano simili a mio figlio/E lui era simile a loro" - LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

Guido Reni, La strage degli Innocenti, 1611, Bologna, Pinacoteca Nazionale

«Erode mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù» (Mt 2,16).

Poterti smembrare coi denti e le mani,

sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,

di morire in croce puoi essere grato

a un brav’uomo di nome Pilato.

Ben più della morte che oggi ti vuole

t’uccide il veleno di queste parole:

le voci dei padri di quei neonati

da Erode per te trucidati.

Nel lugubre scherno degli abiti nuovi

misurano a gocce il dolore che provi;

trent’anni hanno atteso col fegato in mano,

i rantoli di un ciarlatano.

[De Andrè, Via della croce]

«Dovremmo inquietarci davanti a questo passo, alla sua sola presenza nel testo evangelico. Crea una fortissima tensione con quanto detto prima: la promessa di salvezza, la promessa di futuro... Nella storia dell’uomo esiste ed è tragicamente reale il tentativo dell’uomo di arrestare il movimento messo in atto da Dio con la nascita del suo Figlio. È così tragico che l’uomo è persino disposto a sacrificare il suo futuro per esso, cosa che avviene tristemente in ogni epoca. L’idea di espiazione è insufficiente a risolvere la questione: né la vendetta, né l’inferno possono pacificare le domande che il dolore innocente scatena nel cuore dell’uomo. Anzi aggiungono altro male al male già avvenuto. Dunque la domanda sul male diventa la domanda bruciante sul senso del perdono…

Un primo dato evangelico: Dio decide di non scendere dal banco degli imputati.

Un secondo dato: la sua non è una risposta teorica. La sua risposta è la sua vulnerabilità. La sua vulnerabilità è ciò che lo autorizza al perdono, perché ha un’identità tale che si identifica con ogni uomo che ha patito il male. Per questo può perdonare».

[M. Fiorucci]


“Il coacervo di corpi, nel suo insieme da "teatro della crudeltà", sembra giungerci da molto lontano, attraverso pesti, insanguinarsi nei lutti di guerre e invasioni, per passarci accanto e, ahinoi, preannunciarci chissà che stragi e orrori a venire” (G. Testori)

Orrore e santità, scandalo e fede: queste due polarità riescono a convivere nel dipinto del bolognese Guido Reni. I sicari inseguono, svolgono con implacabile precisione il terribile compito loro affidato da Erode: insieme ai neonati, sono vittime anche le madri. L’opera, però, introduce anche il secondo tema iconografico legato a questo episodio, la santità degli Innocenti: in alto angeli porgono le palme del martirio, i corpicini in basso sembrano dormire. Come scrive Testori, l’episodio narrato da Matteo ci porta alla mente altre stragi, altri pianti di madri: non è un caso che la figura della donna urlante sulla sinistra sia stata ripresa da Picasso per il suo Guernica. Solo una madre può capire cosa voglia dire perdere un figlio, nessuno può odiare quanto una madre chi ha causato questa perdita.



martedì 13 dicembre 2011

IV Domenica di Avvento

In questa Quarta Domenica del Tempo di Avvento, la liturgia che la Chiesa ci propone, ci porta vicinissimi al mistero del Natale. Ciò che verrà ri-narrato in quel momento è infatti anticipato dalle letture di questa ultima domenica di attesa, nell’annuncio a Maria dell’evento della nascita di un figlio.

Va sottolineato, che anche a livello letterario, il brano di questa domenica è strettamente legato a quello che leggeremo a Natale. Entrambi infatti appartengono alla stessa sezione narrativa, comprendente i cosiddetti “racconti dell’infanzia”.

Per comprendere bene questi testi, evitando soprattutto di farne una lettura ingenua e semplicistica, è utile perciò dare qualche indicazione sulla loro composizione, sull’obiettivo di chi li ha scritti e sul loro senso.

Innanzitutto è necessario ricordare come solo il Vangelo di Matteo e quello di Luca, contengano questa sezione, chiamata abitualmente “Vangelo dell’infanzia”: Marco e Giovanni iniziano invece i loro Vangeli narrando di Gesù già trentenne.

Ma anche Matteo e Luca – che pure parlano entrambi di Gesù da bambino – non danno lo stesso resoconto dei fatti. Come scrive il biblista don Bruno Maggioni «bisogna – perciò – resistere alla facile tentazione di unificare i dati dei due evangelisti nel tentativo di offrire una successione verosimile degli avvenimenti. Meglio raccontarli rispettando l’originalità di ciascuno» (in “I personaggi della natività”, Ancora 2004).

Altra annotazione preliminare indispensabile è poi quella che ci ricorda che i racconti dell’infanzia non vanno trattati come resoconti storici dell’infanzia di Gesù. Essi non sono, e tanto meno intendono essere, una cronaca delle vicende di Gesù bambino! Essi sono piuttosto testi teologici. Come scrive ancora Maggioni «i racconti dell’infanzia sono testimonianza a Cristo, e non solo (e non tanto) semplici ricordi storici. Gli evangelisti non hanno l’intenzione di raccontare la biografia di Gesù bambino. Attraverso i fatti che raccontano, intendono invece mostrarne già la missione e la vera identità. Sono, appunto, testimonianze, formatesi alla luce della fede e dell’esperienza di Pasqua. Questo non impedisce, sia ben chiaro, che in essi si nascondano diversi ricordi storici».

Lo scopo di questi testi è perciò prefigurare nell’infanzia il destino, l’identità, la vita di Gesù. Non a caso questi “vangeli dell’infanzia” sono stati l’ultima parte dei vangeli ad essere scritta: infatti, come anche per la letteratura non religiosa, «non è mai l’infanzia degli eroi ad attrarre, in un primo tempo, l’attenzione dei biografi, ma la loro vita da adulti, le imprese che li imposero all’ammirazione di tutti; e se, in un secondo tempo, lo sguardo si spinge sino all’infanzia, è quasi sempre per il desiderio di trovarvi già i segni prefiguratori del loro destino».

In questa cornice letteraria – non bisogna mai dimenticarlo! – va dunque inserito anche il testo evangelico odierno.


Esso è tratto dal Vangelo di Luca e pur avendo dati comuni a quello di Matteo (fidanzamento fra Maria e Giuseppe, l’adozione legale di Gesù da parte di Giuseppe e quindi l’appartenenza di Gesù alla stirpe di Davide, Nazareth e Betlemme, la verginità di Maria e la nascita di Gesù per opera dello Spirito), ha però rispetto ad esso anche molte differenze. In particolare e soprattutto è la prospettiva ad essere differente: Matteo infatti racconta gli eventi dal punto di vista di Giuseppe, Luca dal punto di vista di Maria. In più Luca ha una modalità di organizzazione del materiale (proveniente dalla tradizione) davvero originale e geniale: egli porta avanti come un confronto tra Gesù e il Battista. Dopo la breve introduzione (Lc 1,1-4) infatti egli presenta gli eventi dell’infanzia dei due fanciulli in parallelo: l’annuncio a Zaccaria della nascita del Battista (Lc 1,5-25) – l’annuncio a Maria della nascita di Gesù (Lc 1,26-38); il confronto fra le due madri (Lc 1,39-56); la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,57- 80) – la nascita di Gesù (Lc 2,1-21).

Non è possibile dunque comprendere il testo di questa Quarta Domenica d’Avvento, se non mettendolo in parallelo con l’annunciazione a Zaccaria della nascita del Battista. È proprio il confronto tra questi due annunci che fa emergere la particolarità della persona di Gesù: sarà infatti interessante notare come, delle due, la storia del Figlio di Dio sarà quella popolare, profana, semplice, non quella religiosa, sacra e grandiosa!

Quando infatti Luca racconta di Zaccaria che riceve l’annuncio della nascita di un figlio, lo fa presentando sostanzialmente un quadro agiografico: la narrazione si apre infatti con la presentazione di Zaccaria ed Elisabetta, descritti come «giusti agli occhi di Dio, osservanti in modo irreprensibile tutti i comandamenti e i precetti del Signore»; tutta questa perfezione religiosa però è sterile, infeconda, «non avevano figli». Mentre però Zaccaria «esercitava le sue funzioni sacerdotali davanti a Dio nel turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel santuario per offrire l’incenso» e lì «gli apparve l’angelo del Signore» con l’annuncio: «Tua moglie darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Giovanni». Il contesto è perciò grandioso e solenne: nel tempio, durante la solennità liturgica, con protagonista un sacerdote nell’esercizio della sua funzione.

Di Maria invece non è detto nulla di straordinario, né dal punto di vista sociale – è semplicemente una «ragazza promessa sposa di un uomo della casa di Davide di nome Giuseppe» – né dal punto di vista morale – di lei si dice solo che si chiamava Maria. Anche il luogo in cui avviene questo annuncio è – a differenza del tempio – un luogo normalissimo, quotidiano, semplice: «una città della Galilea, chiamata Nazareth» (città che le Scritture neppure conoscono), probabilmente in casa, dato che dell’angelo si dice che «entrò».

Già questo alternarsi di grandezza e piccolezza, solennità e semplicità, sacralità e profanità, lascia intravedere i tratti nuovi e inconfondibili del Dio di cui Gesù è Figlio. Come scrive ancora Maggioni infatti: «Nell’annuncio a Zaccaria il divino si mostra con tratti di grandiosità e solennità, ma proprio per questo si mostra con un volto normale che non sorprende. Nell’annuncio a Maria il divino si mostra nella più assoluta semplicità, nella quotidianità, e proprio per questo svela un volto inatteso e sorprendente. Da una parte, l’uomo entra nella casa di Dio, dall’altra, Dio entra nella casa dell’uomo».

Il confronto tra Zaccaria e Maria prosegue poi con il fatto che, dopo lo sconvolgimento e il turbamento e dopo il rispettivo «Non temere», pongono entrambi all’angelo una domanda; Zaccaria chiede «Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni»; e similmente Maria: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le due domande, molto simili nella formulazione, ricevono però due reazioni diverse da parte dell’angelo: Zaccaria è rimproverato come incredulo («non hai creduto alle mie parole»), Maria riceve invece una spiegazione e un segno, il concepimento di Elisabetta, dalla quale non a caso andrà subito dopo la dipartita dell’angelo («L’angelo le rispose: “Lo Spirito santo scenderà su di te... Ecco anche Elisabetta ha concepito un figlio...»), come se in lei si riconoscesse quell’«attimo di smarrimento, come in tutte le epifanie bibliche» che dice «lo sconcerto dell’imprevedibile, che fa irruzione in lei», che «domanda il senso» delle parole dell’angelo, «nella trepidazione di far dire a Dio, forse, ciò che non sta dicendo» [Giuliano].

Fatto sta che è lei ad emergere nel confronto con Zaccaria… Forse per le nostre orecchie è ormai abbastanza scontato sentir dire che il Dio di Gesù predilige i piccoli, i semplici, gli umili... E dunque non ci fa più tanto effetto, non tocca più la nostra capacità di sorprenderci. Ma se provassimo a dire la stessa cosa con gli elementi di questo testo, se ci accorgessimo cioè che il Dio di Gesù non solo predilige i piccoli ai grandi, i semplici ai grandiosi, gli umili ai potenti, ma anche le donne agli uomini, i laici ai sacerdoti, il profano al sacro, i giovani ai vecchi... forse la reazione sarebbe un po’ meno scialba...

Ma torniamo a Maria... Ciò che di lei è infatti stupefacente, non è solo il fatto che sia lei ad emergere nel confronto col Battista, ma ciò che questo dice dell’identità di Dio! Dà il senso di questa novità del Suo volto una poesia di Frances Croake, intitolata “Consacrazione”: Tra gli animali, nell’umido freddo buio di una stalla, / dopo il dolore, il sangue e il nascere; / Maria guardò il bambino che giaceva tra le sue braccia / e disse: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». / Nelle ombre della brulla collina del Calvario, / dopo il dolore, il sangue e il morire; / Maria guardò il corpo spezzato tra le sue braccia / e disse: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». / È proprio così che disse a lui allora. / E voi, aridi vecchi uomini, / che contraffate la sterilità in broccati, / ordinate che lei non possa dirlo a lui ora.

È questo impastarsi di Dio nel mondo, nel sangue, nel dolore, nel nascere e nel morire, il volto nuovo di Dio che Gesù rivela! Non è un’umiliazione moralistica (non si fa piccolo nel grembo di una piccola per proclamare il valore della piccolezza), non è un’umiliazione pedagogica (non lo fa per insegnarci ad essere umili), ma è lo scegliere (da parte di Dio) di essere così (un piccolo nella pancia di una piccola!), non per finta, non per un momento, non per prova! È piuttosto la risposta di Dio alla domanda: “Chi sono io?”!

Dio – per rispondere a questa domanda – ha scelto di avere bisogno dell’uomo, anzi di una donna! Senza il sì di Maria, Gesù quella volta non sarebbe nato. Senza Maria Gesù non sarebbe stato Gesù in quel modo (come mostra bene l’interessante film “Io sono con te” di Guido Chiesa). Ma questo non è vero solo per Maria! Dio – in Gesù – ha deciso di essere Colui che non è mai senza l’uomo (non a caso nella Bibbia non si parla mai di Dio in sé, ma sempre di Dio in relazione al suo popolo!), Colui che non è mai senza di me… Perché come diceva Bettazzi in una recente conferenza: “Quando Dio ha pensato il mondo, ha pensato un mondo in cui ci fossi anch’io!”. Ecco che allora anche per noi che siamo nella parte popolare, semplice, normale, piccola della storia, non ci sono più scuse per non entrare in questa relazione con Lui. Perché non solo la nostra non è la parte “sbagliata”, ma è quella privilegiata!

sabato 3 dicembre 2011

I miei occhi hanno visto la tua salvezza - LA PRESENTAZIONE AL TEMPIO

Rembrandt, Il cantico di Simeone, 1668-1669, Stoccolma, Nationalmuseum

E' curioso come la pittura, arte visiva per eccellenza, abbia saputo talvolta interpretare e rendere in modo efficace il tema della cecità. Rembrandt, pittore olandese del Seicento, uno dei maestri assoluti della pittura sacra, vi è addirittura riuscito in due quadri che sembrano integrarsi alla perfezione tra loro. Nel Cantico di Simeone, l'uomo riconosce Dio in quel bambino che sorregge, raffigurato come un neonato dell'epoca dell'autore, mentre le mani e la bocca già si atteggiano alla preghiera, intonando il cantico che ancora recitiamo alla fine del giorno. La pittura è scabra, intrisa di luce, e non lascia spazio a compiacimenti o divagazioni decorative: ciò che conta è l'evento narrato.

In un altro, celeberrimo dipinto dello stesso autore, ad essere cieco è il padre che accoglie di nuovo il Figliol prodigo: Dio riconosce l'uomo, o meglio, gli rivela il suo vero volto, quello di padre misericordioso che si dona incondizionatamente ai suoi figli.


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«Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù» (Lc 2,21)

Gesù è un ebreo, figlio di ebrei… Da subito inserito nella storia e nella legislazione del suo popolo, un popolo eletto!

«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore » (Lc 2,22)

Si riteneva infatti che il primogenito maschio fosse proprietà di Dio e dovesse essere riacquistato… o con un agnello, oppure – se la famiglia non aveva i mezzi per offrire un agnello – con due tortore o due colombi… La famiglia di Gesù offrì quest’ultima offerta, quella dei poveri.

«A Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone. […] Egli accolse Gesù tra le sue braccia e benedisse Dio, dicendo: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,25.28-32)


E fu così che la Chiesa ebbe una delle sue preghiere più belle, il cantico di Simeone, che ci ricorda che il volto di Dio non ci è ignoto, ma coincide con la vita di Gesù.


martedì 29 novembre 2011

II Domenica di Avvento: Giovanni Battista

La seconda e la terza domenica di Avvento sono incentrate sulla figura di Giovanni Battista.

Oggi ci viene proposta la versione del vangelo di Marco, mentre settimana prossima troveremo quella del vangelo di Giovanni.

Come spiegare questo “doppione”?

Certo, Giovanni Battista è colui che annuncia la venuta di Gesù, perciò è ovvia una sua abbondante presenza nel tempo dell’Avvento (due domeniche su quattro – cioè la metà di quelle a disposizione – parlano di lui!), ma forse l’insistenza sulla sua figura, ha anche altre motivazioni…

Tanto per cominciare va rilevato, come ci ricorda J. A. Pagola in Gesù. Un approccio storico, che «Gesù non ha ammirato nessuno quanto Giovanni Battista; di nessuno ha parlato in termini somiglianti; per Gesù non si tratta soltanto di un profeta: egli è “più di un profeta” (Lc 7,26; Mt 11,9); è persino “il più grande fra i nati di donna” (Lc 7,28; Mt 11,11). […] Si tratta senza dubbio dell’uomo che segnerà come nessun altro il percorso di Gesù».

Vale la pena perciò, forse (e io scelgo di farlo), di dedicare la lectio di questa seconda domenica di Avvento, ad un approfondimento (storico) della figura del Battista, rimandando a settimana prossima una riflessione più teologico-esistenziale.

Lo farò, al seguito del già citato libro di Pagola, che al Capitolo terzo (pagg. 78-97), presenta notevoli spunti in merito.

Iniziamo col dire che «quando incontra il Battista, Gesù […] immediatamente viene conquistato da questo profeta del deserto. […] Anche lui affascinato dall’idea di creare un “popolo rinnovato” per cominciare di nuovo la storia, accogliendo l’intervento salvifico di Dio. […] Che cosa ha potuto conquistare tanto Gesù? Che cosa ha trovato nella persona e nel messaggio di Giovanni?.


La diagnosi radicale di Giovanni. Fra l’autunno dell’anno 27 e la primavera del 28, all’orizzonte religioso della Palestina sorge un profeta originale e indipendente, che ha un forte impatto su tutto il popolo. Il suo nome è Giovanni, ma la gente lo chiama il “Battezzatore”, perché pratica un rito inusitato e sorprendente nelle acque del Giordano.

[…] Giovanni era di famiglia sacerdotale rurale; [ma] in un qualche momento, rompe con il tempio. […] Non sappiamo cosa lo spinga ad abbandonare il suo compito sacerdotale; […] non si appoggia a nessun maestro; non cita semplicemente le sacre Scritture; non invoca alcuna autorità per legittimare la sua opera; abbandona la terra sacra di Israele e si reca nel deserto a gridare il suo messaggio.

Giovanni non soltanto conosce la crisi profonda in cui il popolo si trova, [ma] concentra la forza del suo sguardo profetico alla radice di tutto: il peccato e la ribellione d’Israele.

La sua diagnosi è precisa e sicura: […] la crisi attuale non è una fra le tante; è il punto finale cui si è giunti con una lunga catena di peccati. Il popolo si trova ora di fronte alla reazione definitiva di Dio.

[…] Secondo il Battista, il male corrompe tutto; il popolo intero è contaminato, non soltanto i singoli individui; tutto Israele deve confessare il suo peccato e convertirsi radicalmente a Dio, se non vuole perdersi senza rimedio. Il tempio stesso è corrotto; […] si richiede un nuovo rito di purificazione radicale, non vincolato al culto del tempio. […] Bisogna andare nel deserto, al di fuori della terra promessa, per entrare di nuovo in essa come popolo convertito e perdonato da Dio.

[…] Il “battesimo” che Giovanni offre è appunto il nuovo rito di conversione e perdono radicale di cui Israele ha bisogno.

[…] Gesù rimane conquistato e colpito da tale visione grandiosa. Quest’uomo pone Dio al centro e all’orizzonte di ogni ricerca di salvezza. Il tempio, i sacrifici, le interpretazioni della legge, la stessa appartenenza al popolo eletto: tutto rimane relativizzato; una cosa soltanto è decisiva e urgente: convertirsi a Dio e accogliere il suo perdono.

Il nuovo inizio. Giovanni non intende sprofondare il popolo nella disperazione; al contrario, si sente chiamato a invitare tutti a recarsi nel deserto per vivere una conversione radicale, essere purificati nelle acque del Giordano e, una volta ricevuto il perdono, poter di nuovo entrare nella terra promessa per accogliere l’imminente arrivo di Dio.

Dando l’esempio a tutti, fu il primo a recarsi nel deserto. […] Si dirige verso una regione disabitata del bacino orientale del Giordano. Il luogo rimane nella regione della Perea, alle porte della terra promessa, ma al di fuori di essa.

A quanto sembra, Giovanni aveva scelto attentamente il luogo: […] presso il fiume Giordano, […] per compiere il rito del “battesimo”; [e perché] per quella zona passava un’importante via commerciale, […] per la quale transitava molta gente.

[Inoltre] il “deserto” scelto si trovava davanti a Gerico, nel luogo preciso in cui, secondo la tradizione, il popolo condotto da Giosuè aveva attraversato il fiume Giordano per entrare nella terra promessa (Gs 4,13-19).

Giovanni comincia a vivere lì come un “uomo del deserto”; porta come vestito un mantello di pelo di cammello con una cintura di cuoio, e si ciba di cavallette e miele selvatico. Questa maniera elementare di vestire e nutrirsi non si deve soltanto al suo desiderio di vivere una vita ascetica e penitente; […] Giovanni vuole ricordare al popolo la vita di Israele nel deserto, prima del suo ingresso nella terra che Dio gli avrebbe dato in eredità (contrariamente a quanto in genere si afferma, sembra che la permanenza di Giovanni nel deserto avesse più il carattere simbolico di una “vita al di fuori della terra promessa” che non il tono ascetico di un penitente).

Il battesimo di Giovanni. Quando Giovanni arriva nella regione desertica del Giordano, in tutto l’Oriente sono molto diffusi i bagni sacri e la purificazione con acqua. […] Anche il popolo giudaico ricorreva alle abluzioni e ai bagni per ottenere la purificazione davanti a Dio.

[…] Il desiderio di purificazione generò fra i giudei del I secolo una sorprendente diffusione della pratica di riti purificatori e la comparsa di diversi movimenti battisti. […] La necessità della conversione e la speranza di salvarsi portavano non pochi a cercare la loro purificazione nel deserto; Giovanni non era l’unico.

[…] Tuttavia il battesimo di Giovanni e, soprattutto, il suo significato erano assolutamente nuovi e originali. […] Per cominciare, egli non lo compie in stagni o piscine, […] bensì nel pieno della corrente del fiume Giordano. Non è un fatto casuale. Giovanni vuole purificare il popolo dall’impurità radicale causata dalla sua malvagità e sa che, quando si tratta di impurità molto gravi e contaminanti, la tradizione giudaica esige che non si adoperi acqua stagnante o “acqua morta”, bensì “acqua viva”, l’acqua che fluisce e corre.

[Inoltre] il suo battesimo è un bagno completo del corpo [e] lo si compie una volta soltanto.

[…] Ma vi è qualcosa di più originale ancora. Fino alla comparsa di Giovanni, fra i giudei non esisteva l’abitudine di battezzare altri; […] quanti cercavano di purificarsi lavavano sempre se stessi. Giovanni è il primo ad attribuirsi l’autorità di battezzare altri. Proprio per questo cominciarono a chiamarlo il “battezzatore” o “colui che immerge”. Questo conferisce al suo battesimo un carattere singolare; da un lato crea uno stretto vincolo fra i battezzati e Giovanni; […] d’altra parte, essendo compiuto da Giovanni e non da ciascuno per proprio conto, il battesimo appare come un dono di Dio.

[…] Il battesimo di Giovanni diventa così segno e impegno di una radicale conversione a Dio. Il gesto esprime solennemente l’abbandono del peccato in cui il popolo è immerso e il ritorno all’Alleanza con Dio. Questa conversione si deve verificare nel più profondo della persona, ma deve tradursi in un comportamento degno di un popolo fedele di Dio: il Battista chiede “frutti di conversione”.

[…] Questo perdono concesso da Dio […] commuove molti. I sacerdoti di Gerusalemme , al contrario, ne sono scandalizzati. […] La pretesa di Giovanni è inaudita: Dio offre il suo perdono al popolo, ma lontano da quel tempio corrotto di Gerusalemme!

Le aspettative del Battista. Giovanni non si considerò mai il Messia degli ultimi tempi; egli era soltanto colui che dava inizio alla preparazione. La sua visione era affascinante; Giovanni pensava a un processo dinamico con due tappe ben differenziate. Il primo momento sarebbe stato quello della preparazione, con il Battista come protagonista e il deserto come scenario; tale preparazione ruota intorno al battesimo nel Giordano. […] In seguito sarebbe venuta una seconda tappa che avrebbe avuto luogo già all’interno della terra promessa; suo protagonista non sarebbe stato il Battista, bensì una figura misteriosa che Giovanni designa come “il più forte” (contrariamente a quanto molto spesso si pensa, il Battista non considerava questa seconda tappa come “la fine di questo mondo”, bensì come un rinnovamento radicale di Israele in una terra trasformata).

[…] Probabilmente Giovanni si attendeva un personaggio che doveva ancora arrivare, mediante il quale Dio avrebbe realizzato il suo disegno risolutivo. Non aveva un’idea chiara di chi avrebbe dovuto essere, ma lo attendeva come mediatore definitivo. Non sarebbe venuto a “preparare” le vie di Dio, come Giovanni; sarebbe giunto per trasformare in realtà il suo giudizio e la sua salvezza».

Vedremo settimana prossima come Gesù si introdurrà in questa trama e se e come risponderà a queste aspettative.

Intanto potremmo chiederci quali sono le nostre in attesa che il suo Natale arrivi…

domenica 27 novembre 2011

Dove fu divino l'uomo - LA NATIVITA'

Georges De La Tour, Il neonato, 1645 ca., Rennes, Musée des Beaux-Arts

Maria diede alla luce un figlio e Giuseppe lo chiamò Gesù (Mt 1,25)

Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia (Lc 2,7)


È con queste poche parole di Matteo e Luca che il Nuovo Testamento annuncia l’inizio dell’avventura umana di Gesù. Marco e Giovanni nemmeno lo raccontano: lo presuppongono.

Quando gli eventi sono davvero decisivi, non hanno bisogno di una pubblicità che li faccia credere tali. Semplicemente, essi accadono.

La questione è come porsi di fronte a questi accadimenti… A questo accadimento…

Che pensare di un Dio che nasce? Che nasce bambino? Impastato della carne e del sangue di sua madre? Così fragile che se non ci stavano un po’ attenti potevamo perdercelo in men che non si dica?

E di lui dicono “Dio salva” (= Gesù)… Di lui?

L’incarnazione è qualcosa la cui portata è ben al di là dall’essere integrata… nella nostra idea di Dio.


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Questa tela di De la Tour, pittore francese influenzato da Caravaggio, riserva un dubbio a chi la osservi. A prima vista, è una rappresentazione della Natività, con la Vergine che regge il bambino che, come sovente accade nell'iconografia, emana luce. Ma se il nostro sguardo si sofferma un poco, comprendiamo che il chiarore proviene, invece, dalla candela retta dalla donna sulla sinistra. Siamo dunque di fronte ad una scena sacra o ad una “semplice” scena familiare?

Il dubbio è alimentato anche dal titolo con cui il dipinto è noto, Il neonato, che ci fa soffermare su una delle prime raffigurazioni credibili di un bambino da poco venuto al mondo, stretto nelle fasce da cui emerge il visino.

Il dubbio resta tale, e forse sta in questo la profonda verità del dipinto di De la Tour: anche in quella casa di Betlemme c'era un bambino, solo un bambino, per chi non sapeva andare al di là delle apparenze... Per comprendere il disegno di Dio servono anche gli occhi della fede.


martedì 22 novembre 2011

I Domenica di Avvento: Marco 13,33-37

«Oggi, prima domenica di avvento, il nuovo anno liturgico inizia là dove il vecchio è finito. La stessa pagina finale del Vangelo (di Marco, questa volta!), con l’ultimo avvertimento di Gesù, prima del racconto della passione, come domenica scorsa, nel vangelo di Matteo. Il linguaggio è diverso, ma la preoccupazione è la stessa del racconto del giudizio finale: introdurre il discepolo di Gesù nella consapevolezza ‘cristiana’ del significato della vita in questo mondo e nella storia presente!» [Giuliano].

Certo, il fatto che il vangelo di oggi tratti del medesimo argomento di quelli delle domeniche scorse – seppure nella versione di Marco, invece che in quella di Matteo – dovrebbe agevolarci… Ormai dopo tre domeniche a parlare del “discorso escatologico” nel vangelo di Matteo (capp. 24-25), dovremmo essere degli esperti…

Ma la sensazione non pare molto confermare questo pronostico… Anzi… Di fronte al vangelo odierno di Marco, sembra che tutto sia nuovamente da rispiegare, ricontestualizzare, ricomprendere…

È una fatica che facciamo volentieri, confortati soprattutto da quanto diceva J. Schmidt («quello che viene chiamato il discorso della parusia, l’apocalisse sinottica, figura tra i passi più incomprensibili del Nuovo Testamento e, di conseguenza, tra i più contestati di tutta la tradizione sinottica», J. Schmidt, L’evangelo secondo Marco), ma che – dobbiamo rilevarlo – dice qualcosa degli automatismi con cui leggiamo la Parola di Dio.

Non riusciamo a toglierci dalla testa le precomprensioni paurose su Dio che ci abitano fin da piccoli, perciò sentir parlare di “necessità di vegliare” perché il padrone potrebbe tornare all’improvviso e trovarci addormentati, è un annuncio che suggerisce più sensazioni spiacevoli (angosciose, timorose, inquiete…) che reazioni gioiose, come di fronte ad un lieto annuncio…

E questo dovrebbe darci da pensare…

Perché – leggendo questo testo – ci viene subito in mente la scena di un padrone rabbioso che torna a sgridare o – peggio – malmenare, i servi che trova addormentati?

Perché non ci viene in mente una scena diversa? Per esempio quella di un papà che ha detto al suo bimbo “Guarda che quando torno dal lavoro giochiamo un po’ insieme!”… e il bimbo l’aspetta, l’aspetta… e se anche tarda e lui crolla dal sonno, non vuole andare a dormire…?

L’immaginario che ci abita rispetto ai testi evangelici è molto indicativo dell’idea di Dio che abbiamo in testa…

E credo che questo sia già un buono spunto di riflessione, per cominciare l’Avvento… l’attesa del Dio-con-noi…


Ad ogni modo… tornando al testo… Esso – come dicevamo – consiste negli ultimi versetti del discorso escatologico (quello sulla fine / sul fine della vita / della storia) di Marco, che occupa tutto il capitolo 13. E – ovviamente – per essere compreso va collocato all’interno di questo suo alveo. È perciò di tutto il capitolo 13 che è necessario occuparsi.

«Il discorso, a una lettura appena un po’ attenta, si rivela composito, formato da parole del Signore diverse per genere e per origine: detti alla seconda e terza persona, annunci profetici, esortazioni morali, parabole, immagini apocalittiche. In un certo senso si potrebbe dire che autore del discorso è l’evangelista stesso: a lui si deve, infatti, il quadro introduttivo (vv. 1-4: «Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta”. Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: “Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?”») e sua è la composizione, che organizza in un modo assai significativo il materiale sparso che giunge dalla tradizione e che affonda le sue radici nelle parole del Signore. E così si può dire, per un altro verso, che il discorso risale a Gesù, quasi un testamento lasciato alla comunità: il Signore prevede tempi difficili, disorientanti, e richiama alla fedeltà e al coraggio» [B. Maggioni, il racconto di Marco, Cittadella Editrice, Assisi 199912, 180].

Esattamente questo è il primo punto del discorso escatologico: il fatto cioè che nella vita di Gesù, poi nella vita della Chiesa e infine nella vita di ciascuno siano da prevedere (mettere in conto) tempi difficili.

Una constatazione rispetto alla quale ovviamente sorgono spontanee alcune domande: Quando accadrà questo? E soprattutto: Che fare?

La prima domanda è pressoché lasciata cadere: Marco sembra anzi, addirittura, prenderne consapevolmente le distanze («Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre», Mc 13,32). Il fulcro del discorso non è la curiosità sul futuro, sul come e sul quando, ma sulla decisività del presente, che prepara quel futuro!

Anche perché – dentro al discorso più ampio della fine della storia universale – nel discorso escatologico è contenuto il ben più impellente riferimento alla fine della storia di ciascuno. Come a dire che se anche a noi sembra molto lontano un discorso sulla fine della storia (un discorso talmente più grande di noi che credo ci lasci sostanzialmente indifferenti: “Speriamo solo non accada proprio ora che ci siamo noi”…), molto più interpellante è invece un discorso che fa riferimento alla fine di ciascuna storia, alla fine della storia di ciascuno. Perché questa decisività ce l’abbiamo scritta dentro tutti: tutti sappiamo che nessuno di noi scamperà alla morte!

Ecco, di fronte a tutto questo la prospettiva di Marco e credo anche la nostra, non è una curiosità morbosa sul come e sul quando, ma un’attenzione al: “Allora che fare? Come vivere questa vita visto che c’è una fine?”.

La domanda è perciò sul presente; è la seconda che ricordavamo: “Che fare?”.

E le indicazioni sono sostanzialmente tre, collegate tra loro:

-          «Badate che nessuno v’inganni! Molti verranno nel mio nome, dicendo: “Sono io”. […] Se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui; ecco, è là”, voi non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi per ingannare gli eletti»;

-          «Non allarmatevi»; «Non preoccupatevi»;

-          «Fate attenzione»; «Vegliate».

Dunque: non perdere di vista il vero volto del Signore, (e quindi) non temere, (e quindi) vegliare/aspettarlo.

Questo è l’annuncio del brano odierno… in mezzo alle difficoltà della vita, alle difficoltà della storia che ci potrebbero far temere un’orfanità («il discepolo pare scoprirsi come abbandonato e lasciato solo due volte: dal Padre che l’ha creato e poi abbandonato nei pasticci di questo mondo inospitale; poi dal Figlio, che il Padre stesso ci aveva mandato per salvarci» [Giuliano]), il Signore pone la sua Parola: non confondete il mio volto (emblematicamente fissato nel dono d’amore della croce, anticipatamente spiegato nell’ultima cena), rivelazione ultima dell’amore paterno di Dio. Perciò, non temete e vegliate perché «quando vedrete accadere queste cose, egli è vicino, è alle porte».

L’annuncio escatologico del nostro brano è perciò quello di una vicinanza, di un esser-ci del Signore, di un suo essere “alle porte”… proprio quando sembra che il mondo e/o la nostra vita siano in preda ad una catastrofe!

Ecco perché la Chiesa ha scelto proprio questo brano per l’inizio dell’Avvento: perché la disposizione con cui ci mettiamo ad aspettare questo bambino che nasce, non sia abitata dall’infantilismo fiabesco (con cui spesso rinarriamo quell’evento), che ci porterebbe a trattare Gesù come Babbo Natale: una consolante invenzione… E nemmeno da quell’ansia timorosa di chi ha paura dell’arrivo di Dio, perché chissà come se lo immagina… Ma sia colma dello sguardo di quel bimbo che aspetta il ritorno del papà dopo il lavoro, per stare un po’ insieme… Un attesa dolce – dunque – non certo timorosa… e vigile… di quella vigilanza e “occhio attento” con cui i bambini che aspettano i loro genitori, li riconoscono tra mille, senza confondere il loro volto con quello di altri!

venerdì 11 novembre 2011

Sei quadri per l'avvento

Meditare attraverso l’arte il mistero dell’Incarnazione

La Chiesa ha voluto segnare con due tempi forti la preparazione alle due festività principali cristiane, il Natale e la Pasqua. Si possono scandire i giorni che ci conducono alla festa in molti modi: coltivando un sentimento di attesa, con la purificazione, con la preghiera o lo studio. Abbiamo deciso di proporre, settimana dopo settimana, sei dipinti, che vogliono da un lato aiutarci a ripercorrere figurativamente il mistero dell'Incarnazione, dall'altro aiutarci a meditare, a tenere lo sguardo e il cuore vigili su ciò che sta avvenendo.
Ogni dipinto sarà accompagnato da due riflessioni: una storico-artistica ed una teologica.
A chi “incapperà” in queste immagini e queste parole, l'augurio di saper vivere in pienezza questo tempo.

Il progetto “Sei quadri per l’Avvento” è curato da Marco Fazio, storico dell'arte e insegnante di storia dell'arte presso l'Istituto Rosetum di Besozzo, e da Chiara Giuliani, licenziata in Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, insegnante di religione cattolica e sarà pubblicato sui siti http://www.istitutorosetum.it e http://carmelooggi.blogspot.com

Leggi la prima rifilessione, a partire dall'Annunciata di Antonello da Messina: "Quel sì che cambia la storia"

giovedì 16 dicembre 2010

IV Domenica di Avvento: Giuseppe, simbolo del dramma umano-divino

Ed eccoci giunti all’ultima domenica prima di Natale… Ormai ci siamo… il mistero tanto atteso inizia ad essere intravisto, tant’è che il brano del Vangelo di Matteo che la Chiesa ci propone incomincia con la dichiarazione esplicita di che cos’è ciò che stavamo aspettando: «la nascita di Gesù Cristo». Ma ci vien detto di più… infatti non solo è detto il fatto, ma anche il desiderio di volercelo narrare: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo». È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare… E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…


Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa quarta domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no? No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo sabato, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…

Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale, se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a)?

Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal “rannicchia mento” sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…

Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.

La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»… Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… ma proviamo a metterci un po’ nei panni dei protagonisti… nei panni di Giuseppe… forse le cose ci appariranno sotto un altro punto di vista… una prospettiva nuova che potrà aiutare anche la nostra (quella di quelli che sanno già tutto…) a farsi nuovamente istruire… Insomma… Giuseppe si ritrova con un ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata come una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio… (e che peccato che i cristiani nel guardare a queste donne non abbiano imparato dalla tenerezza e giustezza di Giuseppe verso la sua Maria)…

Ad ogni modo… Il versetto 19 e la prima parte del 20 ci descrivono quest’uomo contorto nei suoi pensieri, nella preoccupazione sul da farsi, nei giramenti di viscere tra incredulità di fronte all’accaduto, rabbia per un tradimento subito, amore per la sua Maria a cui comunque non vuol far del male: «Giuseppe poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò». Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina («mentre stava considerando queste cose»)… ed è facile immaginarselo così… perché è così simile alle tante volte in cui noi ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del cane che si morde la coda… E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il suo ragionare, partorisce la sua risoluzione… come l’elefante che partorisce il topolino… infatti la sua è una risoluzione che non può che apparire ed apparirgli come il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla… «pensò di ripudiarla in segreto».

Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci stava intorno… ma d’altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro? «Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».

Avviene qualcosa… finalmente per Giuseppe arriva l’unica risoluzione che dà gioia, l’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa! È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).

È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il nodo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù»).

E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe… Troppo spesso lo immaginiamo come una figura presto da dimenticare: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con questa storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce, senza che si sappia più niente di lui… insomma… non pare avere una grande parte nella scena della vita di Gesù…

E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato… Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…

È interessante che la Chiesa proponga proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: forse vuole dirci che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…? Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…

Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…
Eppure… non va dimenticato… che anche questa esperienza di Giuseppe non va troppo facilmente risolta nel suo “lieto fine”… anch’esso è testimonianza in piccolo di una dinamica più grande e pervasiva di tutto il vangelo: c’è sempre una drammatica con cui scontrarsi…

Per Giuseppe è la sottrazione della generazione di suo figlio, di cui infatti sarà “solo” il padre legale («Per un momento, nella normale costruzione di un essere umano, è sospeso l’intervento dell’uomo: la donna è invitata a rinunciare al suo umano progetto, e diventa il luogo della parola parlata da Dio», I volti di Eva a cura del Monastero delle carmelitane scalze di Legnano)… dramma simbolico del fatto che quel bimbo porta in sé la drammaticità che cambierà la storia («Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”»Lc 2,33-35; «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada», Mt 10,34): anche Maria – che in tutto il racconto di Matteo non dice una parola – dovrà «continuare a cercare tra la gente, nelle strade e nelle contrade, nel tempio o sulle colline… il figlio dell’uomo, senza padre, che annunciava il Padre di tutti… anche a lei, al di là di ogni generazione carnale. In questa ricerca, “serbava nel suo cuore tutte queste cose, confrontandole tra loro”. Per domandarsi ancora una volta che senso avessero. Sotto la croce ha capito! Perché sotto la croce Dio le ha restituito – morto – il figlio comune (umano e divino). Mettere al mondo, dunque, non voleva dire soltanto far nascere, ma rendere mondano, cioè mortale, Dio. Mettere al mondo vuol dire mettere a morte. Seminare la morte all’interno di Dio. E Dio venne ad abitare nell’unico luogo dove non avrebbe mai potuto abitare. Ma siccome Dio è troppo grande, è la mondanità che è diventata interna a Dio. Di questa malattia umana, trasmessa da Maria, Dio è morto. Poiché questa unione di Dio con la sua carne di donna, dentro il suo corpo (questo è il mio corpo! Questo è il mio sangue!) è indivisibile. Il figlio morente ha fatto delle due cose incompossibili, una cosa sola, per sempre. Il matrimonio tra Dio e mondo, in Maria, diventa indissolubile, anche se una spada a due tagli cerca di separarli. La terra (l’umanità) si santifica stando impotente ai piedi della croce, col cuore trafitto dalla spada a doppio taglio. Doppiamente lacerati, dunque, dall’abbandono nel quale Dio lascia il figlio e la nostra storia nel suo abisso di impotenza e di morte – e dalla solidarietà con gli uomini nostri fratelli, incapaci di fraternità e perdono. Senza potere fare nulla»… [I volti di Eva]

… se non… re-investire esistenza – che è il contrario che l’emorragia di umanità (di cui siamo affetti quando muore qualcuno che amiamo); che vuol dire re-investire la nostra affettività, le nostre ‘molle’, le nostre dedizioni, la nostra voglia, le nostre chiacchiere, le nostre rabbie, i nostri perdoni… in un tessuto di volti… che è l’unica cosa che può portarci a perdonare Dio, o la vita, o la storia, o noi stessi, o chiunque individuiamo come sfogo del nostro “non doveva andare così”… perché soltanto il tornare a credere nell’amore (fino ad investirci la vita) ci fa fare pace con la drammaticità che la nostra storia – e il nostro Dio anch’egli passato in mezzo ad essa – ci consegna… [cfr. Elaborare la dipartita, a cura del Monastero della carmelitane scalze di Legnano].
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