Cercando materiale per riflettere un po’ sulle letture di questa II domenica di Avvento mi sono imbattuta in un incontro tenuto dal biblisti Giacomo Facchinetti il 7 febbraio 2001 su Rm 14,1-15-6. Il testo completo è pubblicato in Scuola della Parola 2001, io ve ne propongo uno stralcio.
«Paolo formula così il problema: “Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro, che è debole, mangia solo legumi”. […] Non so se si tratti di ironia o di un modo molto forte di suggerire come la questione della fede si ponga anche in situazioni apparentemente secondarie come quelle del mangiare e del bere. Ecco comunque due modi di fare, due tendenze.
Primo: c’è uno che crede di poter mangiare di tutto. Come possiamo immaginare questi cristiani? Sono dei credenti che si sentono liberati, mediante la fede in Gesù, […] restituiti alla visione di una realtà in cui tutto è puro. […] Niente in sé è impuro, niente è in sé fonte di contaminazione. Si può costruire un rapporto nuovo tra il credente e il mondo: il mondo è il dono di Dio, […] che egli come Padre e creatore mette a disposizione dei credenti i quali, liberati per mezzo di Gesù da ogni proibizione alimentare, possono goderne. Sarebbe il segno visibile della libertà, che permette anche un diverso modo di rapportarsi e di vivere all’interno di una società fatta di non credenti, per cui uno potrebbe tranquillamente, senza nessun problema, incontrare chiunque e diventare commensale di chiunque senza nessuno scrupolo. […] La cosa era vissuta come un profondo senso di liberazione, come il frutto di novità nel rapporto tra l’uomo e le cose buone del mondo, nel rapporto tra l’uomo e le altre persone e le altre religioni.
Qui Paolo non dà elementi per capire quali fossero i presupposti per cui alcuni, a partire dalla loro fede, si sentissero autorizzati a mangiare di tutto, in una commensalità libera, riconoscente e festosa; ma possiamo pensare che potessero appellarsi anche all’esempio di Gesù, il cui comportamento era stato censurato attraverso quel giudizio: un beone e un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori. […] Per Gesù questa libertà era segno della novità rappresentata dal suo messaggio: una novità che faceva cadere le barriere e faceva di nuovo, della mensa, il luogo vero, il momento autentico della comunicazione libera e fraterna. Permetteva una commensalità che doveva essere il segno di una disponibilità di Dio, di un dono di Dio che non si ferma davanti a barriere poste all’interno della Chiesa, o tra la Chiesa e quelli di fuori. […] Dunque le ragioni che potevano stare dalla parte dei ‘forti’ erano ragioni veramente ‘forti’, notevoli!
Proviamo invece a immaginare il modo di vedere di colui che è debole e mangia solo legumi.
Verso questa scelta potevano convergere tante posizioni, tante intuizioni o suggestioni che potevano venire dalla tradizione ebraica, oppure da tradizioni varie del mondo greco o romano, oppure potevano ispirarsi a grandi figure come Giovanni il Battista, che non mangia e non beve, e che in qualche modo rappresentava appunto l’ascetismo nella sua forma più rigorosa ed esigente. Potevano anche portare a proprio favore un ragionamento di questo tipo: dobbiamo essere coscienti della nostra condizione di peccatori; certo, liberati e salvati, ma pur sempre persone che portano in sé il segno del peccato. E potevano ricordare che uno degli elementi fondamentali del Vangelo è la croce di Gesù, morto per i nostri peccati, e potevano giustificare così il loro ascetismo, la rinuncia alla carne e al vino, richiamandosi ad uno spirito penitenziale, alla coscienza di essere stati salvati dal peccato sotto il segno della croce: una visione austera, rigorosa, penitenziale della vita.
[…] E poteva scattare il giudizio vicendevole fra questi due gruppi.
I progressisti – quelli cioè che si sentivano liberi di mangiare di tutto pensando che gli altri non avessero il coraggio e la forza intellettuale o morale di vivere fino in fondo la libertà della fede – e i mangiatori di legumi, quelli che potevano giudicare gli altri come ‘modernisti’ disposti a cercare una soluzione comoda della fede, pronti a tutto per il consenso sociale, paurosi di mostrare pubblicamente la propria fede e di riconoscere che siamo segnati dal peccato, incapaci di indicare che al centro della storia ci sta la croce di Cristo, il giudizio di Dio sul mondo e sulla nostra condizione appesantita dalle forze negative personali e sociali.
[…] E il pericolo che l’apostolo vede, qual è? Il pericolo è che partendo dalla stessa fede si possa mettere in questione la fraternità.
[…] Qual è la risposta di Paolo? Al termine della lettera, Paolo sembra disposto a rimettere in discussione la caratteristica che distingue la sua teologia che ha nella libertà, come dono di Cristo, uno dei grandi segni e uno dei grandi temi. […] Pare disposto a rimettere in discussione non l’essenza del Vangelo, ma alcune conseguenze della sua teologia. È pronto a rimettere in discussione, in una situazione critica, coloro che erano contenti di essere giunti, dopo tante fatiche, a ragionare come Paolo; proprio da lui essi si vedono posti di fronte a questa imposizione: fermati! C’è qualcosa di molto più decisivo della teologia di Paolo. E che cosa è? È il fratello che mangia fagioli!
“Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni”.
[…] Come vedete il giudizio dell’apostolo è netto: ‘sono deboli nella fede’; la loro posizione dal punto di vista dottrinale, dal punto di vista della riflessione teologica è certamente più debole, è una posizione che dovrebbe essere superata perché non è pienamente sostenibile e giustificata.
[…] Senza discutere le esitazioni, senza fare il processo; eppure ci sarebbero state mille ragioni, dal punto di vista culturale, per contestare, per rimproverare, per mettere in crisi questi deboli nella fede. Ci sarebbero stati motivi per dire loro: siete conservatori, reazionari, siete legati a una visione che non riesce a percepire e a gustare la bellezza e la novità del messaggio di Cristo. [E invece] l’apostolo dice questa parola così netta e severa: Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. […] Poi riprende, formulando l’esigenza da tutti e due i punti di vista: “Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi mangia non giudichi male chi mangia”.
[...] Per l’apostolo non si tratta di intavolare una discussione teologica perché una delle due mentalità superi il proprio punto di vista, per unificarsi al punto di vista dell’altro e raggiungere così il risultato di una comunità unita nel pensiero, nella cultura. Per Paolo non è questo il problema. Ai forti, ai progressisti, profondamente coscienti della novità del messaggio di Cristo egli chiede di non disprezzare o, nell’aspetto positivo, di stimare coloro che sono deboli; il non disprezzare è legato ad una disponibilità del forte a prendere in considerazione, a interrogare anche se stesso sul valore, sul senso della posizione di quello che è debole nella fede.
Dall’approfondimento risulterebbe che le grandi domande sorgono da entrambe le parti se c’è la stessa passione per il mistero di Dio. Per tutti e due la teologia rappresentata dal debole nella fede contiene in sé degli elementi che non possono essere frettolosamente ignorati, emarginati da colui che è forte, maturo e progredito nella fede e nella sua formulazione culturale.
[…] L’apostolo non formula direttamente il comando al dialogo, ma, tentando di fermare il ‘processo a carico’ e la condanna vicendevole, apre lo spazio perché vengano prese in considerazione le ragioni dell’altro e non solo della sua fede – che appartiene al mistero di Dio. Il progressista, il forte nella fede, non è colui che stende il dito per giudicare, non è colui che si sente all’avanguardia, ma è colui che, seguendo il fratello, si interessa cordialmente della sua posizione. Non lo giudica, non gli interessa se si trova nella retroguardia, perché quello è il fratello.
[…] Da parte sua il debole nella fede che cosa deve fare? Colui che non mangia non giudichi male chi mangia. Deve astenersi dal condannare, dal vedere l’altro come uno che non è pienamente fedele a Dio, uno che tiene di più alle mode del tempo che alla radicalità, al coraggio e alla disponibilità al sacrificio in nome e a causa della fede, uno che ama essere aggiornato culturalmente per poter essere libero di comunicare con tutti senza ostacoli. Non deve condannarlo! Anche il debole nella fede, essendo invitato a rinunciare al giudizio e alla condanna, è invitato positivamente a interrogarsi sulle ragioni di colui che è forte nella fede, non a sospettarlo di presunzione o di superbia, ma a interrogare se stesso sulla fede che anima quelle ragioni.
Per quale motivo tutto ciò? Perché “Dio lo ha accolto”. Ecco il pensiero comune!
[…] In certo senso la grande questione è di affermare il diritto-dovere di imitare Gesù nella sua comunione di mensa con i peccatori. Quindi i deboli nella fede devono riconoscere – superando la tentazione degli scribi e dei farisei, che contestavano la commensalità di Gesù – che non si possono mettere dei limiti, per ragioni culturali o ecclesiali, alla misericordia, all’ospitalità, all’accoglienza veramente incondizionata di Dio. Ma i forti nella fede devono conoscere che Dio può ospitare, oltre il pubblicano, anche il fariseo e lo scriba. Dio accoglie anche loro.
[...] Sorge così la domanda: “chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone”. Non è un invito al menefreghismo: “Faccia un po’ come gli pare, a me non interessa”. No, Paolo qui è duro e con molta chiarezza vuole spiegare che cosa implica il giudizio o il disprezzo tra fratelli cristiani. Significa mettere in discussione Dio.
[...] Oltre a questo, Paolo è convinto non solo dell’azione originaria di Dio, ma anche del suo lavoro continuo nel fratello. “Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare”.
[...] Per l’apostolo c’è un impegno comune: quello di trovare nella fede le ragioni del proprio comportamento, non solo astenersi dai giudizi, ma anche esplorare il proprio mondo di fede, trovare in essa le ragioni autentiche del proprio modo di vedere la realtà, affinché il comportamento non sia frutto di un certo tradizionalismo religioso o di un conformismo culturale o di un desiderio di apparire nuovi e moderni. Queste non sono ragioni che hanno a che fare con la fede! È necessario approfondire continuamente, pur nella differenza di posizioni, l’esigenza permanente del rinnovamento della propria mentalità sul fondamento della fede.
Questo porterebbe a capire che: “chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie”. L’apostolo invita a riconoscere la comune ragione: è il Signore nella propria vita.
[...] Paolo non tenta una conciliazione di tipo razionale o culturale tra le diverse posizioni, ma rimanda le due posizioni differenti alla loro radice comune.
[...] La domanda: “Chi sei tu, per giudicare il tuo fratello?” pone in evidenza l’assurdità che dei fratelli, dei figli, si giudichino e si disprezzino. Questo comportamento rivela una profonda ignoranza e una profonda incoscienza. [...] Per entrambi la domanda è: vi rendete conto che tutti e due arriverete davanti al tribunale del giudizio di Dio?
[...] L’apostolo non dice cose nuove, ma semplicemente richiama le grandi parole della fede, e le richiama in modo tale che diventino operanti nella costruzione dei rapporti quotidiani. Egli vuole impedire che da una parte ci sia la professione di fede, e poi dall’altra i propri ragionamenti, le proprie valutazioni tra credenti che, dimenticando le proprie origini e la propria identità, si comportano come se quelle grandi parole di fede non dovessero determinare il modo di guardarsi, non dovessero dare forma al modo di stare uno di fronte all’altro, al modo di parlarsi, al modo di valutarsi.
[...] “Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non essere causa di inciampo o di scandalo al fratello”. Il tema è sempre quello, ma ci troviamo davanti ad un’altra argomentazione. Paolo si mette dal punto di vista dei forti e riconosce che, in linea di principio, hanno ragione perché tutto è puro, e quindi avrebbero il diritto di mangiare ogni cosa rendendo grazie a Dio. Ma il problema è rappresentato dall’altro che, nella fede, rappresenta per me la domanda che Dio mi rivolge, che Dio rende presente davanti a me in questo determinato momento.
[...] Il Vangelo si impone nelle situazioni quotidiane che sembrano le più banali. Si impone quando uno pensa: figurati se devo farmi un problema del fatto che l’altro trovi scandalo, entri in crisi e provi un disagio profondo perché vede in me non un destinatario della grazia di Dio, ma uno che per essere progressista e moderno si sente libero di esibire la propria libertà. È lui che sbaglia! Sbaglia nel suo ragionamento e sbaglia anche nella carità perché mi giudica.
[...Ma:] “Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo la carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto!”. Ecco il metodo dell’apostolo: far emergere la presenza del crocifisso quando sembra soltanto questione di banali rapporti interpersonali, soltanto questione di mentalità.
[...] Verrebbe spontaneo un moto di repulsione: [...] il mio prossimo è quello lì, che non mangia il salame e ce l’ha con me. E non riesco a farlo ragionare, è un testardo e vuole fare l’asceta. Non sa gioire delle cose della vita! Ma l’apostolo domanderebbe dove sia stato messo Cristo, dal momento che quell’importuno lì è uno per cui Cristo è morto. Ecco la capacità veramente sconvolgente dell’apostolo di richiamarci alla serietà delle domande suscitate dalla fede.
[...] La situazione può sembrare banale, ma Paolo dice: in questa situazione è in questione l’essenza del Vangelo, l’imitazione di Gesù, l’essere a immagine del Figlio, morto e risorto. Ecco dove si pone la questione della fedeltà al Messia non trionfante: risorto sì, ma non trionfante. [...] Si pone in questo: non cercare la propria gratificazione, ma vivere della dedizione e dell’attenzione all’altro, anche se è spiacevole, anche se non è totalmente maturo, anche se è veramente pesante».
«Paolo formula così il problema: “Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro, che è debole, mangia solo legumi”. […] Non so se si tratti di ironia o di un modo molto forte di suggerire come la questione della fede si ponga anche in situazioni apparentemente secondarie come quelle del mangiare e del bere. Ecco comunque due modi di fare, due tendenze.
Primo: c’è uno che crede di poter mangiare di tutto. Come possiamo immaginare questi cristiani? Sono dei credenti che si sentono liberati, mediante la fede in Gesù, […] restituiti alla visione di una realtà in cui tutto è puro. […] Niente in sé è impuro, niente è in sé fonte di contaminazione. Si può costruire un rapporto nuovo tra il credente e il mondo: il mondo è il dono di Dio, […] che egli come Padre e creatore mette a disposizione dei credenti i quali, liberati per mezzo di Gesù da ogni proibizione alimentare, possono goderne. Sarebbe il segno visibile della libertà, che permette anche un diverso modo di rapportarsi e di vivere all’interno di una società fatta di non credenti, per cui uno potrebbe tranquillamente, senza nessun problema, incontrare chiunque e diventare commensale di chiunque senza nessuno scrupolo. […] La cosa era vissuta come un profondo senso di liberazione, come il frutto di novità nel rapporto tra l’uomo e le cose buone del mondo, nel rapporto tra l’uomo e le altre persone e le altre religioni.
Qui Paolo non dà elementi per capire quali fossero i presupposti per cui alcuni, a partire dalla loro fede, si sentissero autorizzati a mangiare di tutto, in una commensalità libera, riconoscente e festosa; ma possiamo pensare che potessero appellarsi anche all’esempio di Gesù, il cui comportamento era stato censurato attraverso quel giudizio: un beone e un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori. […] Per Gesù questa libertà era segno della novità rappresentata dal suo messaggio: una novità che faceva cadere le barriere e faceva di nuovo, della mensa, il luogo vero, il momento autentico della comunicazione libera e fraterna. Permetteva una commensalità che doveva essere il segno di una disponibilità di Dio, di un dono di Dio che non si ferma davanti a barriere poste all’interno della Chiesa, o tra la Chiesa e quelli di fuori. […] Dunque le ragioni che potevano stare dalla parte dei ‘forti’ erano ragioni veramente ‘forti’, notevoli!
Proviamo invece a immaginare il modo di vedere di colui che è debole e mangia solo legumi.
Verso questa scelta potevano convergere tante posizioni, tante intuizioni o suggestioni che potevano venire dalla tradizione ebraica, oppure da tradizioni varie del mondo greco o romano, oppure potevano ispirarsi a grandi figure come Giovanni il Battista, che non mangia e non beve, e che in qualche modo rappresentava appunto l’ascetismo nella sua forma più rigorosa ed esigente. Potevano anche portare a proprio favore un ragionamento di questo tipo: dobbiamo essere coscienti della nostra condizione di peccatori; certo, liberati e salvati, ma pur sempre persone che portano in sé il segno del peccato. E potevano ricordare che uno degli elementi fondamentali del Vangelo è la croce di Gesù, morto per i nostri peccati, e potevano giustificare così il loro ascetismo, la rinuncia alla carne e al vino, richiamandosi ad uno spirito penitenziale, alla coscienza di essere stati salvati dal peccato sotto il segno della croce: una visione austera, rigorosa, penitenziale della vita.
[…] E poteva scattare il giudizio vicendevole fra questi due gruppi.
I progressisti – quelli cioè che si sentivano liberi di mangiare di tutto pensando che gli altri non avessero il coraggio e la forza intellettuale o morale di vivere fino in fondo la libertà della fede – e i mangiatori di legumi, quelli che potevano giudicare gli altri come ‘modernisti’ disposti a cercare una soluzione comoda della fede, pronti a tutto per il consenso sociale, paurosi di mostrare pubblicamente la propria fede e di riconoscere che siamo segnati dal peccato, incapaci di indicare che al centro della storia ci sta la croce di Cristo, il giudizio di Dio sul mondo e sulla nostra condizione appesantita dalle forze negative personali e sociali.
[…] E il pericolo che l’apostolo vede, qual è? Il pericolo è che partendo dalla stessa fede si possa mettere in questione la fraternità.
[…] Qual è la risposta di Paolo? Al termine della lettera, Paolo sembra disposto a rimettere in discussione la caratteristica che distingue la sua teologia che ha nella libertà, come dono di Cristo, uno dei grandi segni e uno dei grandi temi. […] Pare disposto a rimettere in discussione non l’essenza del Vangelo, ma alcune conseguenze della sua teologia. È pronto a rimettere in discussione, in una situazione critica, coloro che erano contenti di essere giunti, dopo tante fatiche, a ragionare come Paolo; proprio da lui essi si vedono posti di fronte a questa imposizione: fermati! C’è qualcosa di molto più decisivo della teologia di Paolo. E che cosa è? È il fratello che mangia fagioli!
“Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni”.
[…] Come vedete il giudizio dell’apostolo è netto: ‘sono deboli nella fede’; la loro posizione dal punto di vista dottrinale, dal punto di vista della riflessione teologica è certamente più debole, è una posizione che dovrebbe essere superata perché non è pienamente sostenibile e giustificata.
[…] Senza discutere le esitazioni, senza fare il processo; eppure ci sarebbero state mille ragioni, dal punto di vista culturale, per contestare, per rimproverare, per mettere in crisi questi deboli nella fede. Ci sarebbero stati motivi per dire loro: siete conservatori, reazionari, siete legati a una visione che non riesce a percepire e a gustare la bellezza e la novità del messaggio di Cristo. [E invece] l’apostolo dice questa parola così netta e severa: Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. […] Poi riprende, formulando l’esigenza da tutti e due i punti di vista: “Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi mangia non giudichi male chi mangia”.
[...] Per l’apostolo non si tratta di intavolare una discussione teologica perché una delle due mentalità superi il proprio punto di vista, per unificarsi al punto di vista dell’altro e raggiungere così il risultato di una comunità unita nel pensiero, nella cultura. Per Paolo non è questo il problema. Ai forti, ai progressisti, profondamente coscienti della novità del messaggio di Cristo egli chiede di non disprezzare o, nell’aspetto positivo, di stimare coloro che sono deboli; il non disprezzare è legato ad una disponibilità del forte a prendere in considerazione, a interrogare anche se stesso sul valore, sul senso della posizione di quello che è debole nella fede.
Dall’approfondimento risulterebbe che le grandi domande sorgono da entrambe le parti se c’è la stessa passione per il mistero di Dio. Per tutti e due la teologia rappresentata dal debole nella fede contiene in sé degli elementi che non possono essere frettolosamente ignorati, emarginati da colui che è forte, maturo e progredito nella fede e nella sua formulazione culturale.
[…] L’apostolo non formula direttamente il comando al dialogo, ma, tentando di fermare il ‘processo a carico’ e la condanna vicendevole, apre lo spazio perché vengano prese in considerazione le ragioni dell’altro e non solo della sua fede – che appartiene al mistero di Dio. Il progressista, il forte nella fede, non è colui che stende il dito per giudicare, non è colui che si sente all’avanguardia, ma è colui che, seguendo il fratello, si interessa cordialmente della sua posizione. Non lo giudica, non gli interessa se si trova nella retroguardia, perché quello è il fratello.
[…] Da parte sua il debole nella fede che cosa deve fare? Colui che non mangia non giudichi male chi mangia. Deve astenersi dal condannare, dal vedere l’altro come uno che non è pienamente fedele a Dio, uno che tiene di più alle mode del tempo che alla radicalità, al coraggio e alla disponibilità al sacrificio in nome e a causa della fede, uno che ama essere aggiornato culturalmente per poter essere libero di comunicare con tutti senza ostacoli. Non deve condannarlo! Anche il debole nella fede, essendo invitato a rinunciare al giudizio e alla condanna, è invitato positivamente a interrogarsi sulle ragioni di colui che è forte nella fede, non a sospettarlo di presunzione o di superbia, ma a interrogare se stesso sulla fede che anima quelle ragioni.
Per quale motivo tutto ciò? Perché “Dio lo ha accolto”. Ecco il pensiero comune!
[…] In certo senso la grande questione è di affermare il diritto-dovere di imitare Gesù nella sua comunione di mensa con i peccatori. Quindi i deboli nella fede devono riconoscere – superando la tentazione degli scribi e dei farisei, che contestavano la commensalità di Gesù – che non si possono mettere dei limiti, per ragioni culturali o ecclesiali, alla misericordia, all’ospitalità, all’accoglienza veramente incondizionata di Dio. Ma i forti nella fede devono conoscere che Dio può ospitare, oltre il pubblicano, anche il fariseo e lo scriba. Dio accoglie anche loro.
[...] Sorge così la domanda: “chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone”. Non è un invito al menefreghismo: “Faccia un po’ come gli pare, a me non interessa”. No, Paolo qui è duro e con molta chiarezza vuole spiegare che cosa implica il giudizio o il disprezzo tra fratelli cristiani. Significa mettere in discussione Dio.
[...] Oltre a questo, Paolo è convinto non solo dell’azione originaria di Dio, ma anche del suo lavoro continuo nel fratello. “Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare”.
[...] Per l’apostolo c’è un impegno comune: quello di trovare nella fede le ragioni del proprio comportamento, non solo astenersi dai giudizi, ma anche esplorare il proprio mondo di fede, trovare in essa le ragioni autentiche del proprio modo di vedere la realtà, affinché il comportamento non sia frutto di un certo tradizionalismo religioso o di un conformismo culturale o di un desiderio di apparire nuovi e moderni. Queste non sono ragioni che hanno a che fare con la fede! È necessario approfondire continuamente, pur nella differenza di posizioni, l’esigenza permanente del rinnovamento della propria mentalità sul fondamento della fede.
Questo porterebbe a capire che: “chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie”. L’apostolo invita a riconoscere la comune ragione: è il Signore nella propria vita.
[...] Paolo non tenta una conciliazione di tipo razionale o culturale tra le diverse posizioni, ma rimanda le due posizioni differenti alla loro radice comune.
[...] La domanda: “Chi sei tu, per giudicare il tuo fratello?” pone in evidenza l’assurdità che dei fratelli, dei figli, si giudichino e si disprezzino. Questo comportamento rivela una profonda ignoranza e una profonda incoscienza. [...] Per entrambi la domanda è: vi rendete conto che tutti e due arriverete davanti al tribunale del giudizio di Dio?
[...] L’apostolo non dice cose nuove, ma semplicemente richiama le grandi parole della fede, e le richiama in modo tale che diventino operanti nella costruzione dei rapporti quotidiani. Egli vuole impedire che da una parte ci sia la professione di fede, e poi dall’altra i propri ragionamenti, le proprie valutazioni tra credenti che, dimenticando le proprie origini e la propria identità, si comportano come se quelle grandi parole di fede non dovessero determinare il modo di guardarsi, non dovessero dare forma al modo di stare uno di fronte all’altro, al modo di parlarsi, al modo di valutarsi.
[...] “Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non essere causa di inciampo o di scandalo al fratello”. Il tema è sempre quello, ma ci troviamo davanti ad un’altra argomentazione. Paolo si mette dal punto di vista dei forti e riconosce che, in linea di principio, hanno ragione perché tutto è puro, e quindi avrebbero il diritto di mangiare ogni cosa rendendo grazie a Dio. Ma il problema è rappresentato dall’altro che, nella fede, rappresenta per me la domanda che Dio mi rivolge, che Dio rende presente davanti a me in questo determinato momento.
[...] Il Vangelo si impone nelle situazioni quotidiane che sembrano le più banali. Si impone quando uno pensa: figurati se devo farmi un problema del fatto che l’altro trovi scandalo, entri in crisi e provi un disagio profondo perché vede in me non un destinatario della grazia di Dio, ma uno che per essere progressista e moderno si sente libero di esibire la propria libertà. È lui che sbaglia! Sbaglia nel suo ragionamento e sbaglia anche nella carità perché mi giudica.
[...Ma:] “Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo la carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto!”. Ecco il metodo dell’apostolo: far emergere la presenza del crocifisso quando sembra soltanto questione di banali rapporti interpersonali, soltanto questione di mentalità.
[...] Verrebbe spontaneo un moto di repulsione: [...] il mio prossimo è quello lì, che non mangia il salame e ce l’ha con me. E non riesco a farlo ragionare, è un testardo e vuole fare l’asceta. Non sa gioire delle cose della vita! Ma l’apostolo domanderebbe dove sia stato messo Cristo, dal momento che quell’importuno lì è uno per cui Cristo è morto. Ecco la capacità veramente sconvolgente dell’apostolo di richiamarci alla serietà delle domande suscitate dalla fede.
[...] La situazione può sembrare banale, ma Paolo dice: in questa situazione è in questione l’essenza del Vangelo, l’imitazione di Gesù, l’essere a immagine del Figlio, morto e risorto. Ecco dove si pone la questione della fedeltà al Messia non trionfante: risorto sì, ma non trionfante. [...] Si pone in questo: non cercare la propria gratificazione, ma vivere della dedizione e dell’attenzione all’altro, anche se è spiacevole, anche se non è totalmente maturo, anche se è veramente pesante».
Nessun commento:
Posta un commento