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martedì 1 ottobre 2013

Abolire l'abisso



In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”». Lc 16,19-31

Vangelo difficilissimo questo, non tanto perché rischiamo di essere depistati dalla lettura del brano tratto dal libro del profeta Amos (Am 6,1.4–7) o perché secoli di interpretazione ci tentano a una lettura moralistica, ma perché è veramente lontanissimo dal nostro modo di percepire la realtà. E fin da subito: da quando in qua non si conoscono i nomi degli “arrivati” e si conoscono invece quelli dei “falliti”?...

Bisogna anche tener conto del brano che la precede (Lc 16,1–13) che parla del cosiddetto “amministratore infedele”!

La difficoltà maggiore però sta nel riuscire a capire (cioè accettare: le cose spesso vanno di pari passo!) per quale ragione il ricco si trovi dopo la morte “nei tormenti” e Lazzaro invece si trovi “nella consolazione” a fianco di Abramo.

Perché una cosa è certa il ricco della parabola non è un “epulone”! Contrariamente a quanto indicano alcune bibbie nei titoli (“Il ricco cattivo e il povero Lazzaro” in BJ) niente nella parabola fa capire che il ricco fosse “cattivo”, anzi!
Né ci può aiutare l’AT dove, ad es., il contadino Amos chiamato da Dio a profetizzare, lancia, otto secoli prima di Cristo, invettive contro i ricchi del paese: Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! [con Sion e Samaria si intende il popolo di Israele]. Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali [quindi recitano salmi, sono molto religiosi questi ricchi!]; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano [ecco l’accusa], . Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.

Ma tutto questo disinteresse, nella parabola del ricco non lo troviamo: non viene detto “e il ricco ignorava Lazzaro”. Anzi possiamo dire che se Lazzaro è stato alla porta del ricco fino alla propria morte, evidentemente qualche vantaggio ne aveva, mangiava le briciole certo, ma aveva di che appagare la propria “bramosia”. Non solo, nel dialogo con Abramo che segue dopo la morte vediamo il ricco che si preoccupa della sorte del suo popolo. I “5 fratelli” stanno proprio a indicare l’insieme del popolo di Israele. Quindi non si può applicare a questo ricco l’anatema di Amos!

Nella parabola non viene detto niente di negativo sul ricco: non che non pagasse le tasse, che non pagasse gli operai, non che rubasse, nemmeno che non pregasse, certo gli piaceva il lusso ma non si fa menzione di “orge di dissoluti”, amava vestire all’ultima moda, fare festa con gli amici, ma non che sperperasse e comunque sia, usava del frutto del proprio lavoro! Insomma non c’è qui nessun ricco cattivo! C’è semplicemente un ricco! Punto!

E Lazzaro? Chi l’ha detto che fosse buono? anzi a ben pensare potremmo immaginare il contrario. Perché era povero? Forse un fannullone, forse un incapace… E le piaghe? Da dove gli venivano?… forse da una vita dissoluta che l’ha portato ad ammalarsi? Dopotutto nella mentalità dell’epoca dietro una malattia c’era sempre un peccato magari occulto!

Neanche di lui sappiamo se pregasse, se facesse del bene… Insomma l’unica caratteristica di Lazzaro era quella di essere povero! Punto!

Muoiono entrambi, come accade ad ogni uomo!
Lazzaro da povero, possiamo immaginarlo morire come un cane in mezzo ai cani. Il ricco da ricco, immaginiamolo pure attorniato dai suoi cari e magari con funerali di Stato!
Ma ecco che nell’aldilà le sorti son capovolte: il ricco nei tormenti e Lazzaro beato a fianco di Abramo. Perché? Abbiamo detto – stando al racconto – senza colpe del ricco e senza meriti di Lazzaro!

Il dialogo fantastico tra il ricco della parabola e l’Abramo della parabola è la chiave della parabola stessa e sbaraglia i nostri riferimenti etici. Intanto diciamo subito che dobbiamo stare attenti a non trarre dal linguaggio e dalle immagini della parabola (di ogni parabola!) conclusioni teologiche. Dobbiamo usarle per decifrare il senso della parabola, per trarre poi dal senso – e mai dalle immagini – conseguenze nell’agire. Insomma in questa parabola non c’è nessuna teologia dell’inferno, del diavolo, della dannazione o di qual si voglia idea dell’aldilà. Gesù parla il linguaggio di allora (storie del genere i rabbini ne raccontavano a iosa per consolare e impaurire), per voler dire qualcosa di più serio e meno fantasioso che riguardi piuttosto l’«aldiqua» (altrimenti rischiamo di vanificare il senso dell’Incarnazione!). D’altronde si chiama “parabola” per questo. Perché il movimento del pensiero e del cuore deve seguire un andamento parabolico: partire dalla riva del fiume e berne il contenuto immergendosi in esso (testo della parabola) e risalire sull’altra riva (vissuto esistenziale del lettore/ascoltatore)! Per questo il suo significato non è mai immediato.

Dobbiamo sapere anche che per il pio israelita, Abramo era un po’ come per noi è la Madonna, a lui si ricorreva per intercessioni e la sua intercessione presso Dio era considerata così potente che aveva il potere di ottenere la liberazione del povero israelita da qualunque tormento dello Sheol (regno dei morti).

Ebbene qui Abramo non solo non libera il ricco che a ben vedere è persino pentito (semmai avesse colpe che però non sono esplicitate), ma gli rifiuta una semplice goccia d’acqua! Pensate a Gesù che invita a dar da bere agli assetati o all’esigenza di perdonare sempre e capirete come i personaggi della parabola sono piegati alla necessità del messaggio che Gesù vuole trasmettere!

Ma insomma se il ricco è senza colpe e il povero senza meriti perché – tanto per usare categorie a noi comuni – il ricco è “all’inferno” e il povero “in paradiso”? La risposta è tanto semplice quanto per noi sconcertante: perché il ricco è ricco e il povero è povero!

Per Gesù infatti non esiste il “ricco buono”! Il “ricco benefattore” è una categoria culturale che non appartiene alla logica evangelica ma è funzionale al sistema di potere che l’ha creata fino a giustificarla teologicamente! (Provate a leggervi l’enciclica di Leone XIII Diuturnum Illud del 1881 – che trovate nel sito del Vaticano – e capirete cosa intendo).

Ed è per questa ragione che per secoli abbiamo censurato questa parabola rendendola moralisticamente inoffensiva!

Contrariamente alle traduzioni comuni nel Vangelo non si parla mai di ricchezza “disonesta” ma di ricchezza “ingiusta” (cfr Lc 16,1–13). “Ingiusto” nella bibbia è antitetico a “giusto”! Ove “giusto” è sempre e solo Dio (e coloro che mettono in pratica la sua Parola). Il giudizio teologico sulla ricchezza è quindi senza appello: la ricchezza è sempre idolatria, negazione di Dio e del suo Vangelo. È il vero Anticristo. O se volete il vero ateo (sarebbe interessante vedere come alcuni atei oggi, sono atei perché si rifiutano di credere nel “dio dei ricchi”).

Perché? Le ragioni sono molteplici e coinvolgono vari aspetti della dimensione umana: politico, sociale, economico, religioso e anche ecologico.
Brevissimamente ne elenco alcuni:
È ingiustizia sociale, economica e politica: se tu hai più del necessario, ciò che possiedi è di fatto rubato a chi non ha di che vivere! E poco importa se chi non ha, non ha per colpe sue (considerarle contraddirebbe il perdono e lasciarli in miseria una forma di vendetta)!
Vive di diffidenza: La struttura dei beni materiali e le dinamiche di una relazione hanno obiettivi e cammini esattamente contrapposti: ogni bene esige e domanda di essere salvaguardato, ogni relazione esige e domanda di potersi “consumare” per l’altro.
Vive di conflitto e guerra (che chiama a volte concorrenza!): L’altro è visto come nemico/ostacolo mai come alleato. L’accaparramento dei beni entra necessariamente in conflitto con le dinamiche di accaparramento altrui: la guerra non è banale possesso dei beni dell’altro o difesa dei propri, ma tentativo di annientamento del “concorrente” identificato necessariamente come “nemico”!
L’amicizia si trasforma in complicità: ogni forma di associazione economica che si fonda sull’accumulo del profitto, per sé o per il gruppo (anche religioso), sottrae beni alla collettività ed è contraria alla vera comunione.
Ci si affida e ci si fida solo di se stessi o meglio dei propri beni:
La dinamica del ricco è la dinamica di chi vuole assicurarsi il futuro, ma così facendo diventa schiavo della paura del futuro! Insomma contraddice tutto il processo di liberazione che comprende non solo la liberazione dal passato (Egitto prima, perdono poi) ma anche dalle angustie del futuro (conquista Terra Promessa prima, salvezza – in senso lato – poi). Il ricco, per quanto devoto egli sia, uccide in sé ogni possibile dinamica religiosa di Speranza nella Promessa, per affidarsi solo alle proprie ricchezze. E chiudersi in esse ad ogni relazione come unica àncora di salvezza… Non è molto diverso dal vitello d’oro! Chi deve “lodare” infatti se non le proprie capacità e i propri beni (oro) per il proprio benessere?

Sia detto per inciso: ciò che è detto qui per i beni cosiddetti “materiali” vale anche per quelli cosiddetti “spirituali”. Ma qui apriremmo un discorso troppo lungo, rimando solo a tutta l’esperienza testimoniata dalle opere di san Giovanni della Croce!

Insomma – per non dilungarmi oltre (pensate solo all’aspetto ecologico, di “non sfruttamento” della natura…) – il ricco, proprio perché ricco è secondo il Vangelo strutturalmente al di fuori di ogni dinamica del Regno di Dio. Nella parabola è espresso chiaramente dall’«abisso» che lo separa dal mondo dei poveri (‘anawim) unici eredi del Regno!

Qual è il giudizio storico-esistenziale che si trae dalla parabola?

Abbiamo già detto che lo scopo della parabola non è parlare dell’aldilà, quindi questo abisso se per esigenze di logica interna alla parabola è posto oltre la morte, in realtà rimanda a quella porta alla cui anta chiusa (se non per buttare la spazzatura) Lazzaro muore!
L’abisso dell’aldilà, è una trasposizione “favolistica” di un abisso che noi sperimentiamo nella nostra vita e che crea incomunicabilità (E. Balducci). Non a caso il ricco si rivolge ad Abramo e non a Lazzaro che pur vede – e riconosce! – accanto a lui! Notate il gioco letterario del ricco che dice ad Abramo di mandare lo “schiavetto” Lazzaro ad attingere acqua: evidentemente era così che lo considerava in terra!...
La cultura che nasce nella consorteria dei ricchi à una cultura che legittima la separazione (E. Balducci). I muri, l’abisso, sono cercati, voluti, costruiti! A difesa del proprio status sociale e culturale e religioso… Ed è proprio questa cultura che succhiamo fin dal seno materno, che ci ha impedito per secoli di scoprire il senso autentico e rivoluzionario e persino eversivo (dal punto di vista del potere costituito) del Vangelo.

Per il ricco non c’è salvezza! Su questo il Vangelo è chiaro senza ombra di dubbio e non tanto nell’aldilà a mo’ di vendetta postuma, ma proprio in quell’aldiqua che il ricco voleva garantirsi! La sua totale incapacità di comunicazione autentica (che si porta incollata, strutturandolo definitivamente fin oltre la morte!), lo condanna definitivamente “hic et nunc”, qui ed ora!

Che fare allora?

Le tracce dove ciascuno può percorrere un cammino di conversione – mai definitivamente compiuto – non possono che venire dal Vangelo stesso. È “buona/bella notizia” per questo no?

Non esistono soluzioni meccaniche, automatiche, ciascuno deve cercare, a partire da un esame che sia culturalmente libero dal codice interpretativo dei soloni della Bocconi, ciò che può fare perché nel mondo sia abolito l’abisso!

Per prima cosa quindi è necessario cominciare ad avere una mentalità che integri in sé una specie di sospetto pregiudiziale per tutte le parole che scendono dagli uomini responsabili i quali, in quanto responsabili del potere, sono costretti ad usare il codice interpretativo dei ricchi (E. Balducci)…

E in questo il Vangelo – e la Bibbia in generale – correttamente letti sono uno strumento formidabile di purificazione della e dalla cultura dominante! Che altrimenti rischia di inquinare persino la nostra preghiera.
Il finale della parabola a questo proposito è sconvolgente per noi che crediamo nella resurrezione di Cristo: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti. Questa espressione, la cui implicazione non poteva sfuggire agli Apostoli, spazza via ogni “spiritualismo magico”: La resurrezione di Cristo non converte nessuno, se non si lascia modellare dalla sua Parola. La fede nella resurrezione non è una fede “a priori” ma è una “scoperta” che ciascuno constata nella propria storia nel vedersi “liberare” giorno dopo giorno nell’ascolto (messa in pratica!) della sua Parola. Altrimenti – perdonatemi il linguaggio – è un credere alle favole! O il minimo che si possa dire è che “non mi/ci serve a niente” (cf i demoni che riconoscono inutilmente che Gesù è l’Unto di Dio)!

Seconda cosa: occorre diffidare delle caricature storiche di ciò che potremmo chiamare Amore, Carità! E cominciare a capire, che seppur necessaria nell’urgenza, deve finire il tempo dell’elemosina!
Perché l’elemosina, invece che abolire l’abisso, lo giustifica in quanto rende tranquilli i ricchi che attraverso elargizioni, fatte per di più anche in maniera vistosa e proclamata, si sentono sulla buona strada, con la coscienza tranquilla (E. Balducci).

Terzo passo è cominciare a vederci e sentirci “amministratori” e non padroni dei beni che “possediamo” (e sempre provvisoriamente: anche perché con la morte dobbiamo tutto riconsegnare!). La manna che non può essere accumulata, il pane che è “quotidiano”, stanno a sottolineare che tutto è dono di Dio per tutti e non per qualcuno in particolare. E di questa gestione, la storia, la coscienza, Dio, il fratello, ci chiederanno conto!

Quarto: il fratello appunto. Curioso che mentre noi – credendoci religiosi e spirituali – pensiamo al giudizio di Dio, Dio ci rimanda sempre al giudizio del fratello! Questa per il Vangelo è la vera spiritualità, la vera trascendenza: la comunione col fratello (peccatore! E non quello che ci piace e compiace).

Se non abbiamo il coraggio di “donare tutto ai poveri” e di seguire Gesù (Lc 18,18ss), almeno facciamoci furbi e cerchiamo di farci degli amici (poveri!: erano in debito verso il ricco) con la ricchezza ingiusta! Non per fare l’elemosina però ma per smantellare le strutture che la rendono necessaria.
Come in Lc 16,1ss: In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore ingiusto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza ingiusta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne…
Concludendo: smettiamola di pensare alla fede come ad una adesione a verità astratte. La fede è fare, è combattimento prima di tutto in noi stessi perché lo sguardo d’amore del Padre su ogni persona diventi l’unico criterio che guida i nostri passi: “Combatti la buona battaglia della fede” dice san Paolo a Timoteo (1Tm 6,11ss)… Se non stiamo attenti, vigilanti, rischiamo di ridurla a una passeggiata domenicale in chiesa!

martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale!... Forse

 
Forse mai come in questo Natale 2012 ci sentiamo così vicini a Gesù, a Maria, a Giuseppe.

Guardiamo il presepe… molto bello certo, ma quello vero non è mai così bello, così ricco di luci… con la bolletta dell’Enel che non si riesce a pagare…

Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire restare soli, senza un soldo in tasca, senza un lavoro degno di questo nome…
Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire essere cacciati da un alloggio caldo e accogliente in cui si cercava rifugio per una sola notte…
Forse… ora capiamo meglio la sensazione di disagio che ha provato Maria… con le doglie imminenti e l’assenza di acqua per potersi lavare.
Forse… ora capiamo meglio l’angoscia di Giuseppe… la sua impotenza davanti all’ostilità degli uomini e della storia. Capiamo meglio l’angoscia di un padre che non riesce a proteggere come vorrebbe le persone che ama…

Forse… capiamo meglio l’ingiustizia patita da Gesù…
In fondo Lui ha sempre vissuto così: “da cacciato via”… da straniero… Ha sempre fatto fatica Gesù a trovare una casa accogliente, Lui che non aveva neanche una pietra dove posare il capo, Lui che non aveva neanche – diversamente dagli animali – una tana dove rifugiarsi… Qualche volta la trovava a Betania, a casa di Lazzaro, ma ha sempre vissuto da rifugiato… anche a Nazareth. In fondo ci era andato per nascondersi dal potente di turno, tanto insignificante era quel posto.

Sta per nascere Gesù... e l’unico posto in cui ha potuto nascere è la nuda roccia di una grotta, di una caverna… la stessa roccia fredda che accoglierà il suo corpo… ciò che restava di una vita consegnata…
Appena madre e ancora ragazza Maria... e già si esercita a compiere quel gesto che trent’anni dopo dovrà fare per custodire le spoglie del figlio amato, avvolgendolo in fasce.

Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire, non trovare rifugio sicuro e stabile per poter condurre una vita dignitosa.
Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire vivere al freddo riscaldati dal tepore e fetore degli animali… E da genitori indifesi e infreddoliti, stanchi e affamati…

Forse… oggi capiamo meglio quella solidarietà che Gesù ha voluto vivere con il nostro disagio…
Forse ora comprendiamo che cosa voleva dire quando ci invitava a essere solidali con chi, per una ragione o per l’altra, è emarginato…
Forse… oggi, i disagi di quest’anno e la speranza di un futuro migliore che sembra spegnersi, ci fanno scoprire che abbiamo qualcosa in comune con le persone che fino a ieri incontravamo solo per far loro l’elemosina, “la carità”. Forse ora ci accorgiamo che abbiamo molte cose in comune con loro… Con molte cose da dirci, più che da darci.

Forse oggi, invece di chiedere qualcosa – a Gesù, agli altri – avremo voglia di dire qualcosa: che ci siamo anche noi, solidali come Lui, perché cominciamo a capire che cosa si prova a trovarsi ai margini della storia…
E forse oggi abbiamo voglia di ringraziarlo per questo, perché da stasera, forse, abbiamo capito grazie a Lui, che per vivere felici, senza perdere la propria dignità, non si ha bisogno di molte cose: basta un bue, un asinello, una madre affettuosa anche se inesperta, un padre premuroso anche se spaventato e qualche pastore, qualche povero disprezzato, che venga a farci compagnia.

Buon Natale! Forse…

domenica 2 settembre 2012

L'ultima intervista

Il rito della lavanda dei piedi in Duomo

Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l'8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

Come vede lei la situazione della Chiesa? «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione».

Chi può aiutare la Chiesa oggi? «Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa? «Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L'atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»

Lei cosa fa personalmente? «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

Georg Sporschill SJ, Federica Radice Fossati Confalonieri

sabato 5 settembre 2009

La sindrome di Caino

Come può un regno diviso in se stesso non andare in rovina?
Leggete qui e vedete come si fa ad andare in rovina...
Intervista (si fa per dire), fuori luogo e fuori tempo di Gian Maria Vian, direttore dell’Osser­vatore Romano ma anche l'articolo di Vittorio Messori non scherza: una pugnalata alle spalle di Boffo (e non solo) in guanto di velluto e in penna di serpente: quando si dice "dagli amici (di fede?) mi guardi Iddio..."!

Assolutamente da escludere anche minimamente la buona fede... Sia perché non è buona sia perché non è fede, perché questa, come quella, o è nelle opere o è immaginata... Sulla visione veterocattolica e papalista di Messori mi prometto di ritornare...

domenica 9 dicembre 2007

LA DESTRA ECCLESIALE MANGIA SOLO FAGIOLI?

Cercando materiale per riflettere un po’ sulle letture di questa II domenica di Avvento mi sono imbattuta in un incontro tenuto dal biblisti Giacomo Facchinetti il 7 febbraio 2001 su Rm 14,1-15-6. Il testo completo è pubblicato in Scuola della Parola 2001, io ve ne propongo uno stralcio.
«Paolo formula così il problema: “Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro, che è debole, mangia solo legumi”. […] Non so se si tratti di ironia o di un modo molto forte di suggerire come la questione della fede si ponga anche in situazioni apparentemente secondarie come quelle del mangiare e del bere. Ecco comunque due modi di fare, due tendenze.
Primo: c’è uno che crede di poter mangiare di tutto. Come possiamo immaginare questi cristiani? Sono dei credenti che si sentono liberati, mediante la fede in Gesù, […] restituiti alla visione di una realtà in cui tutto è puro. […] Niente in sé è impuro, niente è in sé fonte di contaminazione. Si può costruire un rapporto nuovo tra il credente e il mondo: il mondo è il dono di Dio, […] che egli come Padre e creatore mette a disposizione dei credenti i quali, liberati per mezzo di Gesù da ogni proibizione alimentare, possono goderne. Sarebbe il segno visibile della libertà, che permette anche un diverso modo di rapportarsi e di vivere all’interno di una società fatta di non credenti, per cui uno potrebbe tranquillamente, senza nessun problema, incontrare chiunque e diventare commensale di chiunque senza nessuno scrupolo. […] La cosa era vissuta come un profondo senso di liberazione, come il frutto di novità nel rapporto tra l’uomo e le cose buone del mondo, nel rapporto tra l’uomo e le altre persone e le altre religioni.
Qui Paolo non dà elementi per capire quali fossero i presupposti per cui alcuni, a partire dalla loro fede, si sentissero autorizzati a mangiare di tutto, in una commensalità libera, riconoscente e festosa; ma possiamo pensare che potessero appellarsi anche all’esempio di Gesù, il cui comportamento era stato censurato attraverso quel giudizio: un beone e un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori. […] Per Gesù questa libertà era segno della novità rappresentata dal suo messaggio: una novità che faceva cadere le barriere e faceva di nuovo, della mensa, il luogo vero, il momento autentico della comunicazione libera e fraterna. Permetteva una commensalità che doveva essere il segno di una disponibilità di Dio, di un dono di Dio che non si ferma davanti a barriere poste all’interno della Chiesa, o tra la Chiesa e quelli di fuori. […] Dunque le ragioni che potevano stare dalla parte dei ‘forti’ erano ragioni veramente ‘forti’, notevoli!
Proviamo invece a immaginare il modo di vedere di colui che è debole e mangia solo legumi.
Verso questa scelta potevano convergere tante posizioni, tante intuizioni o suggestioni che potevano venire dalla tradizione ebraica, oppure da tradizioni varie del mondo greco o romano, oppure potevano ispirarsi a grandi figure come Giovanni il Battista, che non mangia e non beve, e che in qualche modo rappresentava appunto l’ascetismo nella sua forma più rigorosa ed esigente. Potevano anche portare a proprio favore un ragionamento di questo tipo: dobbiamo essere coscienti della nostra condizione di peccatori; certo, liberati e salvati, ma pur sempre persone che portano in sé il segno del peccato. E potevano ricordare che uno degli elementi fondamentali del Vangelo è la croce di Gesù, morto per i nostri peccati, e potevano giustificare così il loro ascetismo, la rinuncia alla carne e al vino, richiamandosi ad uno spirito penitenziale, alla coscienza di essere stati salvati dal peccato sotto il segno della croce: una visione austera, rigorosa, penitenziale della vita.
[…] E poteva scattare il giudizio vicendevole fra questi due gruppi.
I progressisti – quelli cioè che si sentivano liberi di mangiare di tutto pensando che gli altri non avessero il coraggio e la forza intellettuale o morale di vivere fino in fondo la libertà della fede – e i mangiatori di legumi, quelli che potevano giudicare gli altri come ‘modernisti’ disposti a cercare una soluzione comoda della fede, pronti a tutto per il consenso sociale, paurosi di mostrare pubblicamente la propria fede e di riconoscere che siamo segnati dal peccato, incapaci di indicare che al centro della storia ci sta la croce di Cristo, il giudizio di Dio sul mondo e sulla nostra condizione appesantita dalle forze negative personali e sociali.
[…] E il pericolo che l’apostolo vede, qual è? Il pericolo è che partendo dalla stessa fede si possa mettere in questione la fraternità.
[…] Qual è la risposta di Paolo? Al termine della lettera, Paolo sembra disposto a rimettere in discussione la caratteristica che distingue la sua teologia che ha nella libertà, come dono di Cristo, uno dei grandi segni e uno dei grandi temi. […] Pare disposto a rimettere in discussione non l’essenza del Vangelo, ma alcune conseguenze della sua teologia. È pronto a rimettere in discussione, in una situazione critica, coloro che erano contenti di essere giunti, dopo tante fatiche, a ragionare come Paolo; proprio da lui essi si vedono posti di fronte a questa imposizione: fermati! C’è qualcosa di molto più decisivo della teologia di Paolo. E che cosa è? È il fratello che mangia fagioli!
“Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni”.
[…] Come vedete il giudizio dell’apostolo è netto: ‘sono deboli nella fede’; la loro posizione dal punto di vista dottrinale, dal punto di vista della riflessione teologica è certamente più debole, è una posizione che dovrebbe essere superata perché non è pienamente sostenibile e giustificata.
[…] Senza discutere le esitazioni, senza fare il processo; eppure ci sarebbero state mille ragioni, dal punto di vista culturale, per contestare, per rimproverare, per mettere in crisi questi deboli nella fede. Ci sarebbero stati motivi per dire loro: siete conservatori, reazionari, siete legati a una visione che non riesce a percepire e a gustare la bellezza e la novità del messaggio di Cristo. [E invece] l’apostolo dice questa parola così netta e severa: Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. […] Poi riprende, formulando l’esigenza da tutti e due i punti di vista: “Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi mangia non giudichi male chi mangia”.
[...] Per l’apostolo non si tratta di intavolare una discussione teologica perché una delle due mentalità superi il proprio punto di vista, per unificarsi al punto di vista dell’altro e raggiungere così il risultato di una comunità unita nel pensiero, nella cultura. Per Paolo non è questo il problema. Ai forti, ai progressisti, profondamente coscienti della novità del messaggio di Cristo egli chiede di non disprezzare o, nell’aspetto positivo, di stimare coloro che sono deboli; il non disprezzare è legato ad una disponibilità del forte a prendere in considerazione, a interrogare anche se stesso sul valore, sul senso della posizione di quello che è debole nella fede.
Dall’approfondimento risulterebbe che le grandi domande sorgono da entrambe le parti se c’è la stessa passione per il mistero di Dio. Per tutti e due la teologia rappresentata dal debole nella fede contiene in sé degli elementi che non possono essere frettolosamente ignorati, emarginati da colui che è forte, maturo e progredito nella fede e nella sua formulazione culturale.
[…] L’apostolo non formula direttamente il comando al dialogo, ma, tentando di fermare il ‘processo a carico’ e la condanna vicendevole, apre lo spazio perché vengano prese in considerazione le ragioni dell’altro e non solo della sua fede – che appartiene al mistero di Dio. Il progressista, il forte nella fede, non è colui che stende il dito per giudicare, non è colui che si sente all’avanguardia, ma è colui che, seguendo il fratello, si interessa cordialmente della sua posizione. Non lo giudica, non gli interessa se si trova nella retroguardia, perché quello è il fratello.
[…] Da parte sua il debole nella fede che cosa deve fare? Colui che non mangia non giudichi male chi mangia. Deve astenersi dal condannare, dal vedere l’altro come uno che non è pienamente fedele a Dio, uno che tiene di più alle mode del tempo che alla radicalità, al coraggio e alla disponibilità al sacrificio in nome e a causa della fede, uno che ama essere aggiornato culturalmente per poter essere libero di comunicare con tutti senza ostacoli. Non deve condannarlo! Anche il debole nella fede, essendo invitato a rinunciare al giudizio e alla condanna, è invitato positivamente a interrogarsi sulle ragioni di colui che è forte nella fede, non a sospettarlo di presunzione o di superbia, ma a interrogare se stesso sulla fede che anima quelle ragioni.
Per quale motivo tutto ciò? Perché “Dio lo ha accolto”. Ecco il pensiero comune!
[…] In certo senso la grande questione è di affermare il diritto-dovere di imitare Gesù nella sua comunione di mensa con i peccatori. Quindi i deboli nella fede devono riconoscere – superando la tentazione degli scribi e dei farisei, che contestavano la commensalità di Gesù – che non si possono mettere dei limiti, per ragioni culturali o ecclesiali, alla misericordia, all’ospitalità, all’accoglienza veramente incondizionata di Dio. Ma i forti nella fede devono conoscere che Dio può ospitare, oltre il pubblicano, anche il fariseo e lo scriba. Dio accoglie anche loro.
[...] Sorge così la domanda: “chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone”. Non è un invito al menefreghismo: “Faccia un po’ come gli pare, a me non interessa”. No, Paolo qui è duro e con molta chiarezza vuole spiegare che cosa implica il giudizio o il disprezzo tra fratelli cristiani. Significa mettere in discussione Dio.
[...] Oltre a questo, Paolo è convinto non solo dell’azione originaria di Dio, ma anche del suo lavoro continuo nel fratello. “Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare”.
[...] Per l’apostolo c’è un impegno comune: quello di trovare nella fede le ragioni del proprio comportamento, non solo astenersi dai giudizi, ma anche esplorare il proprio mondo di fede, trovare in essa le ragioni autentiche del proprio modo di vedere la realtà, affinché il comportamento non sia frutto di un certo tradizionalismo religioso o di un conformismo culturale o di un desiderio di apparire nuovi e moderni. Queste non sono ragioni che hanno a che fare con la fede! È necessario approfondire continuamente, pur nella differenza di posizioni, l’esigenza permanente del rinnovamento della propria mentalità sul fondamento della fede.
Questo porterebbe a capire che: “chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie”. L’apostolo invita a riconoscere la comune ragione: è il Signore nella propria vita.
[...] Paolo non tenta una conciliazione di tipo razionale o culturale tra le diverse posizioni, ma rimanda le due posizioni differenti alla loro radice comune.
[...] La domanda: “Chi sei tu, per giudicare il tuo fratello?” pone in evidenza l’assurdità che dei fratelli, dei figli, si giudichino e si disprezzino. Questo comportamento rivela una profonda ignoranza e una profonda incoscienza. [...] Per entrambi la domanda è: vi rendete conto che tutti e due arriverete davanti al tribunale del giudizio di Dio?
[...] L’apostolo non dice cose nuove, ma semplicemente richiama le grandi parole della fede, e le richiama in modo tale che diventino operanti nella costruzione dei rapporti quotidiani. Egli vuole impedire che da una parte ci sia la professione di fede, e poi dall’altra i propri ragionamenti, le proprie valutazioni tra credenti che, dimenticando le proprie origini e la propria identità, si comportano come se quelle grandi parole di fede non dovessero determinare il modo di guardarsi, non dovessero dare forma al modo di stare uno di fronte all’altro, al modo di parlarsi, al modo di valutarsi.
[...] “Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non essere causa di inciampo o di scandalo al fratello”. Il tema è sempre quello, ma ci troviamo davanti ad un’altra argomentazione. Paolo si mette dal punto di vista dei forti e riconosce che, in linea di principio, hanno ragione perché tutto è puro, e quindi avrebbero il diritto di mangiare ogni cosa rendendo grazie a Dio. Ma il problema è rappresentato dall’altro che, nella fede, rappresenta per me la domanda che Dio mi rivolge, che Dio rende presente davanti a me in questo determinato momento.
[...] Il Vangelo si impone nelle situazioni quotidiane che sembrano le più banali. Si impone quando uno pensa: figurati se devo farmi un problema del fatto che l’altro trovi scandalo, entri in crisi e provi un disagio profondo perché vede in me non un destinatario della grazia di Dio, ma uno che per essere progressista e moderno si sente libero di esibire la propria libertà. È lui che sbaglia! Sbaglia nel suo ragionamento e sbaglia anche nella carità perché mi giudica.
[...Ma:] “Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo la carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto!”. Ecco il metodo dell’apostolo: far emergere la presenza del crocifisso quando sembra soltanto questione di banali rapporti interpersonali, soltanto questione di mentalità.
[...] Verrebbe spontaneo un moto di repulsione: [...] il mio prossimo è quello lì, che non mangia il salame e ce l’ha con me. E non riesco a farlo ragionare, è un testardo e vuole fare l’asceta. Non sa gioire delle cose della vita! Ma l’apostolo domanderebbe dove sia stato messo Cristo, dal momento che quell’importuno lì è uno per cui Cristo è morto. Ecco la capacità veramente sconvolgente dell’apostolo di richiamarci alla serietà delle domande suscitate dalla fede.
[...] La situazione può sembrare banale, ma Paolo dice: in questa situazione è in questione l’essenza del Vangelo, l’imitazione di Gesù, l’essere a immagine del Figlio, morto e risorto. Ecco dove si pone la questione della fedeltà al Messia non trionfante: risorto sì, ma non trionfante. [...] Si pone in questo: non cercare la propria gratificazione, ma vivere della dedizione e dell’attenzione all’altro, anche se è spiacevole, anche se non è totalmente maturo, anche se è veramente pesante».

martedì 13 novembre 2007

La laicità tra verità e carità

Mi è parso interessante questo intervento, molto più ampio e di cui vi propongo una parte, che Gustavo Zagrebelsky ha fatto in un convegno ad Assisi. Lo ritengo adatto ad essere declinato anche come analisi di dialettiche comunitarie molto più ridotte di quelle che possono invece riguardare una intera comunità, nazionale od internazionale. Certo il relatore chiama in causa e analizza il macrosistema “politica”, non ci deve però sfuggire come la citazione finale, di questa sezione del discorso, sia la “A Diogneto” che per sua natura è indirizzata al cammino di ognuno di noi uomini, anzi, anche se per pura esigenza letteraria, è costruita “ad Hoc” come risposta a delle questioni sollevate proprio da un uomo interrogato dalla storia che viveva.

Religione della verità o religione della carità

L’utilità o la pericolosità della religione come rimedio contro le tendenze sociali autodisgregatrici dipende forse anche dalla sua autocomprensione, cioè come concepiamo la religione, come gli uomini di fede concepiscono il vivere la fede. E qui il dilemma è tra religione come religione della verità, e religione come religione della carità. Il dilemma è particolarmente vivo per il cristianesimo, nato originariamente nelle prime piccole comunità come religione della carità: il discorso evangelico della montagna, e i primi due comandamenti. Il Cristo interrogato su quali fossero i comandamenti basilari non afferma una dottrina, dice “amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua forza, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E in origine la Verità – io sono la via, la verità, la vita – era non un complesso di proposizioni teologiche, e tantomeno teologico-politiche, e ancor meno verità sociali o scientifiche. La verità del Cristo era la confessione del Cristo figlio di Dio. La confessione di Gesù il Cristo. Questa era tutta la verità nelle prime comunità cristiane (...). Progressivamente però il cristianesimo è venuto istituzionalizzandosi come religione della verità, capace, attraverso l’uni-formità di un apparato dogmatico, teorico e organizzativo sempre più complesso, di tenere insieme vaste comunità di credenti, in rapporti di vario tipo – conflittuale o di cooperazione – con il potere politico. (...). Le due concezioni del legame comunitario, carità-verità, coesistono dialetticamente e la loro tensione rappresenta uno dei fili conduttori della storia della Chiesa nei secoli. Ora, la questione che mi sembra da porre è se questa distinzione verità-carità sia rilevante nella discussione circa il valore della religione, in particolare di quella cristiana, come tessuto connettivo della vita sociale. L’ipotesi da considerare è se non sia propriamente l’odierna insistenza sulla verità l’elemento che nelle società pluraliste attuali crea divisioni e conflitti. Mentre le cose andrebbero all’opposto se l’accento cadesse sulla carità, capace - essa sì - di creare solidarietà, legami e convergenze non solo tra cristiani, ma anche tra cristiani e non cristiani. È scritto nella Lettera a Diogneto: “La scienza gonfia, la carità, invece, edifica. Chi crede di sapere qualche cosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa nulla: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita”. In breve c’è qui in nuce la contrapposizione tra l’arroganza della verità e l’umiltà della carità. La prima, a dispetto di tutte le proclamazioni in contrario, cerca la potenza, il potere; la seconda, la carità, ne rifugge. Ed essendo il potere essenzialmente conflitto, competizione, e qualche volta perfino sopraffazione, si comprende facilmente come ogni religione della verità corra il rischio di alimentare tutto questo.
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