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mercoledì 24 febbraio 2016

III Domenica di Quaresima


 

Dal libro dell’Èsodo (Es 3,1-8.13-15)

In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 10,1-6.10-12)

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 13,1-9)

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa III domenica di Quaresima è una parabola tratta dal vangelo di Luca. È la prima parabola che la liturgia domenicale ci fa incontrare in questo anno liturgico.

Ad una prima lettura nascono alcune domande:

I-  Perché il vignaiolo non gli ha zappato intorno e non gli ha messo il concime prima? Cioè perché non ha fatto subito, alle prime avvisaglie di infecondità, ciò che poteva aiutare il fico a dare frutti?

II-    Dov’è che abbiamo già sentito parlare di alberi che non danno frutto e di come ci si comporta in questi casi?

Riguardo alla prima questione non dobbiamo stupirci troppo. Le parabole sono storie inventate, che vogliono condurci verso un momento di svolta. E per costruire letterariamente questo percorso sono necessari degli escamotage: il fatto che da 3 anni il fico sia sterile serve al narratore per sottolineare quanto fosse sensata la richiesta di tagliarlo.

È proprio questa costruzione narrativa infatti che ci conduce al vertice della parabola, che consiste nel fatto che – contro ogni buon senso o senso comune – il fico alla fine non venga tagliato.

La seconda questione è invece più interessante, perché se andiamo a rileggerci Lc 3,9, troviamo quanto diceva Giovanni Battista durante la sua predicazione nel deserto: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco».

Fatte queste considerazioni preliminari dobbiamo stare attenti ancora ad un aspetto. Con troppa facilità infatti noi quando leggiamo le parabole, usciamo dal racconto e identifichiamo i personaggi della storia con persone reali. Istintivamente in questo caso ci verrebbe da dire che Dio è il padrone dell’albero e Gesù il vignaiolo.

In realtà io non credo che questa identificazione sia legittima. Piuttosto mi pare sensato identificare il proprietario con la logica umana (ben esemplificata da Giovanni Battista) e il vignaiolo con il volto di Dio che Gesù vuole far conoscere.

 

Fatte tutte queste premesse, e provando a ripercorrere il testo, possiamo chiederci cosa esso ci dice:

 

 
DI DIO
 
DELLA STORIA
 
Non è cieco sulla sterilità della storia
 
lascialo ancora quest’anno
 
È sterile
Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò
 
 
La sua logica è che ciò che è sterile ha bisogno di cure
 
finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime
 
La sua logica è che ciò che è sterile vada tagliato
Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque
 
Ciò che è sterile può tornare a dare frutto
Vedremo se porterà frutti per l’avvenire
 
Ciò che è sterile va tagliato perché non solo non dà frutto, ma sfrutta / rende inutilizzabile altro
Perché deve sfruttare il terreno?
 

 

Lo sguardo che Gesù ha sulla storia, dunque lo sguardo che Egli ci dice che Dio ha sulla storia, non coincide con quello di Giovanni Battista.

Dio non sta con la scure alla radice degli alberi, pronto a tagliare chi non porta frutto, quasi con una foga vendicativa e un compiacimento, tipico di chi pensa di liberare il mondo dal male estirpando i malvagi o i non particolarmente fervorosi per la causa…

Il volto vero di Dio, secondo Gesù, è un altro: è un volto che guarda alla storia diversamente, con un’incrollabile fiducia, che se amati, curati, aiutati, tutti possono dare frutto.

In questo percorso che la quaresima ci sta facendo fare della riscoperta del volto di Dio, credo che questo testo, forse meno noto di altri, sia un passo importante, anche perché si tratta di una narrazione semplice, lineare, chiara.

A partire da essa potremmo tornare a chiederci, nella nostra situazione o nelle tante altre situazioni umane che ci troviamo ad incontrare, qual è lo sguardo che Dio pone su di esse… e provare ad essere figli di un Dio che ha questo volto e non quello scuro di chi ha in mano la scure…

lunedì 8 giugno 2015

XI Domenica del Tempo ordinario


Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 17,22-24)

Così dice il Signore Dio: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (2Cor 5,6-10)

Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 4,26-34)

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 

Questa Domenica ricomincia (finalmente!) il Tempo Ordinario e la Chiesa ci propone due delle tre parabole del seme raccolte nel quarto capitolo di Marco. Lascio parlare in proposito due esegeti che alimentano da tempo le mie riflessioni, perché mi paiono capaci di rendere davvero bene l’idea di ciò che vi è in gioco, più di quello che forse sarei in grado di fare io.

martedì 7 ottobre 2014

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 25,6-10)

Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 4,12-14.19-20)

Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù. Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 22,1-14)

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Il brano che abbiamo letto settimana scorsa, quello della parabola dei vignaioli omicidi, terminava – nella liturgia – con il versetto 43 del cap. 21 di Matteo: «Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

Il testo di oggi è la continuazione del discorso di Gesù con i capi dei sacerdoti e gli anziani, che ci accompagna ormai da qualche settimana. Ma tra il brano di domenica scorsa e quello odierno ci sono 3 versetti che la liturgia omette (Mt 21,44-46). Il primo, il v. 44, è la conclusione di discorso di Gesù, ed è omesso probabilmente per la sua durezza: «Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà; e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato».

Gli altri 2, i vv. 45-46, sono un commento dell’evangelista: «Udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta».

In quel “capirono che parlava di loro” è svelata la strategia di Gesù che abbiamo cercato di delineare in queste settimane: Gesù attira in un tranello i suoi interlocutori, costringendoli ad esprimere un giudizio che poi ribalta contro di loro.

So di averlo già più volte scritto, ma lo ripeto per 2 motivi:

martedì 16 settembre 2014

XXV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 55,6-9)

Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 1,20-24.27)

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 20,1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Il Vangelo che la Liturgia ci propone per questa XXV Domenica del Tempo Ordinario, è costituito interamente da una parabola. Essa è collocata immediatamente dopo l’episodio del giovane ricco (Mt 19,16-22) e le considerazioni che Gesù fa a proposito della ricchezza («Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli», Mt 19,23ss) e della rinuncia («Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt 19,27ss). Queste considerazioni terminano con il versetto 30 («Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi»), che, non a caso, è del tutto identico a quello con cui finisce anche il brano successivo, cioè il nostro. In questo modo infatti si crea una certa continuità, tanto che qualche studioso afferma che, a differenza della classica divisione dei brani, questo versetto 30 sarebbe quello iniziale della parabola degli operai della vigna e non tanto quello finale di ciò che precede.

In ogni caso ciò che interessa è come questa cornice in cui la parabola è incastonata (19,30 e 20,16: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi»), ne suggerisca immediatamente la tematica: essa è infatti quella del giudizio, della giustizia di Dio: «Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi»... anche se poi, seguendo la narrazione, sarà curioso notare che non è vero che nella parabola i primi sono abbassati; piuttosto saranno innalzati gli ultimi...

Ma procediamo con calma... soffermandoci per un attimo sulle caratteristiche che delineano questa parabola e le sue simili in una vera e propria “categoria”.

Le parabole evangeliche infatti potrebbero essere classificate in due gruppi:

-          vi sono “le miniparabole del Regno”, che, forse anche per la loro breve estensione, tutti ricordano;

-          e vi sono “le macroparabole” in cui prevale invece la forma della narrazione («Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti...», Mt 10,30ss; «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano...», Lc 19,12ss) e che per questo hanno anche dimensioni più rilevanti.

Le parabole di quest’ultimo tipo oltre ad avere un’estensione narrativa più elaborata (è raccontata una vicenda), si presentano spesso anche come enigmatiche e difficili da capire. Si deve supporre perciò, che quando Gesù le pronuncia, lo fa rivolgendosi ad un contesto di interlocutori religiosamente colti, in grado di percepirne la complessità e la paradossalità; a gente quindi allenata a questo tipo di racconto e alla discussione che poi ne nasce: non a caso infatti nascono solitamente in un contesto a lui ostile.

Anche le tematiche che affrontano, confermano questa sensazione di complessità: non si tratta più semplicemente dell’annuncio diretto dell’arrivo del Regno di Dio, ma si intavolano argomenti quali la ricchezza, la giustizia di Dio, il giudizio, il perdono... mettendo in scena tra l’altro non più semplicemente il contadino, ma un amministratore, un fattore, ecc...

Tutto questo per dire che la nostra parabola rientra proprio nel gruppo di quelle “difficili”; di quelle cioè che richiedono un percorso più impegnativo per essere capite fino in fondo e che è quindi giustificata la sensazione di frastornamento che abbiamo avuto ad una prima lettura.

mercoledì 23 luglio 2014

XVII Domenica del Tempo ordinario


Dal primo libro dei Re (1Re 3,5.7-12)
In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,28-30)
Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.
 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 13,44-52)
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
 
I testi che la liturgia ci propone per questa Diciassettesima Domenica del Tempo ordinario si aprono, nella prima lettura tratta dal libro dei Re, con una domanda, già da sola, capace di far sussultare mente e cuore di chi legge; infatti «In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: “Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda”».
«Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda» è l’inaspettato che irrompe nella storia, la richiesta che tutti, specialmente in alcuni momenti della vita, vorremmo sentirci porre, in special modo da Dio...
Certo, non potendolo fare abbiamo elaborato tutta una teologia capace, se non di rendere ragione, almeno di acquietare l’animo di fronte a questa impossibilità, e dunque tutta una schiera di ben pensanti – a ragione – si solleverebbe a ricordarci che Dio non è una bacchetta magica, che dunque non ci si può rapportare a lui come ad una macchina dei desideri... Eppure, anche se queste indicazioni sono vere e ci aiutano a non avere un approccio di fede ingenuo, ciò che in esse viene taciuto è che nel fondo del cuore di ogni uomo, anche il più istruito o teologicamente preparato, rimane l’atavico, arcaico e forse infantile anelito di poter esprimere e veder realizzati i propri desideri in modo facile: senza la fatica di una storia, la preoccupazione di un esito mai certo, la complessità delle situazioni in gioco...
È lo stesso anelito che sta alla base di tutte le storie e leggende che ci parlano di geni che escono dalle lampade coi famosi tre desideri, di fate con le loro bacchette magiche e via discorrendo...
Esse però non devono ingannarci sulla portata della domanda. Sono storie per bambini, è vero, ma, a ben guardare, nelle loro versioni originali, non sono mai banali e per questo sono anche “storie per i grandi”.
Dico “nelle loro versioni originali” perché poi effettivamente si è andati incontro, per mezzo della satira e dell’ironia (quante barzellette hanno i “tre desideri della lampada”), ad un uso ridicolo della domanda «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».
Essa invece – come dicevamo – è molto più pregnante di quanto le sue volgarizzazioni mostrino. Essa infatti presenta il profilo del volere («Chiedimi ciò che vuoi») nel suo legame stretto a quello dell’essere: Cosa vuoi? Dunque chi sei? Sintetizzabili nella domanda: Chi vuoi essere?

martedì 8 luglio 2014

XV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 55,10-11)

Così dice il Signore: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,18-23)

Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 13,1-23)

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

 

In questa quindicesima domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa, sopratutto nella prima lettura e nel vangelo, ci propone il tema della Parola di Dio, una delle vie di accesso imprescindibili alla relazione col Signore.

Lo fa, appunto, con il bellissimo testo di Isaia 55 e poi sopratutto nel brano evangelico, il quale è tratto dal capitolo 13 di Matteo, cioè esattamente dal punto di inizio del cosiddetto “Discorso in parabole”.

Questo tredicesimo capitolo segue il dodicesimo (che la liturgia domenicale non ci propone), che è un capitolo molto duro, tutto incentrato sulle contestazioni cui Gesù pian piano è sottoposto, e che si chiude con le forti parole di Gesù «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre». È a questo punto che l’evangelista riferisce: «Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse»...

Inizia così il racconto della famosissima parabola del seme, riportata da tutti i sinottici (cfr. Mc 4,3ss e Lc 8,5ss).

Essa è sempre proposta accostata alla sua spiegazione e questi due momenti del discorso di Gesù sono inframmezzati da un piccolo, ma intensissimo, dialogo coi suoi discepoli.

Dato che – però – spesso nei percorsi automatici del nostro pensiero si sono fissati per lo più i dati della spiegazione della parabola (per esempio le associazioni tra i vari tipi di terreno e i possibili gruppi di ascoltatori della Parola), piuttosto che quelli della parabola stessa, mi pare utile procedere con ordine.

venerdì 18 ottobre 2013

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (C)


Dal libro dell’Èsodo (Es 17,8-13)

In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 3,14-4,2)

Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,1-8)

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Le letture che la Chiesa ci offre in questa Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario, sono tutte e tre molto belle e molto ricche e mi pare che riescano – meglio che in tanti altri casi – a tracciare un arco di senso facilmente individuabile e comprensibile, perché molto vicino all’esperienza che anche noi spesso ci troviamo a vivere.

Innanzitutto Mosè… è l’uomo nelle cui mani sta la sorte dei suoi… mani fragili, mani di uomo, mani di un uomo solo… che prima o poi iniziano a pesare.

Anche noi spesso ci sentiamo così – a torto o a ragione – con il peso dei “nostri”, con il peso degli altri, con il peso delle situazioni, tutto sulle nostre spalle… spalle fragili, spalle di uomini e donne… spesso soli…

La Parola ci intercetta qui… nella pesantezza di una condizione che – ci pare – non siamo in grado di sos-tenere…

E ci intercetta con tre grandi sottolineature, che riescono forse a ridarci la forza che lungo i giorni si è logorata… o, se non altro, a ridarci la lucidità con cui guardare alla vita:

 

1-      Innanzitutto la sottolineatura del libro dell’Esodo… Non è vero che siamo soli! Nella comunità di chi ha passione per l’annuncio evangelico c’è sempre un Aronne e un Cur che può sostenere le nostre mani… qualcuno che ci dà una pietra su cui sederci e che “tiene su” con noi le sorti altrui…

Che è stata anche la scoperta del presuntuoso Elia, quando alle sue parole «Io sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta», il Signore stesso aveva risposto dicendo, piuttosto ironicamente: «Io, poi, ho riservato per me in Israele settemila persone»… (1 Re 18).

 

2-      La seconda sottolineatura è la parola di Paolo a Timoteo… La parola della saldezza, della fondatezza e della giustezza del nostro essere lì a tener su, per tutti, le mani… una fondatezza (e una giustezza) che, quando le mani iniziano a pesare, è la prima ad andare in crisi… Perché siamo qui? Per chi? Con la smaniosa voglia di lasciar perdere, abbassare le mani e lasciare che tutto vada allo scatafascio, con l’autogiustificazione ingannatrice che “ci stavano chiedendo troppo” e dunque che “era proprio inevitabile lasciar stare e pensare un po’ a noi stessi (alla nostra sopravvivenza)”… E invece Paolo ci riporta (ci butta – forse – un po’ in faccia) il modo giusto con cui guardare la realtà: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia»!

Come a dire: “Figlio/a, tu sai perché sei lì a tener su le mani per tutti! Tu sai che sono degni di fede coloro che lì – attraverso questa storia di uomini (e donne) – ti hanno posto. Tu sai che ha una fondatezza ciò in cui hai creduto e che ora ti è andato in crisi… Una fondatezza che, ancora (e sempre), è rintracciabile, mantiene aperto il suo accesso… perché la Scrittura rimane, anche quando chi te l’ha insegnata non c’è più!”.

 

3-      E infine la terza parola, quella del vangelo, «sulla necessità di pregare sempre»… non la preghiera per quel dio che abbiamo dentro (costruito da noi! E che dunque è un idolo!), che assomiglia così tanto al giudice «senza religione e senza pietà» del racconto lucano, ma «La preghiera capace di ottenere tutto da Dio», «quella che ci insegna Gesù: che ha cambiato il volto di Dio in “Padre nostro” – e prima si preoccupa anzitutto di lui, del suo nome, del suo regno della sua volontà… perché questa è la nostra salvezza, affidarsi a Lui» [Giuliano] a cui diamo del “tu”.

Ecco dunque tratteggiato, brevemente, il percorso che le letture ci invitano a fare questa domenica… perché i Mosè a cui pesano le mani, la vedova abbandonata senza più l’appoggio di nessuno, siamo noi!

Siamo noi quelli sostenuti – finora – da un’ostinazione invincibile che adesso invece pare aver perso la sua imbattibilità, per lasciarci nel «l’abbandono della partita, per ateismo o agnosticismo»…

Siamo noi quelli a cui – con il Salmo 41,5 – vien da dire: «Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge: attraverso la folla avanzavo tra i primi fino alla casa di Dio, in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa». Ma ora…

Siamo noi quelli tentati di fare come «l’Ivan di Dostojevski e restituire dignitosamente a dio il biglietto da visita» dicendo «non mi interessa più, non voglio aver più niente a che fare con lui!»…

Siamo noi quelli che Gesù ha voluto portare con sé, «a questa barriera estrema oltre la quale inoltrarsi, per continuare a pregare…» [Giuliano].

Siamo noi quelli immersi in una situazione che biblicamente si chiama la “prova” e che è radicale proprio perché mette in discussione Dio, il suo volto, il nostro modo di pensare la storia, il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, la sensatezza e l’insensatezza… e che il Signore chiama a ri-decidersi per Lui e a non fare come Israele, che ogni volta che ha sperimentato qualcosa che mandava in crisi l’idea che si era fatto di Dio, passava a qualcun altro, costruendosi vitelli d’oro…

Ecco perché le sottolineature così pressanti sulla necessità della preghiera, della Parola e della Chiesa, come alveo da cui non sottrarsi quando il germe della sfiducia, della stanchezza e dell’insensatezza si insinua nei nostri interstizi e inizia a rodere le fondamenta del nostro essere… Perché la prova in cui la vita mette l’uomo, non si trasformi nella prova in cui l’uomo mette Dio, che – non a caso – in queste situazioni viene identificato immediatamente con il giudice sordo della parabola, o con colui che ci lascia soli a tener su le mani per tutti… comunque quello della cui parola si inizia a diffidare…

«… a meno di prendere l’altra strada, suggerita da Gesù : cambiare il volto di Dio!» [Giuliano], anzi ri-accedere a quello autentico, tornare a sbilanciarsi con fiducia verso il volto di Dio a cui la Parola dà una fondatezza e al quale – come dice un bellissimo canto liturgico - «A te fratello chiedo di credere con me…».

Che proprio quest’altra strada, quella del cambiare volto di Dio, suggerita da Gesù, sia quella indicata dalla parabola lo mostrano alcune piccole osservazioni.

Come scrive Nigel Warburton nel suo Libertà di parola, «Mill raccomandava di recitare il ruolo di avvocato del diavolo contro le proprie idee» perché «qualora i motivi a sostegno di un’opinione non fossero regolarmente sfidati, Mill riteneva che si rischiasse di perdere con essi il significato stesso dell’opinione. Risultato: dove c’era in precedenza una convinzione vivente, ci sarà solo il cadavere del significato».

In effetti, a ben vedere, un’interpretazione della nostra parabola che vi rilevasse semplicemente un’esortazione a «pregare sempre, senza stancarsi mai» come “ciò che basta” per essere esauditi, cade immediatamente sotto i nostri colpi “avvocateschi”… Perché non è vero che bastapregare incessantemente e senza stancarsi, nemmeno per una causa sacrosanta, per essere esauditi! La storia di tante, troppe sofferenze, ingiustizie, morti ci racconta di innumerevoli preghiere inascoltate… di innumerevoli madri, mogli, figli che di fronte alla frase evangelica: «Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?» debbono amaramente rispondere “No”; e, viceversa a quell’altra «Li farà forse aspettare a lungo?» debbono rispondere “Sì”. In troppe occasioni all’affermazione di Gesù «Io vi dico che farà loro giustizia prontamente», dobbiamo dire “Non è vero”.

E dunque? O ammettiamo che Gesù abbia avuto torto, oppure dobbiamo lasciarci scavare da una sua parola che non ha riscontri nella storia.

Nemmeno l’interpretazione che poniamo in seconda battuta – necessaria, visto il crollo della prima sotto l’evidenza della storia – regge. La seconda interpretazione (quella appunto che arriva per seconda) suona più o meno in questi termini: a volte il pregare incessantemente “funziona”. A volte capita che qualcuno sia esaudito. Perché lui sì e un altro no? Non è dato saperlo… Qualcuno scabrosamente dice “Avrà pregato meglio di quell’altro”… Qualcun altro, più pudico, si rifugia nel “è un mistero, è il mistero di Dio”… non rendendosi troppo conto, forse, che, così facendo, stanno veicolando un’idea di Dio lontana da quella proposta da Gesù: infatti essi, implicitamente, ammettono l’idea di un Dio ambiguo, un po’ buono e un po’ cattivo (mentre Gesù ci dice che Dio è il solo buono), oppure arbitrario che concede grazie “a caso” (mentre Gesù ci dice che Egli è solo Padre per tutti), oppure ingiusto perché non sempre quelli che ricevono l’esaudimento sono più meritevoli di chi non lo riceve, anzi… (mentre Gesù ci dice che Dio è giusto).

Ma, allora, che dire di queste parole di Gesù?

Innanzitutto dobbiamo toglierci dalla testa l’identificazione del giudice della parabola con Dio. Infatti, nonostante tutta la parabola sia una contrapposizione tra Dio e il giudice, nel nostro inconscio l’identificazione tra i due avviene immediatamente!

Inoltre ciò su cui ruota tutto il discorso è la locuzione “fare giustizia” («Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti?» - «farà loro giustizia prontamente») che fa da pendant con il pubblicano della parabola che segue immediatamente la nostra, del quale si dice «tornò a casa giustificato» in contrapposizione al fariseo.

Ciò che vi è in gioco nella preghiera dunque non è l’esaudimento, ma la giusta collocazione nel rapporto col Signore.

Finché penseremo alla preghiera come esaudimento, non usciremo dai vicoli ciechi in cui il vangelo ci fa bloccare. La preghiera non è quello! Essa è piuttosto e solamente la relazione “cuore a cuore” – “spirito a spirito” dell’uomo con il suo Signore: è ciò che permette la giustacollocazione di fronte al Dio Padre, solo buono e solo giusto, che Gesù ci ha raccontato.

martedì 1 ottobre 2013

Abolire l'abisso



In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”». Lc 16,19-31

Vangelo difficilissimo questo, non tanto perché rischiamo di essere depistati dalla lettura del brano tratto dal libro del profeta Amos (Am 6,1.4–7) o perché secoli di interpretazione ci tentano a una lettura moralistica, ma perché è veramente lontanissimo dal nostro modo di percepire la realtà. E fin da subito: da quando in qua non si conoscono i nomi degli “arrivati” e si conoscono invece quelli dei “falliti”?...

Bisogna anche tener conto del brano che la precede (Lc 16,1–13) che parla del cosiddetto “amministratore infedele”!

La difficoltà maggiore però sta nel riuscire a capire (cioè accettare: le cose spesso vanno di pari passo!) per quale ragione il ricco si trovi dopo la morte “nei tormenti” e Lazzaro invece si trovi “nella consolazione” a fianco di Abramo.

Perché una cosa è certa il ricco della parabola non è un “epulone”! Contrariamente a quanto indicano alcune bibbie nei titoli (“Il ricco cattivo e il povero Lazzaro” in BJ) niente nella parabola fa capire che il ricco fosse “cattivo”, anzi!
Né ci può aiutare l’AT dove, ad es., il contadino Amos chiamato da Dio a profetizzare, lancia, otto secoli prima di Cristo, invettive contro i ricchi del paese: Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! [con Sion e Samaria si intende il popolo di Israele]. Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali [quindi recitano salmi, sono molto religiosi questi ricchi!]; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano [ecco l’accusa], . Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.

Ma tutto questo disinteresse, nella parabola del ricco non lo troviamo: non viene detto “e il ricco ignorava Lazzaro”. Anzi possiamo dire che se Lazzaro è stato alla porta del ricco fino alla propria morte, evidentemente qualche vantaggio ne aveva, mangiava le briciole certo, ma aveva di che appagare la propria “bramosia”. Non solo, nel dialogo con Abramo che segue dopo la morte vediamo il ricco che si preoccupa della sorte del suo popolo. I “5 fratelli” stanno proprio a indicare l’insieme del popolo di Israele. Quindi non si può applicare a questo ricco l’anatema di Amos!

Nella parabola non viene detto niente di negativo sul ricco: non che non pagasse le tasse, che non pagasse gli operai, non che rubasse, nemmeno che non pregasse, certo gli piaceva il lusso ma non si fa menzione di “orge di dissoluti”, amava vestire all’ultima moda, fare festa con gli amici, ma non che sperperasse e comunque sia, usava del frutto del proprio lavoro! Insomma non c’è qui nessun ricco cattivo! C’è semplicemente un ricco! Punto!

E Lazzaro? Chi l’ha detto che fosse buono? anzi a ben pensare potremmo immaginare il contrario. Perché era povero? Forse un fannullone, forse un incapace… E le piaghe? Da dove gli venivano?… forse da una vita dissoluta che l’ha portato ad ammalarsi? Dopotutto nella mentalità dell’epoca dietro una malattia c’era sempre un peccato magari occulto!

Neanche di lui sappiamo se pregasse, se facesse del bene… Insomma l’unica caratteristica di Lazzaro era quella di essere povero! Punto!

Muoiono entrambi, come accade ad ogni uomo!
Lazzaro da povero, possiamo immaginarlo morire come un cane in mezzo ai cani. Il ricco da ricco, immaginiamolo pure attorniato dai suoi cari e magari con funerali di Stato!
Ma ecco che nell’aldilà le sorti son capovolte: il ricco nei tormenti e Lazzaro beato a fianco di Abramo. Perché? Abbiamo detto – stando al racconto – senza colpe del ricco e senza meriti di Lazzaro!

Il dialogo fantastico tra il ricco della parabola e l’Abramo della parabola è la chiave della parabola stessa e sbaraglia i nostri riferimenti etici. Intanto diciamo subito che dobbiamo stare attenti a non trarre dal linguaggio e dalle immagini della parabola (di ogni parabola!) conclusioni teologiche. Dobbiamo usarle per decifrare il senso della parabola, per trarre poi dal senso – e mai dalle immagini – conseguenze nell’agire. Insomma in questa parabola non c’è nessuna teologia dell’inferno, del diavolo, della dannazione o di qual si voglia idea dell’aldilà. Gesù parla il linguaggio di allora (storie del genere i rabbini ne raccontavano a iosa per consolare e impaurire), per voler dire qualcosa di più serio e meno fantasioso che riguardi piuttosto l’«aldiqua» (altrimenti rischiamo di vanificare il senso dell’Incarnazione!). D’altronde si chiama “parabola” per questo. Perché il movimento del pensiero e del cuore deve seguire un andamento parabolico: partire dalla riva del fiume e berne il contenuto immergendosi in esso (testo della parabola) e risalire sull’altra riva (vissuto esistenziale del lettore/ascoltatore)! Per questo il suo significato non è mai immediato.

Dobbiamo sapere anche che per il pio israelita, Abramo era un po’ come per noi è la Madonna, a lui si ricorreva per intercessioni e la sua intercessione presso Dio era considerata così potente che aveva il potere di ottenere la liberazione del povero israelita da qualunque tormento dello Sheol (regno dei morti).

Ebbene qui Abramo non solo non libera il ricco che a ben vedere è persino pentito (semmai avesse colpe che però non sono esplicitate), ma gli rifiuta una semplice goccia d’acqua! Pensate a Gesù che invita a dar da bere agli assetati o all’esigenza di perdonare sempre e capirete come i personaggi della parabola sono piegati alla necessità del messaggio che Gesù vuole trasmettere!

Ma insomma se il ricco è senza colpe e il povero senza meriti perché – tanto per usare categorie a noi comuni – il ricco è “all’inferno” e il povero “in paradiso”? La risposta è tanto semplice quanto per noi sconcertante: perché il ricco è ricco e il povero è povero!

Per Gesù infatti non esiste il “ricco buono”! Il “ricco benefattore” è una categoria culturale che non appartiene alla logica evangelica ma è funzionale al sistema di potere che l’ha creata fino a giustificarla teologicamente! (Provate a leggervi l’enciclica di Leone XIII Diuturnum Illud del 1881 – che trovate nel sito del Vaticano – e capirete cosa intendo).

Ed è per questa ragione che per secoli abbiamo censurato questa parabola rendendola moralisticamente inoffensiva!

Contrariamente alle traduzioni comuni nel Vangelo non si parla mai di ricchezza “disonesta” ma di ricchezza “ingiusta” (cfr Lc 16,1–13). “Ingiusto” nella bibbia è antitetico a “giusto”! Ove “giusto” è sempre e solo Dio (e coloro che mettono in pratica la sua Parola). Il giudizio teologico sulla ricchezza è quindi senza appello: la ricchezza è sempre idolatria, negazione di Dio e del suo Vangelo. È il vero Anticristo. O se volete il vero ateo (sarebbe interessante vedere come alcuni atei oggi, sono atei perché si rifiutano di credere nel “dio dei ricchi”).

Perché? Le ragioni sono molteplici e coinvolgono vari aspetti della dimensione umana: politico, sociale, economico, religioso e anche ecologico.
Brevissimamente ne elenco alcuni:
È ingiustizia sociale, economica e politica: se tu hai più del necessario, ciò che possiedi è di fatto rubato a chi non ha di che vivere! E poco importa se chi non ha, non ha per colpe sue (considerarle contraddirebbe il perdono e lasciarli in miseria una forma di vendetta)!
Vive di diffidenza: La struttura dei beni materiali e le dinamiche di una relazione hanno obiettivi e cammini esattamente contrapposti: ogni bene esige e domanda di essere salvaguardato, ogni relazione esige e domanda di potersi “consumare” per l’altro.
Vive di conflitto e guerra (che chiama a volte concorrenza!): L’altro è visto come nemico/ostacolo mai come alleato. L’accaparramento dei beni entra necessariamente in conflitto con le dinamiche di accaparramento altrui: la guerra non è banale possesso dei beni dell’altro o difesa dei propri, ma tentativo di annientamento del “concorrente” identificato necessariamente come “nemico”!
L’amicizia si trasforma in complicità: ogni forma di associazione economica che si fonda sull’accumulo del profitto, per sé o per il gruppo (anche religioso), sottrae beni alla collettività ed è contraria alla vera comunione.
Ci si affida e ci si fida solo di se stessi o meglio dei propri beni:
La dinamica del ricco è la dinamica di chi vuole assicurarsi il futuro, ma così facendo diventa schiavo della paura del futuro! Insomma contraddice tutto il processo di liberazione che comprende non solo la liberazione dal passato (Egitto prima, perdono poi) ma anche dalle angustie del futuro (conquista Terra Promessa prima, salvezza – in senso lato – poi). Il ricco, per quanto devoto egli sia, uccide in sé ogni possibile dinamica religiosa di Speranza nella Promessa, per affidarsi solo alle proprie ricchezze. E chiudersi in esse ad ogni relazione come unica àncora di salvezza… Non è molto diverso dal vitello d’oro! Chi deve “lodare” infatti se non le proprie capacità e i propri beni (oro) per il proprio benessere?

Sia detto per inciso: ciò che è detto qui per i beni cosiddetti “materiali” vale anche per quelli cosiddetti “spirituali”. Ma qui apriremmo un discorso troppo lungo, rimando solo a tutta l’esperienza testimoniata dalle opere di san Giovanni della Croce!

Insomma – per non dilungarmi oltre (pensate solo all’aspetto ecologico, di “non sfruttamento” della natura…) – il ricco, proprio perché ricco è secondo il Vangelo strutturalmente al di fuori di ogni dinamica del Regno di Dio. Nella parabola è espresso chiaramente dall’«abisso» che lo separa dal mondo dei poveri (‘anawim) unici eredi del Regno!

Qual è il giudizio storico-esistenziale che si trae dalla parabola?

Abbiamo già detto che lo scopo della parabola non è parlare dell’aldilà, quindi questo abisso se per esigenze di logica interna alla parabola è posto oltre la morte, in realtà rimanda a quella porta alla cui anta chiusa (se non per buttare la spazzatura) Lazzaro muore!
L’abisso dell’aldilà, è una trasposizione “favolistica” di un abisso che noi sperimentiamo nella nostra vita e che crea incomunicabilità (E. Balducci). Non a caso il ricco si rivolge ad Abramo e non a Lazzaro che pur vede – e riconosce! – accanto a lui! Notate il gioco letterario del ricco che dice ad Abramo di mandare lo “schiavetto” Lazzaro ad attingere acqua: evidentemente era così che lo considerava in terra!...
La cultura che nasce nella consorteria dei ricchi à una cultura che legittima la separazione (E. Balducci). I muri, l’abisso, sono cercati, voluti, costruiti! A difesa del proprio status sociale e culturale e religioso… Ed è proprio questa cultura che succhiamo fin dal seno materno, che ci ha impedito per secoli di scoprire il senso autentico e rivoluzionario e persino eversivo (dal punto di vista del potere costituito) del Vangelo.

Per il ricco non c’è salvezza! Su questo il Vangelo è chiaro senza ombra di dubbio e non tanto nell’aldilà a mo’ di vendetta postuma, ma proprio in quell’aldiqua che il ricco voleva garantirsi! La sua totale incapacità di comunicazione autentica (che si porta incollata, strutturandolo definitivamente fin oltre la morte!), lo condanna definitivamente “hic et nunc”, qui ed ora!

Che fare allora?

Le tracce dove ciascuno può percorrere un cammino di conversione – mai definitivamente compiuto – non possono che venire dal Vangelo stesso. È “buona/bella notizia” per questo no?

Non esistono soluzioni meccaniche, automatiche, ciascuno deve cercare, a partire da un esame che sia culturalmente libero dal codice interpretativo dei soloni della Bocconi, ciò che può fare perché nel mondo sia abolito l’abisso!

Per prima cosa quindi è necessario cominciare ad avere una mentalità che integri in sé una specie di sospetto pregiudiziale per tutte le parole che scendono dagli uomini responsabili i quali, in quanto responsabili del potere, sono costretti ad usare il codice interpretativo dei ricchi (E. Balducci)…

E in questo il Vangelo – e la Bibbia in generale – correttamente letti sono uno strumento formidabile di purificazione della e dalla cultura dominante! Che altrimenti rischia di inquinare persino la nostra preghiera.
Il finale della parabola a questo proposito è sconvolgente per noi che crediamo nella resurrezione di Cristo: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti. Questa espressione, la cui implicazione non poteva sfuggire agli Apostoli, spazza via ogni “spiritualismo magico”: La resurrezione di Cristo non converte nessuno, se non si lascia modellare dalla sua Parola. La fede nella resurrezione non è una fede “a priori” ma è una “scoperta” che ciascuno constata nella propria storia nel vedersi “liberare” giorno dopo giorno nell’ascolto (messa in pratica!) della sua Parola. Altrimenti – perdonatemi il linguaggio – è un credere alle favole! O il minimo che si possa dire è che “non mi/ci serve a niente” (cf i demoni che riconoscono inutilmente che Gesù è l’Unto di Dio)!

Seconda cosa: occorre diffidare delle caricature storiche di ciò che potremmo chiamare Amore, Carità! E cominciare a capire, che seppur necessaria nell’urgenza, deve finire il tempo dell’elemosina!
Perché l’elemosina, invece che abolire l’abisso, lo giustifica in quanto rende tranquilli i ricchi che attraverso elargizioni, fatte per di più anche in maniera vistosa e proclamata, si sentono sulla buona strada, con la coscienza tranquilla (E. Balducci).

Terzo passo è cominciare a vederci e sentirci “amministratori” e non padroni dei beni che “possediamo” (e sempre provvisoriamente: anche perché con la morte dobbiamo tutto riconsegnare!). La manna che non può essere accumulata, il pane che è “quotidiano”, stanno a sottolineare che tutto è dono di Dio per tutti e non per qualcuno in particolare. E di questa gestione, la storia, la coscienza, Dio, il fratello, ci chiederanno conto!

Quarto: il fratello appunto. Curioso che mentre noi – credendoci religiosi e spirituali – pensiamo al giudizio di Dio, Dio ci rimanda sempre al giudizio del fratello! Questa per il Vangelo è la vera spiritualità, la vera trascendenza: la comunione col fratello (peccatore! E non quello che ci piace e compiace).

Se non abbiamo il coraggio di “donare tutto ai poveri” e di seguire Gesù (Lc 18,18ss), almeno facciamoci furbi e cerchiamo di farci degli amici (poveri!: erano in debito verso il ricco) con la ricchezza ingiusta! Non per fare l’elemosina però ma per smantellare le strutture che la rendono necessaria.
Come in Lc 16,1ss: In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore ingiusto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza ingiusta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne…
Concludendo: smettiamola di pensare alla fede come ad una adesione a verità astratte. La fede è fare, è combattimento prima di tutto in noi stessi perché lo sguardo d’amore del Padre su ogni persona diventi l’unico criterio che guida i nostri passi: “Combatti la buona battaglia della fede” dice san Paolo a Timoteo (1Tm 6,11ss)… Se non stiamo attenti, vigilanti, rischiamo di ridurla a una passeggiata domenicale in chiesa!

martedì 12 giugno 2012

XI Domenica del Tempo Ordinario (B)


Questa Domenica ricomincia (finalmente!) il Tempo Ordinario e la Chiesa ci propone due delle tre parabole del seme raccolte nel quarto capitolo di Marco. Lascio parlare in proposito due esegeti che alimentano da tempo le mie riflessioni, perché mi paiono capaci di rendere davvero bene l’idea di ciò che vi è in gioco, più di quello che forse sarei in grado di fare io.

«La vita è più di quello che si vede.Gesù trovò buona accoglienza fra quella gente della Galilea, ma sicuramente non risultava facile a nessuno credere che il regno di Dio stesse arrivando. Non vedevano nulla di particolarmente grande in quanto Gesù faceva; ci si attendeva qualcosa di più spettacolare. Dove sono quei “segni straordinari” di cui parlavano gli scrittori apocalittici? Dove si può vedere la terribile forza di Dio? Come può Gesù assicurare che il regno di Dio è già fra di loro?

Gesù dovette insegnar loro ad “avvertire” la presenza salvifica di Dio in maniera diversa, e cominciò suggerendo che la vita è più di quello che si vede; mentre noi viviamo in maniera distratta gli aspetti apparenti della vita, all’interno dell’esistenza avviene qualcosa di misterioso. Gesù mostra loro i campi della Galilea: mentre essi camminano per quelle strade senza vedere nulla di speciale, sotto quelle terre sta avvenendo qualcosa che trasformerà il seme seminato in un bel raccolto. Lo stesso avviene nel focolare: mentre si svolge la vita quotidiana della famiglia, qualcosa si verifica segretamente all’interno della massa della farina, preparata all’alba dalle donne; presto tutto il pane sarà fermentato. Così avviene con il regno di Dio. La sua forza salvifica è già all’opera all’interno della vita, e trasforma tutto in maniera misteriosa. La vita sarà come la vede Gesù? Dio sarà silenziosamente all’opera all’interno del nostro stesso vissuto? Sarà questo il segreto ultimo della vita?

La parabola che più sconcertò tutti fu forse quella del seme di senape.





Gesù avrebbe potuto parlare di un fico, di una palma o di una vigna, come faceva la tradizione; invece, in maniera sorprendente, sceglie intenzionalmente il seme di senape, considerato proverbialmente come il più piccolo di tutti: un granello delle dimensioni di una capocchia di spillo, che con il tempo diventa un arbusto di tre o quattro metri, su cui in aprile si rifugiano piccoli stormi di cardellini, cui piace molto mangiarne i chicchi. I contadini potevano contemplare la scena in qualunque tramonto.

Il linguaggio di Gesù è sconcertante e senza precedenti. Tutti attendevano la venuta di Dio come qualcosa di grande e possente; si ricordava in maniera particolare l’immagine del profeta Ezechiele, che parlava di un “cedro magnifico” piantato da Dio su “una montagna elevata ed eccelsa”, che “avrebbe messo fuori rami e prodotto frutti”, servendo da riparo a ogni sorta di passeri e uccelli del cielo. Per Gesù, la vera metafora del regno di Dio non è il cedro, che fa pensare a qualcosa di grandioso e possente, bensì la senape, che suggerisce qualcosa di debole, insignificante e piccino.

La parabola dovette penetrare profondamente in loro. Come poteva Gesù paragonare il potere salvifico di Dio a un arbusto uscito da un seme così piccino? Si doveva abbandonare la tradizione che parlava di un Dio grande e possente? Bisognava dimenticare le sue grandi gesta del passato ed essere attenti a un Dio che è già in azione in ciò che è piccolo e insignificante? Avrebbe forse ragione Gesù? Ognuno doveva decidere: o continuare ad attendere l’arrivo di un Dio possente e terribile, o arrischiarsi a credere nella sua azione salvifica presente nell’umile operato di Gesù.

Non era una decisione facile; che cosa ci si poteva attendere da qualcosa di così insignificante come quanto stava accadendo in quegli sconosciuti villaggi della Galilea? Non bisognava fare qualcosa di più per forzare gli eventi? Gesù poteva comprovare l’impazienza che regnava in non poche persone. Per contagiarle con la sua fiducia totale nell’azione di Dio, propone come esempio quanto avviene del seme che il seminatore semina nella sua terra.

Gesù li rende attenti a una scena che sono abituati a contemplare tutti gli anni nei campi della Galilea: dapprima terre seminate dai contadini; dopo pochi mesi, campagne coperte di messi. Ogni anno, alla semina segue con piena sicurezza il raccolto. Nessuno sa bene come, ma qualcosa si verifica misteriosamente sottoterra. Lo stesso avviene con il regno di Dio: esso è già all’opera in maniera occulta e segreta; vi è soltanto da attendere che giunga il raccolto.

L’unica cosa che il contadino fa è deporre in terra la semente; fatto questo, il suo compito è concluso. La crescita della pianta non dipende più da lui; egli può coricarsi tranquillo alla fine di ogni giornata, sapendo che la sua semente si sta sviluppando; può alzarsi ogni mattina e comprovare che la crescita non si arresta; nelle sue terre sta succedendo qualcosa senza che egli se lo sappia spiegare. Non rimarrà deluso; a suo tempo, avrà il suo raccolto.

Quel che importa realmente, non è il seminatore a farlo; il seme germoglia e cresce sotto l’impulso di una forza misteriosa che a lui sfugge. Gesù descrive in ogni dettaglio questa crescita, affinché i suoi uditori la possano quasi vedere. All’inizio dalla terra spunta soltanto un filo insignificante di erba verde, poi compaiono le spighe; più tardi si possono già osservare gli abbondanti chicchi di frumento. Tutto avviene senza che il seminatore abbia dovuto intervenire, perfino senza che sappia davvero bene come tale meraviglia si produca.

Tutto contribuisce in qualche modo a far sì che un giorno giunga il raccolto: il contadino, la terra e la semente. Ma Gesù invita tutti ad avvertire in questa crescita l’azione occulta e potente di Dio. La crescita della vita che si può osservare anno dopo anno nei campi seminati è sempre una sorpresa, un dono, una benedizione di Dio. Il raccolto va al di là dello sforzo che i contadini hanno potuto compiere. Qualcosa del genere si può dire del regno di Dio. Non coincide con gli sforzi che qualcuno può fare: è un dono di Dio immensamente superiore a tutti gli affanni e i travagli degli essere umani», J. A. Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla, Roma 20102, 138-141.

Ciò che vi è in gioco in queste parabole dunque è prima di tutto una conversione sull’idea di Dio che abbiamo in testa: innanzitutto il fatto che «è il Regno stesso, già deposto nella storia come un seme, che viene, non sono gli uomini a farlo venire. […] L’atteggiamento prioritario del cristiano nel mondo [dunque] è l’attesa fiduciosa. Perché il regno di Dio non è cosa degli uomini, ma di Dio. Non è una realtà da ‘forzare’, come facevano gli zeloti al tempo di Gesù o come sono tentati di fare gli attivisti cristiani in ogni tempo. Il regno di Dio non è questione di organizzazione oppure di efficienza, ma semplicemente di accoglienza» [B. Maggioni, Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano 20036, 39].

E di un’accoglienza tutta particolare, perché «evidentemente la pretesa di Gesù di essere l’inizio del Regno esige una profonda conversione ‘teologica’ prima che morale: anche nel tempo del compimento Dio non pianta alberi ma getta semi. È un modo assolutamente nuovo di intendere il compimento!

Il primo scopo della similitudine non è di invitare alla speranza o di suggerire all’uomo come comportarsi nei confronti di Dio. Essa piuttosto vuole suggerire una maniera diversa di immaginare la presenza del Regno nella storia. La similitudine è teologica. Ne consegue che il modo peggiore di interpretarla è quello di applicare l’immagine del seme al ministero di Gesù (e, eventualmente, della Chiesa primitiva) e quella dell’albero alla Chiesa. In realtà, il tempo di Gesù non è solo l’inizio e il fondamento del tempo della Chiesa, ma il ‘codice genetico’ che ne determina l’identità, la fisionomia e il carattere. Anche quello della Chiesa è tempo di semi, non di alberi. E sempre sorge la domanda: è qui il regno di Dio? Capovolgere la similitudine partendo dall’albero – eravamo un piccolissimo seme e ora siamo una grande comunità! – significa fraintenderla. Gesù l’ha raccontata per coloro che vivono nella situazione del seme» [Ivi, 45].
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