Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

Visualizzazione post con etichetta male. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta male. Mostra tutti i post

martedì 16 settembre 2014

XXV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 55,6-9)

Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 1,20-24.27)

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 20,1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Il Vangelo che la Liturgia ci propone per questa XXV Domenica del Tempo Ordinario, è costituito interamente da una parabola. Essa è collocata immediatamente dopo l’episodio del giovane ricco (Mt 19,16-22) e le considerazioni che Gesù fa a proposito della ricchezza («Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli», Mt 19,23ss) e della rinuncia («Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt 19,27ss). Queste considerazioni terminano con il versetto 30 («Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi»), che, non a caso, è del tutto identico a quello con cui finisce anche il brano successivo, cioè il nostro. In questo modo infatti si crea una certa continuità, tanto che qualche studioso afferma che, a differenza della classica divisione dei brani, questo versetto 30 sarebbe quello iniziale della parabola degli operai della vigna e non tanto quello finale di ciò che precede.

In ogni caso ciò che interessa è come questa cornice in cui la parabola è incastonata (19,30 e 20,16: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi»), ne suggerisca immediatamente la tematica: essa è infatti quella del giudizio, della giustizia di Dio: «Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi»... anche se poi, seguendo la narrazione, sarà curioso notare che non è vero che nella parabola i primi sono abbassati; piuttosto saranno innalzati gli ultimi...

Ma procediamo con calma... soffermandoci per un attimo sulle caratteristiche che delineano questa parabola e le sue simili in una vera e propria “categoria”.

Le parabole evangeliche infatti potrebbero essere classificate in due gruppi:

-          vi sono “le miniparabole del Regno”, che, forse anche per la loro breve estensione, tutti ricordano;

-          e vi sono “le macroparabole” in cui prevale invece la forma della narrazione («Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti...», Mt 10,30ss; «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano...», Lc 19,12ss) e che per questo hanno anche dimensioni più rilevanti.

Le parabole di quest’ultimo tipo oltre ad avere un’estensione narrativa più elaborata (è raccontata una vicenda), si presentano spesso anche come enigmatiche e difficili da capire. Si deve supporre perciò, che quando Gesù le pronuncia, lo fa rivolgendosi ad un contesto di interlocutori religiosamente colti, in grado di percepirne la complessità e la paradossalità; a gente quindi allenata a questo tipo di racconto e alla discussione che poi ne nasce: non a caso infatti nascono solitamente in un contesto a lui ostile.

Anche le tematiche che affrontano, confermano questa sensazione di complessità: non si tratta più semplicemente dell’annuncio diretto dell’arrivo del Regno di Dio, ma si intavolano argomenti quali la ricchezza, la giustizia di Dio, il giudizio, il perdono... mettendo in scena tra l’altro non più semplicemente il contadino, ma un amministratore, un fattore, ecc...

Tutto questo per dire che la nostra parabola rientra proprio nel gruppo di quelle “difficili”; di quelle cioè che richiedono un percorso più impegnativo per essere capite fino in fondo e che è quindi giustificata la sensazione di frastornamento che abbiamo avuto ad una prima lettura.

domenica 1 marzo 2009

Gettati nella mischia per essere figli

Miguel Angel Reyes - Llave, Lotta
Spinti tra le braccia di Satana per incontrare quelle del Padre?
L’espressione evangelica “tentato da Satana” (peirazómenos úpò toū satanā) esige prima di tutto una comprensione del significato delle parole tentare e tentazione…
Tentazione e tentato (dal verbo tentare) sono espressioni strettamente collegate rispettivamente al sostantivo tentativo (péira) e al verbo tentare (peiráō): queste espressioni hanno in sé il concetto di “portare al di là”, “portare fuori”, “sforzarsi di arrivare oltre” (cf Tentazione in Diz. Teol. Concetti N.T., ed. EDB)… e quindi per estensione tentare, mettere alla prova, provare, misurare, valutare, verificare, soppesare, pesare, spingere oltre… L’immagine che più si avvicina è quella delle “prove di resistenza” dei materiali che si fanno nei laboratori scientifici: si porta il campione al punto di rottura e se ne conoscono così le qualità di resistenza (alla trazione, compressione e torsione…) per permetterne l’uso adeguato alle sue “capacità”…

Ma cosa, chi, spingere oltre? E dove? Oltre il proprio limite per valutarne la tenuta!
In questo senso “tentare Dio” è un’espressione usata anche nell’AT. È volerne misurare la pazienza, la misericordia, portarlo al limite di sopportazione per misurarne i limiti: “voglio vedere quanto resisti a…”: volermi bene, essermi amico, proteggermi, sopportarmi, a sopportare… (da qui gli attestati continui alla infinita misericordia di Dio, alla sua infinita grandezza, potenza, ecc.!). È evidente qui come essa sia quindi collegata a una mancanza di fiducia, di fede: “non ci credo veramente che sei capace di”… volermi bene, essermi amico, proteggermi, sopportarmi, a sopportare…!

Sempre in questo senso anche nel libro di Giobbe, ancora Satana propone a Dio di misurare la fedeltà di Giobbe! E Dio acconsente!?! «Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai…» (1,11)!

Persino Giobbe rimprovera proprio questo a Dio: «Che cosa è l’uomo perché tu lo renda grande e presti a lui attenzione, e lo visiti ogni mattina mettendolo alla prova ad ogni istante?» (7,17ss). E anzi lo sfida: «Ma egli conosce la strada che io prendo; se mi provasse, ne uscirei come l’oro» (23,10)… Dai, provaci! Ti terrò testa!

Interessante notare anche il cinismo degli amici: : «Sia dunque Giobbe provato sino alla fine, perché le sue risposte sono come quelle degli uomini malvagi» (34,36)… Ovvio, direbbe san Giovanni, chi non si fida di Dio, come può fidarsi degli uomini, e viceversa?

Ma Giobbe in fondo invece si fida, da qui la sua “confessione di fede” nell’impossibilità di misurare Dio: «Oh, sapessi dove trovarlo, per poter arrivare fino al suo trono! Esporrei la mia causa davanti a lui, riempirei la mia bocca di argomenti. Saprei le parole con le quali mi risponderebbe, e capirei ciò che avrebbe da dirmi. Contenderebbe egli con me con grande forza? No, invece mi presterebbe attenzione. Là l’uomo retto potrebbe discutere con lui, così sarei assolto dal mio giudice per sempre. Ecco, vado ad oriente, ma là non c'è; ad occidente, ma non lo scorgo; opera a settentrione, ma non lo vedo; si volge a mezzogiorno, ma non riesco a vederlo» (23,3-9).

E cioè qualora il metro dell’attenzione, della discussione e dell’assoluzione è quello del “cercare di”… sapere, capire, contendere, come tentativo di “misurare”, vagliare, tentare Dio, coerentemente non si può che concludere che, visto che “non riesco a” sapere (non so!), a capire (non capisco!), a dialogare (non contendo!)..., non si può non affermare che allora Dio non mi presta attenzione, non si può discutere con lui, non può assolvermi! Cioè c’è già qui presente in modo abbastanza inaudito per il nostro pensiero occidentale, che la conoscenza di Dio è influenzata dal mio rapporto con lui e non il contrario: se non mi fido di lui, non posso, non solo conoscerlo, ma neanche volerlo conoscere! È solo la fede-fiducia reciproca che ci permette di incontrarLo e di incontrarci! E questo vale anche tra gli uomini!

Questo per dire che il tema della “tentazione” è un tema talmente fondamentale che necessariamente è sotteso a tutto il discorso biblico e non basta cercare la parola “tentazione” ma occorre cercare il contenuto semantico che essa esprime cioè tutte quelle espressioni che in un modo o nell’altro rimandano a ciò che i lemma “tentare” e “tentazione” significano: e non solo le espressioni “affini” (si veda ad esempio i termini “stanchezza”, “stanco”...) ma anche i gesti e i comportamenti, come abbiamo visto nel Satana in Giobbe, dove la parola tentazione di per sé non c’è, ma c’è l’azione del tentare, del provare…
E questo ci fa dire che se è vero che il tema dei 40 giorni del Vangelo di oggi richiama il cammino nel deserto, l’idea della tentazione rinvia a tutta la storia di Israele e anzi dell’umanità! Al rapporto uomo-Dio, Dio-uomo e al rapporto uomo-uomo!
È chiaro che sviluppare adeguatamente questo tema esigerebbe la rilettura integrale della Bibbia sotto questa prospettiva…

Ora in tutte queste “tentazioni” nel senso sopra brevissimamente esposto che cosa è in questione? A cosa dobbiamo “resistere”?

Sempre prendendo da Giobbe (ma Alessandro D'Alatri: Il giardino dell'Eden, Gesù è spinto nel desertovedi anche ad esempio Abramo e il “sacrificio” di Isacco in Genesi 22)… quello che è in questione, non è tanto in primis l’idea che io ho di Dio, il “chi è Dio?”, “il suo volto”, ma il nostro rapporto con lui. La questione è “come ci relazioniamo con lui? (Eva, Abramo, Mosè, Israele, Gesù…)! La bibbia dice il “chi” attraverso la storia della “relazione”: ed è proprio questo a cui rimanda il nome di Dio rivelato a Mosè, Yhwh.

Insomma è il nostro rapporto con l’altro che ci rivela chi è l’altro: se lo trattiamo da nemico, lo vediamo nemico e non lo conosciamo affatto! Ecco perché “bisogna” amare il nemico: uno non “è” nemico, lo facciamo nemico, decidiamo noi che sia così o meglio lo lasciamo decidere alle le nostre paure di cui diventiamo schiavi. In una parola Dio, l’uomo, la donna, il creato, ci è nemico se gli siamo nemici, ci sono stranieri se decidiamo di essergli straniero!

Il Tentatore è proprio colui che accusa (da cui il nome satana: a cui si oppone la difesa dello Spirito e Gesù come “avvocati, difensori”, mediatori, intercessori) uno dei “poli” del rapporto di amicizia (alleanza): Dio (Genesi, e qui nel Vangelo), l’uomo (Giobbe, e sempre qui nel Vangelo) e cerca di creare una rottura, una crasis: divide (da cui il nome diavolo: a cui si oppone la comunione nello Spirito di Cristo) con lo scopo di porre se stesso come centro di una relazione asimmetrica (Mammona, qui Satana cfr passi Mt 4,1ss; Lc 4,1ss)… Incredibile, nel nostro brano genesiaco, il passo in cui Dio si pente di essersi pentito di aver creato l’uomo: anche Dio cioè si “confessa” di aver ceduto alla tentazione… ed è tentato di cedervi… e lo tentiamo ogni volta che gli chiediamo di usare il nostro criterio di giustizia! Ma Dio da Noè, ha deciso di esserci Padre e di esserlo per tutti! O almeno questo è il significato che l'episodio biblico dell'arca ci vuole trasmettere: non sognatevi di pensare che Dio possa cessare un giorno di esserci Padre (o non esserlo per il malvagi!)... perché da sempre ha deciso di esserci Padre e mai si rimangerà la propria paternità, anche se lo tentiamo! Anche se, assumendo il ruolo di accusatori (satan) cerchiamo di separare (diaballo) il Padre dai suoi figli e i figli dal loro Padre (magari per tenercelo tutto per noi: cf Caino)...

La questione è insomma il “tentativo” di mettere in discussione la figliolanza: “il nostro essere figlio/a!” a cui cor-“risponde” l’espressione “padre”, “mio padre”, “padre vostro”, “padre nostro”: che non a caso sono “in-vocazione”, preghiera e che qui sono tutte espressioni implicite nel termine “tentazione” come loro negazione, gli altri evangelisti invece esplicitano le tentazioni col rischio però di ridurle ad alcuni aspetti della vita, mentre è la Vita tout-court che è tentata (persino in Dio, persino del Padre) di diventare Morte, di restare senza figli, sterile, perché i figli sempre sono anche un problema, che scombussolano la vita, persino di Dio!

Tornando al Vangelo, la Tentazione (con la t maiuscola) permanente di Gesù e la nostra, non è la tentazione moralistica e pulsionale della nostre “voglie”, la Tentazione è quella per cui Gesù ha pregato e ci invita a pregare “non ci indurre in tentazione”… di cui il “non abbandonarci nella prova” è solo un aspetto! Una traduzione più vicina a noi non ci esime dalla comprensione profonda… Allora questa prova in cosa consiste? È un termine complesso abbiamo visto, che non è spingere al peccato, anzi il peccato ne è la conseguenza…

Sostanzialmente quindi il problema della tentazione è il decidersi di “non voler stare solo” (Dio col diluvio, Adamo), “non volersi fare da sé” (peccato di Adamo… e per questo Dio nella storia si serve di “inviati”, profeti, apostoli), rifiutare il parricidio (Gesù), il figlicidio (Dio a Noè, la Risurrezione di Cristo)!
Allora che cosa vuol dire essere figlio (e per converso Padre)? Essere figlio vuol dire lasciarsi coinvolgere in una storia di comunione (alleanza) con Dio che solo allora “diventa” Padre. Questa storica concreta di comunione, Gesù la chiama “Regno”! Decidere di lasciarsi coinvolgere in una avventura nuova con Dio accolto come Padre… ecco perché Gesù subito annuncia il Regno… ecco perché conversione vuol dire “cambiare direzione” proprio come tentazione, vuol dire andare “al di là” del rapporto, emanciparsi, rompere il rapporto, cambiare strada, costruirsi una storia per conto proprio, solipsisticamente… Ecco allora la sola vera tentazione presente in ogni tentazione: di chi vuoi essere figlio? «“Se” sei figlio… non è possibile che», “il tuo essere figlio… ti dà diritto di..”, ecc.

Il deserto come dimensione permanente del cammino nello Spirito!
Anche lo Spirito “tenta”, anche Satana “spinge”: solo che uno spinge al deserto (le prove di Giobbe) cioè all’abolizione di ogni stampella nell’affidarsi a Dio: e là, la fede o cresce o crolla. Ma in questo senso dal deserto non si deve mai uscire, se non si vuole uscire dalla fede, dal rapporto con Dio, in cui ci decidiamo (“sì o no”) come figlio. Da questo nuovo rapportarsi con Dio, “nasce”, prende corpo allora il volto nuovo di Dio, che si rivela solo allora Padre, nella misura in cui noi accettiamo di farci figli! Ecco perché Gesù rivela il Padre: in quanto figlio! Non per intervento “magico” ma per radicale figliolanza!
Alessandro D'Alatri: Il giardino dell'Eden, Gesù è provocato e si lascia pro-vocare
Dobbiamo stare attenti a non vedere i vari racconti di Gesù come se fossero separati tra di loro, come grani di un rosario… Come se Gesù una volta superata la prova si fosse lasciato il deserto dietro le spalle… Gesù e il discepolo sono nel deserto tutta la vita… non ne escono mai perché si lasciano guidare dallo Spirito e quindi ogni istante la loro figliolanza è “provata”: "Gesù fu tentato in tutto come noi, eccetto che nel peccato" (Eb 4,15): sempre, fin che era nella storia! L’illusione che noi abbiamo di porre fine alla tentazione è essa stessa una tentazione, una fuga, perché pretende di sottrarci dall’azione dello Spirito…

Infatti appena Gesù esce dal un deserto ne entra in uno ben più grande: Giovanni è stato ammazzato! Ma questo lo spinge ulteriormente ad andare oltre, ad impegnarsi, a gettarsi nella mischia, non a fuggire, ed annuncia il Vangelo!

Spero che siano chiari ora i due movimenti contrari: lo Spirito spinge alla lotta, satana alla fuga! L’uno alla comunione, l’altro alla separazione…
Per questo appare fondamentale notare che anche lo Spirito (pneuma) “spinge”, “getta oltre”, “getta, spinge fuori” (ekballei) ma nel deserto cioè tra le braccia di satana, perché forza alla lotta, lo Spirito cerca lo scontro (cf “addestra le mie mani alla battaglia” Salmo 22,35)… È veramente “strano” il cristianesimo, mentre tutte le religioni spingono alla fuga dal male… lo Spirito spinge all’incontro, ad affrontarlo…. vittoriosamente! Si veda Paolo in 1 Cor 12,9 quando chiede di essere liberato dalla “prova” e Gesù risponde: ti basti la mia grazia!... È come se Dio lottasse contro la sua stessa tentazione di non esserci più Padre (siamo fatti a sua immagine anche in questo?!) in un vero corpo a corpo (cf Gen 32,26 in cui Giacobbe costringe Dio ad essergli Padre: «Non ti lascerò andare, se non mi avrai prima benedetto! E vince! E Dio si lascia vincere perché vuole “essere” e rivelarsi Padre) e ci spingesse per questo a lottare contro la tentazione di non esserGli più figlio: perché se non c’è il figlio, non c’è il padre! E così scopriamo che nemmeno Dio è Padre “automaticamente”… ma decide di esserlo in ogni istante “restando fedele a se stesso”… Insomma saremmo stati “tentati” anche se non avessimo mai ceduto alla tentazione, anche se non esistesse il peccato originale…

Lo Spirito, il deserto-satana e la prova sono quindi l’itinerario di un solo movimento che spinge tra le braccia del Padre e dei fratelli… attraverso “l’abbraccio” con satana! Altro che la banalizzazione che noi facciamo del diavolo: il Vangelo risponde qui al nostro peccato (si badi bene: dico peccato, non tentazione!) che ci fa credere che il diavolo, l’accusatore, il nemico, sia l’altro o sia altrove, invece siamo noi stessi, è dentro di noi, è persino in Dio: è la voglia che noi abbiamo di starcene da soli in pace, senza troppi problemi! È la tentazione solipsista!

Allora, l’amore del Padre e l’amore del figlio, si concretizzano storicamente in una storia che nella maturazione del loro rapporto, li fa Padre e figlio in una storia comune che si chiama Regno, giustizia nuova, nuova alleanza! Ed ecco perché Gesù è nuovo Mosè, guida autentica di una alleanza rinnovata: conduce al Padre, perché conduce all’unica figliolanza possibile! La scoperta del volto di Dio, insomma non nasce da uno studio biblico, né teologico, né filosofico, né da una testimonianza strettamente intesa… ma nasce da un incamminarsi, ingaggiarsi, gettarsi nella mischia, coinvolgesi e lasciarsi coinvolgere in una storia in cui noi accettiamo di rivelarci al volto di Dio come figlio/a e questo ci rivela Dio come Padre e lo rivela agli altri uomini chiamati ad essere figli: infatti è il Figlio che rivela il Padre… e più uno è figlio e più mostra il Padre: nostro compito (conversione) allora è fare che Dio ci sia Padre. Fare che il Padre sia! Ed è quello che ci testimoniano gli apostoli e qui la prima lettera di Pietro!

Sinteticamente, nella lettera agli Ebrei (5,8) c’è espresso analogamente lo stesso pensiero: come Gesù anche per noi, è imparando l’obbedienza, è facendoci figli, che riconosciamo il volto di Dio come volto di Padre, cioè volto salvifico: costi quel che costi (il deserto, la lotta: cf Apocalisse), altrimenti sarebbe cedere alla tentazione, rompendo il legame, l’alleanza, la figliolanza, la familiarità! Ma uccidendo il Padre, uccidiamo necessariamente il figlio che noi siamo!

Alessandro D'Alatri: Il giardino dell'Eden, Gesù vince e accoglie la pro-vocazione

sabato 20 dicembre 2008

Gente perbene!


La cosa enormemente tragica che emerge in questi giorni è che nessuno dei coinvolti delle inchieste napoletane aveva la percezione dell'errore, tantomeno del crimine. Come dire ognuno degli imputati andava a dormire sereno. Perché, come si vede dalle carte processuali, gli accordi non si reggevano su mazzette, ma sul semplice scambio di favori: far assumere cognati, dare una mano con la carriera, trovare una casa più bella a un costo ragionevole. Gli imprenditori e i politici sanno benissimo che nulla si ottiene in cambio di nulla, che per creare consenso bisogna concedere favori, e questo lo sanno anche gli elettori che votano spesso per averli, quei favori. Il problema è che purtroppo non è più solo la responsabilità del singolo imprenditore o politico quando è un intero sistema a funzionare in questo modo.


Oggi l'imprenditore si chiama Romeo, domani avrà un altro nome, ma il meccanismo non cambierà, e per agire non si farà altro che scambiare, proteggere, promettere di nuovo. Perché cosa potrà mai cambiare in una prassi, quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo. Che un simile do ut des sia di fatto corruzione è un concetto che moltissimi accoglierebbero con autentico stupore e indignazione. Ma come, protesterebbero, noi non abbiamo fatto niente di male!

E che tale corruzione non vada perseguitata soltanto dalla giustizia e condannata dall'etica civile, ma sia fonte di un male oggettivo, del funzionamento bloccato di un paese che dovrebbe essere fondato sui meccanismi di accesso e di concorrenza liberi, questo risulta ancora più difficile da cogliere e capire. La corruzione più grave che questa inchiesta svela sta nel mostrarci che persone di ogni livello, con talento o senza, con molta o scarsa professionalità, dovevano sottostare al gioco della protezione, della segnalazione, della spinta.

Non basta il merito, non basta l'impegno, e neanche la fortuna, per trovare un lavoro. La condizione necessaria è rientrare in uno scambio di favori. In passato l'incapace trovava lavoro se raccomandato. Oggi anche la persona di talento non può farne a meno, della protezione. E ogni appalto comporta automaticamente un'apertura di assunzioni con cui sistemare i raccomandati nuovi.

Non credo sia il tempo di convincere qualcuno a cambiare idea politica, o a pensare di mutare voto. Non credo sia il tempo di cercare affannosamente il nuovo o il meno peggio sino a quando si andrà incontro a una nuova delusione. Ma sono convinto che la cosa peggiore sia attaccarsi al triste cinismo italiano per il quale tutto è comunque marcio e non esistono innocenti perché in un modo o nell'altro tutti sono colpevoli. Bisogna aspettare come andranno i processi, stabilire le responsabilità dei singoli. Però esiste un piano su cui è possibile pronunciarsi subito. Come si legge nei titoli di coda del film di Francesco Rosi "Le mani sulla città: "I nomi sono di fantasia ma la realtà che li ha prodotti è fedele".

Indipendentemente dalle future condanne o assoluzioni, queste inchieste della magistratura napoletana, abruzzese e toscana dimostrano una prassi che difficilmente un politico - di qualsiasi colore - oggi potrà eludere. Non importa se un cittadino voti a destra o a sinistra, quel che bisogna chiedergli oggi è esclusivamente di pretendere che non sia più così. Non credo siano soltanto gli elettori di centrosinistra a non poterne più di essere rappresentati da persone disposte sempre e soltanto al compromesso. La percezione che il paese stia affondando la hanno tutti, da destra a sinistra, da nord a sud. E come in ogni momento di crisi, dovrebbero scaturirne delle risorse capaci di risollevarlo. Il tepore del "tutto è perduto" lentamente dovrebbe trasformarsi nella rovente forza reattiva che domanda, esige, cambia le cose. Oggi, fra queste, la questione della legalità viene prima di ogni altra.

L'imprenditoria criminale in questi anni si è alleata con il centrosinistra e con il centrodestra. Le mafie si sono unite nel nome degli affari, mentre tutto il resto è risultato sempre più spaccato. Loro hanno rinnovato i loro vertici, mentre ogni altra sfera di potere è rimasta in mano ai vecchi. Loro sono l'immagine vigorosa, espansiva, dinamica dell'Italia e per non soccombere alla loro proliferazione bisogna essere capaci di mobilitare altrettante energie, ma sane, forti, mirate al bene comune. Idee che uniscano la morale al business, le idee nuove ai talenti.

Ho ricevuto l'invito a parlare con i futuri amministratori del Pd, così come l'invito dell'on del Pdl Granata ad andare a parlare a Palermo con i giovani del suo partito. Credo sia necessario il confronto con tutti e non permettere strumentalizzazioni. Le organizzazioni criminali amano la politica quando questa è tutta identica e pronta a farsi comprare. Quando la politica si accontenta di razzolare nell'esistente e rinuncia a farsi progetto e guida. Vogliono che si consideri l'ambito politico uno spazio vuoto e insignificante, buono solo per ricavarne qualche vantaggio. E a loro come a tutti quelli che usano la politica per fini personali, fa comodo che questa visione venga condivisa dai cittadini, sia pure con tristezza e rassegnazione.

La politica non è il mio mestiere, non mi saprei immaginare come politico, ma è come narratore che osserva le dinamiche della realtà che ho creduto giusto non sottrarmi a una richiesta di dialogo su come affrontare il problema dell'illegalità e della criminalità organizzata. Il centrosinistra si è creduto per troppo tempo immune dalla collusione quando spesso è stato utilizzato e cooptato in modo massiccio dal sistema criminale o di malaffare puro e semplice, specie in Campania e in Calabria. Ma nemmeno gli elettori del centrodestra sono felici di sapere i loro rappresentanti collusi con le imprese criminali o impegnati in altri modi a ricavare vantaggi personali. Non penso nemmeno che la parte maggiore creda davvero che sia in atto un complotto della magistratura. Si può essere elettori di centrodestra e avere lo stesso desiderio di fare piazza pulita delle collusioni, dei compromessi, di un paese che si regge su conoscenze e raccomandazioni.

Credo che sia giunto il tempo di svegliarsi dai sonni di comodo, dalle pie menzogne raccontate per conforto, così come è tempo massimo di non volersela cavare con qualche pezza, quale piccola epurazione e qualche nome nuovo che corrisponda a un rinnovamento di facciata. Non ne rimane molto, se ce n'è ancora. Per nessuno. Chi si crede salvo, perché oggi la sua parte non è stata toccata dalla bufera, non fa che illudersi. Per quel che bisogna fare, forse non bastano nemmeno i politici, neppure (laddove esistessero) i migliori. In una fase di crisi come quella in cui ci troviamo, diviene compito di tutti esigere e promuovere un cambiamento.

Svegliarsi. Assumersi le proprie responsabilità. Fare pressione. È compito dei cittadini, degli elettori. Ognuno secondo la sua idea politica, ma secondo una richiesta sola: che si cominci a fare sul serio, già da domani. (20 dicembre 2008)

venerdì 18 luglio 2008

Il tempo della pazienza: il male nel cuore di Dio!

il tempo della pazienza
il rapporto con il Dio rivelato da Gesù è così intrecciato con il nostro atteggiamento profondo verso le vicende della terra e il mistero dell’uomo, da fondersi in un’unica tensione o passione interiore, che tiene insieme i due termini. La benevolenza di Dio verso il mondo, la sua infinita apertura di cuore alla resistenza dell’uomo, la sua scandalosa tenerezza nel tenersi in cuore i ribelli al suo affetto, ci sono rivelati nel… seminatore della prima parabola, ostinatamente convinto che la terra, anche arida, spinosa o calpestata… va inondata di messaggi d’amore!
Come dice la Sapienza “tu hai cura di tutte le cose… le governi con indulgenza… inoltre hai reso i tuoi figli pieni di dolce speranza, perché tu concedi dopo i peccati la possibilità di pentirsi”. La storia è il tempo della pazienza senza limiti né scadenze, se non nella dolce speranza del perdono! Questi sono i misteri implosi nella fondazione del mondo, che Gesù con queste parabole vuol fare emergere come l’eruzione della lava da un vulcano. S. Gerolamo traduce: eructabo abscondita a constitutione mundi – erutterò i segreti nascosti nella fondazione (dell’universo!)
… ma non avevi seminato buon seme: da dove viene il male?!
Non è un seminatore ingenuo! la sua Parola non censura il male, i malvagi, le sofferenze, il dolore. Ma la sua infinita paziente benevolenza si affida alla terra (all’avventura della storia umana) anche se è dura, refrattaria e ostile. Questo padrone del campo accoglie dolcemente lo scandalo dei “buoni zelanti” (da dove viene dunque la zizzania!?), ma nega decisamente che male e bene si possano chirurgicamente separare nel suo campo che è il mondo! Così la prima parabola (la parabola madre del seminatore) ha subito una precisazione fondamentale in questa seconda parabola dell’agricoltore che affronta il problema della promiscuità del bene e del male nel mondo: questa parabola della zizzania segna forse la differenza qualitativa più determinante rispetto a qualsiasi altra religione o filosofia o interpretazione del mondo. Non per niente già si intravvede la chiave dì interpretazione della salvezza finale di questo Seme/Parola, mandato dal Padre nel mondo: la croce! era già nelle radici dell’universo, nei misteri nascosti fin dall’origine del mondo, che sono da sempre le domande angosciose dell’uomo sulla terra, domande sorprendentemente rivelate adesso, per farci capire come cresce il regno di Dio nella storia…
4… perché il male è così grande e forte e si abbarbica alle radici del bene e tende a soffocarlo, non solo fuori, ma dentro di noi?
4… perché il bene è così piccolo, inconsistente, esposto a tutte le prepotenze e malvagità?
4… perché quel poco di bene che ci riesce di fare è improponibile – o persino giudicato impuro, cioè fuori dalle regole stabilite?
ecco le tre parabole!
La parabola della zizzania ci fa tornare alla terra di cui siamo fatti: il campo è il mondo (e nel mondo, il cuore dell’uomo!). Non c’è battesimo, né grazia, né chiesa che ci trasporti automaticamente in un altro campo, dove ci sia solo frumento! Un’illusione drammatica ci ha chiuso gli occhi e il cuore infinite volte nella storia della nostra chiesa e nella povera biografia spirituale di ognuno. Contro il comandamento del Contadino abbiamo “sradicato” o “osteggiato” quanti pensavano o vivevano diversamente. L’istinto di potenza, presente nel cuore dell’uomo e di ogni istituzione, si moltiplica all’infinito non appena un uomo prepotente o pauroso diventa credente… Allora tutto si giustifica, perché “Dio è con noi!” (come c’era scritto sulle cinture delle SS). Sradicare il male in nome di Dio! È la cultura del nemico che ci impregna dalle origini dell’umanità! Che fatica a interiorizzare il monito del Padrone del campo: lasciate che crescano insieme! la fede del discepolo si contorce tra pulsioni di aggressività e voglia di mitezza, complessi di inferiorità (il suo regno è il più piccolo di tutti i semi) e di superiorità (ha dalla sua tutte le premesse e pretese dell’albero più grande!)- Ma il problema parte dal cuore di ognuno. Come aver vergogna della propria debolezza, peccato e tradimento, e credere insieme che lì abita la grazia del Signore? Come imparare a credere che il male non è una “cosa” o “un altro”, estraneo o intruso, … ma è una persona che sta male, e non riesce a crescere!-… Sono io, quando tradisco l’amore e la verità – e per ritorsione voglio eliminarne la mia vergogna nell’altro – proiettando la colpa su di lui. Ma così aumento il suo male e il mio, in una catena amara di sinergia malefica!
Lasciate che male e bene crescano insieme!
… un obiettivo troppo difficile per noi! Bisognerebbe avere libertà interiore, fiducia, distacco da sé, amore disarmato, affettuoso e tenero verso chi ci è intorno… per sopportare senza ritorsioni che ognuno faccia la sua strada, magari non buona. Che ci contrasti, magari con prepotenza… E poi rimanere, anche con il cuore trafitto, dolcemente sicuri del “proprio bene” (…perché il Padre vostro che vede nel segreto vi ricompenserà!). S. Paolo ha provato questo dramma che lo lacerava, tra i doveri educativi e pastorali che richiedono interventi decisi e severi… e l’inerme consegna di sé ai persecutori. Ed ha sperimentato che il vero dramma è dentro di noi: perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma solo confortati, secondo la promessa di Gesù, da un consolatore: lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili…
Per prevenire ogni infiltrazione di volontà di potenza nei suoi discepoli (e nella sua chiesa) Gesù lancia un altro simbolo: cosa c’è di più piccolo di un granello di senapa? Nelle gare o competizioni mondane in cui pure la chiesa rimane sovente invischiata, dovrebbe comunque desiderare di arrivare sempre ultima: è la più piccola di tutti i semi… Non deve illudersi che sia la prestanza e l’eccellenza degli strumenti di diffusione del vangelo ad ottenere più efficacia, perché i mezzi potenti hanno la logica della potenza, che è la sopraffazione e avvelenano il Vangelo e il suo annunciatore crocifisso.
Il lievito, nella cultura rituale ebraica, è impasto di pane andato a male, dunque impuro, una putrefazione. Per di più è una “donna” (anche lei impura al culto) che lo immette nella pasta del mondo, finché tutto fermenta. Scribi e farisei di ogni chiesa scelgono il buono e rifiutano l’impuro. Invece il Regno cresce così, con il fermento del “bene” andato a male (secondo i criteri mondani e religiosi), e rifiutato dalla gente… Mentre infinite turbe di donne, di piccoli e di impuri nei sotterranei segreti delle fondamenta della storia (del Regno) trasformano la segregazione in amore.
spiegaci la parabola della zizzania nel campo!
“era troppo per la chiesa nascente!”. È troppo anche per noi e per qualsiasi comunità e famiglia… (e infatti facciamo il contrario!”). I discepoli, in confidenza, domandano: ma come si può educare, catechizzare, separare i malvagi dai buoni, gli altri dai nostri… la verità dalla falsità, con questi criteri panagapici (tutto è amore … o lo sarà!) che Gesù propone come costitutivi del regno?! (dove ogni persona è da amare e custodire e accudire? e niente da estirpare?). Spaventati, i discepoli si fanno rispiegare la parabola. Anche la spiegazione è Vangelo ovviamente, ma ribadisce ancora la radicale sconcertante inaccoglibile profezia del Regno. La parabola non è da leggere alla luce della spiegazione, ma la spiegazione alla luce della parabola. La sfida infatti è rilanciata ancora una volta al cristiano immerso nella storia malata, e allo Spirito che lo conforta. Le soluzioni che sradicano… gli altri sono sempre prepotenza dell’uomo, non esigenza del seme, che è il Figlio dell’uomo, che ha dato la vita per noi!. Solo alla fine del mondo e della storia avverrà uno sradicamento del male dal bene, perché le “persone” avranno maturato e manifestato la loro vera identità… Ma ci penseranno gli angeli! Ogni anticipazione di discriminazione o condanna o scomunica… è concorrenza diabolica!

Il male è “dentro”… Dio!

Supponiamo dunque che Dio somigli ad una casa
o ad un palazzo molto grande e bello
e che questo palazzo, ripeto, sia precisamente Dio stesso.

Può forse il peccatore scappare da questo palazzo,
per compiere le sue malvagità? No, di certo.
Per cui, è proprio dentro tale palazzo costituito da Dio stesso,
che vengono perpetrate tutte le abominazioni,
le disonestà e le malefatte che commettiamo noi peccatori.

È davvero una cosa tremenda,
che deve impensierire e al contempo risultare vantaggiosa,
a noi che sappiamo così poco
da non arrivare nemmeno a comprendere una buona volta
queste verità,
perché altrimenti ci risulterebbe impossibile
avere una sfrontatezza così insensata.

Consideriamo, sorelle,
la grande misericordia e la grande pazienza di Dio,
che non ci sprofonda lì stesso e immediatamente nell’abisso. Rendiamogli le più calorose grazie
e vergogniamoci di risentirci per qualunque cosa
si faccia o si dica contro di noi.

È infatti la peggior ribalderia del mondo
il constatare come Dio stesso nostro Creatore
soffra tanti affronti
da parte di creature operanti dentro lui stesso,
e poi lasciarci andare noi medesime a prendercela talvolta
per una semplice parola detta in nostra assenza,
e magari nemmeno con cattiva intenzione.


(S. TERESA D’AVILA, Il castello interiore, 6 MANSIONE CAP. 10,3 - trad. E. Martinelli)

lunedì 2 giugno 2008

Totalitarismi: la strage di Tibhirine

Riporto per intero un articolo apparso sulla "La Stampa" di oggi...

Padre Armand Veilleux si sveglia ogni mattina alle quattro. La prima preghiera lo attende nella grande chiesa di pietra grigia, spoglia, affondata in un parco ricchissimo di alberi e fiori. Tutta la cadenza della sua giornata è scandita da regole scritte quattordici secoli fa. In questa abbazia di monaci trappisti, vecchia di centosessanta anni, padre Armand conduce la sua ricerca solitaria, lenta, faticosa, in certi momenti disperante, su Tibhirine. Lì, in quel monastero ai piedi delle montagne dell’Atlante, in terra algerina, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 sette confratelli furono sequestrati da un gruppo islamico. La morte dei prigionieri fu annunciata circa due mesi dopo. Lui era presente a quei funerali, chiese con insistenza di aprire le bare per l’ultimo saluto ai monaci e, tra l’imbarazzo e i balbettamenti delle autorità, scoprì che le casse di legno lunghe due metri non contenevano alcun corpo ma solo sette teste. Era la prima menzogna ufficiale che affiorava. Con un retroscena inquietante. Spesso erano le forze regolari che seguivano quella macabra procedura, per dimostrare ai loro ufficiali che la battaglia si era conclusa con l’eliminazione dei nemici, e per avere un indennizzo proporzionato. La prima menzogna era stata anticipata nelle settimane precedenti da svariate ambiguità e soprattutto sarà seguita negli anni successivi da altre falsità, contraddizioni sfacciate, reticenze, che hanno costruito un autentico e compatto muro di gomma attorno a quel massacro. Preceduto alcuni mesi prima da una lucida profezia di padre Luc, una delle vittime, incontrata da padre Armand in visita a Thibirine: «Se ci succederà qualcosa sappiate che non saranno stati gli islamici, ma quelli con le divise regolari». L’Algeria dal 1992 era precipitata in una spirale di guerra civile che produrrà duecentomila morti, nella quale era e sarà sempre più difficile vedere il confine tra i due schieramenti. Qui, in questa abbazia dove si erano installate le truppe tedesche nella seconda guerra mondiale, e vicino alla quale Hitler aveva un suo bunker, approdano da anni lettere, telefonate, confidenze verbali di laici e religiosi che cercano di ricostruire i fatti di quella notte ai piedi dell’Atlante, una delle vicende più torbide e complicate che attraversa la cronaca europea degli ultimi quindici anni. Da questo confessionale anomalo, sperduto nella campagna belga, nel 2003 è partita la prima ed unica denuncia al Tribunale di Parigi, per indagare sulla morte di quei sette cittadini francesi. E’ firmata dai familiari di una delle vittime, padre Christophe Lebreton - settimo di dodici figli, ex sessantottino, che abbandona rapidamente Marx e Lenin e diventa monaco nel 1974 - e da padre Veilleux. Quella denuncia ha interrotto il sonno della giustizia in Francia e ha stimolato due testimoni, molto diversi tra loro, che più di altri, lentamente, corrodono quel muro di gomma. Il primo, Abdelkader Tigha, ha lavorato con la Sicurezza militare, era sottufficiale presso il Centro di ricerche e investigazioni di Blida, ed era fuggito in Siria dopo gli avvertimenti ostili dei suoi superiori. Aveva chiesto protezione ai colleghi francesi, ma senza successo. Era entrato in scena pubblicamente alla fine del 2002, con una intervista clamorosa al quotidiano Liberation. Raccontava che il 25 marzo due furgoni erano stati approntati all’interno della sua caserma per la spedizione al monastero. I veicoli erano rientrati la notte tra il 26 e il 27. «Credevamo a un arresto di terroristi. Invece erano stati arrestati i monaci. Furono interrogati da Mouloud Azzout, braccio destro dell’emiro Zitouni. Due giorni dopo lo stesso Azzout li conduceva sulle alture di Blida e poi alla base dell’emiro». Questa testimonianza diretta, dall'interno, smontava la versione ufficiale subito adottata e caparbiamente mantenuta dalle autorità algerine. Per loro tutto il quadro era semplice e chiaro. Djamel Zitouni, il capo dei gruppi islamici armati a quell’epoca, aveva rivendicato il sequestro con un comunicato, successivamente in un altro comunicato aveva annunciato l’uccisione dei prigionieri. E dopo poche settimane dai funerali anche Zitouni, un ignoto venditore di polli elevato rapidamente ai vertici dei gruppi islamici, senza esperienza politica e senza preparazione religiosa, era stato ucciso. Cioè eliminato bruscamente dal gioco. Con il passare del tempo sempre nuovi dettagli hanno dimostrato che Zitouni era in realtà un infiltrato dei servizi segreti, che aveva fatto deragliare disastrosamente quel sequestro su commissione.Oggi Tigha ha ridotto le sue affermazioni pubbliche. Vive in una specie di limbo, in Olanda, dove la giustizia dice che ha diritto all’asilo politico, mentre la polizia dello stesso paese vuole espellerlo. Intanto gli algerini continuano a richiedere con insistenza, e con vari pretesti, la sua estradizione. E il suo esilio ha seguito un percorso tortuoso, toccando Damasco, Bangkok, Ginevra, Amman, Amsterdam, Bruxelles, con scali virtuali a Mogadiscio e Kuala Lumpur, attraverso carceri, ambasciate, chiese, caserme, aeroporti, ministeri, studi legali, uffici dell’Onu. Parallelamente sua moglie, rimasta in patria, ha trovato in casa decine di foto con abitazioni incendiate o distrutte, candele accese, e ha cominciato a ricevere minacce, telefonate mute oppure cariche di oscenità, secondo un copione convenzionale. Varie Ong si interessano ormai alla sua vicenda.Solo la giustizia francese per ora lo ignora. Ma l’avvocato che ha presentato la denuncia della famiglia Lebreton è convinto che il disertore può dire molte cose sui misteri di quella notte. Certo Tigha non è un santo, e i nobili principi della verità e della giustizia forse non sono al primo posto nelle ragioni della sua fuga. Ma se il giudice francese non lo interroga sarà l’avvocato a chiedere l’interrogatorio, innescando un meccanismo che renderà pubbliche le contraddizioni di Algeri, e mostrerà l’imbarazzante lentezza investigativa del Tribunale di Parigi. Tra le contraddizioni documentate e protocollate emerge la testimonianza dei militari algerini su una operazione del 24 novembre 2004, nelle montagne attorno a Bougara, dove in una base degli islamici erano stati trovati documenti appartenenti ai monaci, descritti in tutti i particolari. Ma in un’altra deposizione gli stessi documenti, sempre descritti con gli stessi dettagli, risultano trovati invece nella zona di Medea, già nel maggio 1996, ben otto anni prima, raccolti in una busta di plastica.Il secondo testimone invece fino ad oggi è rimasto in ombra, anzi nella lunga lista dei sessanta nomi che potrebbero aiutare la giustizia, lui nemmeno compare. Non ha precedenti con i servizi segreti, è francese, ha una solida reputazione. A lui gli algerini non potranno rispondere con gli insulti e le minacce che riservano ai loro disertori. Questa persona ha già confidato privatamente, a interlocutori diversi e autorevoli, che i monaci furono uccisi dalle forze regolari algerine. Anche lui racconta, in dettaglio, che la responsabilità della uccisione ricade, come l’iniziativa del sequestro, sulle autorità militari di Blida. Conferma che certo in quella città c’erano gli esecutori materiali, mentre gli ordini erano arrivati dai vertici della onnipotente Sicurezza militare. Insomma i monaci erano stati coinvolti in un finto sequestro, come quello già avvenuto con i tre personaggi del consolato francese ad Algeri nel 1993, per mostrare all’opinione pubblica internazionale che l’Algeria era gravemente minacciata dagli islamici, ma che le autorità locali avevano i mezzi per reagire. Quella volta i prigionieri furono liberati tre giorni dopo, sottratti ad ogni assedio mediatico, e mandati rapidamente in missione in un posto sperduto dell’oceano Indiano. Ma nonostante queste precauzioni le ricostruzioni ufficiali dell’episodio avevano mostrato subito contraddizioni e vuoti di memoria. Anche per i sette monaci tutto doveva concludersi felicemente e in fretta. Il generale Philippe Rondot, ai vertici delle Sicurezza francese, si era trasferito subito nella ex colonia, forte dei suoi rapporti personali con il generale Smain Lamari, ai vertici della Sicurezza militare locale. Due anni prima proprio Lamari, con una soffiata decisiva, gli aveva consentito di catturare il terrorista Carlos, di compiere l’operazione più brillante della sua carriera, guadagnandosi la Legion d’onore. Rondot aveva subito rassicurato fiducioso l’arcivescovo di Algeri che il sequestro sarebbe finito in pochi giorni. La Chiesa cattolica aveva reagito con dolore e cautela dopo il massacro di Tibhirine, ripetendo ai suoi rappresentanti in quel paese islamico, ormai sconvolto dalla guerra civile, «Sia fatta la volontà di Dio, preghiamo». Altri religiosi e religiose erano già stati uccisi. Padre Armand allora era il Procuratore generale dei cistercensi, accolse l’invito della gerarchia, ma non in modo passivo. Aggiunse a quella direttiva le parole pronunciate dalla madre di un giovane nero ucciso in Sudafrica ai tempi dell’apartheid: «Voglio perdonare, ma prima voglio sapere chi devo perdonare». Diventerà la sua linea di comportamento nella ricostruzione dei fatti, nella ricerca della verità, in segno di rispetto umano per i suoi confratelli. E conoscerà presto l’ostilità felpata del potere quando l’ambasciatore francese ad Algeri gli dirà: «La Francia aveva chiesto ai suoi concittadini di lasciare questo paese. I vostri monaci, come altri missionari, sono rimasti, per ragioni che noi comprendiamo e stimiamo. Ma quando succede un evento sfortunato come questo entrano in gioco imperativi che non sono più di vostra competenza». Nella abbazia di Scourmont tutti osservano la regola del silenzio. E il silenzio parallelamente è stato scelto dalle autorità di diversi paesi in questa vicenda. Tibhirine in lingua araba significa «giardino». Nonostante il nome poetico del luogo, e la vita pacifica di quei monaci, da lì si snoda una vicenda opaca, brutale, rocambolesca, nella quale si concentrano alcuni elementi inquietanti e ricorrenti della cronaca recente: la guerra civile, il terrorismo islamico, le alleanze tra servizi segreti, la reticenza dei governi, l’indolenza della giustizia, e l’arma sempre più diffusa ed efficace dei sequestri che dall’Algeria si è poi allargata in maniera contagiosa all’Iraq e all’Afghanistan. C’è anche il suicidio di un giornalista francese, Didier Contant, in appendice alla vicenda dei monaci. Si era recato dalla moglie di Tigha per raccogliere informazioni, più o meno nei giorni degli avvertimenti con le foto delle case bruciate e con le candele accese. Rientrato a Parigi si gettava, ufficialmente, dal sesto piano. Prima di quel giorno avrebbe confidato ad alcuni amici: «Ho l’impressione di aver messo i piedi in una storia che non riesco a controllare». Padre Armand oggi è l’abate di Scourmont. La sua ricerca della verità in certi momenti sembra fare un passo avanti e tre indietro. Per lui è attuale quel messaggio di sant’Agostino, figlio illustre della terra algerina, per il quale è più facile raccogliere l’acqua del mare in una buca che comprendere il mistero della fede. Anche la notte di Tibhirine dopo dodici anni resta un mistero. Ma c’è un’altra dimensione nella fatica di conoscere. L’abate di Scourmont è nato in Canada, ha fondato monasteri in Africa e in sud America, richiama un personaggio simbolico della letteratura francese, appare come un nuovo conte di Montecristo trasferito in un contesto metafisico, in un carcere impalpabile, quello appunto dei segreti di stato, dove scava il suo tunnel. Lui sorride ricordando una notte in autostrada, mentre andava in Francia, con una pioggia violenta, e un’auto lo tallonava a fari spenti con insistenza. Un episodio simile lo attendeva a Ciampino, quando scese dall’aereo e andò a noleggiare una vettura. Un’auto bianca lo seguì ovunque, anche al parcheggio, fino a quando si fermò in una piccola strada di Roma. E l’elenco degli episodi strani può continuare. Sembra un film di spionaggio di terzo ordine. Dice con semplicità: «Ho costruito un itinerario per conoscere la verità, sto attento a quando compare un nuovo elemento». Lo aiutano le preghiere e una padronanza strepitosa dell’elettronica. Tutta l’abbazia, per sua volontà, è collegata a internet senza cavo, come le migliori università e certe grandi aziende. I sette di Tibhirine non erano uomini persi in una dimensione mistica, di pura contemplazione, staccati dalla realtà del mondo. Padre Luc, il decano, aveva alle spalle una vita di oltre ottanta anni, era un medico, aveva conosciuto i campi di concentramento tedeschi, poi nel 1947 era arrivato in Algeria, era stato preso in ostaggio dai guerriglieri ai tempi della guerra anticoloniale contro i francesi, per mezzo secolo aveva curato i suoi pazienti algerini, gratuitamente, senza fare distinzioni di sorta. Padre Christian era il priore, figlio di un generale francese, lui stesso era stato nell’esercito per oltre due anni durante la guerra di indipendenza, disegnando con la sua scelta di vita religiosa una parabola simbolica dalla violenza alla integrazione, verso la stessa popolazione prima oppressa. Padre Celestin anche lui era passato attraverso la guerra coloniale, e aveva curato un partigiano che i suoi superiori invece volevano giustiziare. Poi aveva lavorato in Francia, aiutando alcolizzati e prostitute. Al monastero chiamavano «fratelli della montagna» i guerriglieri islamici, e «fratelli della pianura» i gendarmi e i soldati. Per tutti valeva il divieto di entrare in quel luogo di preghiera con le armi addosso. E da anni nel terreno dei religiosi la gente della zona aveva potuto costruire una moschea. Era la linea di neutralità del monastero, mantenuta anche dopo la guerra civile iniziata nel 1992. E questa scelta aveva guadagnato a quegli uomini stranieri, rappresentanti di una religione diversa, il rispetto e la confidenza degli algerini.Nel febbraio 2006, decimo anniversario del massacro, l’allora ministro degli interni Sarkozy andò in visita a Tibhirine per ricomporre i rapporti tra i due paesi, ben sapendo che quel luogo rappresentava e rappresenta tuttora un momento di imbarazzo e di ambiguità reciproca, e per ricavare qualche beneficio nella imminente campagna elettorale. Era accompagnato da un massiccio schieramento di forze lungo il tragitto, come se la minaccia islamica fosse sempre incombente. Aveva riletto in pubblico il testamento di padre Christian, il priore del monastero, presentandosi come esponente della Francia repubblicana e laica. Il paese che, appunto, fino ad oggi non ha voluto conoscere i modi e le ragioni di quel massacro. Padre Luc, il decano del monastero, aveva lasciato una indicazione precisa. «Per la mia morte, se non sarà violenta, chiedo mi si legga la parabola del figliol prodigo e che si dica la preghiera di Gesù. E poi, se ce n’è, datemi un bicchiere di champagne». Per la musica aveva scelto una celeberrima canzone di Edith Piaf: «Non, je ne regrette rien - No, non rimpiango nulla».

giovedì 7 febbraio 2008

Qual Dio alla luce del male?

In questa prima domenica di Quaresima, la scansione ordinaria del tempo liturgico è bruscamente interrotta dall’irrompere di letture che improvvisamente riportano la nostra attenzione su quello che forse è uno dei temi più scottanti e difficili per l’uomo (in particolare per l’uomo credente): il mistero del male.
Della realtà del male non c’è bisogno di convincere nessuno e tanto meno della sua complessità: essa possiede infatti articolazioni tali da arrivare a coprire tutto il campo umano (male fisico, male psichico, male morale… male subito, male inflitto… dolore colpevole, dolore innocente…).
Alla luce di questa evidenza fenomenologica, ciò che mi pare importante, è il tentare di istituire la questione in modo significativo, senza cadere in forme di nichilismo o sfiducia nel pensiero. E credo che il modo migliore per farlo sia proprio lasciarci istruire dal testo biblico stesso.
In questo senso, mi pare siano tre fondamentalmente le piste di indagine che emergono dalle letture:
1- Quando si parla di male, si parla di male radicale, ontologico. Non è in questione un errore, uno sbaglio, un’imperfezione, un limite; tutte cose che presuppongono una perfettibilità e quindi una risoluzione già umanamente possibile del problema. No! Il male di cui si parla nella Bibbia è quello che mette in discussione la realtà stessa del mondo, dell’uomo, di Dio, della mia interiorità;
2- Proprio per quanto appena detto, la questione del male mette immediatamente in campo la domanda su Dio: chi è Dio alla luce del male, di questo male? Con le tre proposizioni di epicurea memoria da far collimare:
- Dio è buono;
- Dio è onnipotente;
- il male esiste.
Con le varie combinazioni possibili: se Dio è buono e onnipotente, unde malum?; se Dio è onnipotente e il male esiste, Dio vuole il male? Non è buono?; e infine, se Dio è buono eppure il male esiste, forse che non sia onnipotente? Forse che il male sia più forte di Dio?
Tutte conclusioni evidentemente inaccettabile per la fede cristiana. Ma allora?
3- Beh… allora, il suggerimento delle letture è che la risposta alla domanda “quale Dio?” sia rintracciabile solo nell’attraversamento della drammatica umana di Gesù.

Riprendiamo con calma queste piste di indagine, cercando, a partire dal testo biblico e da qualche interlocutore privilegiato, di sondarne un po’ la profondità.
1- La radicalità del male: «dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,17). Già, nell’avvertimento del Signore si mostrava chiaramente che la portata del male non era accidentale, ma radicale. È quello che magistralmente Dostoevskij mostra in un passo de I fratelli Karamazov a proposito del dolore innocente, il paradigma più emblematico della radicalità del male:
«C'era una bambina di cinque anni, venuta in odio al padre e alla madre, persone rispettabilissime, di ottimo ceto sociale, ben educate e istruite. […] Quella povera bambina di cinque anni fu sottoposta a sevizie di ogni genere da parte dei colti genitori. La picchiavano, la frustavano, la prendevano a calci, senza motivo, sino a ridurle il corpo a un ammasso di lividi; alla fine, si spinsero a livelli di maggiore ricercatezza: la chiudevano per tutta la notte al freddo, al gelo di una latrina e, per punirla del fatto che lei non chiamava in tempo per fare i suoi bisogni, le insudiciavano la faccia con le sue feci e la costringevano a mangiare quelle feci, ed era la madre, la madre a costringerla! E quella madre era capace di continuare a dormire, quando di notte si udivano i lamenti della povera bambina, chiusa a chiave in quel lurido postaccio! Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno facendo, si colpisce il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo di quel lurido postaccio, e piange lacrimucce insanguinate, dolci, prive di risentimento al "buon Dio", perché lo difenda? La capisci questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l'uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo "buon Dio"».
Queste parole atroci che attraversano l’anima di qualunque buon pensante, mettono in gioco proprio il peso ontologico del male: esso tocca le fondamenta stesse della vita, della possibilità della vita, della possibilità della mia vita. Qualsiasi riflessione sul male (e su Dio) deve allora rendere conto delle lacrime di quella bambina, che non possono rimanere un grido inascoltato che viaggia nell’universo.
2- E allora, alla luce del male, di questo male: chi è Dio? Chi è Dio di fronte a quelle lacrime? Di fronte a quella radicalità? Non possono certo essere accettati quei tentativi di risposta che evitano la posta in gioco, il peso ontologico della questione, la domanda su Dio! Vanno rifiutati approcci quali: il male come pedagogia di dio, il male come punizione di dio, il male come conto da pagare a una felicità postuma, il male come appagamento che dio chiede per la giustizia... Non c’è margine di compromesso su queste impostazioni. Esse mettono in campo un volto di dio che non è quello di Gesù.
E non ha senso l’apportare come giustificazione per conservarle il fatto che esse abitano la tradizione cristiana. Certo, le ritroviamo lungo tanta parte dell’arco del pensiero cristiano, ma esse vanno intese semplicemente come i tentativi storici di trovare ragionevolezza nel dramma della sofferenza umana e non possono essere elevate a verità!
3- L’unica via percorribile per affrontare a viso aperto la questione "qual Dio alla luce del male radicale?" è allora quella di seguire Gesù, il Figlio di Dio, nel suo lasciarsi scontrare dal male stesso, prendendolo sulla sua carne. È il tema del Vangelo di Matteo, che parla di questo inaspettato incontro del Cristo, con le tentazioni. Anche qui, mi pare, Dostoevskij abbia qualcosa da insegnarci sulla tragicità del dramma umano di Gesù, che lui tratteggia nel discorso del grande inquisitore:
«Lo spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, il grande spirito, Ti parlò nel deserto, e nei libri ci è riferito come egli Ti avesse “tentato”. Ma si poteva mai dire qualcosa di piú vero di quanto egli Ti rivelò nelle tre domande che Tu respingesti e che nei libri sono dette “tentazioni”? […] In quelle tre domande infatti è come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche dell’umana natura su tutta la terra. […] “Decidi Tu stesso chi avesse ragione, se Tu o colui che allora T’interrogava. Ricordati la prima domanda: se non la lettera il senso era questo: “Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà! Vedi Tu invece queste pietre in questo nudo e infocato deserto? Mutale in pani e l’umanità sorgerà dietro a Te come un riconoscente e docile gregge, con l’eterna paura di vederti ritirare la Tua mano, e di rimanere senza i Tuoi pani”. Ma Tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché, cosí ragionasti, che libertà può mai esserci, se la ubbidienza è comprata coi pani? […] Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. […] Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te; la bandiera del pane terreno, e la rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. […] In questo Tu avevi ragione. Il segreto dell’esistenza umana infatti non sta soltanto nel vivere, ma in ciò per cui si vive. Senza un concetto sicuro del fine per cui deve vivere, l’uomo non acconsentirà a vivere e si sopprimerà piuttosto che restare sulla terra, anche se intorno a lui non ci fossero che pani. Questo è giusto, ma che cosa è avvenuto? Invece di impadronirti della libertà degli uomini. Tu l’hai ancora accresciuta! […] Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti cosí l’esempio. Lo spirito sapiente e terribile. Ti aveva posto sul culmine del tempio e Ti aveva detto: “Se vuoi sapere se Tu sei Figlio di Dio, gettati in basso, poiché di Lui è detto che gli angeli Lo sosterranno e Lo porteranno, ed Egli non cadrà e non si farà alcun male, e saprai allora se Tu sei il Figlio di Dio e proverai allora quale sia la Tua fede nel Padre Tuo”; ma Tu, udito ciò, respingesti l’offerta, non Ti lasciasti convincere e non Ti gettasti giú. […] Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e schernendoti: “Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu”. Tu non scendesti, perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore. […] Tu però già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché ricusasti quest’ultimo dono? Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini».
Ma Gesù non accettò neanche l’ultimo dono del maligno… sintetizzando in questi suoi rifiuti la scelta di tutta una vita, sul suo modo di stare al mondo: affidandosi al Padre.
Notate bene: affidandosi al Padre non ad un dio impersonale. È dentro a questa relazione, reale e concretissima («Dopo aver congedato la folla, si ritirò in disparte sul monte a pregare. E, venuta la sera, se ne stava lassù tutto solo» Mt 14,23), in cui il Padre resta sempre un Tu, anche quando è invocato o bestemmiato nella disperazione («E, verso l'ora nona, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lamà sabactàni?” cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» Mt 27,46), che Gesù si fida.
Forse il nostro problema più grande nell’affrontare il tema del male, del mondo come il nostro, è che presupponiamo sempre dio (impersonale e cosmico), il male (l’altra grande forza in campo) e noi (spettatori – vittime di una battaglia che talvolta ci investe). È lo stesso scenario che si presenta nel mito dei primogenitori, che parlano di dio sempre in terza persona, come il grande assente (dai loro cuori), fin quando sarà proprio lui –usando la II persona – a dire: «Adamo (= uomo) dove sei?» (Gn 3,9).
È questa domanda «dove sei?», che deve collocarci nel posto giusto per parlare di Dio e anche di Dio alla luce del male: è a partire dal mio rapporto con lui che quanto dirò smetterà di suonare come apologetico, falso, non sentito…
Quella a cui conformarsi allora è la collocazione di Cristo: che non ha evitato il male, non ha difeso dio, ma nella sua libertà, nel luogo cioè del suo esser-ci, del suo dire io, della sua presenza a se stesso ha incontrato il male, lasciandosene ferire fin dentro alle giunture più intime della carne e dello spirito, mantenendo però vivo quell’abbandono a quel Tu intimo e innamorato che conosceva come affidabile: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È dal di dentro di questo rapporto, dal parlare con Dio più che dal parlare di Dio (come diceva santa Teresina) che si può affrontare il discorso sul male: solo lì infatti lo scacco che il male pone al mio esser-ci, alla mia libertà, alla mia umanità, è confrontato e vinto dalla fonte della Vita, del mio esser-ci, della mia libertà e della mia umanità.

giovedì 31 gennaio 2008

Beato chi vince il male con il bene!

…dopo lunghi anni di silenzio e di lavoro,
Gesù – nuovo umile Mosè ‑ raccolti alcuni pescatori come suoi primi discepoli, davanti alle folle smarrite come pecore senza pastore, comincia ad insegnare. E condensa qui, secondo il racconto di Matteo – il nucleo di fuoco del suo vangelo (cap 5, 6 e 7). Quanto ha meditato e scoperto, sperimentato ed implorato negli anni nascosti della sua giovinezza, alla ricerca difficile dello sguardo di amore del Padre su un mondo colmo di dolore e ingiustizia, è espresso in poche righe sconvolgenti. Noi, in genere, siamo abituati dall’infanzia a sentire queste “beatitudini”, con le proposte radicali che seguono, e siamo convinti che siano, sì, una delle più sublimi pagine della storia dell’umanità, ma rischiamo di perderne il senso nella vita di Gesù. Mentre sono il frutto dello suo scontro con la sofferenza, con il peccato, la prepotenza, il non senso delle misteriose forze del male che soggiogano l’uomo… Le beatitudini sono il punto d’arrivo della ricerca inquieta della sua mente e del coinvolgimento struggente del suo cuore di uomo nelle vicende dello spaccato di storia umana, quale era il “piccolo mondo” in cui gli era capitato di andare ad abitare. Ha imparato a vedere le vicende degli uomini alla luce della benevolenza onnipresente del Padre, nella convinzione, imparata proprio dall’indefettibile amore del Padre (per Gesù è “la vita”!) che l’“amore” è l’unica possibilità di vincere il male nella storia.
la strategia del Padre per risolvere il male nel mondo…
Le proposte di soluzioni dei mali degli uomini, al tempo di Gesù erano tante, come oggi. E tutte le avrà vagliate ed soppesate, pur di trovare un modo di aiutare i sofferenti schiacciati dal loro dolore… in decenni di silenziosa solidarietà, anzi di “immersione” nell’avventura di essere uomo… Meditando la storia alla luce delle Scritture, pregando i salmi e le esperienze dei patriarchi antichi, Gesù, ha maturato un rovesciamento totale nella percezione delle gerarchie dei valori e dei beni di questo mondo. E si è convinto che questo rovesciamento è l’ottica del “Regno”, cioè è il progetto di amore del Padre. Per combattere il male nel mondo ogni altra strategia, che non si converta a questo progetto, precipiterà nell’alternativa tragica della competizione e della violenza, finendo per aumentare, invece che diminuire, la sofferenza degli uomini.
Quanto sia difficile per noi questo rovesciamento di strategia, questo metodo completamente im/politico di affrontare il male nella storia degli uomini, l’ha sperimentato Paolo nelle prime comunità di credenti, dove d’istinto emerge l’affermazione mondana della forza, della cultura, del potere, come criteri di valore e d’importanza in comunità. E Paolo sa, per amara esperienza personale, che il Vangelo del Signore è fondato su tutt’altri criteri: Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio (1Cor 1,27).
… le beatitudini
Le beatitudini sono dunque la buona notizia della compiacenza, come a dire, delle “congratulazioni” di Dio su quanti sono collocati, consapevoli o no, in questa ottica di amore, perché è l’unica risposta adeguata al male nella storia, anche se apparentemente debole e sconfitta. Il mistero del male e lo scandalo del dolore insensato che vi aggiungono la debolezza e talora la malvagità che gli uomini, è stato il problema più assillante e drammatico della prima parte della vita di Gesù, se poi la seconda, quella che conosciamo dai vangeli, è totalmente dedicata ad alleviare, guarire, perdonare, risanare i più piccoli e i più disperati, e ad esorcizzare le potenze del male che li opprimono… Ecco perché Gesù, quando finalmente prende la parola, comincia proclamando: Beati i poveri! che è la premessa e la sintesi di tutte le altre beatitudini. Come a dire: beato chi è povero ‘di spirito’ perché ha rinunciato alle soluzioni “forti” (potere, cultura, tecnica, soldi…) ma affronta i mali del mondo, esponendo se stesso, inerme, come proposta, testimonianza, ponte di pace …
non è una nuova legge,
che sarebbe altrettanto impraticabile alla gente che quella antica. Non si tratta infatti di esigenze morali nobili e difficili, e comunque inarrivabili per gli sprovveduti che sono solo ricchi di fame, bisogni e desideri inappagabili… e non hanno spazio umano per pensar ad altro (…i miliardi di uomini che sono passati “inutili” e non amati da nessuno, sulla faccia della terra). Le beatitudini sono piuttosto l’annuncio di come Dio vive ed è presente nelle condizioni difficili della storia degli uomini – come il suo progetto di amore (il Regno) è presente in mezzo a noi e impregna la sofferenza anonima di tutti i suoi figli, a cominciare dai più poveri. Le beatitudini non sono la promessa di interventi miracolosi che hanno lo scopo di cambiare le situazioni attuali. Altre, ad altri livelli, sono le possibilità politiche aperte a tutti gli uomini di buona volontà di cambiare ed evolvere le condizioni di sofferenza e di oppressione, e il vangelo altrove raccomanda di perseguirle.
Le beatitudini offrono piuttosto un significato nuovo dell’esistenza umana, suggeriscono criteri diversi di valutazione e di lettura della storia, totalmente disomogenei dai nostri. Gesù lancia a chi vuole ascoltarlo, una duplice sfida con la sua stessa vita, il cui significato è preannunciato nelle beatitudini.
1. L’immersione totale nella condizione umana, nelle situazioni più disagiate degli sventurati del mondo, senza escluderne mai nessuno... Non è un’esortazione morale, ma una proposta esistenziale. È lui, infatti, il primo povero, che si è spogliato di tutto per solidarietà di condivisione vera della nostra sorte “con forti grida e lacrime”. Solo così ha potuto capire dall’interno la nostra condizione… Ha faticosamente imparato, come noi, cosa significa “ascoltare e accogliere il disegno del Padre sulla storia…”. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova (Eb 2,16). Ha scoperto con trepidazione ed angoscia (come si vedrà nel dramma finale della sua vita) il peso insopportabile della sofferenza, della persecuzione, del tradimento, che, accolto senza odio e trasformato in mitezza e indefettibile proposta di amicizia, ha ridonato vita, respiro e pace alla terra”: … imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (Eb 5,8s).
2. l’annuncio sorprendente che questa sofferenza può essere vissuta nella gioia: Le beatitudini (che sono già gioia per il Padre che le guarda con empatia) finiscono con la raccomandazione e l’augurio: “Rallegratevi e gioite”! Quale gioia? Nel discepolo di Gesù, avvolto da questa feriale beatitudine, tutto, all’esterno, rimane come prima, tutto diventa anzi ancor più autentico… le sofferenze e i vuoti, come la fragile bellezza e la relativa bontà dei volti e delle faccende del nostro contesto quotidiano, in cui rimaniamo immersi… Ma i volti e le loro vicende sono come avvolti e impregnati e “ricollocati” in un’altra dimensione, dove il Signore e il suo vangelo sono il riferimento ultimo di senso (beati!) – non come esclusione di nessuno, non come privazione ascetica o come distacco morale dal tessuto umano che è il nostro, ma come conversione radicale dell’asse profondo della vita, aperta ad una luce mai goduta prima, che passa dalla reazione violenta alla mitezza, dalla pretesa esigente al dono: è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità.(Gv 4,23s)
Magari sono piccolissimi assaggi o (minuscole beatitudini!), soltanto squarci di un cielo e di una prospettiva che di solito vediamo e desideriamo da lontano, ed invece già adesso, ci è promessa e seminata in cuore, anche se rimane sempre ingovernabile e imprendibile… come ogni dono dello Spirito. E si annebbia presto, lungo la giornata, nei ritmi alterni dei nostri umori. Però è vera, e ne rimane la memoria e l’attenzione premurosa, perché le troppe distrazioni ed urgenze del nostro vivere non ci allontanino dall’essenziale!
…e così imparare, o almeno cominciare a tentare qualche gesto, arrischiare di rispondere alle asprezze della vita e degli uomini con qualche sbilanciamento di amore, di tenerezza, di assorbimento del male, invece che di ritorsione:
  • quando la desolazione ci devasta il cuore e vorremmo anche noi consolazione, e siamo tentati di amarezza;
  • quando la reazione violenta ci preme dentro come l’unica soluzione, e vorremo esser capaci di seminare mitezza;
  • quando la rabbia triste per l’ingiustizia ci rode l’anima e la vorremo subito eliminata… a costo di altra violenza;
  • quando la miseria è cosi grande che bisognerebbe contenerla e accudirla con ancor più grande misericordia;
  • quando ci si offuscano gli occhi del cuore e non vediamo più la benevolenza del Padre in chi che ci fa del male;
  • …portando sempre pace e perdono dove c’è conflitto e odio, perchè questo è il mestiere di Dio e dei suoi figli.

domenica 11 novembre 2007

FIDUCIA E FEDE


Da "I racconti dei Chassidim" di Martin Buber.

"Avviene talvolta", diceva il Baalshem, "che si è turbati nella propria fede in Dio. Il rimedio contro questo è di pregare Dio di rafforzare la fede in noi. Ché il vero male che Amalek arrecò a Israele fu che con il suo fortunato assalto fece raffreddare la loro fede in Dio. Perciò Mosè, con le mani tese al cielo, che erano come la fiducia e la fede stesse, insegnò loro a pregare Dio che li rafforzasse nella loro fede, e questo solo è ciò che importa nella battaglia contro la potenza del male".
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter