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lunedì 13 ottobre 2014

XXIX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 45,1.4-6)

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési (1Ts 1,1-5)

Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 22,15-21)

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Il brano del vangelo di Matteo proposto dalla Chiesa in questa Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario, è molto famoso… spessissimo, infatti, soprattutto negli ultimi anni, è stato da più parti ripreso, in particolare nella citazione celebre che esso contiene: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». La si è usata per esempio come richiamo alla chiesa, quando la si percepiva troppo ingerente negli affari dello Stato (per esempio sugli innumerevoli dibattimenti etici e bioetici dell’ultimo decennio: legislazione sul fine vita, sulla regolazione delle coppie di fatto anche omosessuali, sulla fecondazione artificiale, ecc…); la si è usata come richiamo al fatto che anche la chiesa dovrebbe dare la sua parte a Cesare (per esempio con la discussione rispetto al pagamento dell’IMU); ma la si è usata anche come monito della chiesa ai cristiani-cittadini perché pagassero le tasse; o come rivendicazione della chiesa stessa per la sua autonomia dalle ingerenze politiche; addirittura la si usa come “proverbio” da citare indipendentemente dal fatto che la chiesa sia o meno implicata nella discussione.

Dico tutto questo in apertura, perché – leggendo il testo evangelico – il rischio è di essere trascinati immediatamente ed inesorabilmente in queste questioni… Io invece vorrei stare un passo indietro… soprattutto perché tutte queste questioni del nostro tempo non possono essere così automaticamente sovrapposte ad un brano scritto quasi due millenni fa.

Veniamo dunque al testo: esso fa parte del grande scontro, avvenuto a Gerusalemme, che abbiamo avuto sotto gli occhi nelle scorse domeniche tra Gesù a i capi religiosi ebraici. Esso infatti segue i brani della cacciata dei venditori dal tempio (Mt 21,12-17) e della conseguente animata discussione di Gesù con i sommi sacerdoti e gli anziani (Mt 21,23-22-14), con le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi e del banchetto nuziale. Ora, dopo i sommi sacerdoti e gli anziani, sono i farisei e gli erodiani che si avvicinano a Gesù per coglierlo in fallo. Essi, come gli altri, sono infatti infastiditi dalle pretese (sulla sua persona e sulla sua missione) con cui quest’uomo è giunto a Gerusalemme.

Il quesito che gli pongono (anzi che mandano a porgli tramite i loro discepoli), riguarda la sfera delle relazioni tra mondo religioso e mondo politico: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Il rapporto tra religione e potere era l’argomento anche dei precedenti scontri tra Gesù e i capi religiosi – con la grande denuncia, vista nelle settimane scorse, della commistione di questi due elementi. Ma – mentre fino a questo momento, oggetto della discussione è il rapporto tra religiosità ebraica e potere dei capi religiosi ebrei – ora la controversia incontra uno slittamento: il problema in questione diventa il rapporto tra religiosità ebraica e potere politico straniero.

In particolare il tranello in cui i farisei vogliono attirare Gesù è il seguente: come ci si deve comportare con la dominazione straniera? Va combattuta con le armi (come dicevano gli zeloti), gli va opposta una “resistenza passiva” (come sostanzialmente proponevano i farisei) o si può scendere a patti con essa (che era la posizione – almeno pratica – dei sadducei)?

mercoledì 4 luglio 2012

XIV Domenica del Tempo Ordinario


In questa Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone una serie di testi biblici davvero pregnanti… Contrariamente al mio solito, vorrei però stavolta provare a lasciare un po’ nell’ombra il vangelo, per concentrarmi sulla seconda lettura, quella tratta dalla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui Paolo afferma «affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina».

Questa espressione paolina è infatti troppo intessuta nelle mie viscere (e credo – proverò a spiegarlo! – nelle viscere di ciascuno) per lasciarla passar via… perché io credo di averla questa “spina”, anche se non la saprei ben definire, come quella di Paolo, rispetto alla quale intere generazioni di esegeti han provato a dire qualcosa senza arrivare a individuarla, nello specifico.

Ma il punto forse è proprio quello, che la “spina” che ciascuno ha, è talmente sua che – forse – la si può dire solo a mezza voce a qualcuno che magari, una sera, ti sta sdraiato accanto e ha voglia di ascoltarti le viscere…

Ma anche se non è “definibile”, “circoscrivibile”, se anche non la si può racchiudere in un concetto, quella di Paolo, come quella di ciascuno, credo meriti davvero di essere un po’ guardata, perché ci dice come siamo fatti e come questo nostro modo di essere determini in maniera strutturale e non contingente il nostro rapporto al Signore.


Paolo infatti dice che questa “spina”, gli è stata “data”…

Non credo che qui intenda questo passivo, in senso materialistico: non è che ad un certo punto Dio (o chi per esso) interviene nelle nostre piccole storie per inserire in maniera estrinseca (dal di fuori) una “spina”, un male… con un fine morale: «affinché io non monti in superbia»… cioè per ricordarci la nostra precarietà, a fronte della sua onnipotenza.

Credo, anzi, che quel «è stata data alla mia carne una spina», sia molto più “semplicemente” una presa di coscienza di un dato che la storia di ciascuno incontra: tutti, nel nostro costruirci come umani, ci intessiamo di una storia che nel suo dipanarsi segna sempre – nella carne (e quindi anche nello spirito) – una ferita…

Una ferita che è un po’ diversa da quella che ci possiamo fare quando ci tolgono il dente del giudizio, o ci tagliamo con una tazzina, o veniamo punti da un’ape… perché è una ferita che determina il nostro essere, che diventa non solo parte di noi, ma diventa noi, perché segna il nostro modo di stare nella vita, di amare, di decidere, di temere, di sognare…

Non voglio fare esempi, perché il rischio è quello di ridurre questa “spina” alla puntura dell’ape… Se infatti dicessi: “Un esempio di ‘spina’ potrebbe essere che c’hai il diabete che ti accompagna tutta la vita, o che ti viene la poliomielite a 5 mesi, o che ti si separano i genitori quando sei piccolo, o che cadi nel fuoco a un anno e ti rimane la faccia bruciata a vita, o che ti muore la mamma”, immediatamente la nostra testa risponderebbe: “Eh già… ma anche in tutte queste circostanze si può continuare a vivere (e non solo a sopravvivere, ma a Vivere), anzi si deve, si deve trasformare quella che lo sguardo altrui potrebbe leggere come una non abilitazione a vivere, come qualcosa invece nonostante la quale bisogna vivere!”.

E invece no!

Perché questa logica è una logica che salta la storia, che salta la carne (che – guarda caso – è proprio il contrario di quello che fa Dio in Gesù!); è una logica che “salta” appunto… che non assume, che non trat-tiene, che non considera che quella ferita non è come la puntura dell’ape, che mi lascia tale e quale a prima, ma che mi plasma e mi fa diventare ciò che sono, foss’anche un “non abilitato” alla vita dei “normali”.

Che poi chissà dove sono questi “normali”? Io non ne ho ancora trovato uno! Tutti, tutti li ho trovati con la “spina”!

E mi pare che Paolo vada anche lui in questa direzione… Ci prova – è la reazione di tutti – ad adoperare la logica che “salta” la ferita e infatti chiede a Dio per ben tre volte che gli tolga la spina («per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me»), ma poi coglie che non è così che il Signore ragiona: «Egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”».

Che non è la rassegnata considerazione di chi dice “Tanto non ce la farò mai a vivere, meno male che il Signore ci penserà poi lui, con la sua grazia”, quasi che la grazia sia un aiutino che ogni tanto ci arriva per colmare quel pezzettino in più che servirebbe e che noi non riusciamo a riempire… o quella forza misteriosa che trasforma i nostri fallimenti in riuscite…

Arrivare a dire “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” è piuttosto l’approdo ad una logica nuova, quella del Signore, quella per cui la debolezza, la “spina”, la “ferita”, il non essere abilitati alla vita perché a-normali, non è un’obiezione alla vita, ma anzi è la realtà, è la verità, è ciò che siamo, è il mio essere più intimo e più vero, quello che spesso nascondo e mi nascondo, ma che per tutta la vita non fa altro che aspettare qualcuno che lo veda e lo ami.

“Ti basta la mia grazia” è il prendere coscienza che è proprio quell’intimo lì, il già da sempre visto e amato dal Signore, Lui, che in ciò che io chiamo debolezza (e che temo e nascondo, perché penso mi renda in-abile) vede “semplicemente” me e mi sorride (questa è la grazia: che Dio mi guarda e mi sorride!).

Per questo Paolo conclude: «quando sono debole, è allora che sono forte»… quando sono debole è allora che sono (punto!). E che non nascondo più, non “salto” più, non fingo più.

In questo senso mi piace concludere ricordando l’altra frase che mi ha fatto sobbalzare delle letture di questa domenica, quella che il profeta Ezechiele ascolta da Dio: «Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

Un profeta – Ezechiele – che farà proprio questo: finché il popolo si sentirà (fingerà di essere) “forte”, lo sgriderà veementemente, ma quando la storia gli riconsegnerà la sua debolezza (il popolo andrà in esilio!) lo consolerà ricordandogli che il Signore non li ha abbandonati («Mi disse: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: ‘Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti’. Perciò profetizza e annuncia loro: ‘Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò’”. Oracolo del Signore Dio», Ez 37,11-14).

Io credo che proprio di questi profeti, abbiamo bisogno anche noi – popolo dalla testa dura! – di questi uomini di Dio che ci ricordino: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»… perché non montiamo in superbia, cioè perché non falsiamo la verità della nostra identità… [non a caso “superbia” è il contrario di “umiltà”, che S. Teresa di Gesù, lontana anni luce dai nostri moralismi, definisce “la verità su se stessi”!].

venerdì 24 giugno 2011

Corpus Domini

Domenica è la solennità del Corpus Domini: una solennità che risale al XIII secolo e che – nella sua istituzione – aveva l’intenzione di celebrare la presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell’eucaristia. Non a caso tutte le letture che la Chiesa ci propone per questa domenica fanno riferimento al cibo che il Signore dà al suo popolo, che nell’Antico Testamento ha il suo emblema nella manna nel deserto e che nel Nuovo Testamento diventa il darsi di Gesù stesso ai suoi: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».


Le riflessioni che si potrebbero fare in proposito sono innumerevoli, così come gli spunti per ripensare alla nostra relazione col Signore a partire dal dono del suo corpo e del suo sangue, ma anche le attenzioni da avere: troppo spesso lungo la storia (e anche oggi) infatti la presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell’eucaristia è stata intesa con un realismo esasperato o – viceversa – ridotta ad un simbolismo inconsistente. Sono famose in proposito le dispute del IX secolo tra Pascasio Radberto, Ratramno e Giovanni Scoto Eriugena e quelle dell’XI secolo tra Lanfranco di Pavia e Berengario… che porteranno al Concilio Lateranense IV (1215) e alla promulgazione del dogma della transustanziazione.

È difficile oggi entrare in questo dibattito, perché esso risente di una mentalità teologica ed antropologica di stampo metafisico che non è più la nostra... e che rischia di essere travisata, se approcciata con la cultura odierna.

Ciò che inoltre va ulteriormente a complicare il discorso e a costringermi ad entravi in punta di piedi è il fatto che oggi quella mentalità metafisica – abbattuta dalle riflessioni teologiche del XX secolo – non è ancora stata rimpiazzata da una teologia in grado di performare il mondo cristiano. Essa è ancora in “fase di elaborazione” all’interno delle scuole teologiche e – anche dove ha trovato ormai la forma del sistema (e non solo dell’idea abbozzata) – risulta ancora discussa e non di certo diffusa in senso egemonico (come era stato appunto per la metafisica medievale).

Tutto questo per dire che l’“affare” è più complicato di quello che a volte con riduzioni semplicistiche si vuol far credere, senza considerare le conseguenze – anche sul piano pratico/esistenziale – cui un’errata o parziale visione teologica può portare.

Non è certo però compito delle lectio inoltrarsi in una disquisizione teologica che – inevitabilmente – dovrebbe assumere linguaggi e strumenti specifici, che – data la situazione di passaggio del nostro tempo (è finita l’epoca metafisica, ma non si è ancora costruito con solidità un orizzonte di senso teologico rinnovato e condiviso) – risulterebbero un po’ ostici o per lo meno poco accessibili…

Compito della lectio è stare sulla Parola… la quale – come accennato – al di là di tutti i dubbi riflessivi, porta un dato certo: il Dio di Israele è il Dio che si preoccupa e si prende cura del suo popolo, nutrendolo; quello stesso Dio è il Padre di Gesù Cristo che si dà ai suoi… in un momento contingente della storia (nell’ultima cena), che però diventa accessibile per tutti nella memoria di quei suoi gesti e di quelle sue parole…

Contro ogni etereo spiritualismo, il Cristianesimo è quindi la fede in una persona in carne ed ossa, con una storia, con una libertà che si è determinata nel tempo: di lui noi diciamo che è Dio.

E – per entrare maggiormente a indagare il senso teologico ed esistenziale di questo suo essere Dio così – “rubiamo” le parole ad una donna che dell’umanità di Cristo ha fatto il centro della sua vita:

«1. […] In alcuni libri sull’orazione si dice che, sebbene l’anima non possa arrivare da sola a questo stato [unione mistica] – essendo una condizione del tutto soprannaturale e opera unicamente di Dio – potrà però aiutarsi, distaccando lo spirito da tutte le cose create ed elevandolo con umiltà.

[…] Tali libri raccomandano, inoltre, vivamente di allontanare da sé ogni immagine corporea per accedere alla contemplazione della divinità, perché dicono che, per coloro che sono ormai giunti tanto avanti, è d’imbarazzo e d’impedimento a una più perfetta contemplazione anche l’umanità di Cristo. […] Chi scrive questi libri ritiene dunque che […] considerarsi concretamente circondati da ogni parte da Dio e in lui sommerso è quello a cui devono tendere i nostri sforzi.

Questa mi sembra che possa essere una buona via da seguire, qualche volta, ma allontanarsi del tutto da Cristo […] non lo so ammettere.

2. […] A mio parere s’ingannano. Può essere che l’ingannata sia io, ma voglio dire ciò che mi è accaduto.

3. Poiché non avevo un maestro e leggevo quei libri […] procurai di allontanarmi da ogni cosa corporea, pur non osando elevare grandemente l’anima, il che mi sembrava – spregevole com’ero – una temerarietà. Avevo, però, l’impressione – ed era proprio così – di sentire la presenza di Dio e cercavo di starmene raccolta in lui. È un’orazione soave e molto gioiosa, se Dio ci aiuta. E, vedendo il profitto e il piacere che ne traevo, non solo sarebbe stato impossibile farmi tornare alla considerazione dell’umanità di Cristo, ma – a dire il vero – sembrava anche a me un ostacolo.

Oh, Signore dell’anima mia e mio bene, Gesù Cristo crocifisso! Non c’è una sola volta in cui mi ricordi di questo pensiero senza provare una gran pena: mi sembra, infatti, di aver commesso un gran tradimento, sia pure per ignoranza.

4. […] È mai possibile, mio Signore, che io abbia potuto pensare anche solo per un’ora che voi mi sareste stato d’impedimento per un bene maggiore?

6. […] E che abbia potuto io, mio Signore, allontanarmi da voi nell’intento di servirvi meglio! Almeno, quando vi offendevo non vi conoscevo, ma che, conoscendovi, abbia pensato di trarne maggior profitto seguendo questa strada, oh, che strada sbagliata battevo, Signore! Anzi, come mi sembra, ero del tutto fuori strada. […] Io vedo chiaramente, e l’ho visto dopo quell’inganno, che per essere graditi a Dio e per ottenere che ci doni speciali grazie, egli vuole che si passi attraverso questa sacralissima umanità di Cristo, in cui Sua Maestà disse di compiacersi.

[…] 9. Che noi a bella posta procuriamo di disabituarci dal cercare con tutte le nostre forze di aver sempre dinanzi – piacesse al Signore che fosse davvero sempre! – questa sacratissima umanità, è ciò che – ripeto – non mi sembra ben fatto. È, come suol dirsi, un camminare per aria, perché allora l’anima sembra andare senza appoggio, pur nella ferma convinzione di essere piena di Dio. È molto importante, finché viviamo in veste umana, aver presente il Signore come uomo.

10. […] Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia.

[…] Per questo è un bene, come ho detto, non adoperarci a cercare consolazioni spirituali; qualsiasi cosa succeda, stiamo abbracciati alla croce, che è una grande cosa.

[…] 11. Dio si compiace molto nel vedere un’anima prendere umilmente per mediatore suo Figlio. […] Quantunque abbia a soffrirne un po’, non giungerà mai a quella inquietudine e a quella pena di alcune persone che, se non si impegnano sempre a lavorare con l’intelletto e a far pratiche di devozione, pensano che tutto sia perduto, come se un così gran bene potesse essere merito dei loro sforzi.

Non dico che non ci si debba impegnare ad ottenerlo e a stare ben raccolti davanti a Dio, ma che, se non si riesce ad avere neppure un buon pensiero, non ci si disperi.

[…] 14. Voglio, dunque, concludere così: che quando pensiamo a Cristo, dobbiamo sempre ricordarci dell’amore con il quale ci ha fatto tante grazie, e di quello, immenso, che ci ha testimoniato dio col darcene tale pegno. Amore chiama amore, e anche se siamo agli inizi e tanto miserabili, cerchiamo di riflettere sempre su questa verità e di stimolarci all’amore» [Santa Teresa di Gesù, Vita 22].

venerdì 14 novembre 2008

Meglio rischiare la vita che sotterrare la speranza!

Nel cap. 25° il Vangelo secondo Matteo intende raccogliere l'ultimo prezioso insegnamento di Gesù prima della passione. Le tre parabole delle 10 vergini che attendono lo sposo, dei talenti consegnati ai servi e infine, il giudizio universale, con la sorprendente coincidenza di Gesù con i poveri che sono tra noi, hanno in comune una discriminante, che divide gli uomini nella storia: cinque vergini sagge e cinque stolte; due servi operosi e premiati, e uno rinunciatario e punito; le pecore da una parte (i discepoli che accudiscono i fratelli) e le capre dall'altra (chi non serve il fratello nel bisogno). Si tratti dell'olio delle lampade, o dei talenti forniti ad ogni uomo o della dedizione ai poveri, le parabole hanno lo stesso obiettivo, sotto diverse modalità. Ed è questo: arriva per tutti il momento nella vita in cui siamo "costretti" a scegliere, a schierarci, a maturare una fede capace di trasformare "definitivamente" il senso dell'esistenza, come se ognuno fosse messo con le spalle al muro. Gesù stesso sta incamminandosi verso le esperienze finali della sua avventura umana, che sembrano travolgerlo e immergerlo nell'angoscia e insieme nel desiderio di affrontarle: Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! (Gv 12,27 ).Ecco allora le parabole: nel buio della notte bisogna mantenere gli occhi aperti e il cuore attento per riconoscere il Regno che viene…; l'impegno appassionato moltiplica e dilata il dono di luce e di benevolenza ricevuto…; lo spendersi per i più miseri è sempre un incontro con il Dio presente nell'uomo di carne, anche per chi non lo sa… E se la dinamica pedagogica del racconto comporta che chi non si assume le sue responsabilità sia punito, l'intento non è certamente di terrorizzarci con la minaccia del castigo futuro, ma di convincerci che il presente, affrontato con intelligenza ed amore, dà senso e gioia alla nostra fede.

"Avventurar la vida"… non seppellire la speranza!

La parabola scelta per questa 33a domenica è la seconda, che racconta la storia di un signore che, prima di mettersi in viaggio, distribuisce i suoi beni ai suoi sottoposti, ad ognuno secondo le sue capacità. E poi se ne va, per molto tempo, senza lasciare recapito. I talenti dati in consegna sono la vita stessa, come una promessa, misteriosamente donata ad ognuno, con tutto quello che ci vuole… per diventare noi stessi., cioè viverla! Ognuno ha la sua, diversa da tutti, e solo l'interessato, pur bisognoso di tanti aiuti, può, in definitiva, valorizzarla. I due primi servi lavorano e raddoppiano i talenti. Ma colui che ha ricevuto un talento solo, lo seppellisce, per non perderlo. Proprio il contrario di quanto il vangelo stesso suggerisce: se vuoi salvare la tua vita devi esser pronto al rischio di perderla! Teresa d'Avila, in un tempo quanto mai sfavorevole alla donna, che pretendesse di diventare se stessa, è un esempio luminoso e appassionato di come la vita, secondo questa parabola, deve essere assunta, con l'esplosiva carica affettiva ed esistenziale di un desiderio incontenibile: "tutto si riduce, in sostanza, ad arrischiare la vita, che io tante volte bramerei aver già persa, pur di avventurarmi a guadagnare così tanto con poco prezzo" (V 21,4)

Un Dio diverso!

Perché nasca e cresca questa passione in cuore, occorre cambiare la figura di Dio, che più o meno inconsciamente tutti abbiamo introiettato, come un interlocutore interiore… da incubo (sei un duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso). Talora diventa un'ossessione che finisce per rovinarci la vita (per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra). La radice profonda di ogni religione storica è il tentativo di rimettersi in contatto con il "padrone", che è "emigrato" in un paese lontano (così suggerisce il testo greco!), per contrattare "magicamente" con lui una salvezza in proprio. La paternità di Dio, come si è rivelata in Cristo, è la distruzione del ricatto interno a qualsiasi religione (e interno a noi stessi, come componente tossica del nostro super io e della nostra morale). E finisce per farci vivere una vita disaffezionata e spenta, da servi!. Finché, infatti, non ci consegniamo 'armi e bagagli' al Padre di Gesù Cristo, nutriti della sua parola e del suo pane, siamo preda dei nostri tormenti e delle nostre angosce interiori, che poi inevitabilmente proiettiamo e ritorciamo sugli altri (io non sono come gli altri, omicidi, adulteri…). Mentre orami, in Gesù, la fede o è questione di amicizia o ridiventa idolatrica: "Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi [Gv 15,15]. Esser amici, però, vuol dire sbilanciarsi rischiosamente e senza riserve verso un nuovo tipo di dinamica interna all'esperienza umana di Gesù, che si fonda sull'amore gratuito, pulito, totalizzante.

Una dinamica vitale nuova: entra nella gioia del tuo Signore!

Dio dunque sorprende i suoi servi, proprio chiamandoli a responsabilità e fiducia totalmente nuove. Neanche vuole indietro i talenti affidati, perché li trasferisce al livello della dinamica dell'amore: che, se corrisposto, raddoppia incessantemente… Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. L'esito dell'amicizia è la comunione piena e raggiante: entra nella gioia del tuo signore! Questo esito escatologico di una vita di impegno appassionato ci è annunciato per convincerci che già qui, nella nostra storia quotidiana, inizia questa dinamica creativa e profondamente gratificante di poter aiutare Dio, invitati nella sua vita intima, partecipando alla sua gioia di diffondere l'amore e la libertà tra gli uomini. Così si spiega il paradosso di togliere il talento al servo sfiduciato per darlo a chi già ne ha: «Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.». Chiunque abbia provato ad amare e appassionarsi alla vicenda umana del fratello che fa fatica a crescere, più che alla propria, sa quanto è vero che l'amore aumenta a donarlo via, e diminuisce e intristisce a difenderlo e trattenerlo per sé… E quanti sono coloro che sono fermi, paralizzati su questo crinale, senza osare tuffarsi!

E quando si dirà: "Pace e sicurezza", allora d'improvviso li colpirà la rovina,

Nel nostro tempo di totale interdipendenza degli uomini e dei popoli – il tempo della globalizzazione ‑ i figli della luce di cui parla Paolo, sono quelli che credono nelle ragioni della speranza, nella possibilità di convivenza tra diversi, nella fecondità dell'incontro tra religioni e razze. I figli della paura e della voglia di sicurezza sono quelli che nascondono la sfida della storia e il rifiuto delle scelte sotto le vesti della tradizione e della religione, ma di fatto difendono poi la sicurezza con i muri divisori e il filo spinato, e alla fine, con la forza delle armi, con il ricatto della fame, con la prepotenza della superiorità della razza o della religione. Ma affrontare i problemi di oggi illudendosi che vadano bene le soluzioni di ieri, è come voler solcare gli oceani con le barche. Non cercare e inventare risposte nuove è come dormire, fare della vita una lunga notte, illudendosi con lo slogan: Pace e sicurezza…, invece di un impegno fervente e generoso. Oggi non ci sono territori preclusi all'intervento umano dai confini sacri, che la religione ha sempre determinato nella storia dell'umanità, opponendosi ad ogni presuntuosa conquista o sconfinamento prometeico. La formazione della coscienza morale è più che mai determinante, in un mondo pluriculturale, che rischia di svuotare e relativizzare ogni tradizione od orientamento etico e religioso. La mutazione antropologica che le strutture di comunicazione commerciali, industriali e politiche hanno prodotto, richiede una nuova consapevolezza, una nuova spiritualità. L'umanità di oggi si trova di fronte a problemi, esigenze e istituzioni universali, ma non c'è ancora la cultura e gli uomini preparati, che sappiano accettare questa sfida. La paura di affrontare il rischio ha spinto anche la chiesa a sotterrare i suoi tesori… Siamo in ritardo rispetto al cammino dello sviluppo umano, della tecnica e della scienza. Questa forte esigenza di spiritualità non è di per sé esigenza di pratica religiosa, che è necessaria, ma non sufficiente. Si esige qualcosa di più: entrare cioè in sintonia con la forza creatrice che ci coinvolge consapevolmente in un atteggiamento nuovo. Siamo come costretti a rileggere questa parabola con prospettive e orizzonti completamente nuovi. Per disseppellire coraggio e speranza!

venerdì 17 ottobre 2008

Potere politico e coscienza

In questa ventinovesima domenica del tempo ordinario il brano del vangelo di Matteo proposto dalla liturgia, pone in campo lo spinoso problema del rapporto tra potere politico e fede. Nelle pagine precedenti (che corrispondono all’incirca ai brani letti nelle domeniche passate: la cacciata dei venditori dal tempio - Mt 21,12-17; l’animata discussione di Gesù con i sommi sacerdoti e gli anziani - Mt 21,23-22-14 - con le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi e del banchetto nuziale), Gesù aveva portato la sua durissima critica contro la commistione tra potere politico e potere religioso.

Ora la prospettiva, pur rimanendo sempre nell’ambito della tensione con i capi religiosi ebraici, pare ricevere un leggero, ma determinante, mutamento: in gioco non è più tanto il rapporto del potere politico con la religione (intesa come organizzazione esteriore dei rapporti tra gli uomini e Dio), quanto la possibilità della fede (dell’autentico rapporto personale con Dio) alla luce del potere politico.
Sostanzialmente all’operazione di farisei e affini che vincolavano la fede personale a un impianto religioso rigido e intransigente («Gli scribi e i farisei legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito», Mt 23,4), in più intrallazzato col potere politico («Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati», Mt 23,17), Gesù oppone una duplice separazione dei piani: nella polemica coi capi religiosi rompe l’identificazione tra fede e forma religiosa, ponendo quest’ultima come relativa alla prima (la forma religiosa serve la fede, la regola serve l’uomo, mai viceversa: «Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato», Mc 2,27); e, nel brano di oggi, separa l’intreccio tra fede personale e potere.
Ma andiamo con ordine...
Per comprendere a fondo le letture che la Chiesa ci propone e le problematiche a cui essa fa riferimento, bisogna fare una piccola digressione sulla situazione storica di Israele.
Nella prima lettura infatti si parla del re Ciro. Egli era il re del popolo persiano: non era dunque un ebreo, ma un dominatore straniero! Perché allora il brano di Isaia lo celebra come un eletto di Dio («Dice il Signore del suo eletto, di Ciro»)? Perché Ciro era stato il re che nel 538 a.C. aveva sconfitto i babilonesi (il popolo che aveva costretto Israele all’esilio nel 586 a.C.), permettendo agli ebrei di ritornare in patria e di ricostruire il tempio. È sempre stato quindi guardato dalla storiografia ebraica come uno strumento (inconscio?) nelle mani del Dio di Israele («io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca»).
Ma il motivo più plausibile per cui questa lettura è stata accostata al brano del vangelo di Matteo sul tributo a Cesare, non è tanto l’edificazione che risulterebbe nell’apprendere che Dio interviene nei giochi politici storici servendosi di strumenti umani anche inusuali – stranieri – (che è una lettura molto banalizzante i rapporti tra Dio e l’uomo), quanto piuttosto il fatto che anche nel vangelo il problema è quello di un dominatore straniero, i Romani: molto meno amati di Ciro.
Nel 63 a.C. infatti le truppe romane avevano conquistato Gerusalemme, rendendo la Palestina una provincia dell’Impero, con tutte le conseguenze socio-politico-economiche che questo comportava, e suscitando molta scontentezza. Non a caso forte era l’attesa della liberazione da parte di un Messia che avrebbe liberato dalla dominazione straniera.
Questo breve excursus forse rende più evidente come il problema che soggiace alla provocazione dei farisei e degli erodiani nei confronti di Gesù non sia semplicemente – come già detto – il rapporto tra potere politico e coscienza personale, ma piuttosto il rapporto tra potere politico straniero e la fede. Sostanzialmente dietro la domanda «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?», non c’è semplicemente la richiesta di un’indicazione pratica (cosa è opportuno fare), ma la pretesa di una presa di posizione di Gesù rispetto alla dominazione straniera. Da che parte sta? Da quella degli zeloti, che volevano cacciare i romani attraverso una rivoluzione violenta; o da quella dei capi religiosi che si adattavano alla dominazione?
Il problema in Israele infatti (ma in generale nelle società antiche) non era quello del rapporto coscienza personale – potere politico, perché quest’ultimo spesso era un tutt’uno col potere religioso. Non a caso, agli ebrei non avrebbe fatto alcun problema se il potere politico fosse stato ebraico. Al di là della realtà storica infatti essi hanno sempre idealizzato il periodo della monarchia (cfr il re Davide) e – come detto – molti al tempo di Gesù sognavano un messia re, guerriero e liberatore politico.
Ma la dominazione straniera, odiosa soprattutto perché pagana, proponeva un problema nuovo per la storia dell’umanità; il punto infatti è se per la fede è necessariamente implicata l’autorità politica su un territorio o su un popolo.
In verità non era un problema dell’ultima ora per Israele: l’aveva già affrontato durante l’esilio, quando i profeti avevano sottolineato come il vero tempio, la vera legge, sarà quella scritta nei cuori degli uomini («porrò la mia legge in mezzo a loro e sul loro cuore la scriverò», Ger 31,33). Ed è proprio nella scia di questi uomini di Dio che anche Gesù pone la sua risposta: No – dice – per la fede personale dell’uomo, per il suo rapporto intimo col Signore non è necessario né un impianto religioso, né un dominio politico. I piani sono separati, riguardano sfere diverse dell’interiorità umana: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Sono tutte vere poi le obiezioni che potrebbero nascere, in particolare quella per cui non sarebbe possibile separare come con un bisturi gli ambiti che riguardano l’uomo (in questo caso il potere politico e la fede): l’uomo infatti è un tutt’uno, non è fatto a compartimenti stagni e quanto vive rifluisce sempre sulla totalità di quello che è...
È vero, ma queste sono tutte osservazioni in seconda battuta: che possono essere accolte e che anche possono (e magari devono) correggere la radicalità della separazione che Gesù pone in campo (lui stesso sperimenterà sulla sua pelle l’impossibilità di dividere rapporto con Dio e potere politico: morirà infatti per un motivazione religiosa, ma per mano romana), ma che valgono solo dopo che si è fatta salva la questione fondamentale, cioè che la struttura fondante dell’uomo è il suo sempre possibile rapporto con Dio (l’unica cosa che lo fa Uomo), in qualsiasi condizione, non certo da chi è governato.
Indipendentemente dunque da un giudizio di merito sul potere politico, quello che Gesù vuole ribadire è che niente condiziona (tanto da renderlo impossibile), il rapportarsi dell’uomo al suo Dio, neanche la dominazione straniera, neanche la perdita del tempio («viene un' ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità», Gv 4,23), neanche la perdita della libertà (Etty Hillesum scrive da dentro un campo di concentramento: «tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio»), neanche la perdita della vita («Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito». Detto questo, spirò», Lc 23,46).
Certo, non bisogna fraintendere: questo non vuol dire che Gesù giustifichi o promuova il disimpegno sociale e politico! Riprendendo le parole di Armido Rizzi, infatti, è indubitabile che «la risposta dell’uomo all’amore di Dio è l’amore per il prossimo»!
Eppure, c’è una risposta ancora più fondante di fronte alle cose che ci si stringono addosso (dominazione straniera, sofferenze, fallimenti, malattie, morte...): l’amicizia con Dio. È la risposta che ha dato anche Teresa di Gesù, un’altra grande donna che la storia dell’umanità ha partorito. Un’altra che come Etty, di fronte a una situazione storica di profonda oppressione e di forte limitazione (in proposito scrive: «Signore dell’anima mia, tu, quando peregrinavi quaggiù sulla terra, non aborristi le donne, ma anzi le favoristi sempre con molta benevolenza e trovasti in loro tanto amore e persino maggior fede che negli uomini. Infatti vi era fra loro la tua santissima Madre... Nel mondo le onoravi... Ci sembra quindi impossibile che non riusciamo a fare alcunché di valido per te in pubblico, che non osiamo dire apertamente alcune verità che piangiamo in segreto, che tu non debba esaudirci quando ti rivolgiamo una richiesta così giusta? Io non lo credo, Signore, perché faccio affidamento sulla tua bontà e giustizia. So che sei un giudice giusto e non fai come i giudici del mondo, i quali essendo figlio di Adamo e in definitiva tutti uomini, non esiste virtù di donna che non ritengano sospetta»), ha saputo custodire la sua interiorità, lo spazio di un’amicizia, che diventa possibilità di custodire un senso, una globalità positiva dell’esistenza, ultimo approdo della coscienza dove solo io decido a chi appartenere:
«L’orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente intrattenersi in solitudine con Colui dal quale sappiamo di essere amati. [...] Voglio dire anzitutto – secondo la mia debole capacità – in che consista la sostanza dell’orazione perfetta. Mi sono incontrata con alcune anime che credevano consistesse tutta nell’esercizio dell’intelletto. Se potevano tenersi a lungo con Dio, fosse pure a prezzo di grandi sforzi, si credevano subito spirituali. Se poi, loro malgrado, si distraevano, benché per occuparsi in cose buone, cadevano nello scoraggiamento ritenendosi perdute. In questi errori ed ignoranze non finiranno certo i dotti, benché ne abbia trovato qualcuno anche fra di loro. Ma noi donne conviene che ce ne stiamo in guardia. Non voglio dire con questo che non sia una grande grazia di Dio poter meditare continuamente sulle sue opere: anzi, è bene che lo si faccia. Però bisogna persuadersi che non tutti sono atti di loro natura ad applicarvisi, mentre tutte le anime sono capaci di amare. [...] Ne viene quindi che il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare».

venerdì 18 luglio 2008

Il male è “dentro”… Dio!

Supponiamo dunque che Dio somigli ad una casa
o ad un palazzo molto grande e bello
e che questo palazzo, ripeto, sia precisamente Dio stesso.

Può forse il peccatore scappare da questo palazzo,
per compiere le sue malvagità? No, di certo.
Per cui, è proprio dentro tale palazzo costituito da Dio stesso,
che vengono perpetrate tutte le abominazioni,
le disonestà e le malefatte che commettiamo noi peccatori.

È davvero una cosa tremenda,
che deve impensierire e al contempo risultare vantaggiosa,
a noi che sappiamo così poco
da non arrivare nemmeno a comprendere una buona volta
queste verità,
perché altrimenti ci risulterebbe impossibile
avere una sfrontatezza così insensata.

Consideriamo, sorelle,
la grande misericordia e la grande pazienza di Dio,
che non ci sprofonda lì stesso e immediatamente nell’abisso. Rendiamogli le più calorose grazie
e vergogniamoci di risentirci per qualunque cosa
si faccia o si dica contro di noi.

È infatti la peggior ribalderia del mondo
il constatare come Dio stesso nostro Creatore
soffra tanti affronti
da parte di creature operanti dentro lui stesso,
e poi lasciarci andare noi medesime a prendercela talvolta
per una semplice parola detta in nostra assenza,
e magari nemmeno con cattiva intenzione.


(S. TERESA D’AVILA, Il castello interiore, 6 MANSIONE CAP. 10,3 - trad. E. Martinelli)
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