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mercoledì 25 maggio 2016

Corpus Domini 2016


Dal libro della Genesi (Gn 14,18-20)

In quei giorni Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». Abram gli diede la decima di tutto.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 11,23-26)

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

Dal vangelo secondo Luca (Lc 9,11-17)

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a compare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

Dopo Pentecoste è ricominciato il tempo ordinario. Nella liturgia domenicale però è ancora difficile accorgersene, perché settimana scorsa abbiamo celebrato la festa della Trinità e questa settimana siamo alle prese con il Corpus Domini. È come se il ritorno al tempo ordinario vero e proprio fosse introdotto da queste solennità che vogliono riportare al centro della riflessione dei cristiani i punti centrali della fede: il Dio trino ed unico, la persona di Gesù.

In entrambi i casi, e come sempre quando si ha a che fare con la rivelazione cristiana, in gioco c’è il volto di Dio: Chi è il Dio in cui crediamo?

Questa settimana, in particolare, l’accento è posto sul fatto che il Dio che Gesù ci ha mostrato è un Dio che si dà da mangiare.

Spesso agli dei e ai potenti, il popolo chiede il pane. Ma il rapporto che si crea in questo modo è problematico: il pane è dato in cambio di una sudditanza, come premio o come prezzo per l’obbedienza e la sottomissione.

Anche Gesù ha corso questo rischio: quando ha dato il pane, c’era chi voleva farlo re. È lì che ha capito che non poteva essere quella la via per condurre gli uomini al Padre. Sarebbe stato un rapporto inficiato in partenza. E i sinottici l’hanno ben chiarito raccontando l’episodio delle tentazioni nel deserto: Gesù viene tentato sul modo di essere Dio e una di queste tentazioni è quella di conquistare le folle col pane: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane» (Lc 4,3). Ma Gesù sapeva che così avrebbe conquistato solo servi, non amici. Gli rispose infatti: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo».

Non di solo pane… c’è dell’altro nella relazione che Gesù vuole proporre agli uomini.

Non solo soddisfazione di bisogni… ma sbilanciamento reciproco, fiducia, compromissione…

E come fare a dire tutto ciò? Come far capire agli uomini che Dio non è un erogatore di servizi, ma un interlocutore relazionale?

Riprendendo l’immagine del pane e trasformandola: il pane entra nella nostra pancia, viene assimilato e così ci nutre.

Dio vuole una relazione così con gli uomini, intima fino a quel livello: non è estrinseco rispetto a noi, lontano, chiuso nel suo cielo, ma è nelle nostre viscere. È nelle profondità del nostro io che interagisce con noi ed è da lì che ci dà energia e vita.

E così Gesù smise di dare il pane, per farsi pane.

Non ha più distribuito panini, ma ha identificato il suo corpo e il suo sangue col pane e col vino, perché ogni volta che ne avessimo mangiato nel suo nome, facessimo memoria della nostra relazione intima con Dio.

martedì 2 giugno 2015

Corpus Domini


Dal libro dell’Èsodo (Es 24,3-8)

In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,11-15)

Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 14,12-16.22-26)

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

 

Il tempo ordinario è ricominciato da due domeniche, ma – come settimana scorsa ci siamo trovati di fronte alla solennità della Trinità – anche questa domenica la liturgia ci propone di nuovo una solennità extra-ordinaria: la festa del Corpus Domini.

Sono feste che lasciano un po’ perplessi, in quanto forse – a ben guardare – ogni domenica è la festa della Trinità e ogni domenica è la festa del Corpus Domini… E, se pure si capisce l’intento pastorale di voler focalizzare l’attenzione della comunità credente su questi aspetti della fede cristiana, il rischio è, solennizzando, quello di fare della Trinità e del corpo e sangue di Gesù non delle realtà quotidiane da vivere e con cui interagire, ma dei “misteri” arcani percepiti come distanti.

Per questo la mia riflessione di questa settimana vorrebbe essere più che altro un invito a cogliere l’occasione di queste ricorrenze per riportare nel nostro vissuto la relazione con Dio Padre, Figlio e Spirito santo, passando per i gesti che Gesù ci ha lasciato: il dono del pane e del vino, segni del dono del suo corpo e del suo sangue.

Tante cose sono state dette sulla scelta del pane e del vino, sulla “spiegazione in anticipo” che Gesù nell’ultima cena fa della sua consegna sulla croce… ancora di più ne sono state dette sull’importanza della messa, dell’assolvimento del precetto domenicale, della comunione…

Ma la realtà è che il rito, un po’ sclerotizzato dall’abitudine e dalla concentrazione della predicazione sulla “obbligatorietà” di parteciparvi, non riesce più a farci prendere coscienza si cosa sia in realtà ciò che celebriamo.

E nemmeno il tentativo del Concilio Vaticano II di rendere la messa non più qualcosa a cui si assisteva, ma – con l’introduzione della lingua parlata dalla gente in sostituzione del latino e con altri accorgimenti liturgici – qualcosa a cui si partecipava, sembra aver davvero segnato una svolta.

Forse davvero bisognerebbe che ogni comunità credente che si ritrova intorno al suo fondamento (la Parola di Dio, la mensa eucaristica, la fraternità tra cristiani) provasse a mettersi intorno ad un tavolo per dirsi il senso di quel ritrovarsi, il senso di quel fondamento e magari a riscrivere una liturgia che riesca davvero a dire – in quel contesto, per quella gente – questo senso.

È evidente che questo lavoro chiama in causa tutta una serie di altri aspetti (per esempio il senso di essere una comunità, una comunità radunata intorno alla fede nel vangelo di Gesù, una comunità di fratelli e sorelle, una comunità di fratelli e sorelle radunata intorno alla fede nel vangelo di Gesù che vive immersa in un mondo di altri fratelli e sorelle umani, ma non cristiani, ecc…), ma se non si parte da qualche parte (che sia la messa, il senso della comunità, il fondamento che la costituisce, o qualsiasi altro aspetto del nostro essere cristiani), continueremo a vivere ogni atto della vita in maniera slegata da un sistema di pensiero, da un orizzonte di senso, da una logica pervasiva che tenga insieme tutto ciò che siamo e che renda ragione della nostra identità.

Provo a spiegarmi con un esempio: è come una coppia di persone che si amano che fanno abitualmente l’amore, ma hanno smarrito le ragioni della loro relazione: che non sanno più pensarsi come coppia, che non sanno più dirsi come fondati sull’identità che quell’amore e quella relazione gli ha dato.

Fare l’amore va bene, ma scollegato da un orizzonte di senso che riesce a dire chi sono io, rischia di diventare un gesto svuotato come l’involucro di una relazione che non c’è più.

Io credo sia così per la messa dei cristiani: è rimasto l’involucro, ma si è perso il senso della relazione che lì vi è in gioco. E hanno un bel parlare i preti sulla necessità di andarci, sul sacramento eucaristico come fonte e culmine della fede… hanno ragione, ma anche le loro parole sono vuote: dicono l’importanza di una cosa che però non esiste, se non nominalmente.

Eppure… se Gesù ha detto «fate questo in memoria di me», vuol dire che lì dentro c’è qualcosa che non si può perdere per strada. Ma tenerlo, così come lo si tiene oggi, vuol proprio dire perderlo per strada o far finta di non averlo già perso per strada.

Ecco perché la necessità di mettersi intorno ad un tavolo e chiedersi: ma perché, tra tutte le cose che Gesù ha detto e fatto, proprio di questa ha detto “fatela in memoria di me”?

Avrei la tentazione di dire immediatamente la mia, di riempire il vuoto che si crea accettando di ripensarci (perché ogni volta che si accetta di ripensare a qualcosa, al senso di qualcosa, si crea un vuoto che spaventa), ma il farsi prendere dalla fretta (dall’ansia) di riempire subito questo vuoto credo corrisponderebbe ancora una volta col mettere un rattoppo posticcio.

Forse, farebbe tanto più bene alla comunità credente e a ciascun cristiano, stare un po’ a mollo nel vuoto di senso delle nostre liturgie, perché questo sbaraglierebbe il campo dal facile rifugiarsi in formule o frasi fatte, in considerazioni chissà quante volte già sentite, e aprirebbe la strada a un vero ri-pensamento, che – come dicevamo prima – parta da un qualsiasi punto, ma arrivi a riscrivere l’insieme della vita della Chiesa.

Forse, come diceva p. Mario nell’ultima lectio qui nella Fraternità di Lessolo, davvero bisognerebbe immergersi in un sano ateismo che ci facesse abbattere un bel po’ di idoli (di cui i più perniciosi sono quelli smaltati di cristianesimo) per ritornare a farsi insegnare la vita cristiana dal vangelo di Gesù.

mercoledì 18 giugno 2014

Corpus Domini


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 8,2-3.14-16)

Mosè parlò al popolo dicendo: «Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 10,16-17)

Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 

«Nell’atto di dare vita risplende sempre immediatamente il fondamento: nel generare e nel nutrire, nel far vedere cose belle e nel far ascoltare notizie buone, nella cura e nella guarigione, nella risurrezione e nel perdono. […] Questa è la differenza: il fondamento come dominio, il fondamento come dedizione» (Sequeri).

Quella proposta dal teologo, è la medesima evidenza che i testi offerti dalla Chiesa per questa festa del Corpus Domini ribadiscono: il volto del Dio cristiano è, inequivocabilmente, dedizione!

Le letture infatti ci accompagnano in un percorso che da Mosè a Gesù, dal popolo ebraico alla Chiesa, dall’uomo di ieri all’uomo di oggi, ci mostra l’apparire di questa evidenza e la faticosa e magmatica storia con cui gli uomini l’hanno dipanata, riconosciuta come persuasiva, scelta come affidabile.

Infatti il capitolo 8 del libro del Deuteronomio, che andrebbe letto per intero, si colloca all’interno del discorso che Mosè, prima di morire, fa al popolo, che ormai sta per entrare nella Terra Promessa. Tutti i capitoli precedenti sono una sorta di riepilogo del cammino percorso fino a quel momento nel deserto; cammino da ricordare («Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto»), proprio perché luogo dell’apparire della dedizione di Dio, come suo univoco volto: «ti ha nutrito di manna. […] Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni».

Eppure, per arrivare a questa evidenza, serve che si proceda con qualche passo intermedio, perché l’impalcatura del brano, con la sua sinuosa articolazione, ci chiede di evitare facili liofilizzazioni del suo messaggio e quindi, al contrario, di fare la fatica di percorrerlo. Infatti è solo “dal di dentro” della narrazione che, ciò che viene interpellata, è la nostra libertà (e non solo il nostro intelletto o il nostro “buon costume”); è solo da lì che il testo biblico (la parola di Dio!) chiama in causa il nostro deciderci-per! Qualsiasi altro approccio infatti, che non contempli il coinvolgersi vitale nella vicenda narrata, ha sempre in sé il rischio di ridurre la Sacra Scrittura a “manuale dei buoni consigli”.

E di fatti immediatamente ci accorgiamo che insieme alle parole inequivoche della cura, ce ne sono altre («Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te») di cui bisogna rendere ragione; di cui bisogna rendere ragione, tra l’altro, evitando di rimettere in discussione il fondamento come univocamente buono: dopo Gesù infatti non si possono più sfruttare argomentazioni del tipo «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?» (Gb 2,10), perché da Dio non viene il male, neanche per educarci! E quindi non si può più, dopo Gesù, leggere le frasi apparentemente problematiche della prima lettura («per umiliarti e metterti alla prova»; «ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame»; «come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te») come se Dio infliggesse “a freddo” umiliazioni, prove, stenti per un bene più grande! Ancora Sequeri, afferma: «Si tratta di togliere ogni ombra di dominio e di assoggettamento alla relazione che caratterizza Dio: neppure a fin di bene Dio esercita la propria potenza». E se invece, leggendo le espressioni che paiono rimandare a un infliggere il male all’uomo da parte di Dio, a noi viene il dubbio su Dio, sull’ambiguità del suo volto, dobbiamo ricordarci che quello lì, che ci viene in mente, non è dio! Forse ce lo hanno anche messo in testa così… ma non è Lui!

Come rendere allora ragione di queste frasi che paiono suonare male?

Anzitutto, mai de-contestualizzarle, sia culturalmente (sono espressioni linguistiche di un tempo storico ben determinato, così come di un luogo geografico e di società specifici), sia letterariamente (sono contenute nello svolgersi di un discorso, che ha le sue finalità, le sue ragioni, le sue regole stilistiche…). Questo, certo, non esaurisce la loro carica problematica, ma se non altro la colloca.

Serve comunque qualcosa di più per renderne ragione. E ciò che manca è infatti l’intelligenza del brano: ossia, cosa significano, nel loro contesto, l’umiliare, il mettere alla prova, il far provare la fame, il correggere?

Una chiave di lettura la si può trovare in tre punti particolari del testo, che ne segnano anche i passaggi fondamentali: «per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi»; «per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore»; e una volta entrato nella Terra Promessa, «guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti do; […] il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da […] pensare: “La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze”».

L’intelligenza del racconto è cioè quella per cui il deserto, non tanto come luogo geografico, ma come luogo esistenziale dell’umiliazione, della prova, della fame, della necessità di revisione, ecc, è lo spazio dove l’uomo si ritrova messo in discussione. Questo deserto, che tutti nella vita sperimentiamo (ognuno il suo, personalissimo) è fenomenologicamente presente nell’esistenza umana, c’è, ce lo ritroviamo dentro; e il nostro testo non dà ragione del perché; parte anzi dal dato di fatto di trovarcisi in mezzo! La sua preoccupazione infatti è un’altra: quella di mostrare come questo ritrovarsi messi in discussione (dal dolore, dalla morte, dalla malattia, dalla sofferenza, dalla noia…) non debba diventare il luogo della messa in discussione di Dio. Il male che ci circonda, cioè, non deve arrivare a inficiare nel nostro cuore la relazione con quel Dio dal volto univocamente caratterizzato dalla tenerezza per l’uomo, dalla passione, dalla dedizione. Questo volto, che solo ci con-vince in un deciderci per Lui, non deve essere guardato con sospetto di fronte al male che sperimentiamo (“Se mi succede questa cosa, allora vuol dire che dio ce l’ha con me”; “Cosa ho fatto perché dio mi mandasse questa pena”…)!

Anzi, la prova è proprio il luogo del ri-professarlo affidabile, dalla nostra parte, solidale con noi nel dolore, nella fatica, nella morte del cuore. In questo senso il deserto mostra «quello che avevi nel cuore»: mostra infatti che faccia di Dio avevi conosciuto, se quella “doppia”, a cui attribuire il bene e il male dell’uomo, o quella univoca, del bene per l’uomo, che resta indiscussa anche di fronte alla realtà del male, perché essa non viene da Lui, ma è vivibile con Lui: «l'uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore»! Il deserto perciò non solo non dev’essere il luogo della messa in discussione di Dio, ma anzi deve diventare lo spazio per riconoscerlo l’unico fondamento stabile, l’unico in cui l’uomo può trovare un accudimento convincente per la vita, nei suoi momenti oscuri e nei suoi momenti luminosi.

E di fatti il testo mostra anche il rovescio della medaglia: il tempo della prosperità! Anch’esso rivela che Dio hai in testa (in cuore): se quello che è comunque dalla parte dell’uomo, o se quello da ingraziarsi nel male e da dimenticare nel bene! Perché come scriveva santa Chiara a Ermentrude: «sopporta volentieri i mali avversi e i beni prosperi non ti esaltino: questi, infatti, richiedono la fede, e quelli la esigono».

In questo senso è interessante anche il fatto che nemmeno un certo pensare religioso è esente da questo meccanismo teologico perverso. Lo fa all’incontrario, ma ha lo stesso errore alla radice: quello di chi pare dire “Quando c’è qualcosa che non va nella mia vita è colpa mia, quando c’è qualcosa che va bene è merito di dio…”.

È la medesima prospettiva, anche se rovesciata, della problematica che mette in luce il nostro brano. Ma proprio perché ne è la visione reciproca ne importa anche il difetto: la doppiezza di dio, la sua ambiguità, il suo alternativamente far paura e ricompensare, infliggere e insegnare, mettere alla prova e premiare…

La prospettiva del Dio cristiano invece è radicalmente un'altra, nel senso che cambia fin nella radice questa impostazione, che Gesù stesso definitivamente taccia come improponibile!

Con Lui infatti l’evidenza dell’univocità della dedizione di Dio per l’uomo (da Dio ci viene solo il bene!) si fa definitiva: non solo Dio ci dà da mangiare, ma “ci si dà da mangiare”: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Questo capitolo 6 del Vangelo di Giovanni ha, a detta degli studiosi, il valore che nei sinottici hanno i racconti dell’Ultima cena, della quale infatti Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. Siamo dunque in presenza di un testo eucaristico!

«Ecco questa è la differenza: il fondamento come dominio, il fondamento come dedizione. La differenza è affidata alla libertà. […] Dio è in attesa della decisione dell’uomo: quella cioè di assumersi la responsabilità della parte potenzialmente prevaricatrice che esiste in ogni atto di generazione, in ogni impresa della conoscenza, in ogni esercizio del desiderio, in ogni iniziativa della relazione che mira a stabilire un legame d’amore» (Sequeri). Questa è la vita eucaristica, evangelica, cristica: quella della «disponibilità all’esercizio della libertà a imitazione e somiglianza di Dio: che decide di sottrarre l’energia vitale dell’essere alla sua deriva verso il principio del dominio per convertirla all’indirizzo della dedizione».

martedì 28 maggio 2013

Santissimo corpo e sangue di Gesù


Dal libro della Genesi (Gn 14,18-20)

In quei giorni Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». Abram gli diede la decima di tutto.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 11,23-26)

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

Dal vangelo secondo Luca (Lc 9,11-17)

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a compare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

In questa seconda domenica dopo Pentecoste, la Chiesa ci invita a celebrare un’altra grande solennità: quella del santissimo corpo e sangue di Cristo. Viene così a completarsi una parabola intensissima e altrettanto impegnativa (Tempo di Pasqua – Ascensione – Pentecoste – Trinità – Corpus Domini), che in qualche modo ci fa tornare al momento del suo inizio (Giovedì santo), quando – durante la messa in Coena Domini – avevamo ascoltato proprio la medesima seconda lettura che la liturgia ci propone anche oggi (1Cor 11,23-26).

All’interno di questa parabola “tenuta su” da queste due colonne – da queste due 1Cor 11,23-26 – “c’è dentro tanto”, “c’è stato dentro tanto” (sia a livello liturgico, che dal punto di vista dei misteri celebrati, sia per quanto ha definitivamente toccato le nostre vite…), quasi che a riguardarla ora sembra tanto intensa, tanto decisiva, eppure tanto contratta… davvero, infatti, ancora molto di quella parabola resta e resterà da dire, da com-prendere, da assimilare… I misteri che in essa si sono dati ci superano davvero… e solo una vita di immersione in essi potrà, forse, farci arrivare alla fine un pochino più “cristianizzati”, “evangelizzati”, “umanizzati”…

Se però quest’anno C mette il testo di 1Cor 11,23-26 come punto di inizio e di fine di questo itinerario liturgico, allora forse val la pena già oggi spenderci qualche energia, qualche pensiero, qualche parola…

La prima lettera ai Corinzi è una lettera tanto bella quanto difficile: Paolo infatti la scrive ai suoi di Corinto più che altro per muovergli qualche rimprovero… In questo senso, forse, alcuni passaggi appaiono alla nostra sensibilità odierna un po’ strani… E però – allo stesso tempo – contiene in sé anche sprazzi stupendi, che sono diventati pilastri nella cultura biblica dei cristiani di sempre, anche di quelli meno avvezzi a maneggiare i testi…

È proprio la sorte del nostro capitolo 11, versetti 23-26, la cui collocazione liturgica nella messa in Coena Domini, ne ha fatto un “classicone”: la quarta versione dell’istituzione dell’eucaristia, dopo le tre sinottiche. Anch’esso però – a ben guardare – non ha una collocazione così luminosa, come la lettura dei soli versetti che la seconda lettura di questa domenica propone, sembra lasciar intendere. Anzi: se si fa la fatica di leggere tutto il brano (1Cor 11,17-34), ci si accorge subito come esso coincida esattamente con uno di quei “passaggi duri” della 1Cor di cui si diceva prima: «Mentre vi dò queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio» (v. 17)!

E il problema di cui Paolo si lamenta è quello che attraversa tutta la lettera: «Vi sono tra voi divisioni», «Quando vi radunate insieme il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco».

A questo punto allora Paolo fa memoria di quello che invece è (stata) – e dunque dovrebbe essere – la cena del Signore (vv. 23-26): «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»; dove gli elementi centrali sono sostanzialmente tre:

-       L’identificazione del corpo e sangue di Gesù col pane e col vino;

-       La memoria di lui;

-       La vita consegnata.

Egli infatti – pare dire Paolo ai suoi – in quella sua ultima cena non ha fatto altro che prendere del pane, del vino, identificarli col suo corpo e col suo sangue e dire che se avessero voluto fare memoria di lui, avrebbero dovuto farla così (fate questo / fate così in memoria di me): con un pane spezzato, segno del suo corpo donato e con del vino versato, segno del suo sangue sparso. Segni cioè della sua consegna, per amore, alla morte; della sua consegna, per fede, al rischio del non senso; della sua consegna per la Vita, disposto a perderla… per ritrovarla. Che è quanto Paolo riassume nel suo potentissimo commento al cosiddetto racconto dell’istituzione dell’eucaristia: «Ogni volta che mangiate si questo pane e bevete al calice voi annunciate la mortedel Signore (finché egli venga)». La morte del Signore…

Questa è la solennità del Corpus Domini: non l’idolatrizzazione di un pezzo di pane, ma la memoria che il Signore è Dio così; è colui che vive di una consegna per la vita dell’altro; e di tutto quello che ha detto e fatto, e patito e pregato, ha voluto esplicitamente che questo fosse il gesto sintetico di ciò che lui è (stato): pane / corpo spezzato; vino / sangue versato per

In questo senso anche le parole di Paolo che seguono (e che sono spesso state storpiate e travisate lungo i secoli), trovano la giusta collocazione. Dice infatti l’apostolo: «Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore»; dove ciò che appare con radicalità è l’identificazione forte tra pane / corpo e vino / sangue, tanto che – davvero – chi mangia in modo indegno pane e vino, è colpevole verso il corpo e il sangue del Signore… Ma dove (anche) ciò che va ri-significato è quell’“indegno” che ha davvero martoriato “troppa tanta gente” (che non si dice, ma rende l’idea…).

Perché se è vero quanto detto in precedenza, il problema della degnità / indegnità, non è problema moralistico, ma capacità di accoglienza del mistero della donazione del Signore: cioè accettazione pacificata che il nostro Dio è Colui che si consegna alla morte per amore e che – dunque – se siamo suoi discepoli, quella è la via per cui ci instrada…

Ma questo – proprio perché contempla in sé un’inevitabile storicità (è infatti solo l’interazione tra “vita” e “pensare la vita” che permette tale com-prensione, affidamento, instradamento…) – non ha niente a che vedere con un’estrinseca analisi di sé per vedere se si può essere ammessi “a far la comunione” senza incappare in qualche condanna o nel far adirare un dio di cui feriremmo la dignità col nostro peccato (puntuale o duraturo). Questo dio – va continuamente ripetuto al nostro “io vecchio” – NON è il Dio di Gesù! E la conferma viene dallo stesso Paolo che parla sì di analizzare se stessi («Ciascuno dunque esamini se stesso e poi mangi del pane e beva del calice»), ma non alla ricerca di indegnità morali (peccati), ma alla ricerca dell’unico peccato a cui il Nuovo Testamento dà realmente un peso, che è il non ritenere degno di credito un Dio che ama i suoi figli fino a morirne: «perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore (che cioè del Signore si fa memoria vera quando lo si ricorda come colui che si consegna), mangia e beve la propria condanna».

Abbastanza inutile ripeterlo, ma forse ancora un po’ necessario nella Chiesa del terzo millennio: non si dice questo per sostituire semplicemente l’oggetto dell’analisi puntigliosa e angosciosa della propria vita… prima si andava alla ricerca dei peccati, oggi di quanto veramente sono consapevole / sto credendo che “lì dentro c’è Gesù”… Lo “scaravoltamento” è ad un altro livello! Perché l’analisi puntigliosa e angosciosa è ancora figlia di un altro dio, non di quello di Gesù, qualsiasi sia il suo oggetto… Piuttosto io credo che si possa proprio fare la comunione in pace con il corpo di quel Signore che è Colui che si consegna: nel momento cioè in cui – anche in maniera proprio iniziale, immatura, ingenua, non troppo consapevole, fragile, trepidante, e chi più ne ha più ne metta… – si dà un piccolo credito così al fatto che la vita è Vita quando si consegna per il bene dell’altro, si può star tranquilli che si sta facendo davvero e bene la memoria del Signore, che ha glorificato Dio nel suo corpo, come Paolo invita ciascuno di noi a fare: «Glorificate Dio nel vostro corpo!» (1Cor 6,20). Perché se qualcuno avesse ancora dubbi: «Il Signore è per il corpo» (1Cor 6,13)!

martedì 5 giugno 2012

Corpus Domini 2012: Gesù "può" donare lo Spirito solo dopo aver donato il corpo

È sempre un po’ difficile argomentare riguardo a certe “tematiche” che la Chiesa nelle sue annuali feste liturgiche ci propone. Il rischio è infatti quello o di dire sempre le stesse cose… o di trovare l’appiglio “ad effetto” per variare un po’ sul tema, senza però riuscire a cogliere in profondità il mistero celebrato.

In questa domenica per esempio l’invito che la festa del Corpus Domini implica, è quello di fermarsi a riflettere sul mistero dell’incarnazione, dell’istituzione dell’eucaristia, della presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata (per stare solo alle tematiche immediate e tralasciare quelle correlate), che però – a ben vedere – sono praticamente tutto il mistero cristiano… E allora come fare, in poche righe a tracciare qualche commento su fronti così ampi? Come farlo, soprattutto, evitando i rischi classici della predicazione sopra delineati: usare tante parole e tanti “effetti speciali” per nascondere il niente che si sta dicendo e per velare la fatica dell’oratore di cogliere davvero ciò che è implicato in quanto si celebra; chiudersi in un più onesto, ma non meno infruttuoso silenzio apofatico?

Perché è così difficile? Perché in particolare alcune tematiche lo sono così tanto?

Perché rimandano a problematiche vaste, apparentemente complicate, in qualche modo da riservare agli esperti, sostanzialmente lontane dalla vita: Cosa vuol dire per esempio celebrare la festa del Corpus Domini? Del corpo e sangue del Signore? Cosa implica credere in questa realtà?


Finché si tratta di dire che Gesù nella sua vita terrena aveva un corpo, fatto di carne ed ossa, tutto fila via liscio: qualsiasi cristiano lo ammetterebbe senza fare una piega; così come il dire che nell’ultima cena Egli abbia offerto il suo corpo e il suo sangue, che noi riceviamo ancora oggi a messa. Ma quando si incomincia a dire che Gesù non era un semplice inviato di Dio (come ce ne furono tanti nell’AT), non era un uomo che Dio ha scelto per svolgere una missione, non era neanche un corpo umano che Dio ha animato e condotto come una marionetta per assolvere ad un compito, ma era lui stesso Dio… le cose si fanno complicate. La domanda diventa infatti: Che senso ha parlare di corporeità per Dio?

I più di fronte a quello che appare un complesso problema intellettuale e cervellotico, si stufano, si perdono e lasciano perdere… Anche perché – come già detto – lo avvertono come qualcosa di assolutamente staccato dalla loro quotidianità: di fatto superfluo e dunque inutile rispetto al loro vivere. Ci si accontenta di dire: il parroco da piccolo mi ha insegnato che c’è Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Figlio è sceso sulla terra, si è fatto uomo: quindi era Dio e uomo; è morto per noi e prima di morire ha istituito l’eucaristia donandoci pane e vino, che sono suo corpo e suo sangue. Cosa questo voglia dire, implichi o come avvenga, son problemi del parroco: a me basta andare a messa, dire le preghiere e fare l’offerta, che il problema religioso è risolto. Il resto della vita è un altro conto…

Qualcuno invece – più ardito – insiste molto su questo versante cristiano della “corporeità” di Dio, suggellata dal fatto che il gesto più importante che Gesù ci abbia lasciato ha in sé i segni poveri del pane e del vino, suo corpo e suo sangue. Insistono molto perché individuano in questa logica corporea, una dinamica importantissima per l’individuazione dell’identità umana: la fine cioè di tutto il disprezzo (ereditato dalla filosofia greca) di ciò che è carnale e di tutta l’esaltazione spiritualistica – e disincarnata – che per secoli ha mortificato l’umano, a favore di un’impostazione più unitaria – non più dualistica – su chi l’uomo sia; con tutte le conseguenze sul piano ecclesiale, culturale, sociale che questo nuovo modello antropologico promuove (per esempio l’uguale importanza delle vocazioni, la pari dignità dei membri della Chiesa, la rivalutazione della corporeità, la libertà da certi moralismi, ecc…).

Altri invece, proprio per queste stesse conseguenze ecclesiali, sociali, culturali, si distanziano un po’ da questa insistenza sulla corporeità in Dio, spaventati da una riduzione troppo umana/umanizzata del mistero divino.

In questa situazione sembra proprio che, allora, centrale diventi rispondere alla domanda posta prima: Che senso ha parlare di corporeità per Dio? Infatti solo indagando questa questione, si potrà risvegliare dal torpore il gran numero di persone che avvertono questi discorsi come lontani dalla loro vita, si potrà cioè rendere ragione della loro centralità, non semplicemente ribadendola (come spesso avviene nella predicazione) senza motivarla, ma investigando “il succo del discorso”; e solo in questo modo inoltre si potrà prendere posizione tra l’eterno doppio fronte intra-ecclesiale, diviso tra chi vorrebbe sempre una sottolineatura forte della corporeità e chi invece preferisce trascurarla un po’; solo così infine si potrà prendere posizione non tanto come tifosi di un partito e dunque appassionati, ma determinati solo dal campanilismo, quanto piuttosto sulla base di una capacità di rendere ragione delle proprie posizioni…

Addentrandoci dunque nella complessità di questa problematica, mettiamo subito in luce cosa c’è in gioco: Perché fa così problema pensare insieme Dio e corpo?

Perché tutta la storia della religiosità umana, fin dentro al testo biblico ha pensato Dio come incorporeo, nel senso di illimitato e illimitabile, infinito e invulnerabile, che sono tutte caratteristiche che necessitano una non corporeità: chi ha un corpo ha dei confini e soprattutto è feribile. Scrive Elaine Scarry [in La sofferenza del corpo, il Mulino, Bologna 1990 (1985), 348-49.353-54.360-61]: «In tutto l’Antico Testamento, il potere e l’autorità di Dio sono una conseguenza, estrema e continuamente ribadita, del fatto che gli uomini hanno un corpo ed Egli ne è privo. È questo fatto che, prima di tutto, viene trasformato nella revisione cristiana, poiché, nonostante la differenza tra uomo e Dio continui ad essere immensa come lo era stata nelle Scritture ebraiche, il fondamento di tale differenza non è più costituito dal fatto che uno abbia un corpo e l’Altro no. La trasformazione non riguarda tanto l’oggetto della fede quanto la struttura stessa della fede, la natura dell’immaginazione religiosa. […] Tale modificazione insiste sul fatto che l’onnipotenza, come anche più modeste forme di potere, deve essere connessa alla sensibilità corporea. Non è che il concetto di potere venga eliminato, né tanto meno scompare l’idea della sofferenza: è la precedente relazione tra loro che viene meno. Essi non sono più manifestazioni l’uno dell’altra: il dolore di una persona non è il segno del potere di un’altra. La dimensione della vulnerabilità umana non corrisponde più alla dimensione dell’invulnerabilità divina. Essi sono ora slegati e possono pertanto aver luogo congiuntamente: Dio è sia onnipotente sia soggetto al dolore. […] Connettere sensibilità e autorità, attribuire autorità alla sensibilità, significa collocare il dolore e il potere dalla stessa parte. […] Una delle caratteristiche peculiari del dolore è che il suo opposto, il potere, può trovarsi in un luogo differente; tuttavia, è possibile avvertirne la presenza o l’assenza, l’aumento o la diminuzione, in relazione all’aumentare o al diminuire del dolore. Di solito, la variazione di una coppia di contrari non è parallela ma inversa; l’aumento dell’umido corrisponde a una diminuzione del secco; muovendoci verso est ci allontaniamo da ovest; l’aumento della luce fa diminuire le tenebre. Tuttavia, il fenomeno del dolore ha frequentemente luogo in situazioni in cui il suo accrescimento è accompagnato da un accrescimento di un potere che si accumula altrove. La nuova relazione che si instaura nel Vangelo tra il corpo del credente e l’oggetto della fede sovverte questa relazione di esclusione tra dolore e potere, poiché colloca nello stesso luogo sensibilità e autorità, che non si possono pertanto più avere una alle spese dell’altra. Il conferimento dell’autorità dello spirito alla sensibilità ha come conseguenza anche la dissoluzione del confine tra corpo e voce e permette quindi il passaggio dall’uno all’altra. Nell’Antico Testamento, il corpo appartiene solo all’uomo, e la voce, nella sua forma estrema e priva di attributi, appartiene solo a Dio. Con la croce, ciascuno mantiene la propria collocazione originaria, ma nel contempo fa la sua comparsa nella sfera da cui era stato precedentemente escluso».

Ecco dunque l’implicazione del parlare insieme di Dio e di corpo – possibile solo in Gesù – e cioè lo scardinamento di un’atavica immaginazione religiosa implicante la separabilità di principio di alcuni ambiti: il cielo/la terra; il potere/il patire; il corpo/lo spirito; Dio/l’uomo; il soprannaturale/il naturale; la grazia/la libertà; ecc… In Gesù è cioè richiesta una conversione dell’idea di Dio, dell’idea dell’uomo e della ragione che si usa per pensarli che è talmente scaravoltante i luoghi comuni, le convinzioni sedimentate in secoli di storia, le precomprensioni che succhiamo dal seno di nostra madre, che nemmeno due millenni di cristianesimo sono ancora riusciti a digerire. La lunga citazione riportata mostra qualche sprazzo, indica qualche possibile percorso rispetto a cosa voglia dire questo prendere sul serio l’inedito Dio cristiano che pur restando Dio non può più essere detto – in Gesù – senza corpo; che pur restando onnipotente, non può più essere detto – in Gesù – invulnerabile; che pur restando infinito, in Gesù può essere detto realmente presente in un pezzo di pane e in un goccio di vino. Ma soprattutto che pur restando Dio, non può più essere detto – in Gesù – a prescindere dall’uomo e a priori rispetto alla sua storia con lui, tanto che «L’accesso al senso specifico per la trascendenza divina coincide con il riconoscimento per la propria singolarità (questa è la fede: accogliersi come quell’uomo), giacché la trascendenza divina si rivela dando luogo alla unicità individuale. L’accesso a Dio coincide con l’accesso a io. I due poli sono inseparabili anche se sono né assimilabili, né omologabili» [S. Ubbiali, Il sacramento cristiano, p. 128].

Ma assumere questa prospettiva vuol dire rivedere molti dei nostri schematismi religiosi (individuali ed ecclesiali). Per fare solo un esempio significativo, assumere questa prospettiva vorrebbe dire smettere di pensare il rapporto dell’uomo con Dio come un tentativo di superamento od estraniazione dalla storia, dalla realtà, dalla corporeità, come se queste dimensioni andassero superate, come se da esse bisognasse elevarsi… ma piuttosto pensare il rapporto con Dio come inestricabile dalle nostre dinamiche antropologiche, ammettendo quindi che per l’accesso al sacro ciascuno è di per sé – proprio e solo in quanto umano – già abilitato.

Non a caso Gesù stesso può donare lo spirito (mistero che abbiamo da poco celebrato a Pentecoste) solo dopo aver donato definitivamente il suo corpo: «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30).

venerdì 24 giugno 2011

Corpus Domini

Domenica è la solennità del Corpus Domini: una solennità che risale al XIII secolo e che – nella sua istituzione – aveva l’intenzione di celebrare la presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell’eucaristia. Non a caso tutte le letture che la Chiesa ci propone per questa domenica fanno riferimento al cibo che il Signore dà al suo popolo, che nell’Antico Testamento ha il suo emblema nella manna nel deserto e che nel Nuovo Testamento diventa il darsi di Gesù stesso ai suoi: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».


Le riflessioni che si potrebbero fare in proposito sono innumerevoli, così come gli spunti per ripensare alla nostra relazione col Signore a partire dal dono del suo corpo e del suo sangue, ma anche le attenzioni da avere: troppo spesso lungo la storia (e anche oggi) infatti la presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell’eucaristia è stata intesa con un realismo esasperato o – viceversa – ridotta ad un simbolismo inconsistente. Sono famose in proposito le dispute del IX secolo tra Pascasio Radberto, Ratramno e Giovanni Scoto Eriugena e quelle dell’XI secolo tra Lanfranco di Pavia e Berengario… che porteranno al Concilio Lateranense IV (1215) e alla promulgazione del dogma della transustanziazione.

È difficile oggi entrare in questo dibattito, perché esso risente di una mentalità teologica ed antropologica di stampo metafisico che non è più la nostra... e che rischia di essere travisata, se approcciata con la cultura odierna.

Ciò che inoltre va ulteriormente a complicare il discorso e a costringermi ad entravi in punta di piedi è il fatto che oggi quella mentalità metafisica – abbattuta dalle riflessioni teologiche del XX secolo – non è ancora stata rimpiazzata da una teologia in grado di performare il mondo cristiano. Essa è ancora in “fase di elaborazione” all’interno delle scuole teologiche e – anche dove ha trovato ormai la forma del sistema (e non solo dell’idea abbozzata) – risulta ancora discussa e non di certo diffusa in senso egemonico (come era stato appunto per la metafisica medievale).

Tutto questo per dire che l’“affare” è più complicato di quello che a volte con riduzioni semplicistiche si vuol far credere, senza considerare le conseguenze – anche sul piano pratico/esistenziale – cui un’errata o parziale visione teologica può portare.

Non è certo però compito delle lectio inoltrarsi in una disquisizione teologica che – inevitabilmente – dovrebbe assumere linguaggi e strumenti specifici, che – data la situazione di passaggio del nostro tempo (è finita l’epoca metafisica, ma non si è ancora costruito con solidità un orizzonte di senso teologico rinnovato e condiviso) – risulterebbero un po’ ostici o per lo meno poco accessibili…

Compito della lectio è stare sulla Parola… la quale – come accennato – al di là di tutti i dubbi riflessivi, porta un dato certo: il Dio di Israele è il Dio che si preoccupa e si prende cura del suo popolo, nutrendolo; quello stesso Dio è il Padre di Gesù Cristo che si dà ai suoi… in un momento contingente della storia (nell’ultima cena), che però diventa accessibile per tutti nella memoria di quei suoi gesti e di quelle sue parole…

Contro ogni etereo spiritualismo, il Cristianesimo è quindi la fede in una persona in carne ed ossa, con una storia, con una libertà che si è determinata nel tempo: di lui noi diciamo che è Dio.

E – per entrare maggiormente a indagare il senso teologico ed esistenziale di questo suo essere Dio così – “rubiamo” le parole ad una donna che dell’umanità di Cristo ha fatto il centro della sua vita:

«1. […] In alcuni libri sull’orazione si dice che, sebbene l’anima non possa arrivare da sola a questo stato [unione mistica] – essendo una condizione del tutto soprannaturale e opera unicamente di Dio – potrà però aiutarsi, distaccando lo spirito da tutte le cose create ed elevandolo con umiltà.

[…] Tali libri raccomandano, inoltre, vivamente di allontanare da sé ogni immagine corporea per accedere alla contemplazione della divinità, perché dicono che, per coloro che sono ormai giunti tanto avanti, è d’imbarazzo e d’impedimento a una più perfetta contemplazione anche l’umanità di Cristo. […] Chi scrive questi libri ritiene dunque che […] considerarsi concretamente circondati da ogni parte da Dio e in lui sommerso è quello a cui devono tendere i nostri sforzi.

Questa mi sembra che possa essere una buona via da seguire, qualche volta, ma allontanarsi del tutto da Cristo […] non lo so ammettere.

2. […] A mio parere s’ingannano. Può essere che l’ingannata sia io, ma voglio dire ciò che mi è accaduto.

3. Poiché non avevo un maestro e leggevo quei libri […] procurai di allontanarmi da ogni cosa corporea, pur non osando elevare grandemente l’anima, il che mi sembrava – spregevole com’ero – una temerarietà. Avevo, però, l’impressione – ed era proprio così – di sentire la presenza di Dio e cercavo di starmene raccolta in lui. È un’orazione soave e molto gioiosa, se Dio ci aiuta. E, vedendo il profitto e il piacere che ne traevo, non solo sarebbe stato impossibile farmi tornare alla considerazione dell’umanità di Cristo, ma – a dire il vero – sembrava anche a me un ostacolo.

Oh, Signore dell’anima mia e mio bene, Gesù Cristo crocifisso! Non c’è una sola volta in cui mi ricordi di questo pensiero senza provare una gran pena: mi sembra, infatti, di aver commesso un gran tradimento, sia pure per ignoranza.

4. […] È mai possibile, mio Signore, che io abbia potuto pensare anche solo per un’ora che voi mi sareste stato d’impedimento per un bene maggiore?

6. […] E che abbia potuto io, mio Signore, allontanarmi da voi nell’intento di servirvi meglio! Almeno, quando vi offendevo non vi conoscevo, ma che, conoscendovi, abbia pensato di trarne maggior profitto seguendo questa strada, oh, che strada sbagliata battevo, Signore! Anzi, come mi sembra, ero del tutto fuori strada. […] Io vedo chiaramente, e l’ho visto dopo quell’inganno, che per essere graditi a Dio e per ottenere che ci doni speciali grazie, egli vuole che si passi attraverso questa sacralissima umanità di Cristo, in cui Sua Maestà disse di compiacersi.

[…] 9. Che noi a bella posta procuriamo di disabituarci dal cercare con tutte le nostre forze di aver sempre dinanzi – piacesse al Signore che fosse davvero sempre! – questa sacratissima umanità, è ciò che – ripeto – non mi sembra ben fatto. È, come suol dirsi, un camminare per aria, perché allora l’anima sembra andare senza appoggio, pur nella ferma convinzione di essere piena di Dio. È molto importante, finché viviamo in veste umana, aver presente il Signore come uomo.

10. […] Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia.

[…] Per questo è un bene, come ho detto, non adoperarci a cercare consolazioni spirituali; qualsiasi cosa succeda, stiamo abbracciati alla croce, che è una grande cosa.

[…] 11. Dio si compiace molto nel vedere un’anima prendere umilmente per mediatore suo Figlio. […] Quantunque abbia a soffrirne un po’, non giungerà mai a quella inquietudine e a quella pena di alcune persone che, se non si impegnano sempre a lavorare con l’intelletto e a far pratiche di devozione, pensano che tutto sia perduto, come se un così gran bene potesse essere merito dei loro sforzi.

Non dico che non ci si debba impegnare ad ottenerlo e a stare ben raccolti davanti a Dio, ma che, se non si riesce ad avere neppure un buon pensiero, non ci si disperi.

[…] 14. Voglio, dunque, concludere così: che quando pensiamo a Cristo, dobbiamo sempre ricordarci dell’amore con il quale ci ha fatto tante grazie, e di quello, immenso, che ci ha testimoniato dio col darcene tale pegno. Amore chiama amore, e anche se siamo agli inizi e tanto miserabili, cerchiamo di riflettere sempre su questa verità e di stimolarci all’amore» [Santa Teresa di Gesù, Vita 22].

venerdì 4 giugno 2010

Santissimo corpo e sangue di Gesù

In questa seconda domenica dopo Pentecoste, la Chiesa ci invita a celebrare un’altra grande solennità: quella del santissimo corpo e sangue di Cristo. Viene così a completarsi una parabola intensissima e altrettanto impegnativa (Tempo di Pasqua – Ascensione – Pentecoste – Trinità – Corpus Domini), che in qualche modo ci fa tornare al momento del suo inizio (Giovedì santo), quando – durante la messa in Coena Domini – avevamo ascoltato proprio la medesima seconda lettura che la liturgia ci propone anche oggi (1Cor 11,23-26).

All’interno di questa parabola “tenuta su” da queste due colonne – da queste due 1Cor 11,23-26 – “c’è dentro tanto”, “c’è stato dentro tanto” (sia a livello liturgico, che dal punto di vista dei misteri celebrati, sia per quanto ha definitivamente toccato le nostre vite…), quasi che a riguardarla ora sembra tanto intensa, tanto decisiva, eppure tanto contratta… davvero, infatti, ancora molto di quella parabola resta e resterà da dire, da com-prendere, da assimilare… I misteri che in essa si sono dati ci superano davvero… e solo una vita di immersione in essi potrà, forse, farci arrivare alla fine un pochino più “cristianizzati”, “evangelizzati”, “umanizzati”…

Se però quest’anno C mette il testo di 1Cor 11,23-26 come punto di inizio e di fine di questo itinerario liturgico, allora forse val la pena già oggi spenderci qualche energia, qualche pensiero, qualche parola…
La prima lettera ai Corinzi è una lettera tanto bella quanto difficile: Paolo infatti la scrive ai suoi di Corinto più che altro per muovergli qualche rimprovero… In questo senso, forse, alcuni passaggi appaiono alla nostra sensibilità odierna un po’ strani… E però – allo stesso tempo – contiene in sé anche sprazzi stupendi, che sono diventati pilastri nella cultura biblica dei cristiani di sempre, anche di quelli meno avvezzi a maneggiare i testi…
È proprio la sorte del nostro capitolo 11, versetti 23-26, la cui collocazione liturgica nella messa in Coena Domini, ne ha fatto un “classicone”: la quarta versione dell’istituzione dell’eucaristia, dopo le tre sinottiche. Anch’esso però – a ben guardare – non ha una collocazione così luminosa, come la lettura dei soli versetti che la seconda lettura di questa domenica propone, sembra lasciar intendere. Anzi: se si fa la fatica di leggere tutto il brano (1Cor 11,17-34), ci si accorge subito come esso coincida esattamente con uno di quei “passaggi duri” della 1Cor di cui si diceva prima: «Mentre vi dò queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio» (v. 17)!
E il problema di cui Paolo si lamenta è quello che attraversa tutta la lettera: «Vi sono tra voi divisioni», «Quando vi radunate insieme il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco».
A questo punto allora Paolo fa memoria di quello che invece è (stata) – e dunque dovrebbe essere – la cena del Signore (vv. 23-26): «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»; dove gli elementi centrali sono sostanzialmente tre:

- L’identificazione del corpo e sangue di Gesù col pane e col vino;

- La memoria di lui;

- La vita consegnata.

Egli infatti – pare dire Paolo ai suoi – in quella sua ultima cena non ha fatto altro che prendere del pane, del vino, identificarli col suo corpo e col suo sangue e dire che se avessero voluto fare memoria di lui, avrebbero dovuto farla così (fate questo / fate così in memoria di me): con un pane spezzato, segno del suo corpo donato e con del vino versato, segno del suo sangue sparso. Segni cioè della sua consegna, per amore, alla morte; della sua consegna, per fede, al rischio del non senso; della sua consegna per la Vita, disposto a perderla… per ritrovarla. Che è quanto Paolo riassume nel suo potentissimo commento al cosiddetto racconto dell’istituzione dell’eucaristia: «Ogni volta che mangiate si questo pane e bevete al calice voi annunciate la morte del Signore (finché egli venga)». La morte del Signore…
Questa è la solennità del Corpus Domini: non l’idolatrizzazione di un pezzo di pane, ma la memoria che il Signore è Dio così; è colui che vive di una consegna per la vita dell’altro; e di tutto quello che ha detto e fatto, e patito e pregato, ha voluto esplicitamente che questo fosse il gesto sintetico di ciò che lui è (stato): pane / corpo spezzato; vino / sangue versato per
In questo senso anche le parole di Paolo che seguono (e che sono spesso state storpiate e travisate lungo i secoli), trovano la giusta collocazione. Dice infatti l’apostolo: «Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore»; dove ciò che appare con radicalità è l’identificazione forte tra pane / corpo e vino / sangue, tanto che – davvero – chi mangia in modo indegno pane e vino, è colpevole verso il corpo e il sangue del Signore… Ma dove (anche) ciò che va ri-significato è quell’“indegno” che ha davvero martoriato “troppa tanta gente” (che non si dice, ma rende l’idea…).
Perché se è vero quanto detto in precedenza, il problema della degnità / indegnità, non è problema moralistico, ma capacità di accoglienza del mistero della donazione del Signore: cioè accettazione pacificata che il nostro Dio è Colui che si consegna alla morte per amore e che – dunque – se siamo suoi discepoli, quella è la via per cui ci instrada…
Ma questo – proprio perché contempla in sé un’inevitabile storicità (è infatti solo l’interazione tra “vita” e “pensare la vita” che permette tale com-prensione, affidamento, instradamento…) – non ha niente a che vedere con un’estrinseca analisi di sé per vedere se si può essere ammessi “a far la comunione” senza incappare in qualche condanna o nel far adirare un dio di cui feriremmo la dignità col nostro peccato (puntuale o duraturo). Questo dio – va continuamente ripetuto al nostro “io vecchio” – NON è il Dio di Gesù! E la conferma viene dallo stesso Paolo che parla sì di analizzare se stessi («Ciascuno dunque esamini se stesso e poi mangi del pane e beva del calice»), ma non alla ricerca di indegnità morali (peccati), ma alla ricerca dell’unico peccato a cui il Nuovo Testamento dà realmente un peso, che è il non ritenere degno di credito un Dio che ama i suoi figli fino a morirne: «perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore (che cioè del Signore si fa memoria vera quando lo si ricorda come colui che si consegna), mangia e beve la propria condanna».
Abbastanza inutile ripeterlo, ma forse ancora un po’ necessario nella Chiesa del terzo millennio: non si dice questo per sostituire semplicemente l’oggetto dell’analisi puntigliosa e angosciosa della propria vita… prima si andava alla ricerca dei peccati, oggi di quanto veramente sono consapevole / sto credendo che “lì dentro c’è Gesù”… Lo “scaravoltamento” è ad un altro livello! Perché l’analisi puntigliosa e angosciosa è ancora figlia di un altro dio, non di quello di Gesù, qualsiasi sia il suo oggetto… Piuttosto io credo che si possa proprio fare la comunione in pace con il corpo di quel Signore che è Colui che si consegna: nel momento cioè in cui – anche in maniera proprio iniziale, immatura, ingenua, non troppo consapevole, fragile, trepidante, e chi più ne ha più ne metta… – si dà un piccolo credito così al fatto che la vita è Vita quando si consegna per il bene dell’altro, si può star tranquilli che si sta facendo davvero e bene la memoria del Signore, che ha glorificato Dio nel suo corpo, come Paolo invita ciascuno di noi a fare: «Glorificate Dio nel vostro corpo!» (1Cor 6,20). Perché se qualcuno avesse ancora dubbi: «Il Signore è per il corpo” (1Cor 6,13)!

venerdì 12 giugno 2009

Prendete: questo è il mio corpo, questo il mio sangue!...

I Lettura : Es 24, 3-8
In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: «Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!». Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
II Lettura: Eb 9, 11-15
Fratelli, Cristo, invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalla opere morte, per servire il Dio vivente? Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.
Vangelo: Mc 14, 12-16. 22-26
Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua. Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio». E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Alla fine… una cena “pasquale” tra amici per il mondo intero!
Siamo arrivati al periodo che chiamiamo “ordinario”, nel cammino liturgico vitale della Chiesa, dopo un lungo percorso di PAROLE antiche e nostre – di GESTI simbolici ed efficaci – di FATTI storici che trasformano la vita…: Pasqua di passione e resurrezione, Ascensione, Pentecoste, Trinità. Oggi, ed è il culmine, è la festa del “corpo e sangue del Signore”. Non è stato semplicemente un cammino liturgico e cultuale, ma è la risposta esistenziale dei primi amici e discepoli di Gesù, al problema che li ha sconvolti, riguardante la sua messianicità. Ecco la domanda centrale: Gesù è davvero il Messia, salvatore del mondo e di ciascuno di noi? o ci riserviamo varie altre àncore di salvezza? O… non c’è nessuna salvezza? Anche il discepolo di oggi gioca la sua fede sulla risposta a queste domande. Il nuovo Testamento, dai Vangeli agli Atti fino all’Apocalisse, è il racconto della risposta consapevole e sperimentata della chiesa nascente alla grande domanda: ognuno è in grado di raggiungere e rivivere, per la forza dello Spirito, ciò che Gesù ha vissuto e insegnato come spiega Pietro in una splendida sintesi, fin dal suo primo discorso alla gente:
Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene … voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. … Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire… All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?».E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. … Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere (At 2,22s).
Già la sintesi prima della fede cristiana era arrivata, dunque, al gesto fondante dello “spezzare il pane”…
Il senso dell’eucaristia
Dopo 2000 anni, pur attraverso innumerevoli crisi e vicende sconvolgenti, l’eredità di Gesù, sgorgata dall’esperienza della chiesa nascente, rappresenta una delle “religioni” più diffuse a livello mondiale, una compagine socio religiosa di enorme influsso, caratterizzata da una dottrina etico-teologica molto complessa ed elevata, che il cristianesimo ha ormai diffusa in tutto il mondo. Umanamente, una realtà importante, ma che rischia di appiattirsi su una dimensione socioculturale che è molto meno di quanto essa nasconde nel cuore del suo “mistero”. E che oltretutto la tradirà, di fronte alla potenza della proposta tecnologica di benessere infinito, molto più affascinante per l’uomo del nostro tempo. Ecco perché, alla fine del ciclo liturgico, ci scontriamo inevitabilmente con l’eucaristia, il discorso duro del “corpo e sangue di Gesù”, cibo essenziale del cristiano, che ha scandalizzato fin dall’inizio i discepoli… ma costituisce, con la Parola testimoniata dagli Apostoli, la comunione e la preghiera, l’asse portante della fede cristiana – promessa e garanzia del cammino umano verso la nuova ed eterna Alleanza. Il ‘pane benedetto spezzato distribuito’… da mangiare, il calice di ringraziamento ‘distribuito e bevuto da tutti’ … sono la suprema rivelazione della vita. I discorsi sulle Scritture e l’insegnamento degli apostoli possono commuovere il cuore, riscaldare la mente, ma il gesto della frazione del pane sconvolge l’essere totalmente, la struttura di fondo dell’uomo, perché reimpasta e rimodella un nuovo Adamo! È il gesto del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo, è il gesto di ogni io umano chiamato all’ultimo passo, l’ultimo gradino dell’ascesa antropologica (e perciò cosmica) verso lo stato di uomo compiuto, profetizzato da tutto l’antico peregrinare biblico. Cristo è sempre dietro e dentro questo gesto vivente e pieno d’amore. Nessun tradimento, nessuna delusione, nessuno ostacolo lo fanno desistere. Non rifiuta il suo corpo a chi lo vuole consumare, anche quando l’uomo non vuol più saperne di lui. Il suo gesto rimarrà fino alla consumazione del tempo, essendo la legge nuova, la dinamica profonda e stimolante della vita in ascesa, il Patto irrevocabile con il Padre creatore. (G. Vannucci).
La drammatica “fatale” appartenenza reciproca (di vita e di morte)
I discepoli di Gesù, ammaestrati da lui stesso, sono andati a cercare nei riti e nei gesti ancestrali della loro tradizione religiosa le chiavi di comprensione del misero che li travolgeva. L’oscuro rapporto con il Dio della morte e della vita, la necessità tragica di propiziarselo con il sangue perché la vita è sua, la storia dei patriarchi, di Davide, del fallimento della monarchia e dell’esilio, s’illuminano lungo i secoli, nella scoperta sempre più consapevole che il Dio della morte non può non essere anche il Dio della vita, che vuole Isacco salvo e non sacrificato. Il Dio della sottomissione totale fino all’olocausto è anche il Dio dell’alleanza d’amore, che vuole un popolo libero dalla schiavitù, dall’idolatria, dall’esilio… e trasforma il “bagno di sangue purificatore” in ricominciamento progettuale dell’uomo e della storia, già fin da Mosè: Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e … dissero: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!».
Il nuovo Mosè assume e disinnesca il meccanismo di violenza che questi riti celebrano e si portano dentro e semina fermenti divini di benevolenza nel terreno inospitale del cuore dell’uomo. La consegna del ‘proprio’ corpo donato nel pane spezzato, del proprio sangue offerto nel vino distribuito a tutti … cos’altro può essere se non la trasformazione radicale in dono di dedizione, sino alla fine, del proprio istinto di affermazione difensiva e aggressiva di sé, che vorrebbe preservare illusoriamente dalla morte il nostro piccolo pezzetto di carne? Coinvolgendo dunque anche noi a vivere la nostra personale vita, amando, servendo, consumandoci, affrontando tutti i rischi e la morte che vi è inclusa. Perché questo è il grande dono che Cristo ha vissuto e ci ha dato, di ripetere con lui, per la forza dello stesso Spirito, che abita e geme in noi, questa trasformazione eucaristica progressiva. In virtù di questo dono, anche noi possiamo imparare un nuovo “dare”. Legge severa e tragica della vita è il “dare”: restituire tutto alla terra, che si riprenda la materia che ci ha prestato per autocostruirci nel nostro piccolo segmento di vita, nella storia dell’universo immenso. Nella natura il dare è necessità, nell’uomo è frutto di libera adesione di amore, è “consegnarsi”! La minuscola possibilità di scelta che ha l’uomo è questa proposta eucaristica, che non si fa coinvolgere nel vortice letale di chi opprime, umilia, sfrutta e divora… gli altri. Ma mette, invece, la propria vita allo sbaraglio, nei barlumi di scintille d’amore che lo chiamano ogni giorno, talora dolorose, talora luminose. L’invito interiore persuasivo dello Spirito a dare la vita, a riprendere ostinatamente la voglia di vivere e di amare nella monotonia del quotidiano, rinnova il miracolo di Gesù. “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue!” … tutti ci tocca dirlo! Questo cibo ce ne “comunica” la forza! E lasciarci spezzare e distribuire perché tutti ne mangino e ne bevano… nella cena della vita (tacita o manifesta, frugale o solenne… dolorosa o gioiosa, fallita o stimata…). La fede è il dono di poterla un poco preparare, la nostra diuturna cena della vita, anche se ha già preparato tutto lui, sapendo che è “pasquale”, cioè che passa attraversa l’amara esperienza della morte per condurre alla vita.
…ci ha procurato così una redenzione eterna
È infatti una situazione che si compierà dopo morte, ma è già adesso la vita. Eterna vuol dire la sua definitività e la sua qualità di non avere più dentro di sé germi di corruzione, proprio perché il nostro unico sommo sacerdote con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio … purificando la nostra coscienza dalla opere morte, per servire il Dio vivente. È nato un nuovo modello umano, un nuovo modo di essere umani… Non ci esenta dalle fatiche, delusioni, fallimenti e tradimenti, nel nostro zoppicante cammino di credenti e di chiesa… Ma ha affidato questo compito interamente a noi, nel suo Spirito, adesso lui digiuna in attesa di sederci alla mensa di conclusione delle nostre fatiche. In questo tempo, contrassegnato dalla fame e dalla saturazione, dalla sicurezza sociale dei troppo ricchi e dai ‘respingimenti’ dei troppo poveri, la Chiesa è chiamata a rivivere con semplicità e radicalismo il significato del Pane e del Vino… Forse noi cristiani, in un tempo così condizionato, dovremmo ritrovare semplicemente la vita, la gioia, le speranze più folli, mettere da parte le dotte elucubrazioni sul mistero e divenire pane che ha una sola ragione di essere: nutrire; vino per dissetare… E trasmettere a tutti i cuori, minacciati da un mostruoso appiattimento umano, che organizza il lavoro, i piaceri, i giochi, la fame e l’abbandono per altri… divenire anche noi “i sacerdoti dei beni futuri…” che attecchiscono nella vita di oggi, ma non muoiono mai!

cfr Giovanni Vannucci, «Il pane spezzato», 3° domenica di Pasqua, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecum,. Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, Pag. 69-71. Verso la luce; Il Corpus Domini Pag. 101-104 Anno B.

mercoledì 10 giugno 2009

Che senso ha dire Dio e corpo insieme?

È sempre un po’ difficile argomentare riguardo a certe “tematiche” che la Chiesa nelle sue annuali feste liturgiche ci propone. Il rischio è infatti quello o di dire sempre le stesse cose… o di trovare l’appiglio “ad effetto” per variare un po’ sul tema, senza però riuscire a cogliere in profondità il mistero celebrato.
In questa domenica per esempio l’invito che la festa del Corpus Domini implica, è quello di fermarsi a riflettere sul mistero dell’incarnazione, dell’istituzione dell’eucaristia, della presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata (per stare solo alle tematiche immediate e tralasciare quelle correlate), che però – a ben vedere – sono praticamente tutto il mistero cristiano… E allora come fare, in poche righe a tracciare qualche commento su fronti così ampi? Come farlo, soprattutto, evitando i rischi classici della predicazione sopra delineati: usare tante parole e tanti “effetti speciali” per nascondere il niente che si sta dicendo e per velare la fatica dell’oratore di cogliere davvero ciò che è implicato in quanto si celebra; chiudersi in un più onesto, ma non meno infruttuoso silenzio apofatico?
Perché è così difficile? Perché in particolare alcune tematiche lo sono così tanto?
Perché rimandano a problematiche vaste, apparentemente complicate, in qualche modo da riservare agli esperti, sostanzialmente lontane dalla vita: Cosa vuol dire per esempio celebrare la festa del Corpus Domini? Del corpo e sangue del Signore? Cosa implica credere in questa realtà?


Finché si tratta di dire che Gesù nella sua vita terrena aveva un corpo, fatto di carne ed ossa, tutto fila via liscio: qualsiasi cristiano lo ammetterebbe senza fare una piega; così come il dire che nell’ultima cena Egli abbia offerto il suo corpo e il suo sangue, che noi riceviamo ancora oggi a messa. Ma quando si incomincia a dire che Gesù non era un semplice inviato di Dio (come ce ne furono tanti nell’AT), non era un uomo che Dio ha scelto per svolgere una missione, non era neanche un corpo umano che Dio ha animato e condotto come una marionetta per assolvere ad un compito, ma era lui stesso Dio… le cose si fanno complicate. La domanda diventa infatti: Che senso ha parlare di corporeità per Dio?
I più di fronte a quello che appare un complesso problema intellettuale e cervellotico, si stufano, si perdono e lasciano perdere… Anche perché – come già detto – lo avvertono come qualcosa di assolutamente staccato dalla loro quotidianità: di fatto superfluo e dunque inutile rispetto al loro vivere. Ci si accontenta di dire: il parroco da piccolo mi ha insegnato che c’è Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Figlio è sceso sulla terra, si è fatto uomo: quindi era Dio e uomo; è morto per noi e prima di morire ha istituito l’eucaristia donandoci pane e vino, che sono suo corpo e suo sangue. Cosa questo voglia dire, implichi o come avvenga, son problemi del parroco: a me basta andare a messa, dire le preghiere e fare l’offerta, che il problema religioso è risolto. Il resto della vita è un altro conto…
Qualcuno invece – più ardito – insiste molto su questo versante cristiano della “corporeità” di Dio, suggellata dal fatto che il gesto più importante che Gesù ci abbia lasciato ha in sé i segni poveri del pane e del vino, suo corpo e suo sangue. Insistono molto perché individuano in questa logica corporea, una dinamica importantissima per l’individuazione dell’identità umana: la fine cioè di tutto il disprezzo (ereditato dalla filosofia greca) di ciò che è carnale e di tutta l’esaltazione spiritualistica – e disincarnata – che per secoli ha mortificato l’umano, a favore di un’impostazione più unitaria – non più dualistica – su chi l’uomo sia; con tutte le conseguenze sul piano ecclesiale, culturale, sociale che questo nuovo modello antropologico promuove (per esempio l’uguale importanza delle vocazioni, la pari dignità dei membri della Chiesa, la rivalutazione della corporeità, la libertà da certi moralismi, ecc…).
Altri invece, proprio per queste stesse conseguenze ecclesiali, sociali, culturali, si distanziano un po’ da questa insistenza sulla corporeità in Dio, spaventati da una riduzione troppo umana/umanizzata del mistero divino.
In questa situazione sembra proprio che, allora, centrale diventi rispondere alla domanda posta prima: Che senso ha parlare di corporeità per Dio? Infatti solo indagando questa questione, si potrà risvegliare dal torpore il gran numero di persone che avvertono questi discorsi come lontani dalla loro vita, si potrà cioè rendere ragione della loro centralità, non semplicemente ribadendola (come spesso avviene nella predicazione) senza motivarla, ma investigando “il succo del discorso”; e solo in questo modo inoltre si potrà prendere posizione tra l’eterno doppio fronte intra-ecclesiale, diviso tra chi vorrebbe sempre una sottolineatura forte della corporeità e chi invece preferisce trascurarla un po’; solo così infine si potrà prendere posizione non tanto come tifosi di un partito e dunque appassionati, ma determinati solo dal campanilismo, quanto piuttosto sulla base di una capacità di rendere ragione delle proprie posizioni…
Addentrandoci dunque nella complessità di questa problematica, mettiamo subito in luce cosa c’è in gioco: Perché fa così problema pensare insieme Dio e corpo?
Perché tutta la storia della religiosità umana, fin dentro al testo biblico ha pensato Dio come incorporeo, nel senso di illimitato e illimitabile, infinito e invulnerabile, che sono tutte caratteristiche che necessitano una non corporeità: chi ha un corpo ha dei confini e soprattutto è feribile. Scrive Elaine Scarry [in La sofferenza del corpo, il Mulino, Bologna 1990 (1985), 348-49.353-54.360-61]: «In tutto l’Antico Testamento, il potere e l’autorità di Dio sono una conseguenza, estrema e continuamente ribadita, del fatto che gli uomini hanno un corpo ed Egli ne è privo. È questo fatto che, prima di tutto, viene trasformato nella revisione cristiana, poiché, nonostante la differenza tra uomo e Dio continui ad essere immensa come lo era stata nelle Scritture ebraiche, il fondamento di tale differenza non è più costituito dal fatto che uno abbia un corpo e l’Altro no. La trasformazione non riguarda tanto l’oggetto della fede quanto la struttura stessa della fede, la natura dell’immaginazione religiosa. […] Tale modificazione insiste sul fatto che l’onnipotenza, come anche più modeste forme di potere, deve essere connessa alla sensibilità corporea. Non è che il concetto di potere venga eliminato, né tanto meno scompare l’idea della sofferenza: è la precedente relazione tra loro che viene meno. Essi non sono più manifestazioni l’uno dell’altra: il dolore di una persona non è il segno del potere di un’altra. La dimensione della vulnerabilità umana non corrisponde più alla dimensione dell’invulnerabilità divina. Essi sono ora slegati e possono pertanto aver luogo congiuntamente: Dio è sia onnipotente sia soggetto al dolore. […] Connettere sensibilità e autorità, attribuire autorità alla sensibilità, significa collocare il dolore e il potere dalla stessa parte. […] Una delle caratteristiche peculiari del dolore è che il suo opposto, il potere, può trovarsi in un luogo differente; tuttavia, è possibile avvertirne la presenza o l’assenza, l’aumento o la diminuzione, in relazione all’aumentare o al diminuire del dolore. Di solito, la variazione di una coppia di contrari non è parallela ma inversa; l’aumento dell’umido corrisponde a una diminuzione del secco; muovendoci verso est ci allontaniamo da ovest; l’aumento della luce fa diminuire le tenebre. Tuttavia, il fenomeno del dolore ha frequentemente luogo in situazioni in cui il suo accrescimento è accompagnato da un accrescimento di un potere che si accumula altrove. La nuova relazione che si instaura nel Vangelo tra il corpo del credente e l’oggetto della fede sovverte questa relazione di esclusione tra dolore e potere, poiché colloca nello stesso luogo sensibilità e autorità, che non si possono pertanto più avere una alle spese dell’altra. Il conferimento dell’autorità dello spirito alla sensibilità ha come conseguenza anche la dissoluzione del confine tra corpo e voce e permette quindi il passaggio dall’uno all’altra. Nell’Antico Testamento, il corpo appartiene solo all’uomo, e la voce, nella sua forma estrema e priva di attributi, appartiene solo a Dio. Con la croce, ciascuno mantiene la propria collocazione originaria, ma nel contempo fa la sua comparsa nella sfera da cui era stato precedentemente escluso».
Ecco dunque l’implicazione del parlare insieme di Dio e di corpo – possibile solo in Gesù – e cioè lo scardinamento di un’atavica immaginazione religiosa implicante la separabilità di principio di alcuni ambiti: il cielo/la terra; il potere/il patire; il corpo/lo spirito; Dio/l’uomo; il soprannaturale/il naturale; la grazia/la libertà; ecc… In Gesù è cioè richiesta una conversione dell’idea di Dio, dell’idea dell’uomo e della ragione che si usa per pensarli che è talmente scaravoltante i luoghi comuni, le convinzioni sedimentate in secoli di storia, le precomprensioni che succhiamo dal seno di nostra madre, che nemmeno due millenni di cristianesimo sono ancora riusciti a digerire.
La lunga citazione riportata mostra qualche sprazzo, indica qualche possibile percorso rispetto a cosa voglia dire questo prendere sul serio l’inedito Dio cristiano che pur restando Dio non può più essere detto – in Gesù – senza corpo; che pur restando onnipotente, non può più essere detto – in Gesù – invulnerabile; che pur restando infinito, in Gesù può essere detto realmente presente in un pezzo di pane e in un goccio di vino. Ma soprattutto che pur restando Dio, non può più essere detto – in Gesù – a prescindere dall’uomo e a priori rispetto alla sua storia con lui, tanto che «L’accesso al senso specifico per la trascendenza divina coincide con il riconoscimento per la propria singolarità (questa è la fede: accogliersi come quell’uomo), giacché la trascendenza divina si rivela dando luogo alla unicità individuale. L’accesso a Dio coincide con l’accesso a io. I due poli sono inseparabili anche se sono né assimilabili, né omologabili» [S. UBBIALI, Il sacramento cristiano, p. 128].
Ma assumere questa prospettiva vuol dire rivedere molti dei nostri schematismi religiosi (individuali ed ecclesiali). Per fare solo un esempio significativo, assumere questa prospettiva vorrebbe dire smettere di pensare il rapporto dell’uomo con Dio come un tentativo di superamento od estraniazione dalla storia, dalla realtà, dalla corporeità, come se queste dimensioni andassero superate, come se da esse bisognasse elevarsi… ma piuttosto pensare il rapporto con Dio come inestricabile dalle nostre dinamiche antropologiche, ammettendo quindi che per l’accesso al sacro ciascuno è di per sé – proprio e solo in quanto umano – già abilitato: accettando a vantaggio della libertà dell’uomo, il rischio del relativismo.
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