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Visualizzazione post con etichetta Giovanni (Vangelo). Mostra tutti i post
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mercoledì 18 maggio 2016

Festa della Trinità


 

Dal libro dei Proverbi (Pr 8,22-31)

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-5)

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 16,12-15)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

La prossima domenica la Chiesa celebra la festa della Trinità.

Il termine non è biblico, ma entra nella dottrina della comunità credente nei primi secoli di vita cristiana, volendo indicare la realtà del Dio rivelato da Gesù: un unico Dio in tre persone.

La parola “trinità” suona sempre un po’ astratta, un po’ lontana dalla nostra sensibilità. Ha forse delle eco anche un po’ spaventose, come tutto ciò che ci rimanda a qualcosa di difficilmente comprensibile e misterioso.

Questo è forse dovuto all’uso che se ne è fatto, a come ci è stata presentata nei vari percorsi di formazione cristiana, quando si educava al rispetto con la paura e si sostituiva la conoscenza della narrazione evangelica con la memorizzazione dei dogmi o delle definizioni del catechismo.

In realtà, la Chiesa parla di “trinità” perché deve tener conto di un dato evangelico inequivocabile: Gesù ha parlato del Padre e dello Spirito santo. Ecco perché “trinità” e non semplice “monoteismo” in senso stretto.

mercoledì 27 aprile 2016

VI Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 15,1-2.22-29)

In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 21,10-14.22-23)

L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,23-29)

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

 

Le letture che la liturgia ci propone per questa Sesta Domenica di Pasqua mostrano uno spaccato della prima comunità cristiana, l’idea di Chiesa che si aveva.

È una Chiesa al cui centro c’è la parola: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».

È una Chiesa senza templi: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio».

È una Chiesa in cui le decisioni vengono prese dallo Spirito santo e noi: «È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi…».

Queste pilastri meritano di essere approfonditi.

martedì 19 aprile 2016

V Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 14,21-27)

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 21,1-5)

Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 13,31-35)

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

In questa V Domenica di Pasqua sembra che la liturgia della Parola voglia farci porre l’attenzione sulla novità rappresentata da Gesù:

-          La prima novità è quella che raccontano gli Atti: Dio ha aperto ai pagani la porta della fede.

-          Giovanni, poi, nell’Apocalisse vede un cielo nuovo e una terra nuova e sente proclamare da Colui che sedeva sul trono: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»;

-          Infine, Gesù stesso, nel vangelo annuncia: «Vi do un comandamento nuovo».

Per comprendere il senso di questa novità credo sia utile andare, per una volta, al rovescio: cronologicamente, infatti, è stato scritto prima il libro degli Atti degli apostoli, poi il vangelo di Giovanni e infine l’Apocalisse; ma noi li analizzeremo al contrario: prima l’Apocalisse, poi il vangelo e infine gli Atti.

Nell’Apocalisse infatti si dichiara che la novità apportata da Gesù consiste nel fatto che in lui la tenda, cioè la dimora, la casa di Dio è con gli uomini. È proprio ciò che è successo nella storia del messia di Nazareth: ha asciugato ogni lacrima che ha incontrato, ha vinto la morte, ha consolato i lamenti, ha calmato gli affanni…

E tutto ciò… per far conoscere agli uomini chi è Dio, come è fatto Dio. Come se dicesse: “Cari uomini, vi siete sempre immaginati un dio lassù, lontano, separato, che vi scruta come un giudice, pronto ad elargire premi ai buoni tanto quanto punizioni ai cattivi e invece Dio non è così. Ve lo racconto io. Ve lo racconto con i miei discorsi, con le mie chiacchierate, con le mie storie, le parabole, che parlano di Lui. Ve lo racconto coi miei gesti, che mai hanno inflitto il male a qualcuno… perché Dio è così. È l’amante dell’umano”.

Un amante, così amante, cioè così gratuito e decentrato da sé, che non chiede nemmeno il contraccambio: gli piacerebbe solo contagiarci di questa passione per l’umano. Tant’è che quando dà un comandamento, ne dà uno nuovo «che vi amiate gli uni gli altri».

E per non essere frainteso, perché non tornassimo a pensare “Sì, dobbiamo amare il nostro prossimo, ma prima bisogna che amiamo Dio e, se c’è da scegliere, certo scegliamo Dio” fa un gioco di parole curioso. Dice: «Come io ho amato voi»… e tutti si aspettano che prosegua “così anche voi amate me”… e invece – ecco la novità – «così amatevi anche voi gli uni gli altri».

A Dio non interessa essere ri-amato; gli interessa che tutti amino ciò che Lui ama e cioè l’umano. Per questo il vangelo aggiunge che i suoi discepoli saranno riconoscibili non per il bene che vogliono al loro Dio, ma per il bene che si vogliono tra di loro. Volersi bene tra di noi è il segno che abbiamo capito chi è Dio.

Ecco perché Paolo può proclamare che la fede è aperta ai pagani; perché – sulla scia dell’esperienza del suo Maestro – impara che si può voler bene anche a un pagano, cioè a un diverso, a uno degli altri.

Io credo che sia ora che la nostra fede si converta a questa novità, per smettere di affannarci intorno a problemi spiritualoidi che riguardano il nostro rapporto con Dio e iniziare ad affrontare i problemi che riguardano l’umano, il voler bene all’umano… che non è cosa banale e lineare, perché l’umano a volte fa schifo, delude, spaventa…

Quando succede così noi lo chiamiamo “dis-umano”, ma invece è anche lui umano (che sia in me o in un altro), figlio di questa umanità e quindi figlio anche mio.

domenica 10 aprile 2016

IV Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 13,14.43-52)
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”». Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
 
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 7,9.14-17)
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. Uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,27-30)
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
 
La prima lettura di questa domenica ci introduce in una problematica significativa che dovettero affrontare le prime comunità cristiane: la buona notizia del Regno è destinata solo agli ebrei o è per tutti gli uomini?
A noi oggi fa quasi sorridere questa questione, perché ci sembra così ovvio che il messaggio cristiano fosse e sia destinato a tutti, indipendentemente dalla razza, dalla cultura o da altre discriminanti.
Ma in realtà nella Chiesa delle origini la problematica non fu sciolta così a cuor leggero ed anzi scatenò molte discussioni all’interno dello stesso gruppo degli apostoli: discussioni, che per risolversi, richiesero una riunione (il primo Concilio della storia cristiana), il Concilio di Gerusalemme (di cui parla il libro degli Atti degli apostoli al capitolo 15), nel quale si decise che anche i pagani (senza prima diventare ebrei, cioè senza prima farsi circoncidere) potessero ricevere il battesimo.
Credo che sia interessante ripercorrere, seppur per sommi capi, la vicenda storica che ha costruito la Chiesa, perché ci mostra un tempo in cui “gli altri” eravamo noi. Noi cristiani occidentali, infatti, siamo perlopiù tutti figli di popoli pagani; noi che ci sentiamo i depositari della tradizione, i “veri” cristiani, i “veri” credenti, siamo cristiani “per grazia”. Anzi, qualcuno degli apostoli pensava che non avremmo nemmeno potuto essere cristiani, senza prima “diventare ebrei”.
Quel gruppetto di ebrei invece ha deciso di aprire il recinto della salvezza, di dar credito a quel Maestro che aveva travalicato i confini della razza, della cultura, delle tradizioni religiose per proporre il suo messaggio d’amore a tutti, in modo che ognuno potesse riconoscersi nelle sue parole e sentirle destinate a sé stesso: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
In un tempo in cui la complessità della storia scatena la paura dell’altro, soprattutto se diverso, spingendoci a respingerlo e a rintanarci dietro alle nostre barricate, credo sia importante ricordarci di quando “gli altri eravamo noi” e qualcuno ha scelto, anche se eravamo diversi, di riconoscerci come fratelli, figli dello stesso Padre.

mercoledì 6 aprile 2016

III Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 5,27-32.40-41)

In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 5,11-14)

Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 21,1-19)

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

 

Il vangelo di Giovanni inizialmente terminava con il brano che abbiamo letto settimana scorsa, con l’invio degli apostoli: “Andate e perdonate”.

La frase conclusiva di quel testo aveva infatti tutti i tratti di un finale: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».

La comunità cristiana dell’evangelista Giovanni sente però il bisogno di allungare ancora un po’ il vangelo e scrive il brano che la Chiesa ci invita a leggere in questa III Domenica di Pasqua.

Gli apostoli sono in Galilea, sul lago di Tiberiade, a pescare. Non pescano nulla, per tutta la notte...

Una storia già sentita...

Prima di incontrare Gesù infatti, vivevano in Galilea, sulle coste del lago di Tiberiade ed erano pescatori.

mercoledì 9 marzo 2016

V Domenica di Quaresima


Dal libro del profeta Isaìa (Is 43,16-21)

Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 3,8-14)

Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 8,1-11)

In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

 

Il testo del vangelo che si legge in questa V Domenica di Quaresima è molto conosciuto. Su di esso molto è stato detto, ad iniziare dalla sua collocazione nel vangelo di Giovanni: esso sembra infatti una pagina stralciata dal vangelo di Luca e poi inserita in un secondo momento nel Quarto Vangelo.

Inoltre sarebbe importante soffermarsi anche sull’ambientazione: a Gerusalemme, in particolare al tempio, dove il caso dell’adultera, narrato da scribi e farisei, è esplicitamente proposto a Gesù «per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo».

Quest’anno però io vorrei concentrare la mia attenzione su di noi: perché, a mio parere, è molto facile per noi sorridere interiormente per l’intelligenza di Gesù e per la strategia vincente che adotta in questa vicenda; e, contemporaneamente, è molto facile compiacersi del felice esito della brutta situazione in cui si era trovata questa donna; più difficile è mettersi nei panni di quelli che la accusavano.

In effetti il brano è costruito in modo tale che il lettore si schieri immediatamente dalla parte di Gesù e della donna. Ma è costruito in quel modo proprio perché parla a persone che invece sono nella posizione degli accusatori. Noi che leggiamo, nella nostra vita, siamo gli accusatori.

martedì 12 gennaio 2016

II Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 62,1-5)

Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,4-11)

Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2,1-12)

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

In questa Seconda Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci presenta l’inizio della vita pubblica di Gesù, secondo l’evangelista Giovanni. Si tratta della narrazione del noto episodio della trasformazione dell’acqua in vino a Cana di Galilea, durante un festa di nozze.

Quest’anno, ciò che ha attirato la mia attenzione è stato il fatto che questo brano, immediatamente mi suscitasse un certo disagio. Il racconto è famoso, ma risulta comunque sempre un po’ ostico: servirebbero diversi ragionamenti per spiegare la risposta, apparentemente scortese, di Gesù a Maria; così come il senso del segno del cambiamento dell’acqua in vino, ecc…

Allora ho provato a dar retta al mio disagio e provare a staccarmi dalla trama del discorso, per vedere se emergeva qualcos’altro. E in effetti mi è venuto qualche pensiero.

«Non hanno vino» è la constatazione di Maria.

Mi è parsa una bella immagine per descrivere, non tanto e non solo la situazione storica contingente di quel matrimonio, ma in generale la condizione dell’umanità di sempre. Oggi, per esempio, nella vita di questa nostra generazione umana a cavallo tra II e III millennio, mi pare un’espressione molto evocativa il provare a connotarla con «Non hanno vino», che vuol dire che non stiamo bene, non siamo in festa, non siamo allegri, non tanto di quell’allegria euforica e passeggera che connota alcuni momenti della vita, ma di quella più strutturale che presenta l’esperienza del passere su questa terra come qualcosa di fondamentalmente bello.

Non abbiamo vino, non c’è che dire…

A fronte di questa situazione, il vangelo odierno ci presenta una svolta: Gesù dice di riempire di acqua le anfore di pietra usate per la purificazione rituale. E quell’acqua, diventa vino.

Non suggerisce di prendere giare qualunque, ma quelle destinate all’acqua da usarsi per la purificazione. Quell’acqua diventa vino.

La trasformazione che ridona vino alla festa di nozze, e – dunque – seguendo il ragionamento precedente, alla vita dell’umanità, non riguarda un’acqua qualsiasi. È l’acqua della purificazione che va trasformata: che va cioè in qualche modo abbandonata, per lasciare spazio a qualcos’altro.

Quell’acqua non è in grado di dare gioia, va trasformata in vino.

Come a dire che per trovare la vita, la purificazione è sterile. Una religiosità, che in fin dei conti è un modo di pensare la vita e di pensarsi nella vita, fondata sulla necessità di purificarsi, cioè sulla necessità di pulire lo sporco che abbiamo addosso, la schifezza che siamo, non fa trovare la vita.

È l’introduzione della novità del vino che dà gioia, dà vita vera, vita bella.

E questo vino è Gesù. È lui il vino buono, tenuto per quando il pasto è già avanzato.

E non può che essere così. La vita, infatti, solitamente si svolge in questo modo: nasciamo, cresciamo e man mano ci imbattiamo in acqua, acqua per la purificazione, vino; cioè in esperienze che ci dissetano, ci danno l’illusione di essere buoni (puri), finanche in esperienze che ci fanno felici. Esse però, solitamente, sono seguite dal vino nel cartone, cioè da esperienze che smentiscono l’intuizione di bellezza e bontà della vita. E spesso, magari senza accorgercene finiamo alcolizzati… incapaci di staccarci dal nostro cartoccio di vino, che non dà vita, ma almeno riempie di qualcosa il vuoto di una vita senza vino buono.

Oppure, sprezzanti verso gli alcolizzati, ci rifugiamo nell’acqua della purificazione, anch’essa incapace di dare vita, ma se non altro portatrice di quell’illusione di essere migliori (o meno peggio) di quegli altri che si scolano il vino nel cartone.

E, invece, all’umanità senza gioia, Gesù si propone come il vino buono, che arriva quando non credi nemmeno più che esista, che sia possibile un rifiorire della vita.

All’uomo, radicalmente sfiduciato sulla bellezza della vita, avviluppato e avvinghiato, apparentemente senza rimedio, dallo squallore dell’esistenza, convinto ormai che quella desolazione sia la vita, Gesù mostra la sua buona notizia, il suo vangelo: esiste davvero il vino buono ed è possibile per me berne. Quell’intuizione che i vini della vita mi avevano fatto intravvedere non erano le mere illusioni di uno sprovveduto un po’ troppo idealista: contenevano una verità: c’è il vino buono e io posso berne.

venerdì 1 gennaio 2016

II Domenica di Natale


Dal libro del Siràcide (Sir 24,1-4.12-16)

La sapienza fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria. Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria, in mezzo al suo popolo viene esaltata, nella santa assemblea viene ammirata, nella moltitudine degli eletti trova la sua lode e tra i benedetti è benedetta, mentre dice: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti”. Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno. Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion. Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso dimora».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 1,3-6.15-18)

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. Perciò anch’io [Paolo], avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 1,1-18)

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

 

Il vangelo non è un libro di morale, ma un libro di teologia. Non ci vuole insegnare cosa dobbiamo fare, ma ci racconta chi è Dio e (quindi) chi è l’uomo, perché parla sempre di Dio narrando la sua storia con l’uomo.

Ogni volta che ci troviamo di fronte a un brano di vangelo dovremmo chiederci: cosa ci dice di Dio? Cosa ci dice dell’uomo?

Fare questo oggi, è particolarmente indicato:

 

 
DI GESÙ
 
DEGLI UOMINI
In principio era il Verbo
(c’è da sempre)
Sono stati generati da Dio
 
Il Verbo era presso Dio
(c/o ® come si dice di chi abita presso…)
 
Ha fatto tutto ciò che esiste
 
 
 
In lui c’è la vita
 
 
È la luce vera venuta nel mondo
 
Ogni uomo è illuminato dalla luce vera
 
Dà il potere di diventare figli di Dio
 
Hanno il potere di diventare figli di Dio
 
Si è fatto carne
 
Hanno contemplato la gloria di Dio
(hanno visto quanto è bello)
 
È venuto ad abitare in mezzo a noi
 
 
È pieno di grazia e di verità
 
Hanno ricevuto grazia su grazia
(non “grazie” ma grazia = amore gratis)
 
Ha rivelato Dio
(ci ha raccontato chi è Dio)
Sanno la verità
(sanno come è fatto Dio)

 

 

 

Ecco il vangelo: ecco la buona notizia.

Qualsiasi cosa esca da questa identità di Dio e dell’uomo, ci apparisse anche religiosa, non è evangelica, non è cristiana.

Mi piacerebbe che iniziassimo quest’anno confrontando le nostre presunte verità (teologiche, morali, esistenziali) con questa verità, che parla solo di vita, luce, grazia, verità, abitare, generare, stare presso…

mercoledì 18 novembre 2015

Cristo re dell'universo


Dal libro del profeta Daniele (Dn 7,13-14)

Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 1,5-8)

Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 18,33b-37)

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

 

In questa trentaquattresima domenica del tempo ordinario, ultima dell’anno B, la Chiesa celebra la festa di Cristo, re dell’universo. Questo titolo, “re”, pur avendo una storia assai articolata, risulta però essere – associato a quelli di “profeta” e “sacerdote” – un’espressione fondamentale e sintetica dell’interpretazione che la Chiesa ha fatto lungo i secoli della funzione salvifica di Gesù: Cristo è il mediatore della salvezza in quanto profeta, re e sacerdote.

Evidentemente la panoramica dei titoli attribuibili a Gesù è assai più vasta, ma precisamente questi tre, soprattutto a partire dal XVI secolo in poi, sono stati privilegiati come elementi di sintesi della missione/identità di Gesù, tecnicamente, definiti i tria munera, i tre “uffici” di Cristo.

Ma cosa vuol dire che Gesù è re? E soprattutto: In che senso è re?

martedì 13 ottobre 2015

XXIX Domenica del Tempo Ordinario: Un Dio con il grembiule


Dal libro del profeta Isaìa (Is 53,10-11)

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 4,14-16)

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 10,35-45)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

Chissà se Giovanni e Giacomo avrebbero fatto la stessa richiesta a Gesù, se avessero saputo – come ci suggerisce l’evangelista Giovanni – che la gloria del Signore era la sua croce? Avrebbero ancora chiesto di essere alla sua destra e alla sua sinistra, al posto dei ladroni?

La prima parte del brano di vangelo sembra tenere questo doppio senso, non a caso Gesù parla di “calice da bere” e “battesimo in cui essere battezzato”: espressioni che chiaramente fanno riferimento alla fine imminente della sua vita.

La seconda parte del vangelo però, sembra riportare il discorso su altri binari… l’indignazione degli altri discepoli lascia infatti pensare che la richiesta di Giovanni e Giacomo non fosse quella di accompagnare sulla croce Gesù, ma – nell’accezione anche per noi più comune – considerare la “gloria” come quella potente, vittoriosa, intramontabile: insomma, come se avessero chiesto di essere vicepresidenti del paradiso…

E infatti Gesù fa poi riferimento ai governanti delle nazioni, al dominio, all’oppressione…

«Tra voi però non è così»…

martedì 18 agosto 2015

XXI Domenica del Tempo ordinario (B)


Dal libro di Giosuè (Gs 24,1-2.15-17.18)

In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 5,21-32)

Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,60-69)

In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

 

Eccoci giunti alla fine del percorso intorno al pane di vita. Il discorso di Gesù finisce piuttosto male, i più se ne vanno. Restano solo i Dodici.

Ma ciò che mi ha colpito più di tutto in questo vangelo è la frase di Gesù che dice: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla».

Innanzitutto perché non è immediatamente chiaro cosa sia il “salire del Figlio dell’uomo là dov’era prima” e poi, soprattutto, il riferimento allo Spirito e la squalificazione della carne.

È strano, quest’ultimo punto, in particolare alla luce di tutto quanto detto prima sulla sua carne da mangiare. Come può ora dire che la carne non giova a nulla?

Ho trovato un commento interessante di Mauro Laconi, che mi ha aiutato a chiarire un po’ questi aspetti e perciò ve lo propongo.

Scrive Laconi: «Il capitolo si conclude in tono di infinita tristezza. I “discepoli”, anzi, “molti” di loro, trovano impossibile accogliere le parole di Gesù. La loro mancanza di fede angustia Gesù. Egli reagisce prima con una specie di rassegnazione («Tra voi vi sono alcuni che non credono», v. 64); poi con parole che sembrano denotare un animo sfiduciato («Volete andarvene anche voi?», v. 67) […]. Mai nei vangeli si è guardato con tanta attenzione e apprensione dentro l’anima di Gesù […]. Giovanni è ancora tutto preso dal suo tragico interrogativo: come spiegare l’incredulità, il rifiuto della vita, il rifiuto di Dio? Il fallimento del divino Rivelatore, di colui che può presentarsi in verità con il biblico “Io Sono”, è per lui un mistero davvero imperscrutabile, pari solo alla sconfinata amarezza dell’animo di Gesù. Ma l’evangelista non attenua la proporzione delle cose. Pretendendo la fede, Gesù pretende davvero molto. Le sue parole (“mangiare la sua carne”), anche se intese a tradurre in termini di vita eucaristica il mistero dell’incarnazione, per chi non ci si abbandona sono davvero “dure”, anzi “scandalose”. Eppure gli uomini saranno messi davanti a uno “scandalo” ben più grande: la croce! Questo sembra proprio il senso fondamentale del v. 62 («E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?»): infatti per Giovanni il ritorno di Gesù al Padre è abitualmente identificato con la passione (1,13). D’altra parte il linguaggio cristiano è coerente; molto prima di Giovanni, anche Paolo aveva parlato dello “scandalo della croce” (Gal 5,11; 1 Cor 1,23). Fino a che punto possa sembrare “scandaloso” Gesù, era d’altronde già stato suggerito in certi passi sinottici (Mt 11,6: «E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»). e tuttavia proprio la croce, che porterà la rivelazione all’estremo della sua “durezza” e del suo “scandalo”, rappresenterà per i discepoli e per tutto il mondo il momento dell’illuminazione […]. Proprio dalla croce diventerà stranamente chiaro l’“Io Sono” di Gesù, e “tutti” ne saranno trascinati. È quanto sembra voler dire il difficile v. 63 («È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita»), che potrebbe sembrare enigmatico e quasi contro senso se lo si isolasse. Ma il pensiero è concentrato sul Figlio dell’uomo glorificato (“risalito là dov’era prima”); asceso al cielo donerà lo Spirito, e allora all’uomo debole sarà possibile quello che prima sembrava irrealizzabile: la fede in Gesù. L’Eucaristia è “carne” come è “carne” l’incarnazione; ma senza lo Spirito, per l’uomo “non giovano veramente a nulla”. Non è nemmeno da escludere che Giovanni abbia di mira alcune deviazioni ecclesiali di tipo ritualistico-magico. L’Eucaristia, sembra voler suggerire, non accolta nella profondità e autenticità dello Spirito, rimarrebbe un rito senza senso».

Ecco i nostri dubbi chiariti. Il riferimento al “salire” di Gesù è la croce e – come accennavamo settimana scorsa – le mere pratiche religiose (fosse anche la pratica religiosa cristiana per eccellenza, cioè il fare la comunione) di per sé non servono a nulla.

Come è chiarissimo nei sinottici, dove l’istituzione dell’eucaristia è celebrata la sera prima della morte in croce, c’è un nesso strettissimo tra il magiare la carne di Gesù e il partecipare alla sua donazione. Se non si entra nella dinamica della croce di Gesù, non si può dire di mangiare la sua carne. Ma entrare nella dinamica della croce è precisamente quella relazione a tu per tu (da spirito a Spirito) di cui parlavamo settimana scorsa.

È mentre viviamo la relazione personale con la persona di Gesù e in particolare con la sua morte che stiamo mangiando la sua carne. Un po’ come nei rapporti tra di noi: è solo condividendo la vita che entriamo nella vita dell’altro, che ci mangiamo reciprocamente la carne. Un mangiare, che poi, magari anche nelle nostre relazioni personali, si visibilizza in gesti particolari, “sacramentali”, come nell’eucaristia per la relazione con Gesù, ma che hanno senso e si sostanziano solo perché c’è dietro e dentro la vita intera.

La conclusione di questo percorso, allora, è un invito a spaccarsi la testa sulla storia di Gesù (e in particolare sulla sua fine), senza accontentarsi delle rispostine preconfezionate che altri ci hanno dato o noi stessi ci siamo dati; e farlo, non come esercizio intellettuale, ma in un dialogo con Lui, che attraverso il suo vangelo continua a rinarrarci la storia della sua carne.

Potrebbero aiutarci domande quali:

-          Perché la vita di Gesù è finita così?

-          Perché quella morte?

-          Chi l’ha ucciso e perché?

-          Perché non vi si è sottratto?

-          Perché in tutta la storia della passione è l’unico che si fa male?

-          Cosa dice di Lui quel non sottrarsi?

-          Cosa avrebbe detto di Lui il sottrarsi?

 

E potrebbe anche aiutarci non considerare valide alcune risposte (non perché sbagliate, ma perché talmente usate da essersi svuotate di senso). Quindi non valgono risposte quali:

-          Per la nostra salvezza.

-          Per il bene dell’umanità.

-          Per rimettere i nostri peccati.

-          Tutte quelle che assomigliano a queste :o)

lunedì 10 agosto 2015

XX Domenica del Tempo ordinario (B)


Dal libro dei Proverbi (Pr 9,1-6)

La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 5,15-20)

Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore. E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 

In questa Ventesima Domenica del Tempo Ordinario, si apre la quarta e penultima parte del capitolo 6 di Giovanni, che il liturgista ha voluto spezzare perché in queste domeniche estive potessimo riflettere approfonditamente su di esso.

Prosegue il discorso tra Gesù e i Giudei, che, sebbene già serrato nei versetti precedenti, qui trova il momento di più grande tensione prima della drammatica finale che leggeremo domenica prossima.

Questa tensione nasce soprattutto dal fatto che Gesù, coscio del continuo fraintendimento a cui le sue parole sono sottoposte, decide di non tentare più di spiegarsi diversamente, ma sceglie di cavalcare questa incomprensione. Di fronte infatti allo scandalo dei Giudei per l’identificazione di Gesù col pane vivo disceso dal cielo e per l’offerta della sua carne per la vita del mondo, ribadisce ancora più esplicitamente la necessità, per avere la vita, di mangiare la sua carne.

A noi forse sembra strana, se non altro esagerata, la reazione di incomprensione dei Giudei: noi infatti di fronte all’affermazione di Gesù di essere il pane disceso dal cielo e alla proposta di mangiare della sua carne per avere la vita, istintivamente pensiamo all’eucaristia, a quel pane e a quella carne offerti per noi, e dunque non ci viene molto da “sobbalzare sulle sedie” e ci risulta per lo meno strano il vigore con cui i Giudei reagiscono alle parole di Gesù («Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”»).

Questa nostra reazione non è del tutto fuori luogo, anche Giovanni infatti, quando scrive questa parte del suo Vangelo, ha in mente la celebrazione eucaristica delle prime comunità cristiane e cioè il significato che nella prima Chiesa ha assunto l’ultima cena e la morte e risurrezione di Gesù e indubbiamente si sta rivolgendo a dei cristiani: quindi forse il suo intento è quello di mostrare in chiave polemica la durezza dei Giudei o, se non altro, di usare questo escamotage letterario per invitare i suoi a riflettere sul corpo e sangue offerto da Gesù per la salvezza del mondo.

Identificare però immediatamente questo discorso giovanneo di Gesù con quella che è la nostra messa e avere reazioni di perplessità e stupore di fronte alle posizioni che assumono i Giudei, ci impedisce di metterci realisticamente nei loro panni e di entrare in quel gioco letterario in cui invece lo stesso Giovanni vuole introdurci: cioè attraverso gli occhi dei Giudei, fare, noi cristiani, la fatica di andare a capire o a ripensare quale sia il senso vero dell’eucaristia che celebriamo e in cui già crediamo. Soffermarci infatti sullo scarto linguistico tra Gesù che parla e i suoi ascoltatori sempre più irrigiditi nell’incomprensione, può aiutare anche noi a capire lo spessore delle questioni in gioco, senza correre il rischio di accontentarci di risposte preconfezionate, non pensate e dunque estrinseche al nostro cuore.

In questo senso, ciò che pare suscitare più clamore fra i Giudei è la pretesa di Gesù di essere mangiabile. Ciò che essi non riescono ad accettare è infatti non tanto che egli abbia un cibo per loro (avevano appena assistito alla moltiplicazione dei pani e dei pesci reagendo molto positivamente), quanto piuttosto che sia Lui tale cibo.

E io credo che il nocciolo della questione stia proprio qui: anche a livello intraecclesiale. Il problema cioè è quale sia la pretesa (la proposta) di Gesù di fronte all’uomo («colui che mangia me vivrà per me») e d’altra parte la riduzione di tale pretesa di cui noi continuamente siamo tentati (ci spaventa quel “vivrà per me” detto di noi… e quindi continuiamo a depotenziarlo).

Ciò che infatti Gesù propone non è un cibo, ma è se stesso come cibo; non propone una via, ma è Egli stesso via; non propone uno stile di vita, ma è Egli stesso vita; non propone una o alcune verità, ma è Egli stesso verità («Io sono la via, la verità e la vita», Gv 14,6).
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