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martedì 12 gennaio 2016

II Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 62,1-5)

Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,4-11)

Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2,1-12)

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

In questa Seconda Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci presenta l’inizio della vita pubblica di Gesù, secondo l’evangelista Giovanni. Si tratta della narrazione del noto episodio della trasformazione dell’acqua in vino a Cana di Galilea, durante un festa di nozze.

Quest’anno, ciò che ha attirato la mia attenzione è stato il fatto che questo brano, immediatamente mi suscitasse un certo disagio. Il racconto è famoso, ma risulta comunque sempre un po’ ostico: servirebbero diversi ragionamenti per spiegare la risposta, apparentemente scortese, di Gesù a Maria; così come il senso del segno del cambiamento dell’acqua in vino, ecc…

Allora ho provato a dar retta al mio disagio e provare a staccarmi dalla trama del discorso, per vedere se emergeva qualcos’altro. E in effetti mi è venuto qualche pensiero.

«Non hanno vino» è la constatazione di Maria.

Mi è parsa una bella immagine per descrivere, non tanto e non solo la situazione storica contingente di quel matrimonio, ma in generale la condizione dell’umanità di sempre. Oggi, per esempio, nella vita di questa nostra generazione umana a cavallo tra II e III millennio, mi pare un’espressione molto evocativa il provare a connotarla con «Non hanno vino», che vuol dire che non stiamo bene, non siamo in festa, non siamo allegri, non tanto di quell’allegria euforica e passeggera che connota alcuni momenti della vita, ma di quella più strutturale che presenta l’esperienza del passere su questa terra come qualcosa di fondamentalmente bello.

Non abbiamo vino, non c’è che dire…

A fronte di questa situazione, il vangelo odierno ci presenta una svolta: Gesù dice di riempire di acqua le anfore di pietra usate per la purificazione rituale. E quell’acqua, diventa vino.

Non suggerisce di prendere giare qualunque, ma quelle destinate all’acqua da usarsi per la purificazione. Quell’acqua diventa vino.

La trasformazione che ridona vino alla festa di nozze, e – dunque – seguendo il ragionamento precedente, alla vita dell’umanità, non riguarda un’acqua qualsiasi. È l’acqua della purificazione che va trasformata: che va cioè in qualche modo abbandonata, per lasciare spazio a qualcos’altro.

Quell’acqua non è in grado di dare gioia, va trasformata in vino.

Come a dire che per trovare la vita, la purificazione è sterile. Una religiosità, che in fin dei conti è un modo di pensare la vita e di pensarsi nella vita, fondata sulla necessità di purificarsi, cioè sulla necessità di pulire lo sporco che abbiamo addosso, la schifezza che siamo, non fa trovare la vita.

È l’introduzione della novità del vino che dà gioia, dà vita vera, vita bella.

E questo vino è Gesù. È lui il vino buono, tenuto per quando il pasto è già avanzato.

E non può che essere così. La vita, infatti, solitamente si svolge in questo modo: nasciamo, cresciamo e man mano ci imbattiamo in acqua, acqua per la purificazione, vino; cioè in esperienze che ci dissetano, ci danno l’illusione di essere buoni (puri), finanche in esperienze che ci fanno felici. Esse però, solitamente, sono seguite dal vino nel cartone, cioè da esperienze che smentiscono l’intuizione di bellezza e bontà della vita. E spesso, magari senza accorgercene finiamo alcolizzati… incapaci di staccarci dal nostro cartoccio di vino, che non dà vita, ma almeno riempie di qualcosa il vuoto di una vita senza vino buono.

Oppure, sprezzanti verso gli alcolizzati, ci rifugiamo nell’acqua della purificazione, anch’essa incapace di dare vita, ma se non altro portatrice di quell’illusione di essere migliori (o meno peggio) di quegli altri che si scolano il vino nel cartone.

E, invece, all’umanità senza gioia, Gesù si propone come il vino buono, che arriva quando non credi nemmeno più che esista, che sia possibile un rifiorire della vita.

All’uomo, radicalmente sfiduciato sulla bellezza della vita, avviluppato e avvinghiato, apparentemente senza rimedio, dallo squallore dell’esistenza, convinto ormai che quella desolazione sia la vita, Gesù mostra la sua buona notizia, il suo vangelo: esiste davvero il vino buono ed è possibile per me berne. Quell’intuizione che i vini della vita mi avevano fatto intravvedere non erano le mere illusioni di uno sprovveduto un po’ troppo idealista: contenevano una verità: c’è il vino buono e io posso berne.

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