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mercoledì 27 aprile 2016

VI Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 15,1-2.22-29)

In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 21,10-14.22-23)

L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,23-29)

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

 

Le letture che la liturgia ci propone per questa Sesta Domenica di Pasqua mostrano uno spaccato della prima comunità cristiana, l’idea di Chiesa che si aveva.

È una Chiesa al cui centro c’è la parola: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».

È una Chiesa senza templi: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio».

È una Chiesa in cui le decisioni vengono prese dallo Spirito santo e noi: «È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi…».

Queste pilastri meritano di essere approfonditi.

martedì 3 giugno 2014

Pentecoste 2014

Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,3b-7.12-13)
Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-23)
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

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In questa domenica di Pentecoste (cinquantesimo giorno) i testi che la Chiesa ci propone nella liturgia fanno riferimento all’evento celebrato in questa festa: il dono dello Spirito santo.

Questi testi non vanno pensati come scritti “in presa diretta”, come se fossero un diario di bordo in cui gli apostoli riportavano i fatti contemporaneamente al loro accadere. Essi sono piuttosto il frutto di anni di riflessione che le prime comunità cristiane hanno messo in atto riguardo al “problema” della nuova situazione, creatasi dopo l’Ascensione di Gesù.

La questione era tenere insieme i dati complessi della realtà: da un lato il fatto che Gesù non fosse più presente in carne ed ossa e nemmeno nel modo post-pasquale delle apparizioni («egli fu assunto in cielo», At 1,2); dall’altro, il fatto che avesse promesso un secondo Consolatore («Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) e che quindi non ci sarebbe stata una situazione di orfanità per l’uomo («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18).

Ma come pensare questa nuova vicinanza segnata dai tratti della mancanza? Questa presenza immersa nell’assenza?

La svolta, narrata poi nei termini che conosciamo di «un vento che si abbatte impetuoso» e di «lingue come di fuoco» o nella forma giovannea di Gesù che «soffiò», è stata la graduale presa di coscienza della concretizzazione delle parole promettenti di Gesù: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33).

È stata cioè la constatazione nella vita, nell’esperienza impastata di sangue e fango, di un’energia effettiva, da «vedere e udire»; è stato il ritrovarsi addosso questo Spirito e la sua potenza: «essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d'esprimersi» (At 2,4), «Pietro, pieno di Spirito Santo, disse…» (At 4,8), «tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31), «Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà» (At 20,22); è stato lo scoprire che esso entrava in relazione potentemente col il loro nucleo più intimo, la sede delle loro decisioni: «Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare» (At 11,12), «Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo…» (At 13,4), «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15,28), «avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia» (At 16,6); è stato infine, il percepire che questa era una forza dinamica, non statica, che circolava e si diffondeva: «non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» (At 19,6).

È questa constatazione della presenza reale dello Spirito che abilita la riflessione dei primi cristiani e permette un suo disvelamento, una sua graduale conoscenza, una sua intelligenza e in questo modo anche un potersi rapportare ad esso.

Nel Nuovo Testamento sono tanti i modi in cui si parla dello Spirito, in cui si tenta di dirlo, o attraverso immagini, o proponendo i suoi effetti (per stare alla lettura di questa domenica: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue»), ma il modo che a me pare più chiaro è quello contenuto sempre nella 1 Lettera ai Corinzi, ma qualche capitolo prima, rispetto a quello della lettura proposta dal liturgista. In 1Cor 2,11 infatti Paolo dice: «Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio».

Mi pare una delle formulazioni più chiare perché accostando una realtà umana, una dinamica antropologica, a Dio, rende tutto immediatamente più comprensibile: come lo spirito dell’uomo (cioè il suo nucleo vitale, il suo essere di fronte a se stesso, la sua autocoscienza…) è l’unico a conoscerne l’intimità verace, l’interiorità autentica, così è lo Spirito di Dio per Dio; è l’intimo di Dio, la “pancia” di Dio… tant’è che per la teologia cattolica esso è identificato con l’amore che il Padre e il Figlio si scambiano e che in qualche modo trabocca e si dona all’uomo: «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio» (At 2,12).

Ed esso è proprio quella realtà che i primi cristiani riscontravano presente!
Ecco dunque, man mano, come si è evoluta la riflessione sulla nuova situazione data dalla presenza di Dio nell’assenza di Gesù: il cielo squarciato non si è richiuso, l’uomo non è rimasto solo, il cuore di Dio non ha nuovamente nascosto i suoi segreti! Ma anzi nell’incontro tra Spirito di Dio e spirito dell’uomo è possibile proprio l’incontro tra l’intimità dell’uno e quella dell’altro, tra la loro verità, tra le loro libertà!

 Ma come sta insieme questa immersione (battesimo) del mondo nello spirito di Dio con quanto andavamo dicendo settimana scorsa sull’Ascensione: e cioè sul ritrarsi di Dio per far spazio alla creduta (da Dio) adultità della sua creatura?

Ebbene, io credo che quanto dicevamo settimana scorsa sia traducibile – in termini antico-filosofici – con le parole di san Tommaso: “Dio non agisce nelle cause seconde”. Quello è il regno dell’agire dell’uomo. Esiste davvero questo lasciar spazio, questo ritrarsi, questo non intervenire nella storia!

E contemporaneamente però Dio è accanto alla sua creatura, si confronta con lei, decide insieme a lei, collabora alla costruzione della sua identità – se la creatura può/vuole –, ma lo fa da Spirito a spirito: entrando a porte chiuse, nelle porte del cuore, ma non abbassando nessuna maniglia concreta che la sua creatura non decida di abbassare.

Questo è ciò che si intende per spiritualità del rapporto con Dio: niente di esoterico o “fantasmico”, quanto piuttosto questa fragilità della sua presenza, questa potenziale insignificanza del suo esserci, questa possibile trascurabilità del suo esistere.

Eppure, per chi decide di rivolgere il proprio spirito allo spirito di Dio, questa presenza/esserci/esistere diventano di un’incandescenza e di una vigorosità inaspettate, come quando entriamo in intimità con qualcuno che fa risuonare le corde più vere della nostra identità.

 E come si fa per “rivolgere il proprio spirito allo Spirito di Dio”?

Sentiamo di prassi di vario tipo: da rituali stanchi e ripetitivi che invocano la sua presenza (nella preghiera eucaristica avviene ben 2 volte, senza che noi ci prestiamo troppa attenzione) a rituali fantasmagorici e piuttosto pittoreschi…

La mia esperienza mi suggerisce invece che la spiritualità/fragilità della presenza di Dio nella storia, laicizzi molto le modalità di incontro con questo spirito di Dio, che passa dentro alle chiacchierate con un amico, alle lacrime di una sera in cui sei irrequieto, alla testa fra le mani chi ogni tanto ci ritroviamo, e chissà dentro a quanti altri interstizi della storia… segnata dalla sua presenza riconosciuta sempre dopo…

Tenendo ben presente quanto anticipato prima: che lo Spirito di Dio è l’amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre che trabocca e si riversa su ciascuno di noi: questo amore è ciò che fa da interlocutore al nostro spirito, questa permanente memoria che la nostra unica identità di fronte a Dio è quella di figli amati.

Per questo per chi può/vuole/riesce ad accoglierlo, lo spirito diventa incandescente e vigoroso.

Per questo per chi può/vuole/riesce ad accoglierlo, lo spirito diventa interlocutore con cui confrontare la vita, con cui decidersi, con cui costruire la nostra identità.

Per capire bene cosa questa modalità di incontro con lo spirito di Dio (fragile) e il contenuto della sua essenza (l’amore traboccante di Dio) vogliano dire nel nostro costruirci come uomini, pensate – all’inverso – a cosa vuol dire invece quando il confrontare la vita, il deciderci, il costruire la nostra identità, lo facciamo non con lui, ma con quegli altri “spiriti” che ci suggeriscono che presso Dio siamo inadeguati, peccatori, castigati… o elitariamente prediletti, migliori, separati rispetto al resto dell’umanità…

martedì 20 maggio 2014

VI Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 8,5-8.14-17)

In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città. Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.

 

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo (1Pt 3,15-18)

Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,15-21)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

 

In questa sesta domenica di Pasqua – che apre due settimane davvero intense per la vita della Chiesa, nelle quali celebreremo la festa dell’Ascensione e quella di Pentecoste – la liturgia inizia a proporre letture che in maniera più diretta fanno riferimento al grande protagonista della vita della Chiesa dopo la Risurrezione di Gesù, e cioè lo Spirito Santo.

Non che Egli fosse assente prima, anzi era l’anima (lo spirito!) di tutta la storia della salvezza, ma ora – dopo che nella forma umana Gesù si rende assente ai suoi – la Sua presenza viene come ribadita e sottolineata.

È lui infatti il protagonista della prima lettura… che è molto curiosa, perché in essa si parla di una città della Samaria in cui un apostolo predica il Cristo; una città in cui – peraltro – tale annuncio viene accolto con gioia… una città, i cui abitanti sono anche già stati battezzati nel nome del Signore Gesù… eppure – nonostante la predicazione già avvenuta e già accolta, nonostante il battesimo – è una città nella quale gli altri apostoli sentono la necessità di inviare Pietro e Giovanni perché impongano le mani ai nuovi cristiani e gli permettano così di ricevere lo Spirito Santo…

Qui sta la curiosità… Com’è possibile aver ascoltato e accolto la Parola di Dio, essere addirittura stati battezzati nel nome del Signore Gesù e… non aver ancora ricevuto lo Spirito Santo?

Ma la lettura è tanto più curiosa, perché Luca – scrivendo gli Atti degli apostoli da cui questo brano è tratto – non sente la necessità di spiegare questa prassi…

E tanto meno sente la necessità di spiegare come questo testo stia in relazione a quell’altro – sempre tratto dagli Atti degli apostoli – in cui Pietro vive l’esperienza opposta, quella cioè per cui si ritrova ad avere a che fare con persone – per di più pagane – che ricevono lo Spirito Santo indipendentemente dai suoi gesti rituali: «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni», At 10,44-48.

Ma a noi il problema rimane… Come era vissuta la prassi sacramentale di accesso alla fede nella prima comunità cristiana?

È così importante saperlo perché è ad essa che noi ci rifacciamo come esperienza sorgiva, matrice per la Chiesa di sempre… e soprattutto perché quando diciamo “accesso alla fede”, non facciamo solamente riferimento all’ingresso istituzionale in una comunità ecclesiale (anche questo, ovviamente), ma più radicalmente facciamo riferimento all’accesso alla vita di Gesù, per mezzo dello Spirito santo nel suo corpo che è la Chiesa… In gioco quindi vi è la possibilità di entrare in relazione col Signore!

Dunque: Come è avvenuto questo accesso nella prima comunità cristiana? Cosa si è ritenuto “normativo” in proposito?

È difficile ricostruire oggi l’effettivo snodarsi storico degli eventi per capire quale prassi “sacramentale” sia stata effettivamente seguita… Di certo entrambi i testi mostrano come – nella prima comunità cristiana – l’evento straripasse rispetto all’istituzione e come tra essi ci fosse il corretto rapporto: l’istituzione è a servizio dell’evento; è lei a modellarsi – dunque anche a variare di situazione in situazione – sull’evento… rapporto questo che peraltro la Chiesa – pur nei periodi più faticosi della sua storia – non ha mai del tutto abbandonato e che, forse, anche su certe questioni contemporanee potrebbe illuminare maggiormente le cose (pensiamo a tutti i problemi legati alla “mediazione della grazia”: sacramenti, scelte istituzionali e quant’altro)…

Comunque, al di là di queste digressioni, un’altra evidenza da mettere in campo è che ciascuno di questi testi aveva la sua finalità teologica: il secondo voleva mostrare come – in una Chiesa in cui ancora c’erano tensioni tra cristiani provenienti dal mondo ebraico e cristiani provenienti dal mondo pagano – la forza dello Spirito eccedesse rispetto ai confini posti dagli uomini; il primo invece (quello di questa domenica, importante tra l’altro anche perché è alla base della pratica sacramentale odierna, con la confermazione “staccata” temporalmente dal battesimo) voleva sottolineare la necessità di una “ratifica” ecclesiale, universale (cattolica!), apostolica dell’accesso alla fede; non in senso negativo (come una volontà di mettere il “bollino di qualità” sui “nostri”), ma in senso positivo, quello cioè per cui la Chiesa di Gerusalemme (la Roma di allora), nelle sue figure più rappresentative (gli apostoli e tra essi Pietro e Giovanni), si facesse garante del riconoscimento di questi (che tutti consideravano eretici) come fratelli a tutti gli effetti!

Eppure, nonostante la curiosità della prima lettura, l’apparente inconciliabilità con At 10,44-48 e la diversa finalità teologica di ciascuno, ciò che emerge con chiarezza da questi brani è il fatto che entrambi pongano come centrali, i medesimi elementi: la Parola, lo Spirito santo (mediato o ratificato dai gesti del battesimo con acqua e dell’imposizione delle mani), la prossimità fraterna…

Cioè, la via – che Gesù settimana scorsa diceva di essere –, ora che Egli non è più presente in carne ed ossa, è fatta con un asfalto che ha mescolati insieme inestricabilmente questi tre elementi: la Parola, lo Spirito, i fratelli!

Noi li distinguiamo, per tentare di capirci qualcosa… Ma – come abbiam visto prima con i due testi di Atti – ogni volta che si tenta di snodare questi fili, si va in tilt e si capisce ancora meno…

È infatti non solo inspiegabile, ma addirittura inconcepibile pensare la Parola di Dio senza la prossimità fraterna (qualcuno che l’ha scritta, l’ha imparata, l’ha raccontata, l’ha riscritta, l’ha tradotta, l’ha ritradotta, l’ha stampata, ce l’ha fatta conoscere…) e senza lo Spirito che s’è messo a parlare con lo spirito di ciascuno di questi nostri fratelli…

E così è impossibile pensare lo Spirito senza una carne in cui prendere dimora e Parola…

Infine, è impossibile anche solo pensare un rapporto di prossimità fraterna che non si riferisca ad una paternità condivisa, una non orfanità che coincide esattamente con la promessa di Gesù nel dono dello Spirito: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani».

Solo questa creduta non orfanità apre il cuore dell’uomo alla prossimità fraterna che coincide con l’osservare i comandamenti di Gesù: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Scriveva in proposito Giuliano: «Senza lo Spirito il cristiano è orfano, secondo Gesù! E il cristianesimo diventa solo una religione del culto e del Libro, la dottrina di un Maestro che ha insegnato eccelse quanto irraggiungibili proposte morali, ma non ha trasmesso la “spinta” dinamica vitale che sorregga la miseria umana nell’usura del tempo e dell’evolversi della cultura. Per cui quando scordiamo lo Spirito diventiamo una setta di orfani smarriti o aggressivi. Mentre Gesù, ritornando al Padre, non ci ha abbandonati a noi stessi. La sera di Pasqua "alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo" (Gv 20,22). E Luca aggiunge il saluto finale: "Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). A Pentecoste riascolteremo la grande effusione dello Spirito che darà coraggio e forza a tutta la Chiesa, proiettandola nella sua missione nel mondo, ma custodita e protetta: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre". Nello Spirito, l’apertura del cuore ai comandamenti di Gesù non è una sottomissione ad una legge, ma conseguenza di un innamoramento: la “passione” di Dio è venuta ad abitare dentro di noi come una forza propulsiva, un flusso vitale… ravvivando un intreccio di relazioni che nutrono la vita… Se mi amate osserverete i miei comandamenti... Dunque la realizzazione della proposta di Gesù è esperienza di accoglienza dell’amore in persona: lo Spirito! Non può essere diverso: "Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui". Questo appassionato coinvolgimento ci apre ad una intimità misteriosa e coinvolgente con la Trinità stessa: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi". L'opera forte e mite dello Spirito santo è condizionata dalla nostra corresponsabilità accogliente e docile, perché è lui la fonte dell’amore che ci smuove, in una dinamica dove i due amori (il piccolo e fragile amore di cui siamo capaci noi – e il suo braciere eterno) sono fusi insieme nel gemito che ci fa dire “abbà Padre”… gemito che ci risuona in cuore, se impariamo ad ascoltarlo, in ogni passo della vita quotidiana, fino a sperimentare e gustare qualche barlume della sua promessa: Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi... perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi».

giovedì 23 maggio 2013

Trinità 2013


Dal libro dei Proverbi (Pr 8,22-31)

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-5)

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 16,12-15)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

Domenica scorsa, con la celebrazione della solennità di Pentecoste, si è chiuso anche per quest’anno il Tempo di Pasqua. Lunedì è infatti ripreso il cosiddetto Tempo Ordinario. Eppure, in questa prima domenica dopo Pentecoste, ci ritroviamo subito a festeggiare un’altra solennità: quella della Santissima Trinità. Non è facile “star dietro” a tutte queste feste (ascensione, pentecoste, trinità…), una dietro l’altra, perché i misteri che vogliono celebrare sono davvero grandi… e soprattutto sono impastati di così tante precomprensioni culturali, che – a volte – già solo nominarle, fa scappar via la gente…

Per esempio… parlare di Trinità non è così immediatamente agevole… si rifugge all’idea di provare a spiegare o spiegarsi cosa stia realmente dietro a questa parola, che non è nemmeno biblica… istintivamente vengono in mente piroette filosofico-teologiche che tutti sentiamo come assolutamente estranee, estrinseche, lontane, incomprensibili… con nessuna incidenza o significatività per la concretezza e quotidianità della nostra vita…

E allora m’è perfin venuto da chiedermi: “Ma perché la Chiesa celebra questa festa”, “Perché mi costringe a riflettere su ‘questa cosa’ così complicata?”… E la risposta che mi son data, mi ha fatto quasi sorridere nella sua semplicità ed evidenza così spesso dimenticate o offuscate da tante impalcature intellettualistiche che i secoli passati ci hanno montato nella testa: “La Chiesa celebra questa festa e parla di Trinità, semplicemente perché è ciò che emerge dal vangelo. La Chiesa parla di Trinità perché Gesù, oltre che di sé, ha parlato del Padre e ha parlato dello Spirito”.

E non lo ha fatto occasionalmente, o per inciso… Ma tutta la sua vita è come sostenuta da una passione “urgente” di rivelare il Padre, di farlo conoscerlo, di farlo vedere («La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato», Gv 14,24); e da una “fissazione quasi ossessiva” per l’annuncio del dono dello Spirito («Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me», Gv 15,26).

È per questo che parliamo di Trinità! Perché Gesù non ha semplicemente parlato di sé come del Messia o del Dio fattosi uomo, ma ha contemporaneamente parlato (con le parole e con la vita) di un Padre e di uno Spirito…

Un annuncio che poi la Chiesa ha condensato nel dogma niceno del Dio uno (nella sostanza) e trino (nelle persone). Ma – appunto – diversamente da quanto noi spesso facciamo (e in parte nei secoli passati anche la chiesa ha fatto) è il vangelo a dare la misura e il senso al dogma, non il contrario: per cui di fronte alla solennità della Trinità il nostro pensiero non deve immediatamente andare a chissà quale congegno intellettualistico partorito dall’uomo per tentare di spiegare (inventarsi?) dio; quanto piuttosto alle parole di Gesù, che indubitabilmente fanno con costanza riferimento al Padre ed allo Spirito. È lui – che noi crediamo l’insuperabile rivelazione di Dio – che ci ha parlato dell’intimità di Dio in quei termini. Tra l’altro all’interno di un contesto in cui non era facile elaborare una “teoria” del genere: siamo infatti nella culla dell’ebraismo, religione che tutti ricordano e riconoscono come il primo grande e ferreo monoteismo della storia. Una religiosità che non a caso ha nel primo dei suoi dieci comandamenti, precisamente la “blindatura” della sua rigorosità in materia: «Non avrai altro Dio»!

Ma… se tutto questo è vero… la domanda diventa: “Cosa ha dunque detto Gesù del Padre e dello Spirito?”.

Evidentemente non possiamo qui ora richiamare alla memoria tutti i passi (espliciti o meno) in cui Gesù – vivendo – fa tralucere questa sua relazione intimissima col Padre («Chi ha visto me, ha visto il Padre», Gv 14,9; «io sono nel Padre e il Padre è in me», Gv 14,11; bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, «e come il Padre mi ha comandato, così io agisco», Gv 14,31), che è lo Spirito… Ma possiamo certamente annotare come “premura incalzante” di Gesù sia quella di annunciare agli uomini la loro non - orfanità: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18).

Dire che Dio è Abbà e dire che il ritorno di Gesù a lui non è abbandono, ma assenza colmata («io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) è il vangelo di Gesù, la sua buona notizia. Dire “trinità” è dire non-solitudine: questo è Dio per Gesù, una non-solitudine che vuole coinvolgere l’uomo, perché non sia e non si senta mai (mai più) solo, nemmeno di fronte alla morte, che è così paurosa perché – per quel che vediamo noi – è solitudine estrema, eterizzata, abbandonata…

La non-solitudine che invece è il Dio che ci ha raccontato Gesù è relazione da sempre e per sempre. Questo è Dio: relazione da sempre e per sempre. E non una “relazione qualsiasi”…

Per specificarla dovremmo forse dire “una relazione d’amore”, ma quest’ultima espressione risulta così abusata da non essere più in grado di dire e significare niente… o tutto e il contrario di tutto, che è poi lo stesso…

Diciamo allora che è “relazione decentrante” – che è lo stesso che dire “amore” ma con un termine un po’ meno noto e dunque, forse, meno scontato –, relazione cioè in cui si vive della custodia dell’altro (degli altri) e per la custodia dell’altro (degli altri); dove quindi non sono io a dovermi pre-occupare di me, perché è il bene degli altri che mi “tiene”, ma devo piuttosto pre-occuparmi degli altri, perché siano “tenuti” da me… Dio è questa “cosa” qui; tra l’altro circolare (ha tre persone coinvolte) e non solamente reciproca (relazione a due): perché è come se il bene che i due (Padre e Figlio) si vogliono, straripasse al di là dei confini del loro rapporto e diventasse a sua volta terzo elemento del rapporto (Spirito) “sovrabbondante”, che ingenera una specie di reazione a catena coinvolgendo sempre qualcun altro… Come quelle particelle che si liberano nelle reazioni chimiche e vanno ad innescare altre reazioni, che a loro volta liberano un sovrappiù di “particelle” che andranno ad innescare nuove reazioni… e così via… a catena…

E questa storia – che è la stessa del dogma niceno, solo raccontata con parole più laiche e più riconoscibili dalle orecchie dei giorni nostri – non è quella che a me è piaciuto inventare o che a qualche padre conciliare è piaciuto ipotizzare 1700 anni fa (il Concilio di Nicea è del 325): è la storia che è piaciuto narrare (vivendola) a Gesù di Nazareth, che noi crediamo essere il Figlio di Dio e la sua piena rivelazione… Dio è la non-solitudine, è l’esserci per l’altro…

Ma se questo è vero – e lo è radicalmente – allora bisogna essere coraggiosi fino in fondo: «A ben vedere, [infatti] ogni tentazione cristiana (e, a livello inconsapevole, ogni tentazione umana) è una tentazione antitrinitaria. Ogni totalitarismo, che censura le differenze per esaltare un solo valore; ogni spiritualismo che deprezza la carne e la debolezza ad essa legata, esaltando superuomini; ogni materialismo che seppellisce il seme dello Spirito e il suo gemito nascosto nel cuore dell’umanità; ogni lucignolo di verità spento in nome delle verità più grandi; ogni uomo isolato o perseguitato per le sue idee o la sua diversità; ogni debole oppresso dalla prepotenza di altri uomini; ogni bimbo che non può crescere e gioire a causa del nostro egoismo… è una bestemmia contro la Trinità. Noi cristiani, cui questo mistero è affidato, ne abbiamo fatte e dette tante di queste eresie storiche - e Giovanni Paolo II ne ha chiesto perdono a tutti più di cento volte… Ma è pure vero che un’innumerevole folla di martiri ha testimoniato il rifiuto della prepotenza politica o ideologica di capi, re e imperatori. Generazioni di credenti, laici e consacrati, famiglie e chiese, hanno sfidato la logica del potere e del danaro…e hanno seminato nel mondo il fermento del primato della persona, e quindi l’accudimento del malato e del debole, l’assistenza e l’istruzione del meno fortunato, l’ascolto e il rispetto di tutti i pareri diversi…» [Giuliano].

È ben vero allora che l’idea di Dio che abbiamo in testa non è ininfluente sulla vita che costruiamo (foss’anche l’idea che Dio non c’è – perché anche questa è un’idea di Dio…), ma anzi: dall’idea di Dio che uno ha in testa, si capisce anche che uomo egli è; e viceversa, ovviamente: da che vita uno conduce, si può capire in che “idea” di Dio crede… se in un dio monadico, totalitario, autoritario, autosufficiente, autoriferito, ecc… o in un Dio di relazione, di pluralità, di custodia, di solidarietà, di collaborazione…
Un “dio per sé” ha infatti seguaci che vivono per se stessi; un “Dio per gli altri” ha seguaci che vivono per gli altri…

venerdì 27 maggio 2011

VI Domenica di Pasqua: Si inizia a parlare di Spririto

In questa sesta domenica di Pasqua – che apre due settimane davvero intense per la vita della Chiesa, nelle quali celebreremo la festa dell’Ascensione e quella di Pentecoste – la liturgia inizia a proporre letture che in maniera più diretta fanno riferimento al grande protagonista della vita della Chiesa dopo la Risurrezione di Gesù, e cioè lo Spirito Santo.


Non che Egli fosse assente prima, anzi era l’anima (lo spirito!) di tutta la storia della salvezza, ma ora – dopo che nella forma umana Gesù si rende assente ai suoi – la Sua presenza viene come ribadita e sottolineata.

È lui infatti il protagonista della prima lettura… che è molto curiosa, perché in essa si parla di una città della Samaria in cui un apostolo predica il Cristo; una città in cui – peraltro – tale annuncio viene accolto con gioia… una città, i cui abitanti sono anche già stati battezzati nel nome del Signore Gesù… eppure – nonostante la predicazione già avvenuta e già accolta, nonostante il battesimo – è una città nella quale gli altri apostoli sentono la necessità di inviare Pietro e Giovanni perché impongano le mani ai nuovi cristiani e gli permettano così di ricevere lo Spirito Santo…

Qui sta la curiosità… Com’è possibile aver ascoltato e accolto la Parola di Dio, essere addirittura stati battezzati nel nome del Signore Gesù e… non aver ancora ricevuto lo Spirito Santo?

Ma la lettura è tanto più curiosa, perché Luca – scrivendo gli Atti degli apostoli da cui questo brano è tratto – non sente la necessità di spiegare questa prassi…

E tanto meno sente la necessità di spiegare come questo testo stia in relazione a quell’altro – sempre tratto dagli Atti degli apostoli – in cui Pietro vive l’esperienza opposta, quella cioè per cui si ritrova ad avere a che fare con persone – per di più pagane – che ricevono lo Spirito Santo indipendentemente dai suoi gesti rituali: «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni», At 10,44-48.

Ma a noi il problema rimane… Come era vissuta la prassi sacramentale di accesso alla fede nella prima comunità cristiana?

È così importante saperlo perché è ad essa che noi ci rifacciamo come esperienza sorgiva, matrice per la Chiesa di sempre… e soprattutto perché quando diciamo “accesso alla fede”, non facciamo solamente riferimento all’ingresso istituzionale in una comunità ecclesiale (anche questo, ovviamente), ma più radicalmente facciamo riferimento all’accesso alla vita di Gesù, per mezzo dello Spirito santo nel suo corpo che è la Chiesa… In gioco quindi vi è la possibilità di entrare in relazione col Signore!

Dunque: Come è avvenuto questo accesso nella prima comunità cristiana? Cosa si è ritenuto “normativo” in proposito?

È difficile ricostruire oggi l’effettivo snodarsi storico degli eventi per capire quale prassi “sacramentale” sia stata effettivamente seguita… Di certo entrambi i testi mostrano come – nella prima comunità cristiana – l’evento straripasse rispetto all’istituzione e come tra essi ci fosse il corretto rapporto: l’istituzione è a servizio dell’evento; è lei a modellarsi – dunque anche a variare di situazione in situazione – sull’evento… rapporto questo che peraltro la Chiesa – pur nei periodi più faticosi della sua storia – non ha mai del tutto abbandonato e che, forse, anche su certe questioni contemporanee potrebbe maggiormente mettere in campo per provare a guardare le cose da punti di vista diversi…

Comunque, al di là di queste digressioni, un’altra evidenza da mettere in campo è che ciascuno di questi testi aveva la sua finalità teologica: il secondo voleva mostrare come – in una Chiesa in cui ancora c’erano tensioni tra cristiani provenienti dal mondo ebraico e cristiani provenienti dal mondo pagano – la forza dello Spirito eccedesse rispetto ai confini posti dagli uomini; il primo invece (quello di questa domenica, importante tra l’altro anche perché è alla base della pratica sacramentale odierna, con la confermazione “staccata” temporalmente dal battesimo) voleva sottolineare la necessità di una “ratifica” ecclesiale, universale (cattolica!), apostolica dell’accesso alla fede; non in senso negativo (come una volontà di mettere il “bollino di qualità” sui “nostri”), ma in senso positivo, quello cioè per cui la Chiesa di Gerusalemme (la Roma di allora), nelle sue figure più rappresentative (gli apostoli e tra essi Pietro e Giovanni), si facesse garante del riconoscimento di questi (che tutti consideravano eretici) come fratelli a tutti gli effetti!

Eppure, nonostante la curiosità della prima lettura, l’apparente inconciliabilità con At 10,44-48 e la diversa finalità teologica di ciascuno, ciò che emerge con chiarezza da questi brani è il fatto che entrambi pongano come centrali, i medesimi elementi: la Parola, lo Spirito santo (mediato o ratificato dai gesti del battesimo con acqua e dell’imposizione delle mani), la prossimità fraterna…

Cioè, la via – che Gesù settimana scorsa diceva di essere –, ora che Egli non è più presente in carne ed ossa, è fatta con un asfalto che ha mescolati insieme inestricabilmente questi tre elementi: la Parola, lo Spirito, i fratelli!

Noi li distinguiamo, per tentare di capirci qualcosa… Ma – come abbiam visto prima con i due testi di Atti – ogni volta che si tenta di snodare questi fili, si va in tilt e si capisce ancora meno…

È infatti non solo inspiegabile, ma addirittura inconcepibile pensare la Parola di Dio senza la prossimità fraterna (qualcuno che l’ha scritta, l’ha imparata, l’ha raccontata, l’ha riscritta, l’ha tradotta, l’ha ritradotta, l’ha stampata, ce l’ha fatta conoscere…) e senza lo Spirito che s’è messo a parlare con lo spirito di ciascuno di questi nostri fratelli…

E così è impossibile pensare lo Spirito senza una carne in cui prendere dimora e Parola…

Infine, è impossibile anche solo pensare un rapporto di prossimità fraterna che non si riferisca ad una paternità condivisa, una non orfanità che coincide esattamente con la promessa di Gesù nel dono dello Spirito: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani».

Solo questa creduta non orfanità apre il cuore dell’uomo alla prossimità fraterna che coincide con l’osservare i comandamenti di Gesù: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Scriveva in proposito Giuliano: «Senza lo Spirito il cristiano è orfano, secondo Gesù! E il cristianesimo diventa solo una religione del culto e del Libro, la dottrina di un Maestro che ha insegnato eccelse quanto irraggiungibili proposte morali, ma non ha trasmesso la “spinta” dinamica vitale che sorregga la miseria umana nell’usura del tempo e dell’evolversi della cultura. Per cui quando scordiamo lo Spirito diventiamo una setta di orfani smarriti o aggressivi. Mentre Gesù, ritornando al Padre, non ci ha abbandonati a noi stessi. La sera di Pasqua "alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo" (Gv 20,22). E Luca aggiunge il saluto finale: "Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). A Pentecoste riascolteremo la grande effusione dello Spirito che darà coraggio e forza a tutta la Chiesa, proiettandola nella sua missione nel mondo, ma custodita e protetta: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre". Nello Spirito, l’apertura del cuore ai comandamenti di Gesù non è una sottomissione ad una legge, ma conseguenza di un innamoramento: la “passione” di Dio è venuta ad abitare dentro di noi come una forza propulsiva, un flusso vitale… ravvivando un intreccio di relazioni che nutrono la vita… Se mi amate osserverete i miei comandamenti... Dunque la realizzazione della proposta di Gesù è esperienza di accoglienza dell’amore in persona: lo Spirito! Non può essere diverso: "Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui". Questo appassionato coinvolgimento ci apre ad una intimità misteriosa e coinvolgente con la Trinità stessa: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi". L'opera forte e mite dello Spirito santo è condizionata dalla nostra corresponsabilità accogliente e docile, perché è lui la fonte dell’amore che ci smuove, in una dinamica dove i due amori (il piccolo e fragile amore di cui siamo capaci noi – e il suo braciere eterno) sono fusi insieme nel gemito che ci fa dire “abbà Padre”… gemito che ci risuona in cuore, se impariamo ad ascoltarlo, in ogni passo della vita quotidiana, fino a sperimentare e gustare qualche barlume della sua promessa: Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi... perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi».

domenica 9 maggio 2010

Ridisegnare la Storia col soffio dello Spirito

Perché a me? Perché a noi?...
Il contesto del Vangelo di oggi è quello dell’ultima cena secondo il racconto del Vangelo di Giovanni. E fa parte di quella sezione che gli studiosi chiamano per convenzione (e impropriamente in quanto come lui stesso dice, non se ne va: l’andare al Padre non vuol dire che si “assenta” dalla nostra storia…) “discorsi di addio”.

Qui siamo nel primo di questi discorsi che inizia in Gv 13,31. Bisognerebbe ricollocarsi esistenzialmente in quel contesto per cogliere in tutta la sua profondità ciò che Giovanni ci vuole trasmettere in ciò che dice e fa Gesù…

Il brano riportato nella liturgia è propriamente parlando una risposta di Gesù alla domanda di un discepolo (Giuda, non l’Iscariota che è già “uscito”). La domanda era: «Signore come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». La risposta di Gesù nel dare un senso nuovo alla domanda, dà la chiave di lettura di come sarà possibile il suo “manifestarsi al mondo”…

Se uno mi ama, osserverà la mia parola
Gesù mostra che la fede non nasce da una evidenza, da una cogenza alla quale non ci si può non consegnare: nemmeno la resurrezione lo è! Non esiste un miracolo capace di “costringere” alla conversione. La fede – questo è il bello della fede – è un atto di amore, un atto della libertà che si apre all’incontro-conoscenza con l’altro generando comunione. Non è un “aderire a un’idea” o peggio a “una dottrina” e men che meno una “costrizione”. La fede è un fidarsi-affidarsi che nasce dall’amore che si fa storia comune. In questa risposta Gesù unisce fede-speranza-carità come dimensione profonde della relazione tra l’uomo e Gesù (e, a partire del suo amore per noi che precede e rende possibile il nostro, tra i discepoli cfr 13,34ss).
Il punto di partenza quindi è l’appropriazione personale della sua parola: questo è l’Amore secondo Giovanni. Amare Gesù è vivere della sua Parola al punto da non poterne più fare a meno, se non un sentirsi “morire dentro”. Osservare i comandamenti (v. 15) e osservare la sua parola non hanno niente a che fare per Gesù (e Giovanni!) con “l’osservanza materiale di precetti” ma indicano un rapporto vitale con la parola (logos-dabar) che produce comunione, condivisioni di vite e sequela…
Il manifestarsi di Gesù è un manifestarsi possibile solo a coloro che “gli si fanno suoi”, che accettano di farsi suoi… per questo chi non lo ama, “non può” vivere della sua parola e quindi “non lo può” conoscere (il binomio “conoscere-amare” e “non conoscere-odiare” è fondamentale in tutto il Vangelo di Gv fin dalle sue prime battute nel Prologo cfr anche oltre ai capitoli 13-17 ad esempio il c. 10 sul rapporto d’amore – conoscenza reciproca – tra le pecore e il pastore)…

L’amore per il logos di Gesù è l’amore per Gesù, Logos del Padre, e quindi è nello stesso tempo amore per il Padre… Amore che è dono dello Spirito d’amore tra il Padre e il Figlio e i figli.

Per questo, questo amore, questo vivere della sua parola, è comunione col Padre e col Figlio che si fa presenza concreta, dimora reciproca, reciproco dimorare l’uno nell’altro, reciproca inabitazione, con-vivenza sponsale (cfr il segno-simbolo – sacramentum – del matrimonio) di reciproca conoscenza…
E questo è lo Spirito, Amore tra il Padre e il Figlio e i figli, che alimenta e si alimenta del nostro reciproco vivere l’uno dell’altro, degli uni negli altri, degli uni per gli altri… per questo lo Spirito ricorda e insegna l’amore-parola di Gesù che è Gesù stesso perché Gesù è la sua parola in quanto è tutto in tutto quello che fa e che dice… Il ricordare dello Spirito allora non può essere nel senso biblicistico di riportare a memoria qualcosa che si è dimenticato (es una citazione biblica) o di rivivere la nostalgia di un tempo passato (es il periodo storico di Gesù o di un’epoca “d’oro” della Chiesa), ma un riportare a reciproca presenza, un ripresentare l’uno all’altro il volto dell’uno e dell’altro, per rivitalizzare, vivificare, mantenere in vita l’amore dell’uno per l’altro, il vivere dell’uno con l’altro. Questo “ricordare” dello Spirito, fa dello Spirito il paraclito per l’uomo, cioè consolatore (testimone alla coscienza credente della promessa del Padre che si attua nella storia, e per questo dà forza e coraggio, esorta e spinge all’azione nella storia) e in Dio è colui che intercede per noi con gemiti inesprimibili. Questo significa il ricordare la parola di Gesù: rivivere alla presenza nostra e del Padre l’azione liberante del Cristo…

Tempio di Dio
Questo è il dono più grande, che fa del discepolo il luogo della comunione con Dio, il luogo della presenza di Dio vivente, tempio vivente del Dio vivente.

Per questo il discepolo non può che rallegrarsi del fatto che il Signore vada al Padre, perché solo così la sua presenza diventa definitiva. Perché il suo ritornare col Padre diventi presenza tangibile nel dono dello Spirito per la vita di ogni uomo di ogni luogo e di ogni tempo, senza più i limiti sensibili della dimensione spazio-temporale.

Questa presenza, questa inabitazione reciproca di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio, attuata dall’amore alla sua parola, fa dell’uomo un creatura nuova, autentico «sacramento di Cristo» (M. Magrassi, Vivere la chiesa, 113).

Ciò che Gesù afferma nel Vangelo è descritto con un linguaggio profetico, apocalittico nella seconda lettura. Qui dobbiamo uscire da un equivoco… Se è vero che il libro dell’Apocalisse dà una chiave di lettura della storia in prospettiva escatologica (a partire dal suo fine), questo non vuol dire che ciò che è descritto come “compimento” non sia già una realtà vissuta e sperimentata dal cristiano fin da ora… Anzi il compimento è possibile, proprio perché ciò che deve compiersi alla fine della storia è già pienamente presente nella storia: nulla le manca per poter giungere al proprio compimento!

Per capirci possiamo fare una analogia con la persona di Gesù: il suo “tutto è compiuto” sulla croce, non vuol dire che egli non fosse pienamente figlio anche prima! Anzi il suo vivere pienamente da figlio prima della croce rende possibile fare la volontà del Padre fino al suo compimento!

Altrimenti il libro dell’Apocalisse sarebbe l’unico libro della Bibbia che propone una visione “alienante” della storia presente: una fuga dai problemi dell’oggi nell’attesa di una promessa “oltre la storia”…

La “Gerusalemme celeste” (con tutto quello che nella simbolica dell’Antico e Nuovo Testamento rappresenta), lungi dall’essere allora una realtà da contrapporre alla “Gerusalemme terrestre” è quella dimensione già ora presente nella storia in coloro che vivono della parola dell’Agnello… e diventano comunione e tempio della presenza di Dio in mezzo a noi. Siamo ben lontani dalla contrapposizione agostiniana.
E come domenica scorsa ci ricordava il Vangelo (Gv 13,35: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri), il discepolo non è colui che appartiene a questa o quella istituzione ecclesiale o religiosa, ma è colui che vive di questo amore lasciandosi abitare dall’amore di Cristo, che è, ci ricorda il Vangelo di oggi, amore alla sua parola, al suo logos, al suo dabar. Perché la sua parola ha in sé la capacità di rendersi “amabile” in quanto ci rivela (ricorda) il volto del Padre nel volto del Figlio per l’azione dello Spirito.

L’azione dello Spirito nella storia: l’incarnazione della Parola nella vita dei discepoli
I discepoli allora costituiscono una comunità, come una città che «non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna» perché «la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello». La Parola abita il discepolo perché il discepolo la abita, vive della Parola e nella parola, per questo non c’è tempio: «il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio». Tempio del discepolo è la Parola vivificata dallo Spirito.
Ora tutto questo prima di essere una promessa futura, è già una realtà vissuta dal cristiano-discepolo… che si attua storicamente e giunge fino a noi anche nella testimonianza della vita della comunità credente, fin dai suoi albori: Come ci è descritto anche dalla prima lettura di oggi, tratta dagli Atti degli Apostoli, dove gli Apostoli mostrano un coraggio inaudito!

Di quale coraggio si tratta?… Il brano ci parla di un concreto problema: cosa devono fare i pagani per convertirsi al Cristianesimo? Devono o non devono aderire in toto agli insegnamenti della Torah? Che si noti bene: data da Dio stesso!

Inoltre, Gesù non era forse ebreo? Certo che sì e osservava tutti i precetti della Torah ed era circonciso! E disse che neanche uno iota della Torah passerà… Dunque pare evidente che se un pagano vuole farsi cristiano deve fare come Gesù e quindi convertirsi nello stesso tempo all’ebraismo!
Gli apostoli stessi erano ebrei, circoncisi e praticanti: ancora negli Atti si vede che per la preghiera, come ogni pio israelita si recavano al tempio e alla sinagoga…
Quindi sembrava logico, che chiunque venisse da un’altra cultura, da un’altra religione, da un’altra etnia, dovesse prima di tutto inserirsi, nella religione, nella cultura e nell’etnia giudaica… Non è forse lo stesso ragionamento di molti cristiani che trovano ovvio pretendere ad altri la propria “superiore cultura cristiana”?…

Aperti alla storia di ogni uomo
Invece gli apostoli facendo un salto culturale senza precedenti, manifestano un coraggio inaudito che li rende capaci, lasciandosi guidare dallo Spirito di Cristo, di “staccarsi”, di andare oltre, persino al Cristo secondo la storia… per entrare nella prospettiva del Cristo secondo la gloria.

Ecco in che cosa consiste, concretamente, il lasciarsi guidare, illuminare, soltanto dallo Spirito di Cristo che fa rivivere in noi la sua parola: avere il coraggio di andare oltre persino alla propria storia, al proprio cammino storico-culturale di fede, per saper dare risposte nuove a domande nuove, che i problemi nuovi dell’incontro con l’altro propone alla nostra storia quotidiana…
Non esistono risposte che vanno bene per tutte le domande, per tutti i periodi storici, per ogni uomo e donna, per ogni situazione… Il dono dello Spirito che rivitalizza la parola-azione di Cristo nella storia della comunità credente, rende capace l’uomo di una libertà inaudita persino rispetto alle proprie più sacre tradizioni…

Sulle ali dello Spirito…
Il cammino fatto fin qui di comprensione della “parola” che la Chiesa ci propone nella liturgia odierna, ci dice quanto il nostro vissuto ecclesiale debba maturare per vivere questa realtà e questo coraggio che nascono dall’amore alla Parola… In nome della Tradizione, spesso si è voluto giustificare il nostro tradimento all’amore per la Parola di Gesù.
Quante volte diciamo che una cosa non si può fare perché nella Tradizione non è mai stata fatta… quante volte abbiamo detto di non sentirci autorizzati a cambiare quello che hanno deciso gli Apostoli… Gli Apostoli stessi invece ci mostrano, in quello che è il Vangelo della Chiesa, che non solo si può, ma – perché la salvezza di Cristo raggiunga ogni uomo nell’oggi della storia – addirittura si deve! Questo è il “comandamento” dell’amore! Che diffonde nel mondo il “rallegrarsi” dei discepoli e non “intristisce lo Spirito” liberandone la forza creativa.

Ma anche nel nostro vissuto familiare, spesso noi adulti, abbiamo rifiutato l’incontro con i nostri figli e nipoti (per parlare di persone che pretendiamo amare), semplicemente perché andare incontro a loro, capire veramente le domande del loro cuore e concordare con ciascuno di loro percorsi educativi per una ricerca comune di una risposta adeguata, avrebbe richiesto l’uscire dai nostri schemi, dalle nostre certezze, dai nostri innegoziabili principi… maschere delle nostre paure, frutto della nostra mancanza di fede e di amore verso la Parola ri-creatrice!

Ciò che l’amore alla Parola di Gesù ci propone invece è di rivivere l’esperienza di Gesù che si aperto all’incontro con l’altro anche a costo di diventare un “maledetto da Dio” (e maledetto dalla sua comunità credente!) avendo come solo conforto (paraklesis) la testimonianza del nostro amore per la sua Parola attestato nella nostra vita dallo Spirito Paraclito donatoci dal Padre… e da noi “riconsegnato” al Padre e al mondo.

venerdì 29 maggio 2009

La potenza discreta dello Spirito

Volti nuovi dello Spirito...
Il Vangelo chiarisce l’obiettivo, anzi, il “compimento” essenziale per cui Gesù innalzato al Padre ci manda lo Spirito: vi condurrà sulla via di ogni verità – perché lui stesso è lo Spirito di verità. “La Verità che qui si dice è la verità di Dio come si è rivelata definitivamente e inesauribilmente in Gesù Cristo: essa consiste nel fatto che Dio è l’amore e che Dio, il Padre, ha amato il mondo fino a mandare il Figlio suo. Questo nessuno dei discepoli, e neppure noi, l’avremmo compreso, se non ci fosse stato donato lo Spirito stesso di Dio, per introdurci nell’intenzione e nell’azione salvifica di Dio stesso. Essendo, lo Spirito, il frutto di questo amore reciproco in Dio, non rivela ciò che gli è proprio, ma spiega soltanto, sempre di nuovo, attraverso tutti i secoli, quanto insondabile e inconcepibile è questo eterno amore (von Balhasar). Egli introduce il discepolo in ciò “che è mio”, dice Gesù, il Figlio ma questo è nello stesso tempo “ciò che è del Padre”. Non si tratta di una conoscenza noetica o intellettuale. Lo Spirito ci introduce in questa dinamica interna all’amore di Dio insegnandoci con infinita pazienza quotidiana ad amare con l’amore che Dio ha manifestato in Cristo, amore di benevolenza che tutto abbraccia, assume e redime! La laboriosa e travagliata trasformazione “dei desideri e passioni della carne” nel “frutto dello Spirito”, come ci spiega Paolo, è il segno di questa presenza animatrice e consolatrice…
E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa?
…Così si domanda la gente proveniente da ogni lingua e nazione che è sotto il cielo, in piazza, nel giorno di Pentecoste! Noi facciamo dunque memoria ancor oggi (e dovrebbe rinnovarsi tra noi), del dono proprio più immediato e percepibile dello Spirito: la comunione e l’intercomprensione dei linguaggi e delle culture. Una unione ardente con/divisa, o una divisione in lingue infuocate dallo stesso braciere… Mai, forse, lo Spirito ha avuto una piazza globalizzata come il nostro il mondo, oggi. Mai è stata così forte la dispersione babelica, e nello stesso tempo tanto condensata e strettamente interconnessa e interdipendente, che l’evento che capita in ogni angolo del cosmo coinvolge inarrestabilmente tutta l’umanità. Mai come oggi… tutti erano radunati in un unico luogo… come si dice dei discepoli, in attesa dello Spirito. È il nostro villaggio globale! C’è un’attesa evidente, anche se confusa e angosciata, nel nostro mondo e nella nostra chiesa, che sembra provenire proprio da questa evidente urgenza inarrestabile di integrazione e di comunione, proprio in una condizione sociale, economica, religiosa e ideologica mondiale quanto mai sperequata e conflittuale. Il senso di paura e di impotenza, di bisogno e di inadeguatezza fa ricercare soluzioni sbilanciate sulla “sicurezza” (propria! …con censura più o meno spietata sui problemi altrui); sulla difesa armata aggressiva della propria identità di nazione o di religione e di livello economico; sui “respingimenti” di chiunque cerchi una via di uscita da condizioni talmente invivibili da non aver tempo e mezzi per percorrere le impossibili vie burocratiche prestabilite.
La profezia cristiana si arrende?
Forme impazzite di reazioni aggressive violente e terroristiche (la cui origine non è solo ideologica o religiosa, ma anche e sempre economica!) sembrano giustificare contromisure adeguate oltre le soglie che si pensavano insuperabili della tortura e della sospensione dei diritti della persona (…e quindi i “reati” diventano “doveri”, pure in paesi cosiddetti democratici!). Eppure la Pentecoste è presentata ai discepoli di Gesù come la realizzazione, iniziale almeno, della “verità tutta intera” prevista dall’antica profezia antibabelica. “Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto…per tutti i popoli… Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli” (Is. 25,6ss). Il prodromo di quanto succede a Gerusalemme il giorno di Pentecoste! Dunque, è possibile un benessere globalizzato, quando ogni diseguaglianza vergognosa verrà cancellata! Perché questo è il contenuto, ma anche il grande mezzo di fascino e convinzione, il propulsore! Di cosa, insomma, parlavano i discepoli, mentre accade il prodigio della comprensione reciproca nella lingua nativa? Delle grandi opere di Dio! Le cose che stavano avvenendo, dunque, quelle che erano sotto gli occhi di tutti! Che gli uomini si capivano, che ognuno riconosceva e accoglieva la dignità dell’altro, la reciproca comprensione e accoglienza della diversità, e (proseguendo il cammino di animazione dello Spirito e della Parola) che erano insomma un cuor solo e un’anima sola… e che non c’era tra loro nessun bisognoso, perché tutto era in comune.
…non siamo ancora capaci di portarne il peso?
Gesù afferma che non può dire subito tutta la sua verità ai discepoli, perché non erano ancora capaci di portarla: Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Questa immaturità dei discepoli si prolunga fino a noi. Lo Spirito di certo è già stato mandato e talora ne abbiamo visto le tracce, ma la nostra capacità di accogliere, analizzare e progettare “le cose future” rimane molto scarsa. E questa insufficienza genera insicurezza, e quindi contrapposizioni e aggressività, e porta acqua non al mulino della profezia, ma al vortice della difesa arroccata e selvaggia dei privilegi acquisiti (spesso con le dilapidazioni coloniali dei secoli passati). Non che non sia stata detta una parola profetica, per esempio sul disastro economico mondiale provocato in questi ultimi tempi per incontrollabile ingordigia finanziaria, ma è caduta nel vuoto. Diceva infatti Giovanni Paolo II: Di per sé un mercato mondiale organizzato con equilibrio e una buona regolamentazione, possono portare, oltre che al benessere, allo sviluppo della cultura e della democrazia… Ci si deve però aspettare effetti diversi da un mercato selvaggio che con il pretesto della competitività, prospera sfruttando a oltranza l’uomo e l’ambiente. Questo tipo di mercato eticamente inaccettabile non può che avere conseguenze disastrose per lo meno a lungo termine (25.04.1997). Le dinamiche nuove dello Spirito non sono regole economiche, ma se non ispirano l’atteggiamento degli uomini sia nell’affrontare i macrofenomeni socioeconomici che i rapporti interpersonali diventano ovviamente irreali e alla fine sterili.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge
Noi preferiamo la legge, la sicurezza del “da farsi” prestabilito, anche se denuncerà infine la nostra inattitudine a risolvere i problemi nostri e del mondo. Piuttosto però di sbilanciarci verso lo Spirito, che essendo amore, non ha confini tra il tuo e il mio, tra la tua responsabilità e la mia e ci spinge su orizzonti, “realtà future” senza sentieri e confini precisi, noi preferiamo rintanarci nella zona sicura dei diritti e dei doveri! Il Vangelo, invece è disarmante quanto inapplicabile, secondo i nostri criteri e le nostre paure: Egli, lo Spirito, mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio ve lo annuncerà. Dunque, man mano che i giorni e le faccende e le contraddizioni ci vengono incontro, lo Spirito ci suggerisce cosa ha fatto Gesù e come noi dobbiamo rinnovarlo nella nostra storia. A noi la scelta. Se non lo facciamo contraddiciamo il senso fondamentale del mistero di oggi, che S. Paolo così efficacemente analizza: La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Non si tratta soltanto delle pulsioni sessuali o sensuali, ma soprattutto della prepotenza dell’io, la causa più scatenante delle sofferenze che l’uomo procura a sé stesso e ai suoi simili. O il cristiano “tuttofare” si butta dalla parte della razionalità e quindi della scientificità, della polemica… e allora qualche risultato (amaro!) a modo suo l’avrà, ma sarà lo Spirito a ritirarsi. O altrimenti “si lascia fare dallo Spirito”, non per impigrire nell’irresponsabilità, ma per buttarsi con molta più libertà dalla parte dello Spirito, di cui dice Gesù, Egli vi darà testimonianza di me. Cioè riporterà sempre il discepolo, nell’avvicendarsi delle vicende e delle stagioni, alla verità della sua Parola e all’amore del Padre. Il risultato (implorato gratuitamente) a lungo andare, almeno, dovrebbe vedersi: Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è Legge, perché sono le varie sfaccettature dell’amore senza riserve, senza regole, che non l’amore stesso. Che in fondo è lo specifico del cristiano, secondo Gesù: da questo capiranno che siete miei discepoli, da come vi amate gli uni gli altri.

Lo Spirito non è una secchiata che cade ogni tanto qua e là

Poveramente vado / sgomenta camminando nella sabbia / processione infinita di / solitudini in cammino. / Forse stasera / o domani sera / o alla sera dell’ultimo / giorno – alba della terra nuova – / TU ritornerai. / Non avrò fiato / per rimostranze vane. / Ma le pupille, quelle, / rese vuote dal / desolato pianto / reclameranno luce / per vedere. [Madre Elisabetta, Legnano]. Ho voluto iniziare con questa poesia perché mi pare dica bene il dramma che caratterizza la vita della Chiesa per l’assenza di Gesù tra i suoi. Ed è troppo facile dire “Sì, però poi ci ha mandato lo Spirito, che non a caso si chiama Paraclito, consolatore…”, perché anch’esso – per quanto non abbia mai smesso di affascinare generazioni di nuovi cristiani – resta così imprendibile, da sembrare evanescente, addirittura superfluo… È la grande accusa che ci muovono infatti i nostri fratelli ortodossi… di aver dimenticato lo Spirito… Ma d’altra parte… un po’ avevamo i nostri buoni motivi: non volevamo dare e darci l’impressione di vivere di una religiosità un po’ fantasmica, spiritualistica, interioristica (che non si dice, ma rende l’idea…), con punte di fanatismo e suggestione che rischiavano di far ridere i polli, o peggio, di screditare un messaggio potente come quello evangelico: le vocine, le visioni, gli stati paranormali…
E ancora una volta si ripropone l’annoso problema teologico – ma forse sarebbe meglio dire “umano” – del dire una cosa senza sbilanciarsi troppo in un senso, perché poi bisogna correggersi, spostando un po’ il pendolo dall’altra parte, ma senza andare troppo in là, se no si sbaglia ancora… Un po’ come per Gesù: era uomo o era Dio? Beh, certamente era un uomo, però non si può dire che era solo un uomo, e allora si sposta un po’ il pendolo: è anche Dio. Sì, ma non si può neanche dire che è solamente Dio, non è che ha fatto solo finta di prendere carne umana, non era un suo sostituto quello che c’era sulla croce… e allora risposta ancora un po’ il pendolo, fino ad arrivare alla definizione dogmatica: è 100% uomo e 100% Dio…
La stessa cosa per lo Spirito Santo… è interiore, ma non è interiorismo, spirituale, ma non è spiritualismo, opera nella storia, ma non si sa donde viene e dove va, ecc… E così di bilancino in bilancino si tenta di sottolineare ora un aspetto, ora un altro, stando dentro ai confini del dogma (è della stessa sostanza del Padre e del Figlio, cioè è Dio pure Lui e procede da entrambi) e andando incontro alle domande di senso della gente… Si alternano così epoche storiche molto “spirituali” a epoche un po’ più dimentiche di Lui…
Ma il problema vero è capire oggi che cosa c’entra con noi, con me questo Spirito Santo, cosa è (o meglio “Chi è?”), come mi ci posso relazionare…

Il rischio se no è infatti quello che i nostri ragazzi – che viaggiano senza i nostri filtri di adulti – esplicitano nel loro parlare: ogni volta che non sanno come spiegare alcune esperienze ecclesiali, ci mettono dentro lo Spirito Santo, di cui non si sa nulla e che perciò va sempre bene come risposta: “Perché han fatto questo papa?”, “Ha deciso lo Spirito Santo”; “Cos’hai ricevuto alla cresima?”, “La play station, l’orologio, le scarpe e poi… ah sì, lo Spirito Santo”; “Cosa succede a Messa?”, “Boh, fa tutto lo Spirito Santo”… Rispondendo quindi con risposte giuste (chi direbbe che il papa non l’ha scelto lo Spirito, che è lo stesso che si riceve alla cresima e che fa del pane e vino, il corpo e sangue di Gesù durante la messa?), ma che sono completamente vuote… Tant’è che nessuno poi sa chi in definitiva sia questo Spirito Santo… e addirittura qualcuno inizia a sospettare che sia un’invenzione per alleviare la tragicità dell’assenza di Gesù… o per giustificare infelici scelte ecclesiali…
Eppure, come ci ricorda Dossetti, per Gesù invece lo Spirito è stato quasi un chiodo fisso: «Con quanta insistenza il Signore ci parla dello Spirito consolatore, del Paraclito, di colui che verrà a noi dopo che Gesù è salito al Padre e che non ci lascerà orfani!»; infatti «quando ci domandiamo qual è in definitiva lo scopo dell’incarnazione, la risposta evangelicamente è questa: portare più profondamente quel fuoco che, nella narrazione del battesimo di Cristo e soprattutto nella profezia del Battista, viene identificato con lo Spirito: “Io vi battezzo nell’acqua […]; lui vi battezzerà nello Spirito Santo” (Lc 3,16). La missione di Cristo e tutto il senso dell’incarnazione si possono riassumere così: dare agli uomini lo Spirito Santo. […] Noi consideriamo il Cristo sotto tanti aspetti, ma ce n’è uno al quale forse pensiamo meno e che risulta dal testo di Luca ora richiamato: questa ansia di Cristo di dare lo Spirito Santo. Gesù, l’uomo di Nazaret, è divorato dalla sete di trasmettere a tutto l’uomo e a tutta la creazione lo Spirito di Dio».
Come noi, anche Dossetti, nota la forbice che si apre tra l’appassionato annuncio di Gesù dell’importanza dello Spirito e la nostra pressoché indifferenza (forse ignoranza) nei suoi confronti: «Se consideriamo questo commisurandolo con la nostra attenzione allo Spirito Santo, nella nostra esperienza di preghiera e di vita… quale sproporzione! Il Cristo indica non solo verbalmente, ma con tutta la sua tensione esistenziale, che in questo comunicare lo Spirito sta tutto il senso del suo essere e del suo compito e noi invece ce ne disinteressiamo e lo accogliamo con estrema freddezza» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 21-22.209].
Ma come correggere questa nostra impasse? Come correggerla senza che la nostra risposta risulti ancora una volta un appiccicare lo Spirito alla storia, un ricordarsi momentaneo di “un altro piano”, come se si trattasse di qualcosa di messo sopra, staccabile a piacimento e per quello non indispensabile, dunque in fin dei conti superfluo? Sembra pressoché inutile infatti intensificare il richiamo di tutti all’attenzione allo Spirito o l’auto-convincimento riguardo alla sua importanza, con il conseguente volontaristico sforzo di tenerlo presente nel nostro vivere o – almeno – nel nostro pregare... Sembra inutile, per due motivi: innanzitutto perché è un dato di fatto; questa modalità “pastorale” non funziona; in secondo luogo perché perde il punto decisivo della questione, e cioè la comprensione esistenziale dell’importanza dello Spirito. È perché non sappiamo chi è, cosa fa, come agisce e come parlargli che in fin dei conti ci risulta estraneo: se alziamo gli occhi al cielo penseremo di pregare il Padre, se ci troviamo di fronte ad una croce pregheremo il Figlio… Ma lo Spirito?
Credo dunque che unico modo per superare l’impasse spirituale dei nostri giorni, rimanga quello di tornare al vero appassionato di Spirito, a chi non solo l’ha conosciuto, ma si co-appartiene con Lui, e cioè Gesù: Lui, infatti – dicevamo con Dossetti – è Colui che più di tutti ne ha suggerito l’importanza, ne ha fatto sentire l’indispensabilità, ne ha preannunciato la decisività… Importanza, indispensabilità e decisività che noi abbiamo scordato…
E il primo dato che Gesù ci comunica sullo Spirito è che si tratta del suo Spirito e dello Spirito del Padre; e per capire cosa vuol dire dicendo “mio Spirito” è utile pensare a espressioni quali “lo spirito del discorso”, “lo spirito dell’iniziativa”… Si tratta cioè del nucleo più vero, più intimo della cosa in questione… Lo Spirito di Dio è dunque l’intimità di Dio, che scorre tra Padre e Figlio, è la sua identità più profonda, più autentica più vera… Ecco perché è vero che diventa consolante la sua presenza, nonostante la dipartita di Gesù: non perché banalmente abbiamo trovato qualcos‘altro che riempie il nostro orizzonte religioso, come un contenitore vuoto, un riferimento puramente nominalistico che placa – eludendole – le nostre domande, ma perché con esso «Siamo di fronte a quel mistero che nella nostra fede, nella nostra vita spirituale, e religiosa, segna il termine ultimo, la pienezza completa e l’apertura ormai senza più confini, senza più limiti né orizzonti,del nostro rapporto con Dio. […] Oggi si adempi la promessa del Padre e il Cristo stesso dona all’umanità quella pienezza di vita che è in lui. […] La Pentecoste è apertura. È il momento in cui l’uomo tocca l’apertura dell’orizzonte infinito di Dio. […] In ogni momento in cui ci poniamo in questa condizione di apertura, è questo Spirito che si insinua in noi e che attraversa lo spirito di ogni uomo e lo spirito collettivo dell’intera umanità e, soffiando in essa la totalità della pienezza di Dio, la trasforma» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 209-213].
Ecco il secondo dato che il Signore Gesù ci rivela riguardo allo Spirito: esso – da Spirito a spirito – comunica con l’uomo, ha incidenza sulla sua vita, addirittura è la via per rapportarsi a Dio! Ma proprio su questo punto si sono consumati i più grandi fraintendimenti. Sempre nel tentativo di bilanciamento del pendolo si è un po’ persa di vista questa modalità di azione dello Spirito nel mondo… Per evitare di riconoscere troppo elasticamente la possibilità per ciascuno di intrattenere una relazione “diretta” con Dio – da Spirito a spirito, appunto – e lasciar disoccupati tutti i preti, o – detto in altri termini – per evitare il relativismo, si è preferito sottolineare l’aspetto miracolistico dell’intervento dello Spirito, o quello istituzionalmente regolato (per es. i sacramenti); per altro verso però, per evitare un uso e consumo di questa azione più “materiale”, puntuale, “calcolabile” dello Spirito, è stato necessario introdurre la sua selettività (arbitrarietà?)… Di modo che il pensiero comune riguardo all’azione dello Spirito – in modo un po’ caricaturale, ma efficace – può essere esplicitato con questo esempio: se uno decide di diventare prete è perché – inciampando o deliberatamente scegliendo (questo è ancora un po’ equivoco nel pensiero comune… perché se inciampa è vittima del caso anche Dio, se sceglie, è discriminatorio…) – versa una secchiata – di Spirito appunto – su di lui… e tac… c’ha la vocazione… lui e un altro no…
…Evidentemente non è così… Ma com’è allora? Forse molto più semplicemente, se si tratta dello Spirito di Dio e dunque di Cristo, non si può non pensare che agisca proprio secondo le dinamiche di Cristo e dunque secondo la logica dell’incarnazione. La sua azione non è dunque metastorica, ma intrastorica, non è fuori, separata, sopra, con qualche incursione ogni tanto, ma è dentro, mescolata, insinuata negli interstizi del carne dell’uomo… Ecco perché non si può dialogare con Dio che da dentro la storia, che da dentro i drammi, che da dentro la propria carne… è nel dipanarsi della nostra libertà storica che si può costruire una vita spirituale, una vita cioè in dialogo con lo Spirito, in dialogo con Dio. Proprio come è avvenuto nella prima Chiesa dove il primo Concilio (quello di Gerusalemme), che affrontava il problema della necessità o meno della circoncisione, non si è risolto aspettando una vocina, una secchiata o una visione, ma con un’accesissima discussione tra Pietro e Paolo! Così si fa la storia con Dio! Non a caso veniamo battezzati nello Spirito, cioè immersi in Lui, impregnati in modo che non sia più distinguibile dove finiamo noi e dove inizi Lui… perché si tratta di un intreccio di libertà (come nell’amore). È nel punto più intimo di noi dunque (nel nostro spirito – che per la tradizione vuol dire l’uomo tutto intero!!!) che agisce lo Spirito, in un dialogo segreto che ci convince della vita cristica: «Il nostro peccato infatti non è altro che la conseguenza di un’intermittenza di contatto» con questo dialogo da Spirito a spirito [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 209-213].

giovedì 8 maggio 2008

Pentecoste: lo Spirito di Dio si incontra con lo spirito dell'uomo

In questa domenica di Pentecoste (cinquantesimo giorno) i testi che la Chiesa ci propone nella liturgia fanno riferimento all’evento celebrato in questa festa: il dono dello Spirito santo.
Questi testi non vanno pensati come scritti “in presa diretta”, come se fossero un diario di bordo in cui gli apostoli riportavano i fatti contemporaneamente al loro accadere. Essi sono piuttosto il frutto di anni di riflessione che le prime comunità cristiane hanno messo in atto riguardo al “problema” della nuova situazione, creatasi dopo l’Ascensione di Gesù.
La questione era tenere insieme i dati complessi della realtà: da un lato il fatto che Gesù non fosse più presente in carne ed ossa e nemmeno nel modo post-pasquale delle apparizioni («egli fu assunto in cielo», At 1,2); dall’altro, il fatto che avesse promesso un secondo Consolatore («Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) e che quindi non ci sarebbe stata una situazione di orfanità per l’uomo («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18).
Ma come pensare questa nuova vicinanza segnata dai tratti della mancanza? Questa presenza immersa nell’assenza?
La svolta, narrata poi nei termini che conosciamo di «un vento che si abbatte impetuoso» e di «lingue come di fuoco» o nella forma giovannea di Gesù che «soffiò», è stata la graduale presa di coscienza della concretizzazione delle parole promettenti di Gesù: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33).
È stata cioè la constatazione nella vita, nell’esperienza impastata di sangue e fango, di un’energia effettiva, da «vedere e udire»; è stato il ritrovarsi addosso questo Spirito e la sua potenza: «essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d'esprimersi» (At 2,4), «Pietro, pieno di Spirito Santo, disse…» (At 4,8), «tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31), «Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà» (At 20,22); è stato lo scoprire che esso entrava in relazione potentemente col il loro nucleo più intimo, la sede delle loro decisioni: «Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare» (At 11,12), «Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo…» (At 13,4), «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15,28), «avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia» (At 16,6); è stato infine, il percepire che questa era una forza dinamica, non statica, che circolava e si diffondeva: «non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» (At 19,6).
È questa constatazione della presenza reale dello Spirito che abilita la riflessione dei primi cristiani e permette un suo disvelamento, una sua graduale conoscenza, una sua intelligenza e in questo modo anche un potersi rapportare ad esso.
Nel Nuovo Testamento sono tanti i modi in cui si parla dello Spirito, in cui si tenta di dirlo, o attraverso immagini, o proponendo i suoi effetti (per stare alla lettura di questa domenica: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue»), ma il modo che a me pare più chiaro è quello contenuto sempre nella 1 Lettera ai Corinzi, ma qualche capitolo prima, rispetto a quello della lettura proposta dal liturgista. In 1Cor 2,11 infatti Paolo dice: «Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio».
Mi pare una delle formulazioni più chiare perché accostando una realtà umana, una dinamica antropologica, a Dio, rende tutto immediatamente più comprensibile: come lo spirito dell’uomo (cioè il suo nucleo vitale, il suo essere di fronte a se stesso, la sua autocoscienza…) è l’unico a conoscerne l’intimità verace, l’interiorità autentica, così è lo Spirito di Dio per Dio; è l’intimo di Dio, la “pancia” di Dio… tant’è che per la teologia cattolica esso è identificato con l’amore che il Padre e il Figlio si scambiano e che in qualche modo trabocca e si dona all’uomo: «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio» (At 2,12).
Ed esso è proprio quella realtà che i primi cristiani riscontravano presente!
Ecco dunque, man mano, come si è evoluta la riflessione sulla nuova situazione data dalla presenza di Dio nell’assenza di Gesù: il cielo squarciato non si è richiuso, l’uomo non è rimasto solo, il cuore di Dio non ha nuovamente nascosto i suoi segreti! Ma anzi nell’incontro tra Spirito di Dio e spirito dell’uomo è possibile proprio l’incontro tra l’intimità dell’uno e quella dell’altro, tra la loro verità, tra le loro libertà!

È strano come questo annuncio risuoni insignificante ai nostri giorni, spesso anche ai nostri cuori: che rilevanza ha infatti nella mia vita il fatto di poter “mischiare” il mio spirito con quello di Dio? Che poi è lo stesso che chiedersi: perché noi oggi non constatiamo per nulla questa presenza nuova di Dio nel mondo, che i discepoli dicevano di poter «vedere e udire»?
Forse il problema sta nel fatto che noi non abbiamo idea (l’abbiamo persa) di che cosa voglia dire “Dio” (di chi sia) e di che cosa voglia dire “io” (chi sono).
Sul primo versante (quello di Dio) siamo sempre più dispersi tra una sovrastruttura religiosa, determinata unicamente dal senso del dovere o dall’abitudine o dal pagano timore di una rivendicazione di dio a fronte di una nostra eventuale trasgressione, cioè tra una religiosità formale e che non tocca minimamente la nostra vita e un senso vago e misterioso del divino, con qualche simpatia per le incursioni orientaleggianti, le pratiche meditative, i benefici psicologici dell’immersione nell’infinito… del tutto dimentichi del fatto che la fede cristiana è quella di chi dice: «Gesù è Signore», cioè questa sua libertà storica è il Signore! E guarda caso proprio questo è ciò che lo Spirito (di Dio) urla in noi: «Fratelli, nessuno può dire: “Gesù è Signore!”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo»; insieme all’altro grande sussulto che Egli ci fa fare: «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre» (Gal 4,6).
È quello che, forzando un po’ i termini per farsi capire, diceva mons. Coletti ad un incontro: “Il cristiano non è chi crede in dio, ma chi crede in Gesù!”. E nel Dio di Gesù, che egli ci ha insegnato a chiamare “Papà”!
Allo stesso modo, oltre a chi è Dio, noi oggi rischiamo di dimenticare anche chi è l’uomo, chi sono io… di ritenere impossibile (e questo è il male, il male radicale!) esser-ci, essere Uomo su questa terra, avere orizzonti ampi, raggiungere quella che Etty Hillesum chiamava la sorgente dentro di sé: «Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
Ed è per questo, perché abbiamo perso di vista chi è Dio e chi è l’uomo, che l’incontro tra i loro spiriti ci appare così insignificante, estrinseco rispetto alla nostra vita… Questo incontro, che è la vita nello Spirito che ci si è spalancata a Pentecoste, oggi ci appare infatti lontano, legato a un passato inaccessibile, impossibile, quasi infantile; tanto che ci scappa detto: è troppo bello per essere vero… la vita, quella vera, è un’altra cosa e per quanto sia bello sognare, ad un certo punto bisogna tornare coi piedi per terra…
Ma come siamo arrivati a questo punto? A considerare il vangelo un racconto fantasioso, quasi favolistico?
Sicuramente la risposta sarà un aggrovigliamento di situazioni personali, sociali, filosofiche, culturali, ambientali… ma come non dire una parola sul percorso ecclesiale che c’ha portati qui?
E mi vengono alla mente le parole del prof. Sequeri, quando – commentando la Lettera ai Romani di Paolo – diceva: Il soggetto di Rm 7-8 è un credente che riconosce in sé la permanenza dell’uomo peccatore, che sta sotto la legge ed è chiamato a vigilare su di essa, e insieme esultante per la libertà a cui l’ha portato la fede in Gesù (la liberazione dalla legge! In questo senso è significativo anche il fatto che la Pentecoste ebraica era la festa per il dono della legge sul Sinai, mentre i cristiani hanno cristianizzato la festa, celebrando in quel giorno il superamento della religione della legge a favore dello Spirito!).
Continua Sequeri: Nella seconda parte della Lettera ai Romani è invece rappresentato il risvolto storico, pubblico, collettivo: è emblematicamente rappresentata la situazione di Israele, il suo essere popolo eletto. Israele – come i cristiani di Roma, eletti del nuovo popolo di Dio – ha iniziato dall’essere in quattro gatti, una manciata di beduini litigiosi persino tra loro e dispersi nel niente (deserto). Questi erano gli “eletti”. Il loro guaio è stato quando hanno incominciato a dimenticarsi di questi inizi. Erano stati avvertiti in molti modi (profeti) che la Legge era necessaria, ma non sufficiente all’alleanza. Senza lo Spirito dell’alleanza le stesse norme istituzionali si incancreniscono. Paolo in questo modo ammonisce i Romani, perché non ripercorrano l’errore di Israele di anchilosarsi su una religione di sito.
E lo fa, lasciando urlare il perno della rivelazione di Gesù, che è la critica alla religione. Senza questa critica infatti la rivelazione non ha modo di far percepire la sua singolarità, che è parlare di Dio
(dei segreti di Dio). La fede si purifica combattendo la religione e questa sua impressionante capacità di involuzione: che passa dall’incanto dell’elezione a pedante amministrazione!
Ma forse, le parole che Paolo diceva ai Romani, non sono bastate… Anche il Cristianesimo spesso lungo la storia ha preso la deriva religiosa, dimenticandosi della libertà dello Spirito… e spesso forse, anche a noi ha fatto comodo sistemarci dentro ad un apparato istituzionale rassicurante… e questo sempre perché la vita nello Spirito spaventa l’istituzione per la sua libertà e spaventa noi per la sua impegnativa radicalità…
Se solo dessimo credito all’esplosione di Vita dei primi passi della Chiesa e di tutti gli uomini e donne spirituali lungo la storia… e al fatto che è possibile anche per noi…
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