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mercoledì 11 maggio 2016

Pentecoste


Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,8-17)

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,15-16.23-26)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

Domenica si celebra la festa di Pentecoste: si fa cioè memoria della discesa dello Spirito Santo.

Il rischio è di capire poco… Di pensare che – come per altre feste della Chiesa – si ricordi un fatto avvenuto una volta, ma che è stato così importante da richiedere che se ne faccia memoria ogni anno, come per il Natale: Gesù solo una volta è nato eppure della sua nascita si fa memoria ancora, ogni anno, ogni 25 dicembre.

Ma la Pentecoste è una festa un po’ diversa: non si ricorda un avvenimento – per quanto importante – avvenuto una sola volta nella storia. Piuttosto si fa festa per ricordare la presenza “sempre presente” dello Spirito.

Esso non è sceso quel giorno sulle teste degli apostoli, dandogli la forza e il coraggio per la missione di annunciare la storia di Gesù, e poi basta… Il racconto della discesa dello Spirito è la narrazione del nuovo modo di Dio di essere presente, sempre, nella storia degli uomini.

Da quel momento in avanti, cioè, Dio è incontrabile in Spirito.

Lo Spirito non è un’altra cosa rispetto a Dio Padre o a Gesù Cristo (il dogma ce lo ricorda con chiarezza: “Un solo Dio in tre persone”) e di fatti spesso è chiamato anche “Spirito di Dio” o “Spirito di Cristo”.

Lo Spirito è Dio: è il modo in cui Dio è presente nella storia. Non più nella pelle di Gesù, ma – appunto – in Spirito.

Ecco perché i cristiani non possono sentirsi orfani, dopo l’Ascensione. Ecco perché non possono sentirsi figli di un Dio che sta nell’alto dei cieli e pare essere assente dalla storia. Perché Egli è presente, in Spirito.

Certo, è una modalità di presenza che può apparire difficile (Dio non è visibile, non è toccabile, non lo si può ascoltare come un interlocutore umano…), ma che – se ci pensiamo – è l’unica che permette una vera relazione di libertà (non possiamo farne un idolo, perché è incontenibile in qualsiasi confine) e di intimità (può arrivare al centro della nostra persona, là dove anche noi siamo spirito).

Perciò, buona festa di Pentecoste a tutti: che sia l’occasione per recupera la nostra relazione da Spirito a spirito con Dio.

lunedì 18 maggio 2015

Domenica di Pentecoste


Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati (Gal 5,16-25)

Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 15,26-27; 16,12-15)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

Ed eccoci giunti all’ultima domenica del Tempo di Pasqua, con l’invito della Chiesa a soffermarci sul dono dello Spirito santo a Pentecoste. Come già dicevamo domenica scorsa per l’Ascensione, anche la scansione temporale dei 50 giorni dopo Pasqua (introdotta da Luca) ha una funzione pedagogica, non materialistica, tant’è vero che l’evangelista Giovanni colloca il dono dello Spirito addirittura sulla croce: «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). L’intenzione della dilatazione temporale di Risurrezione, Ascensione e Pentecoste, che la Chiesa ha fatto sua, è dunque quella di dare tempo e spazio per la riflessione su ciascuno di questi eventi, non quella di utilizzare lo schema temporale (domenica di Pasqua – 40 giorni – Ascensione – altri 10 giorni, quindi 50 dopo Pasqua – Pentecoste) come marchingegno logico per introdurre domande inappropriate; quali: ma in quei 10 giorni tra l’Ascensione e la Pentecoste il mondo è stato senza la presenza di Dio, dato che Gesù era asceso e lo Spirito non ancora donato?

Piuttosto, come dicevamo, i tre “momenti” (Risurrezione, Ascensione, Pentecoste) vanno presi insieme, come un unico evento, che potremmo ritradurre con queste parole più laiche: dopo la morte di Gesù, i suoi discepoli hanno fatto esperienza che non era finito tutto. E hanno provato a declinare questo “non tutto è finito” con dei racconti e delle immagini che evocassero la realtà che vivevano.

In particolare i racconti che riguardano l’esperienza della nuova presenza del Signore, nel suo Spirito, fanno riferimento al fuoco e al vento forte.

lunedì 9 giugno 2014

Il respiro di Dio


“Mostrò loro le mani e il fianco... A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,20.23). Sempre in Gesù il perdono è legato alle sue mani e al suo costato trafitto. Perché non c’è perdono senza croce. Non che la croce, il dolore, l’umiliazione, siano in sé qualcosa che possa cambiare la storia... o creare il perdono, la salvezza... anzi, semmai ispirano vendetta.

Gesù non ci salva perché è andato in croce, ma perché per la prima volta nella storia, un uomo che poteva sottrarsi alla morte, che poteva “vincere”, ha preferito perdere... ha rinunciato alla propria forza. Perché per farlo avrebbe dovuto usare i poteri che lo avevano crocifisso. L’agnello insomma avrebbe dovuto trasformarsi in lupo! Proprio quei poteri che noi stessi vorremmo avere, per far strage intorno a noi di ogni ingiustizia.
Invece Gesù ha rinunciato al proprio potere... ha dato spazio all’uomo anche se malvagio... pur di non sopprimerlo. Perché è meglio l’ingiustizia umana a una giustizia (foss’anche “divina”) che fa stragi intorno a sé!


È una verità per noi scomoda, ma se questo è il vangelo, e questo è il vangelo (un Dio che rinuncia ad agire “da dio”, ma vuole sempre tenere il legame che lo fa nostro fratello, amico, sposo, padre, madre...), ecco allora è necessario che questo modo di Dio di esser Dio, che non corrisponde alla nostra idea di Dio, diventi il nostro modo nuovo di essere uomini e donne... Uomini e donne nuovi, perché nuovo è il Dio che noi riconosciamo tale... E non abbiamo altro da testimoniare, se non questa impotenza dell’amore che si chiama perdono (e che non ha bisogno di convertire nessuno per manifestarsi tale)...

Ecco allora che non abbiamo altro da testimoniare se non la stessa testimonianza che ha dato Gesù Cristo. Per questo non si può dare questa testimonianza imitando come pappagalli Gesù. Gesù non si può imitare... a meno che Gesù stesso viva in noi e noi in lui... Ma allora non è più imitazione è comunione di vita...
Infatti, solo Gesù ha testimoniato e testimonia il Padre e solo Gesù può testimoniare lo Spirito d’amore che lo unisce al Padre. Per questo solo Gesù può testimoniare Gesù, ciò che Egli ha vissuto, vive... Nessun uomo può essere testimone di Gesù se lui stesso non ne dà testimonianza. Ecco la necessità che Gesù stesso dia testimonianza in noi del suo “amare ed essere amato”. Il dono dello Spirito è dono di questo Gesù. È il dono di ciò di cui Gesù vive!
Solo quest’Amore e nient’altro è in grado di testimoniare oggi ciò che lega il Padre e suo Figlio e i suoi figli.

Che altro c’è da testimoniare infatti se non quest’amore? Questo amore qui, che solo Gesù ha testimoniato: capace di lasciarsi trafiggere mani e costato, pur di rinunciare alla logica del potere che avrebbe potuto liberarlo. Non la croce quindi (anche se noi diciamo così per semplificare), ma il suo non scendere dalla croce, cambia le dinamiche violente della storia (“ci salva” noi diciamo sempre con troppa semplificazione).

Ecco allora che è strutturale al Vangelo il dono di questo Spirito d’amore che ci lega a Dio e che lega Dio a noi. Anche se malvagi. Ecco perché Gesù “sta soffiando” su di noi... Cioè ci immerge nel suo alito di vita.

Nel momento in cui Dio ha deciso di essere un Dio inaspettatamente umano, nella storia è entrato lo Spirito di Dio che questo processo ha voluto, guidato, realizzato.
E questo processo – presente fin dalla creazione (lo spirito che aleggia sulle acque) e manifestato negli ultimi giorni nell’annunciazione a una ragazzina laica mentre compie i suoi lavori domestici – non si interrompe con la morte di Gesù e col suo stare “alla destra del Padre” – questo ci dice la festa di Pentecoste – questo Spirito, come l’acqua impregna la spugna, permea la storia e il cuore di ogni uomo che si vuole assetato.

Il dono dello Spirito ci è dato, ci è consegnato, è l’aria in cui respiriamo e nessuno oramai può cacciarlo dalla storia, tocca a noi farci padroni del nostro destino lasciandoci immergere nella novità che solo la parola di Gesù, custodita attraverso gli apostoli, ci consegna. Ce la consegna, senza ritrarla mai più...
Non c’è nessun coraggio da avere qui, c’è da accettare la realtà che la novità di Gesù ha introdotto nella storia... c’è solo da dispiegare le ali e cominciare a volare o inevitabilmente precipitiamo.
Se quanto scritto vi convince, non possiamo non convenire sul fatto che una chiesa che pone dei limiti al proprio perdonare è una chiesa che ha deciso di scendere dalla croce di Cristo e di rifiutare lo Spirito, unico capace di testimoniare il Vangelo. Ed è ovvio che ciò che vale per la chiesa nel suo insieme, vale per ciascuno di noi!

martedì 3 giugno 2014

Pentecoste 2014

Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,3b-7.12-13)
Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-23)
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

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In questa domenica di Pentecoste (cinquantesimo giorno) i testi che la Chiesa ci propone nella liturgia fanno riferimento all’evento celebrato in questa festa: il dono dello Spirito santo.

Questi testi non vanno pensati come scritti “in presa diretta”, come se fossero un diario di bordo in cui gli apostoli riportavano i fatti contemporaneamente al loro accadere. Essi sono piuttosto il frutto di anni di riflessione che le prime comunità cristiane hanno messo in atto riguardo al “problema” della nuova situazione, creatasi dopo l’Ascensione di Gesù.

La questione era tenere insieme i dati complessi della realtà: da un lato il fatto che Gesù non fosse più presente in carne ed ossa e nemmeno nel modo post-pasquale delle apparizioni («egli fu assunto in cielo», At 1,2); dall’altro, il fatto che avesse promesso un secondo Consolatore («Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) e che quindi non ci sarebbe stata una situazione di orfanità per l’uomo («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18).

Ma come pensare questa nuova vicinanza segnata dai tratti della mancanza? Questa presenza immersa nell’assenza?

La svolta, narrata poi nei termini che conosciamo di «un vento che si abbatte impetuoso» e di «lingue come di fuoco» o nella forma giovannea di Gesù che «soffiò», è stata la graduale presa di coscienza della concretizzazione delle parole promettenti di Gesù: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33).

È stata cioè la constatazione nella vita, nell’esperienza impastata di sangue e fango, di un’energia effettiva, da «vedere e udire»; è stato il ritrovarsi addosso questo Spirito e la sua potenza: «essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d'esprimersi» (At 2,4), «Pietro, pieno di Spirito Santo, disse…» (At 4,8), «tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31), «Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà» (At 20,22); è stato lo scoprire che esso entrava in relazione potentemente col il loro nucleo più intimo, la sede delle loro decisioni: «Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare» (At 11,12), «Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo…» (At 13,4), «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15,28), «avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia» (At 16,6); è stato infine, il percepire che questa era una forza dinamica, non statica, che circolava e si diffondeva: «non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» (At 19,6).

È questa constatazione della presenza reale dello Spirito che abilita la riflessione dei primi cristiani e permette un suo disvelamento, una sua graduale conoscenza, una sua intelligenza e in questo modo anche un potersi rapportare ad esso.

Nel Nuovo Testamento sono tanti i modi in cui si parla dello Spirito, in cui si tenta di dirlo, o attraverso immagini, o proponendo i suoi effetti (per stare alla lettura di questa domenica: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue»), ma il modo che a me pare più chiaro è quello contenuto sempre nella 1 Lettera ai Corinzi, ma qualche capitolo prima, rispetto a quello della lettura proposta dal liturgista. In 1Cor 2,11 infatti Paolo dice: «Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio».

Mi pare una delle formulazioni più chiare perché accostando una realtà umana, una dinamica antropologica, a Dio, rende tutto immediatamente più comprensibile: come lo spirito dell’uomo (cioè il suo nucleo vitale, il suo essere di fronte a se stesso, la sua autocoscienza…) è l’unico a conoscerne l’intimità verace, l’interiorità autentica, così è lo Spirito di Dio per Dio; è l’intimo di Dio, la “pancia” di Dio… tant’è che per la teologia cattolica esso è identificato con l’amore che il Padre e il Figlio si scambiano e che in qualche modo trabocca e si dona all’uomo: «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio» (At 2,12).

Ed esso è proprio quella realtà che i primi cristiani riscontravano presente!
Ecco dunque, man mano, come si è evoluta la riflessione sulla nuova situazione data dalla presenza di Dio nell’assenza di Gesù: il cielo squarciato non si è richiuso, l’uomo non è rimasto solo, il cuore di Dio non ha nuovamente nascosto i suoi segreti! Ma anzi nell’incontro tra Spirito di Dio e spirito dell’uomo è possibile proprio l’incontro tra l’intimità dell’uno e quella dell’altro, tra la loro verità, tra le loro libertà!

 Ma come sta insieme questa immersione (battesimo) del mondo nello spirito di Dio con quanto andavamo dicendo settimana scorsa sull’Ascensione: e cioè sul ritrarsi di Dio per far spazio alla creduta (da Dio) adultità della sua creatura?

Ebbene, io credo che quanto dicevamo settimana scorsa sia traducibile – in termini antico-filosofici – con le parole di san Tommaso: “Dio non agisce nelle cause seconde”. Quello è il regno dell’agire dell’uomo. Esiste davvero questo lasciar spazio, questo ritrarsi, questo non intervenire nella storia!

E contemporaneamente però Dio è accanto alla sua creatura, si confronta con lei, decide insieme a lei, collabora alla costruzione della sua identità – se la creatura può/vuole –, ma lo fa da Spirito a spirito: entrando a porte chiuse, nelle porte del cuore, ma non abbassando nessuna maniglia concreta che la sua creatura non decida di abbassare.

Questo è ciò che si intende per spiritualità del rapporto con Dio: niente di esoterico o “fantasmico”, quanto piuttosto questa fragilità della sua presenza, questa potenziale insignificanza del suo esserci, questa possibile trascurabilità del suo esistere.

Eppure, per chi decide di rivolgere il proprio spirito allo spirito di Dio, questa presenza/esserci/esistere diventano di un’incandescenza e di una vigorosità inaspettate, come quando entriamo in intimità con qualcuno che fa risuonare le corde più vere della nostra identità.

 E come si fa per “rivolgere il proprio spirito allo Spirito di Dio”?

Sentiamo di prassi di vario tipo: da rituali stanchi e ripetitivi che invocano la sua presenza (nella preghiera eucaristica avviene ben 2 volte, senza che noi ci prestiamo troppa attenzione) a rituali fantasmagorici e piuttosto pittoreschi…

La mia esperienza mi suggerisce invece che la spiritualità/fragilità della presenza di Dio nella storia, laicizzi molto le modalità di incontro con questo spirito di Dio, che passa dentro alle chiacchierate con un amico, alle lacrime di una sera in cui sei irrequieto, alla testa fra le mani chi ogni tanto ci ritroviamo, e chissà dentro a quanti altri interstizi della storia… segnata dalla sua presenza riconosciuta sempre dopo…

Tenendo ben presente quanto anticipato prima: che lo Spirito di Dio è l’amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre che trabocca e si riversa su ciascuno di noi: questo amore è ciò che fa da interlocutore al nostro spirito, questa permanente memoria che la nostra unica identità di fronte a Dio è quella di figli amati.

Per questo per chi può/vuole/riesce ad accoglierlo, lo spirito diventa incandescente e vigoroso.

Per questo per chi può/vuole/riesce ad accoglierlo, lo spirito diventa interlocutore con cui confrontare la vita, con cui decidersi, con cui costruire la nostra identità.

Per capire bene cosa questa modalità di incontro con lo spirito di Dio (fragile) e il contenuto della sua essenza (l’amore traboccante di Dio) vogliano dire nel nostro costruirci come uomini, pensate – all’inverso – a cosa vuol dire invece quando il confrontare la vita, il deciderci, il costruire la nostra identità, lo facciamo non con lui, ma con quegli altri “spiriti” che ci suggeriscono che presso Dio siamo inadeguati, peccatori, castigati… o elitariamente prediletti, migliori, separati rispetto al resto dell’umanità…

martedì 14 maggio 2013

Pentecoste 2013


Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,8-17)

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,15-16.23-26)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

La domenica di Pentecoste – come tutti sanno – si celebra il memoriale del dono dello Spirito Santo da parte del Padre, attraverso Gesù risorto, ai discepoli.

Ma di cosa si tratta davvero? Al di là delle formulazioni, al di là delle frasi fatte che conosciamo da sempre, al di là delle spiegazioni nominalistiche di questo “mistero” (vere, ma del tutto insignificanti – non significative per noi, per me), di cosa si tratta quando si parla del dono dello Spirito santo?

Io credo si tratti – andando contro il sentire comune per cui questa è una festa (solo) gioiosa – in realtà, di uno dei momenti più drammatici della vita della Chiesa (di allora) e dell’esperienza dei singoli cristiani (di sempre). Credo infatti si abbia a che vedere con la “cosa” più difficile da credere di tutto il fatto cristiano. E provo a spiegarmi…

Qui si tratta di credere:

1)      Che la storia va avanti anche senza Gesù: cioè – allora come oggi – che il “non averlo più tra noi” non chiude la storia, non solo o non tanto quella umana, di cui chi ha perso chi dava senso alla sua vita non è poi molto preoccupato, ma quella personale; il dramma infatti per i suoi è: “Come mai io sono vivo se lui è morto?”, “Che senso ha che io sia in vita, se nella vita lui non c’è?”… Precisamente questo infatti è in gioco con l’elaborazione dei testi neotestamentari che parlano del dono dello Spirito. In prima battuta infatti il fatto che ci sia lo Spirito, vuol dire che non c’è più Gesù. O appunto: che c’è in Spirito… Ma su questa drammatica non si può soprassedere o passar via troppo in scioltezza… Perché che Gesù “non ci sia più” non è affatto una cosa banale. E non lo è stato allora…

2)      Ma non solo questo… Qui si tratta di credere, non solo che la storia vada avanti anche senza Gesù, ma che essa quasi “debba” andare avanti; e non solo per inerzia, perché finché il corpo non muore si resta in “vita” (come cantava De Gregori: «Cosa sarà che fa morire a 20 anni, anche se vivi fino a 100?»); e nemmeno perché Gesù abbia fallito e quindi la vita debba andare avanti alla ricerca di altro, che dia senso, che sia la vera via, verità e vita…; no: credere nel dono dello Spirito santo vuol dire credere che – nonostante Gesù non ci sia più come prima – sia sensato andare avanti, portare avanti quella sua medesima storia, quella sua via, verità e vita che – pure – l’ha portato a non esserci più…

La Pentecoste è dunque la scelta radicale tra il credere alla vita o alla morte, all’affidamento o alla paura, all’aprirsi o al chiudersi, all’amare o all’odiare… Pentecoste è scegliere se la storia continua o se la storia finisce… Questa infatti è la posta in gioco: vivere da figli o vivere da orfani?

I testi neotestamentari – anche quelli delle letture di questo anno C – sono nati precisamente con l’intenzione di raccontare (attraverso l’elaborazione “a posteriori” di questa scelta) come la Chiesa delle origini, quegli uomini e quelle donne, si siano determinati. Quale sia stata la loro risposta. E ogni generazione cristiana, ogni singolo uomo su questa terra, a partire da quella loro esperienza fondante, è chiamato a rispondere per sé a questo interrogativo…

Ciò che a noi può sembrare strano è la puntualità con cui – per esempio il testo della prima lettura di questa domenica – racconta la scelta, come se tutto si fosse concentrato in un episodio, in un momento, in un attimo che ha determinato tutto il resto della vita di questi uomini. In realtà – come si evince dalla faticosa vicenda degli Atti – anche per loro non è bastato decidersi una volta per tutte… e l’elaborazione “a posteriori” che noi oggi ci ritroviamo tra le mai nei testi neotestamentari è – appunto – una ricostruzione “a posteriori”, un tentativo cioè di condensare in un breve racconto cosa abbia voluto dire credere alla vita che continuava, alla sensatezza della vita che continuava… al fatto che si trattasse di una continuazione “abitata” e non orfana…

Come dire… Lo Spirito donato ha avuto anch’esso bisogno del credito di chi lo ha ricevuto, ha avuto bisogno del riconoscimento del fatto che si trattava di una nuova modalità di presenza di Gesù e del Padre suo tra i suoi.

Questo perché non si ha a che fare con un’idea, con un dogma, con una proposizione da imparare a memoria e ripetere a comando, ma piuttosto con il credito che si è disposti a dare alla parola / vita (promettente) di Gesù... che aveva promesso di non lasciarli/ci soli («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18), di restare sempre con loro / con noi sulle vie di questo mondo («ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», Mt 28,20) e di costruire insieme a loro / a noi la vita (così come spiega san Paolo: «Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio»)…

Ma se Pentecoste è tutto questo, se credere al dono dello Spirito santo, vuol dire credere ad una modalità nuova di accessibilità a Gesù (e in Lui, a Dio) – nonostante non lo si veda, non lo si senta, non lo si tocchi –, se vuol dire credere in una possibilità diversa – ma vera, addirittura più intima e universale – di relazione a Lui, che continua nonostante l’assenza fisica (in spirito, appunto…), se – inoltre – lo si fa basandosi sulla sua parola… allora non ci si può più porre di fronte a questo mistero come di fronte “a questo sconosciuto”… come se lo Spirito fosse qualcosa d’altro rispetto a quanto raccontato nel vangelo… come se credere in Lui fosse qualcosa di diverso che credere che Dio è «Abbà, Padre» e che «Gesù è Signore», “nonostante” la sua morte e la sua assenza fisica… che dunque Egli è incontrabile, che può davvero ancora alimentare la vita che continua, che può davvero plasmare i nostri cuori perché il suo Regno venga…

«… Si può dunque, nella vita feriale, camminaresecondo lo Spirito [di Gesù], disinquinando la storia dal basso – cominciando dalle piccole cose accessibili agli uomini senza potere, che però sono assuefatti ai segreti del Regno. E imparando a lasciarsi abitare e guidare da Lui. Così cresce il germe divino che dimorain noi, negli appuntamenti silenziosi e nascosti della vita d’ogni giorno…ove lo Spirito stesso viene in aiuto alla nostra debolezza

e intercede con insistenza per noi, con “aneliti senza rumore”.

 

QUANDO?:…

"   quando dobbiamo fare tante piccole cose senza senso, come sorridere a qualcuno, mentre tutto ci amareggia o ribolle dentro

"   quando lasciamo ad altri un minuscolo successo o affermazione, senza ritorsioni, per lasciarli crescere… in pace

"   quando silenziosamente condividiamo la passione dei sofferenti e disperati della terra - seduti per terra con loro

"   quando sperimentiamo il desiderio e insieme l’impossibilità di uscire dalle gabbie della carne e dall’egoismo - e confidiamo lo stesso che la liberazione è vicina e non ci sarà negata

"   quando la fame di compagnia e tenerezza ci rode la carne - e la solitudine sembra l’unica assurda risposta

"   quando facciamo i conti della nostra vita e vediamo un passivo incolmabile scavato nell’anima - e ci fidiamo che un Altro, inafferrabile, pareggerà

"   quando stiamo dentro l’amara realtà quotidiana sino alla fine, sottomettendoci con fatica alla monotonia corrosiva di una vita che si svuota

"   quando ci ostiniamo a pregare, sicuri di essere in ogni caso esauditi, anche se nessun segno ci perviene

"   quando la caduta diventa l’estremo umano modo di camminare, che ci rimane - perché sempre di nuovo chiediamo di essere accolti, amati, sollevati

"   quando affidiamo la domanda irrisolta e il desiderio inesaudito al mistero di grazia che tutto avvolge - dove Qualcuno, nel buio o nel disagio interiore, ci chiama con il nostro nome

"   quando ci esercitiamo nei disappunti delle faccende quotidiane, per imparare a morire con serenità ed amore - vivendo, appunto, come vorremmo morire

"   quando ci sono offerte scintille di gioia e compiutezza, e cerchiamo di condividerle …

 

 DOVE?:…

"   dove è nascosta la possibilità piccola, ma qualitativamente essenziale, della nostra libertà - di donarci

"   dove incontriamo… il diverso – perché l’alterità è la casa dello Spirito, “dove si manifesta la verità ‘più’ intera e le cose future”

"   dove siamo chiamati al coraggio di atteggiamenti nuovi… per “abbeverare di Spirito la nostra carne”, aprendola a gusti diversi, in vista della redenzione del nostro corpo

"   dove è nascosta la mistica quotidiana, perché questa accoglienza dello Spirito … è l’unione con Dio, l’eterno che scorre nella nostra storia!

"   dove si può gustare la sobria ebbrezza dello Spirito, di cui parlano i Padri e l’antica Liturgia: sobria, perché vissuta laicamente e sommessamente nella storia d’ogni giorno; ebbrezza, perché è una strana forza interiore, che vuole mandarci ‘fuori’… dagli angusti schemi mondani».
Giuliano […. su un testo di K Rahner…]

venerdì 21 maggio 2010

Credere nel dono dello Spirito Santo: la vita che continua

La domenica di Pentecoste – come tutti sanno – si celebra il memoriale del dono dello Spirito Santo da parte del Padre, attraverso Gesù risorto, ai discepoli.

Ma di cosa si tratta davvero? Al di là delle formulazioni, al di là delle frasi fatte che conosciamo da sempre, al di là delle spiegazioni nominalistiche di questo “mistero” (vere, ma del tutto insignificanti – non significative per noi, per me), di cosa si tratta quando si parla del dono dello Spirito santo?
Io credo si tratti – andando contro il sentire comune per cui questa è una festa (solo) gioiosa – in realtà, di uno dei momenti più drammatici della vita della Chiesa (di allora) e dell’esperienza dei singoli cristiani (di sempre). Credo infatti si abbia a che vedere con la “cosa” più difficile da credere di tutto il fatto cristiano. E provo a spiegarmi…
Qui si tratta di credere:
1) Che la storia va avanti anche senza Gesù: cioè – allora come oggi – che il “non averlo più tra noi” non chiude la storia, non solo o non tanto quella umana, di cui chi ha perso chi dava senso alla sua vita non è poi molto preoccupato, ma quella personale; il dramma infatti per i suoi è: “Come mai io sono vivo se lui è morto?”, “Che senso ha che io sia in vita, se nella vita lui non c’è?”… Precisamente questo infatti è in gioco con l’elaborazione dei testi neotestamentari che parlano del dono dello Spirito. In prima battuta infatti il fatto che ci sia lo Spirito, vuol dire che non c’è più Gesù. O appunto: che c’è in Spirito… Ma su questa drammatica non si può soprassedere o passar via troppo in scioltezza… Perché che Gesù “non ci sia più” non è affatto una cosa banale. E non lo è stato allora…
2) Ma non solo questo… Qui si tratta di credere, non solo che la storia vada avanti anche senza Gesù, ma che essa quasi “debba” andare avanti; e non solo per inerzia, perché finché il corpo non muore si resta in “vita” (come cantava De Gregori: «Cosa sarà che fa morire a 20 anni, anche se vivi fino a 100?»); e nemmeno perché Gesù abbia fallito e quindi la vita debba andare avanti alla ricerca di altro, che dia senso, che sia la vera via, verità e vita…; no: credere nel dono dello Spirito santo vuol dire credere che – nonostante Gesù non ci sia più come prima – sia sensato andare avanti, portare avanti quella sua medesima storia, quella sua via, verità e vita che – pure – l’ha portato a non esserci più…
La Pentecoste è dunque la scelta radicale tra il credere alla vita o alla morte, all’affidamento o alla paura, all’aprirsi o al chiudersi, all’amare o all’odiare… Pentecoste è scegliere se la storia continua o se la storia finisce… Questa infatti è la posta in gioco: vivere da figli o vivere da orfani?

I testi neotestamentari – anche quelli delle letture di questo anno C – sono nati precisamente con l’intenzione di raccontare (attraverso l’elaborazione “a posteriori” di questa scelta) come la Chiesa delle origini, quegli uomini e quelle donne, si siano determinati. Quale sia stata la loro risposta. E ogni generazione cristiana, ogni singolo uomo su questa terra, a partire da quella loro esperienza fondante, è chiamato a rispondere per sé a questo interrogativo…
Ciò che a noi può sembrare strano è la puntualità con cui – per esempio il testo della prima lettura di questa domenica – racconta la scelta, come se tutto si fosse concentrato in un episodio, in un momento, in un attimo che ha determinato tutto il resto della vita di questi uomini. In realtà – come si evince dalla faticosa vicenda degli Atti – anche per loro non è bastato decidersi una volta per tutte… e l’elaborazione “a posteriori” che noi oggi ci ritroviamo tra le mai nei testi neotestamentari è – appunto – una ricostruzione “a posteriori”, un tentativo cioè di condensare in un breve racconto cosa abbia voluto dire credere alla vita che continuava, alla sensatezza della vita che continuava… al fatto che si trattasse di una continuazione “abitata” e non orfana…
Come dire… Lo Spirito donato ha avuto anch’esso bisogno del credito di chi lo ha ricevuto, ha avuto bisogno del riconoscimento del fatto che si trattava di una nuova modalità di presenza di Gesù e del Padre suo tra i suoi.
Questo perché non si ha a che fare con un’idea, con un dogma, con una proposizione da imparare a memoria e ripetere a comando, ma piuttosto con il credito che si è disposti a dare alla parola / vita (promettente) di Gesù... che aveva promesso di non lasciarli/ci soli («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18), di restare sempre con loro / con noi sulle vie di questo mondo («ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», Mt 28,20) e di costruire insieme a loro / a noi la vita (così come spiega san Paolo: «Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio»)…
Ma se Pentecoste è tutto questo, se credere al dono dello Spirito santo, vuol dire credere ad una modalità nuova di accessibilità a Gesù (e in Lui, a Dio) – nonostante non lo si veda, non lo si senta, non lo si tocchi –, se vuol dire credere in una possibilità diversa – ma vera, addirittura più intima e universale – di relazione a Lui, che continua nonostante l’assenza fisica (in spirito, appunto…), se – inoltre – lo si fa basandosi sulla sua parola… allora non ci si può più porre di fronte a questo mistero come di fronte “a questo sconosciuto”… come se lo Spirito fosse qualcosa d’altro rispetto a quanto raccontato nel vangelo… come se credere in Lui fosse qualcosa di diverso che credere che Dio è «Abbà, Padre» e che «Gesù è Signore», “nonostante” la sua morte e la sua assenza fisica… che dunque Egli è incontrabile, che può davvero ancora alimentare la vita che continua, che può davvero plasmare i nostri cuori perché il suo Regno venga…

«… Si può dunque, nella vita feriale, camminare secondo lo Spirito [di Gesù], disinquinando la storia dal basso – cominciando dalle piccole cose accessibili agli uomini senza potere, che però sono assuefatti ai segreti del Regno. E imparando a lasciarsi abitare e guidare da Lui. Così cresce il germe divino che dimora in noi, negli appuntamenti silenziosi e nascosti della vita d’ogni giorno…ove lo Spirito stesso viene in aiuto alla nostra debolezza
e intercede con insistenza per noi, con “aneliti senza rumore”.

QUANDO?:…


 quando dobbiamo fare tante piccole cose senza senso, come sorridere a qualcuno, mentre tutto ci amareggia o ribolle dentro
 quando lasciamo ad altri un minuscolo successo o affermazione, senza ritorsioni, per lasciarli crescere… in pace
 quando silenziosamente condividiamo la passione dei sofferenti e disperati della terra - seduti per terra con loro
 quando sperimentiamo il desiderio e insieme l’impossibilità di uscire dalle gabbie della carne e dall’egoismo - e confidiamo lo stesso che la liberazione è vicina e non ci sarà negata
 quando la fame di compagnia e tenerezza ci rode la carne - e la solitudine sembra l’unica assurda risposta
 quando facciamo i conti della nostra vita e vediamo un passivo incolmabile scavato nell’anima - e ci fidiamo che un Altro, inafferrabile, pareggerà
 quando stiamo dentro l’amara realtà quotidiana sino alla fine, sottomettendoci con fatica alla monotonia corrosiva di una vita che si svuota
 quando ci ostiniamo a pregare, sicuri di essere in ogni caso esauditi, anche se nessun segno ci perviene
 quando la caduta diventa l’estremo umano modo di camminare, che ci rimane - perché sempre di nuovo chiediamo di essere accolti, amati, sollevati
 quando affidiamo la domanda irrisolta e il desiderio inesaudito al mistero di grazia che tutto avvolge - dove Qualcuno, nel buio o nel disagio interiore, ci chiama con il nostro nome
 quando ci esercitiamo nei disappunti delle faccende quotidiane, per imparare a morire con serenità ed amore - vivendo, appunto, come vorremmo morire
 quando ci sono offerte scintille di gioia e compiutezza, e cerchiamo di condividerle …

DOVE?:…


 dove è nascosta la possibilità piccola, ma qualitativamente essenziale, della nostra libertà - di donarci
 dove incontriamo… il diverso – perché l’alterità è la casa dello Spirito, “dove si manifesta la verità ‘più’ intera e le cose future”
 dove siamo chiamati al coraggio di atteggiamenti nuovi… per “abbeverare di Spirito la nostra carne”, aprendola a gusti diversi, in vista della redenzione del nostro corpo
 dove è nascosta la mistica quotidiana, perché questa accoglienza dello Spirito … è l’unione con Dio, l’eterno che scorre nella nostra storia!
 dove si può gustare la sobria ebbrezza dello Spirito, di cui parlano i Padri e l’antica Liturgia: sobria, perché vissuta laicamente e sommessamente nella storia d’ogni giorno; ebbrezza, perché è una strana forza interiore, che vuole mandarci ‘fuori’… dagli angusti schemi mondani».
Giuliano […. su un testo di K Rahner…]

sabato 17 aprile 2010

Mi ami più di loro?...

Mi ami più di loro?! … ma che cosa significa veramente “amare di più”? Difficile da dire, ancor più difficile, come ogni paradosso esistenziale, collocarlo con equilibrio nella complessità delle relazioni. Ma ogni innamorato l’ha provato! Forse siamo al mondo (come un po’ troppo schematicamente diceva l’antico catechismo) per imparare proprio questo. – e ci vuole una vita! Ognuno con la sua storia, le sue ferite, i suoi fallimenti e le sue illusioni… E i suoi ricominciamenti, che – secondo Gesù – la vita sempre riconcede. Perché, appunto, è inesauribile la fame che ci muove di essere “amati di più”. E quando questa fame fosse finita siamo finiti anche noi, svuotati come viaggiatori senza meta. Il Vangelo è lo smascheramento delle illusioni o ambiguità o falsità del cammino, con un rigore ed una tenerezza sconcertanti – che inchiodano alla propria debolezza impotente chiunque lo ascolti con sincerità e non cerchi di mascherare dietro le insufficienze altrui le proprie paure e delusioni. E la voglia di tornare indietro. Di “amare di meno”, per soffrire di meno! Il Vangelo non ci insegna una tecnica psicologica o psicanalitica, ma ci è presenta un personaggio – il protagonista di questa “buona notizia” del possibile ricominciamento – che ci chiama ad un percorso dietro lui : va a dire ai miei fratelli che li aspetto in Galilea. La Galilea è il posto da cui era partito per il suo viaggio finale. Fino alla sua passione, morte e risurrezione. Quante attese, quanti entusiasmi, quanti passi di gioia e condivisione e quanti momenti duri e amari… per arrivare fino a lì – per imparare ad “amare di più”. Con la sua famiglia e le inevitabili incomprensioni, con i compaesani delusi e aggressivi, con i capi e i maestri del popolo, ma soprattutto con gli amici, i discepoli e le donne, a cui ha aperto il cuore e la mente … senza risultati immediati, ma senza pentimenti! Fino a patire all’estremo, nella pelle e nell’anima, cosa vuol dire “amare di più”. Gesù ha mantenuto vivo questo fuoco (e la passione perché divampasse nel mondo), nella fatica, nell’abbandono e nella solitudine – senza mai prendere occasione dalla debolezza e nemmeno dal tradimento per diminuire l’amore! È il segreto misterioso di questa qualità divino/umana dell’amore che vuole illuminare quest’ultima pagina pagine aggiunta al vangelo di Giovanni, dopo che già era stato raccontato tutto.
“Rivolgendosi a Simone Gesù gli chiede: “Mi ami tu più di costoro?”. Richiesta esorbitante, non solo perché rivolta a chi aveva rinnegato il suo Signore, non solo per quel curioso “più di costoro”, ma anche e specialmente perché Gesù usa il verbo amare / agapào che indica l’amore totale, esclusivo, incondizionato cioè perfetto, “santo”. Pietro non osa rispondere con lo stesso verbo (forse lo avrebbe fatto prima di conoscere l’amara esperienza del tradimento): risponde semplicemente e poveramente “Ti voglio bene”, usando il verbo dell’amore amicale philéo. Nella seconda domanda Gesù insiste con la richiesta dell’amore totale e Pietro insiste nella seconda risposta con l’offerta del suo povero, umile, amore. Alla terza domanda e risposta non è Pietro che cambia il verbo: è Gesù! “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?” e Pietro – sebbene “addolorato che la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?” (che fosse cioè Gesù ad avere dovuto cambiare il verbo dell’amore) – gli risponde: “Signore, tu sai tutto, sai che ti voglio bene”. Si potrebbe quasi dire che non è Pietro a convertirsi a Gesù, ma è Gesù che “si converte” a Pietro, si adatta al suo linguaggio e alle sue possibilità. È questa “conversione di Dio” che mi colpisce profondamente: anche perché è a partire da essa che Gesù pronuncia l’imperativo nel quale sbocca tutto l’itinerario educativo con cui aveva formato il suo apostolo: SEGUIMI!” (Gv 21, 19). Così dal fallimento è cominciata la storia nuova della santità personale di Pietro, spinta fino al martirio, quando egli dirà, non più con le parole, ma con il gesto della vita donata e con il silenzio eloquente della morte, la parola dell’amore esclusivo e totale per il suo Signore!” (card Martini).
Gesù vive questa qualità dell’amore che è entrare nell’amore dell’altro, e lasciarsene mangiare Ci vuole una libertà interiore totale, di fronte alla quale la “diversità” (fosse anche l’immaturità!) dell’amore dell’altro non è un limite, ma una sfida. Che esige un “di più” di amore e niente da perdere, come dice Giovanni di Gesù : avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine! Il giovane ricco era ricco di doti morali e di beni materiali, ma aveva paura di perderli. Gesù, comunque, lo guardò e lo amò! E di certo il suo amore è rimasto dentro il giovane … ad attendere la maturazione delle possibilità di germogliare. Pietro ha percorso tutte le tappe dell’immaturità dell’amore: la presunzione (anche se tutti ti abbandonassero, io darò la vita per te!), il rinnegamento, ribadito e drammatico (non conosco quell’uomo!). Ma l’amore di Gesù lo riaccoglie e lo ama così com’è: Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro … (Lc 22,61). Ed ecco nell’ultima pagina del vangelo, il perdono come rifondazione tenera e appassionata dell’amore, instancabile e rigeneratore, sempre a partire dalle umane fragili possibilità soggettive. Chi “ama di più” entra nell’amore dell’altro, accogliendolo e soffrendolo così come è – perché si fida più della potenza mite ma inarrestabile (divina!) dell’Amore che della impazienza prepotente fremente della propria fame!
Nel gioco sottile delle sfumature delle diverse parole sta forse nascosto il segreto della proposta “cristiana” dell’amore, inaugurata da Gesù con l’esempio della sua vita. Lui ha amato ognuno di noi “più di loro – nessuno ci ha amati così!”. Ha dato la vita per me, mentre io non ero ancora capace di amare. E accoglie ognuno come è, più o meno capace di ricevere il suo invito, affidandosi alla forza stessa interna all’Amore – come si accudisce un germoglio senza poterlo forzare, dandogli il suo tempo. Questo vuol dire, nel limite storico della nostra quotidiana debolezza, il dono pasquale: Ricevete lo Spirito santo! Gesù ha chiamato, accolto, lodato, rimproverato, perdonato… Pietro – sempre nel segno dell’amore, sostenuto da una pazienza “materna” inesauribile, che solo la piena gratuità della dedizione può sostenere. Forse ogni amore deve essere così: bisogna che l’altro cresca e che io lo attenda, a costo di diminuire, a rischio di morire, prima che mi ami di ritorno. Amami più di tutti, vorrà dire questo? Rendere Pietro (e tutti noi!) consapevole che l’amore che Gesù ha per lui è così! Il “di più dell’amore”… vuol dire questo, dunque! E quando l’altro s’accorge e si strugge [… addolorato, che per la terza volta gli domandasse : mi ami tu …?], forse gli matura dentro la dinamica vera dell’Amore e scoppia la possibilità di un salto di qualità. Che non è prodotto della nostra umanità di carne, ma dallo lo Spirito che lui ci ha mandato… e geme dentro di noi…
«Se si potesse possedere, afferrare e conoscere l’altro, esso non sarebbe l’altro. Possedere, conoscere, afferrare sono sinonimi di potere. La relazione con altri è l’assenza dell’altro; non assenza pura e semplice, non l’assenza del puro nulla, ma assenza in un orizzonte di avvenire, un’assenza che è il tempo» ( Emmanuel Lévinas)-
Il tempo per maturare! Amare di più è accettare la sfida del tempo, dell’amore che non c’è ancora – dunque la sfida della precarietà, ma anche della fecondità creativa! È affidarsi davvero all’altro, alla sua libertà trepida e fragile, alle sue paure e al suo desiderio di ricomporre l’armonia della sua dedizione, di reimparare ad amare… E per resistere, nel nostro piccolo struggente dramma quotidiano, all’assenza dell’amore, alla solitudine che dà spazio all’altro di essere se stesso… occorre l’aiuto di Chi nella concezione dinamica cristiana di Dio è l’Amore… che si vogliono gli altri Due! Neanche nel nostro piccolo, infatti, ci può essere Pasqua (l’incontro con il crocifisso risorto!) senza Pentecoste: senza che il suo Spirito ci entri nel cuore e lo coinvolga nella dinamica del suo amore, lavandolo progressivamente da ogni ambiguità!

venerdì 29 maggio 2009

La potenza discreta dello Spirito

Volti nuovi dello Spirito...
Il Vangelo chiarisce l’obiettivo, anzi, il “compimento” essenziale per cui Gesù innalzato al Padre ci manda lo Spirito: vi condurrà sulla via di ogni verità – perché lui stesso è lo Spirito di verità. “La Verità che qui si dice è la verità di Dio come si è rivelata definitivamente e inesauribilmente in Gesù Cristo: essa consiste nel fatto che Dio è l’amore e che Dio, il Padre, ha amato il mondo fino a mandare il Figlio suo. Questo nessuno dei discepoli, e neppure noi, l’avremmo compreso, se non ci fosse stato donato lo Spirito stesso di Dio, per introdurci nell’intenzione e nell’azione salvifica di Dio stesso. Essendo, lo Spirito, il frutto di questo amore reciproco in Dio, non rivela ciò che gli è proprio, ma spiega soltanto, sempre di nuovo, attraverso tutti i secoli, quanto insondabile e inconcepibile è questo eterno amore (von Balhasar). Egli introduce il discepolo in ciò “che è mio”, dice Gesù, il Figlio ma questo è nello stesso tempo “ciò che è del Padre”. Non si tratta di una conoscenza noetica o intellettuale. Lo Spirito ci introduce in questa dinamica interna all’amore di Dio insegnandoci con infinita pazienza quotidiana ad amare con l’amore che Dio ha manifestato in Cristo, amore di benevolenza che tutto abbraccia, assume e redime! La laboriosa e travagliata trasformazione “dei desideri e passioni della carne” nel “frutto dello Spirito”, come ci spiega Paolo, è il segno di questa presenza animatrice e consolatrice…
E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa?
…Così si domanda la gente proveniente da ogni lingua e nazione che è sotto il cielo, in piazza, nel giorno di Pentecoste! Noi facciamo dunque memoria ancor oggi (e dovrebbe rinnovarsi tra noi), del dono proprio più immediato e percepibile dello Spirito: la comunione e l’intercomprensione dei linguaggi e delle culture. Una unione ardente con/divisa, o una divisione in lingue infuocate dallo stesso braciere… Mai, forse, lo Spirito ha avuto una piazza globalizzata come il nostro il mondo, oggi. Mai è stata così forte la dispersione babelica, e nello stesso tempo tanto condensata e strettamente interconnessa e interdipendente, che l’evento che capita in ogni angolo del cosmo coinvolge inarrestabilmente tutta l’umanità. Mai come oggi… tutti erano radunati in un unico luogo… come si dice dei discepoli, in attesa dello Spirito. È il nostro villaggio globale! C’è un’attesa evidente, anche se confusa e angosciata, nel nostro mondo e nella nostra chiesa, che sembra provenire proprio da questa evidente urgenza inarrestabile di integrazione e di comunione, proprio in una condizione sociale, economica, religiosa e ideologica mondiale quanto mai sperequata e conflittuale. Il senso di paura e di impotenza, di bisogno e di inadeguatezza fa ricercare soluzioni sbilanciate sulla “sicurezza” (propria! …con censura più o meno spietata sui problemi altrui); sulla difesa armata aggressiva della propria identità di nazione o di religione e di livello economico; sui “respingimenti” di chiunque cerchi una via di uscita da condizioni talmente invivibili da non aver tempo e mezzi per percorrere le impossibili vie burocratiche prestabilite.
La profezia cristiana si arrende?
Forme impazzite di reazioni aggressive violente e terroristiche (la cui origine non è solo ideologica o religiosa, ma anche e sempre economica!) sembrano giustificare contromisure adeguate oltre le soglie che si pensavano insuperabili della tortura e della sospensione dei diritti della persona (…e quindi i “reati” diventano “doveri”, pure in paesi cosiddetti democratici!). Eppure la Pentecoste è presentata ai discepoli di Gesù come la realizzazione, iniziale almeno, della “verità tutta intera” prevista dall’antica profezia antibabelica. “Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto…per tutti i popoli… Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli” (Is. 25,6ss). Il prodromo di quanto succede a Gerusalemme il giorno di Pentecoste! Dunque, è possibile un benessere globalizzato, quando ogni diseguaglianza vergognosa verrà cancellata! Perché questo è il contenuto, ma anche il grande mezzo di fascino e convinzione, il propulsore! Di cosa, insomma, parlavano i discepoli, mentre accade il prodigio della comprensione reciproca nella lingua nativa? Delle grandi opere di Dio! Le cose che stavano avvenendo, dunque, quelle che erano sotto gli occhi di tutti! Che gli uomini si capivano, che ognuno riconosceva e accoglieva la dignità dell’altro, la reciproca comprensione e accoglienza della diversità, e (proseguendo il cammino di animazione dello Spirito e della Parola) che erano insomma un cuor solo e un’anima sola… e che non c’era tra loro nessun bisognoso, perché tutto era in comune.
…non siamo ancora capaci di portarne il peso?
Gesù afferma che non può dire subito tutta la sua verità ai discepoli, perché non erano ancora capaci di portarla: Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Questa immaturità dei discepoli si prolunga fino a noi. Lo Spirito di certo è già stato mandato e talora ne abbiamo visto le tracce, ma la nostra capacità di accogliere, analizzare e progettare “le cose future” rimane molto scarsa. E questa insufficienza genera insicurezza, e quindi contrapposizioni e aggressività, e porta acqua non al mulino della profezia, ma al vortice della difesa arroccata e selvaggia dei privilegi acquisiti (spesso con le dilapidazioni coloniali dei secoli passati). Non che non sia stata detta una parola profetica, per esempio sul disastro economico mondiale provocato in questi ultimi tempi per incontrollabile ingordigia finanziaria, ma è caduta nel vuoto. Diceva infatti Giovanni Paolo II: Di per sé un mercato mondiale organizzato con equilibrio e una buona regolamentazione, possono portare, oltre che al benessere, allo sviluppo della cultura e della democrazia… Ci si deve però aspettare effetti diversi da un mercato selvaggio che con il pretesto della competitività, prospera sfruttando a oltranza l’uomo e l’ambiente. Questo tipo di mercato eticamente inaccettabile non può che avere conseguenze disastrose per lo meno a lungo termine (25.04.1997). Le dinamiche nuove dello Spirito non sono regole economiche, ma se non ispirano l’atteggiamento degli uomini sia nell’affrontare i macrofenomeni socioeconomici che i rapporti interpersonali diventano ovviamente irreali e alla fine sterili.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge
Noi preferiamo la legge, la sicurezza del “da farsi” prestabilito, anche se denuncerà infine la nostra inattitudine a risolvere i problemi nostri e del mondo. Piuttosto però di sbilanciarci verso lo Spirito, che essendo amore, non ha confini tra il tuo e il mio, tra la tua responsabilità e la mia e ci spinge su orizzonti, “realtà future” senza sentieri e confini precisi, noi preferiamo rintanarci nella zona sicura dei diritti e dei doveri! Il Vangelo, invece è disarmante quanto inapplicabile, secondo i nostri criteri e le nostre paure: Egli, lo Spirito, mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio ve lo annuncerà. Dunque, man mano che i giorni e le faccende e le contraddizioni ci vengono incontro, lo Spirito ci suggerisce cosa ha fatto Gesù e come noi dobbiamo rinnovarlo nella nostra storia. A noi la scelta. Se non lo facciamo contraddiciamo il senso fondamentale del mistero di oggi, che S. Paolo così efficacemente analizza: La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Non si tratta soltanto delle pulsioni sessuali o sensuali, ma soprattutto della prepotenza dell’io, la causa più scatenante delle sofferenze che l’uomo procura a sé stesso e ai suoi simili. O il cristiano “tuttofare” si butta dalla parte della razionalità e quindi della scientificità, della polemica… e allora qualche risultato (amaro!) a modo suo l’avrà, ma sarà lo Spirito a ritirarsi. O altrimenti “si lascia fare dallo Spirito”, non per impigrire nell’irresponsabilità, ma per buttarsi con molta più libertà dalla parte dello Spirito, di cui dice Gesù, Egli vi darà testimonianza di me. Cioè riporterà sempre il discepolo, nell’avvicendarsi delle vicende e delle stagioni, alla verità della sua Parola e all’amore del Padre. Il risultato (implorato gratuitamente) a lungo andare, almeno, dovrebbe vedersi: Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è Legge, perché sono le varie sfaccettature dell’amore senza riserve, senza regole, che non l’amore stesso. Che in fondo è lo specifico del cristiano, secondo Gesù: da questo capiranno che siete miei discepoli, da come vi amate gli uni gli altri.

Lo Spirito non è una secchiata che cade ogni tanto qua e là

Poveramente vado / sgomenta camminando nella sabbia / processione infinita di / solitudini in cammino. / Forse stasera / o domani sera / o alla sera dell’ultimo / giorno – alba della terra nuova – / TU ritornerai. / Non avrò fiato / per rimostranze vane. / Ma le pupille, quelle, / rese vuote dal / desolato pianto / reclameranno luce / per vedere. [Madre Elisabetta, Legnano]. Ho voluto iniziare con questa poesia perché mi pare dica bene il dramma che caratterizza la vita della Chiesa per l’assenza di Gesù tra i suoi. Ed è troppo facile dire “Sì, però poi ci ha mandato lo Spirito, che non a caso si chiama Paraclito, consolatore…”, perché anch’esso – per quanto non abbia mai smesso di affascinare generazioni di nuovi cristiani – resta così imprendibile, da sembrare evanescente, addirittura superfluo… È la grande accusa che ci muovono infatti i nostri fratelli ortodossi… di aver dimenticato lo Spirito… Ma d’altra parte… un po’ avevamo i nostri buoni motivi: non volevamo dare e darci l’impressione di vivere di una religiosità un po’ fantasmica, spiritualistica, interioristica (che non si dice, ma rende l’idea…), con punte di fanatismo e suggestione che rischiavano di far ridere i polli, o peggio, di screditare un messaggio potente come quello evangelico: le vocine, le visioni, gli stati paranormali…
E ancora una volta si ripropone l’annoso problema teologico – ma forse sarebbe meglio dire “umano” – del dire una cosa senza sbilanciarsi troppo in un senso, perché poi bisogna correggersi, spostando un po’ il pendolo dall’altra parte, ma senza andare troppo in là, se no si sbaglia ancora… Un po’ come per Gesù: era uomo o era Dio? Beh, certamente era un uomo, però non si può dire che era solo un uomo, e allora si sposta un po’ il pendolo: è anche Dio. Sì, ma non si può neanche dire che è solamente Dio, non è che ha fatto solo finta di prendere carne umana, non era un suo sostituto quello che c’era sulla croce… e allora risposta ancora un po’ il pendolo, fino ad arrivare alla definizione dogmatica: è 100% uomo e 100% Dio…
La stessa cosa per lo Spirito Santo… è interiore, ma non è interiorismo, spirituale, ma non è spiritualismo, opera nella storia, ma non si sa donde viene e dove va, ecc… E così di bilancino in bilancino si tenta di sottolineare ora un aspetto, ora un altro, stando dentro ai confini del dogma (è della stessa sostanza del Padre e del Figlio, cioè è Dio pure Lui e procede da entrambi) e andando incontro alle domande di senso della gente… Si alternano così epoche storiche molto “spirituali” a epoche un po’ più dimentiche di Lui…
Ma il problema vero è capire oggi che cosa c’entra con noi, con me questo Spirito Santo, cosa è (o meglio “Chi è?”), come mi ci posso relazionare…

Il rischio se no è infatti quello che i nostri ragazzi – che viaggiano senza i nostri filtri di adulti – esplicitano nel loro parlare: ogni volta che non sanno come spiegare alcune esperienze ecclesiali, ci mettono dentro lo Spirito Santo, di cui non si sa nulla e che perciò va sempre bene come risposta: “Perché han fatto questo papa?”, “Ha deciso lo Spirito Santo”; “Cos’hai ricevuto alla cresima?”, “La play station, l’orologio, le scarpe e poi… ah sì, lo Spirito Santo”; “Cosa succede a Messa?”, “Boh, fa tutto lo Spirito Santo”… Rispondendo quindi con risposte giuste (chi direbbe che il papa non l’ha scelto lo Spirito, che è lo stesso che si riceve alla cresima e che fa del pane e vino, il corpo e sangue di Gesù durante la messa?), ma che sono completamente vuote… Tant’è che nessuno poi sa chi in definitiva sia questo Spirito Santo… e addirittura qualcuno inizia a sospettare che sia un’invenzione per alleviare la tragicità dell’assenza di Gesù… o per giustificare infelici scelte ecclesiali…
Eppure, come ci ricorda Dossetti, per Gesù invece lo Spirito è stato quasi un chiodo fisso: «Con quanta insistenza il Signore ci parla dello Spirito consolatore, del Paraclito, di colui che verrà a noi dopo che Gesù è salito al Padre e che non ci lascerà orfani!»; infatti «quando ci domandiamo qual è in definitiva lo scopo dell’incarnazione, la risposta evangelicamente è questa: portare più profondamente quel fuoco che, nella narrazione del battesimo di Cristo e soprattutto nella profezia del Battista, viene identificato con lo Spirito: “Io vi battezzo nell’acqua […]; lui vi battezzerà nello Spirito Santo” (Lc 3,16). La missione di Cristo e tutto il senso dell’incarnazione si possono riassumere così: dare agli uomini lo Spirito Santo. […] Noi consideriamo il Cristo sotto tanti aspetti, ma ce n’è uno al quale forse pensiamo meno e che risulta dal testo di Luca ora richiamato: questa ansia di Cristo di dare lo Spirito Santo. Gesù, l’uomo di Nazaret, è divorato dalla sete di trasmettere a tutto l’uomo e a tutta la creazione lo Spirito di Dio».
Come noi, anche Dossetti, nota la forbice che si apre tra l’appassionato annuncio di Gesù dell’importanza dello Spirito e la nostra pressoché indifferenza (forse ignoranza) nei suoi confronti: «Se consideriamo questo commisurandolo con la nostra attenzione allo Spirito Santo, nella nostra esperienza di preghiera e di vita… quale sproporzione! Il Cristo indica non solo verbalmente, ma con tutta la sua tensione esistenziale, che in questo comunicare lo Spirito sta tutto il senso del suo essere e del suo compito e noi invece ce ne disinteressiamo e lo accogliamo con estrema freddezza» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 21-22.209].
Ma come correggere questa nostra impasse? Come correggerla senza che la nostra risposta risulti ancora una volta un appiccicare lo Spirito alla storia, un ricordarsi momentaneo di “un altro piano”, come se si trattasse di qualcosa di messo sopra, staccabile a piacimento e per quello non indispensabile, dunque in fin dei conti superfluo? Sembra pressoché inutile infatti intensificare il richiamo di tutti all’attenzione allo Spirito o l’auto-convincimento riguardo alla sua importanza, con il conseguente volontaristico sforzo di tenerlo presente nel nostro vivere o – almeno – nel nostro pregare... Sembra inutile, per due motivi: innanzitutto perché è un dato di fatto; questa modalità “pastorale” non funziona; in secondo luogo perché perde il punto decisivo della questione, e cioè la comprensione esistenziale dell’importanza dello Spirito. È perché non sappiamo chi è, cosa fa, come agisce e come parlargli che in fin dei conti ci risulta estraneo: se alziamo gli occhi al cielo penseremo di pregare il Padre, se ci troviamo di fronte ad una croce pregheremo il Figlio… Ma lo Spirito?
Credo dunque che unico modo per superare l’impasse spirituale dei nostri giorni, rimanga quello di tornare al vero appassionato di Spirito, a chi non solo l’ha conosciuto, ma si co-appartiene con Lui, e cioè Gesù: Lui, infatti – dicevamo con Dossetti – è Colui che più di tutti ne ha suggerito l’importanza, ne ha fatto sentire l’indispensabilità, ne ha preannunciato la decisività… Importanza, indispensabilità e decisività che noi abbiamo scordato…
E il primo dato che Gesù ci comunica sullo Spirito è che si tratta del suo Spirito e dello Spirito del Padre; e per capire cosa vuol dire dicendo “mio Spirito” è utile pensare a espressioni quali “lo spirito del discorso”, “lo spirito dell’iniziativa”… Si tratta cioè del nucleo più vero, più intimo della cosa in questione… Lo Spirito di Dio è dunque l’intimità di Dio, che scorre tra Padre e Figlio, è la sua identità più profonda, più autentica più vera… Ecco perché è vero che diventa consolante la sua presenza, nonostante la dipartita di Gesù: non perché banalmente abbiamo trovato qualcos‘altro che riempie il nostro orizzonte religioso, come un contenitore vuoto, un riferimento puramente nominalistico che placa – eludendole – le nostre domande, ma perché con esso «Siamo di fronte a quel mistero che nella nostra fede, nella nostra vita spirituale, e religiosa, segna il termine ultimo, la pienezza completa e l’apertura ormai senza più confini, senza più limiti né orizzonti,del nostro rapporto con Dio. […] Oggi si adempi la promessa del Padre e il Cristo stesso dona all’umanità quella pienezza di vita che è in lui. […] La Pentecoste è apertura. È il momento in cui l’uomo tocca l’apertura dell’orizzonte infinito di Dio. […] In ogni momento in cui ci poniamo in questa condizione di apertura, è questo Spirito che si insinua in noi e che attraversa lo spirito di ogni uomo e lo spirito collettivo dell’intera umanità e, soffiando in essa la totalità della pienezza di Dio, la trasforma» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 209-213].
Ecco il secondo dato che il Signore Gesù ci rivela riguardo allo Spirito: esso – da Spirito a spirito – comunica con l’uomo, ha incidenza sulla sua vita, addirittura è la via per rapportarsi a Dio! Ma proprio su questo punto si sono consumati i più grandi fraintendimenti. Sempre nel tentativo di bilanciamento del pendolo si è un po’ persa di vista questa modalità di azione dello Spirito nel mondo… Per evitare di riconoscere troppo elasticamente la possibilità per ciascuno di intrattenere una relazione “diretta” con Dio – da Spirito a spirito, appunto – e lasciar disoccupati tutti i preti, o – detto in altri termini – per evitare il relativismo, si è preferito sottolineare l’aspetto miracolistico dell’intervento dello Spirito, o quello istituzionalmente regolato (per es. i sacramenti); per altro verso però, per evitare un uso e consumo di questa azione più “materiale”, puntuale, “calcolabile” dello Spirito, è stato necessario introdurre la sua selettività (arbitrarietà?)… Di modo che il pensiero comune riguardo all’azione dello Spirito – in modo un po’ caricaturale, ma efficace – può essere esplicitato con questo esempio: se uno decide di diventare prete è perché – inciampando o deliberatamente scegliendo (questo è ancora un po’ equivoco nel pensiero comune… perché se inciampa è vittima del caso anche Dio, se sceglie, è discriminatorio…) – versa una secchiata – di Spirito appunto – su di lui… e tac… c’ha la vocazione… lui e un altro no…
…Evidentemente non è così… Ma com’è allora? Forse molto più semplicemente, se si tratta dello Spirito di Dio e dunque di Cristo, non si può non pensare che agisca proprio secondo le dinamiche di Cristo e dunque secondo la logica dell’incarnazione. La sua azione non è dunque metastorica, ma intrastorica, non è fuori, separata, sopra, con qualche incursione ogni tanto, ma è dentro, mescolata, insinuata negli interstizi del carne dell’uomo… Ecco perché non si può dialogare con Dio che da dentro la storia, che da dentro i drammi, che da dentro la propria carne… è nel dipanarsi della nostra libertà storica che si può costruire una vita spirituale, una vita cioè in dialogo con lo Spirito, in dialogo con Dio. Proprio come è avvenuto nella prima Chiesa dove il primo Concilio (quello di Gerusalemme), che affrontava il problema della necessità o meno della circoncisione, non si è risolto aspettando una vocina, una secchiata o una visione, ma con un’accesissima discussione tra Pietro e Paolo! Così si fa la storia con Dio! Non a caso veniamo battezzati nello Spirito, cioè immersi in Lui, impregnati in modo che non sia più distinguibile dove finiamo noi e dove inizi Lui… perché si tratta di un intreccio di libertà (come nell’amore). È nel punto più intimo di noi dunque (nel nostro spirito – che per la tradizione vuol dire l’uomo tutto intero!!!) che agisce lo Spirito, in un dialogo segreto che ci convince della vita cristica: «Il nostro peccato infatti non è altro che la conseguenza di un’intermittenza di contatto» con questo dialogo da Spirito a spirito [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 209-213].
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