Ma di cosa si tratta davvero? Al di là delle formulazioni, al di là delle frasi fatte che conosciamo da sempre, al di là delle spiegazioni nominalistiche di questo “mistero” (vere, ma del tutto insignificanti – non significative per noi, per me), di cosa si tratta quando si parla del dono dello Spirito santo?
Io credo si tratti – andando contro il sentire comune per cui questa è una festa (solo) gioiosa – in realtà, di uno dei momenti più drammatici della vita della Chiesa (di allora) e dell’esperienza dei singoli cristiani (di sempre). Credo infatti si abbia a che vedere con la “cosa” più difficile da credere di tutto il fatto cristiano. E provo a spiegarmi…
Qui si tratta di credere:
1) Che la storia va avanti anche senza Gesù: cioè – allora come oggi – che il “non averlo più tra noi” non chiude la storia, non solo o non tanto quella umana, di cui chi ha perso chi dava senso alla sua vita non è poi molto preoccupato, ma quella personale; il dramma infatti per i suoi è: “Come mai io sono vivo se lui è morto?”, “Che senso ha che io sia in vita, se nella vita lui non c’è?”… Precisamente questo infatti è in gioco con l’elaborazione dei testi neotestamentari che parlano del dono dello Spirito. In prima battuta infatti il fatto che ci sia lo Spirito, vuol dire che non c’è più Gesù. O appunto: che c’è in Spirito… Ma su questa drammatica non si può soprassedere o passar via troppo in scioltezza… Perché che Gesù “non ci sia più” non è affatto una cosa banale. E non lo è stato allora…
2) Ma non solo questo… Qui si tratta di credere, non solo che la storia vada avanti anche senza Gesù, ma che essa quasi “debba” andare avanti; e non solo per inerzia, perché finché il corpo non muore si resta in “vita” (come cantava De Gregori: «Cosa sarà che fa morire a 20 anni, anche se vivi fino a 100?»); e nemmeno perché Gesù abbia fallito e quindi la vita debba andare avanti alla ricerca di altro, che dia senso, che sia la vera via, verità e vita…; no: credere nel dono dello Spirito santo vuol dire credere che – nonostante Gesù non ci sia più come prima – sia sensato andare avanti, portare avanti quella sua medesima storia, quella sua via, verità e vita che – pure – l’ha portato a non esserci più…
La Pentecoste è dunque la scelta radicale tra il credere alla vita o alla morte, all’affidamento o alla paura, all’aprirsi o al chiudersi, all’amare o all’odiare… Pentecoste è scegliere se la storia continua o se la storia finisce… Questa infatti è la posta in gioco: vivere da figli o vivere da orfani?
I testi neotestamentari – anche quelli delle letture di questo anno C – sono nati precisamente con l’intenzione di raccontare (attraverso l’elaborazione “a posteriori” di questa scelta) come la Chiesa delle origini, quegli uomini e quelle donne, si siano determinati. Quale sia stata la loro risposta. E ogni generazione cristiana, ogni singolo uomo su questa terra, a partire da quella loro esperienza fondante, è chiamato a rispondere per sé a questo interrogativo…
Ciò che a noi può sembrare strano è la puntualità con cui – per esempio il testo della prima lettura di questa domenica – racconta la scelta, come se tutto si fosse concentrato in un episodio, in un momento, in un attimo che ha determinato tutto il resto della vita di questi uomini. In realtà – come si evince dalla faticosa vicenda degli Atti – anche per loro non è bastato decidersi una volta per tutte… e l’elaborazione “a posteriori” che noi oggi ci ritroviamo tra le mai nei testi neotestamentari è – appunto – una ricostruzione “a posteriori”, un tentativo cioè di condensare in un breve racconto cosa abbia voluto dire credere alla vita che continuava, alla sensatezza della vita che continuava… al fatto che si trattasse di una continuazione “abitata” e non orfana…
Come dire… Lo Spirito donato ha avuto anch’esso bisogno del credito di chi lo ha ricevuto, ha avuto bisogno del riconoscimento del fatto che si trattava di una nuova modalità di presenza di Gesù e del Padre suo tra i suoi.
Questo perché non si ha a che fare con un’idea, con un dogma, con una proposizione da imparare a memoria e ripetere a comando, ma piuttosto con il credito che si è disposti a dare alla parola / vita (promettente) di Gesù... che aveva promesso di non lasciarli/ci soli («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18), di restare sempre con loro / con noi sulle vie di questo mondo («ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», Mt 28,20) e di costruire insieme a loro / a noi la vita (così come spiega san Paolo: «Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio»)…
Ma se Pentecoste è tutto questo, se credere al dono dello Spirito santo, vuol dire credere ad una modalità nuova di accessibilità a Gesù (e in Lui, a Dio) – nonostante non lo si veda, non lo si senta, non lo si tocchi –, se vuol dire credere in una possibilità diversa – ma vera, addirittura più intima e universale – di relazione a Lui, che continua nonostante l’assenza fisica (in spirito, appunto…), se – inoltre – lo si fa basandosi sulla sua parola… allora non ci si può più porre di fronte a questo mistero come di fronte “a questo sconosciuto”… come se lo Spirito fosse qualcosa d’altro rispetto a quanto raccontato nel vangelo… come se credere in Lui fosse qualcosa di diverso che credere che Dio è «Abbà, Padre» e che «Gesù è Signore», “nonostante” la sua morte e la sua assenza fisica… che dunque Egli è incontrabile, che può davvero ancora alimentare la vita che continua, che può davvero plasmare i nostri cuori perché il suo Regno venga…
«… Si può dunque, nella vita feriale, camminare secondo lo Spirito [di Gesù], disinquinando la storia dal basso – cominciando dalle piccole cose accessibili agli uomini senza potere, che però sono assuefatti ai segreti del Regno. E imparando a lasciarsi abitare e guidare da Lui. Così cresce il germe divino che dimora in noi, negli appuntamenti silenziosi e nascosti della vita d’ogni giorno…ove lo Spirito stesso viene in aiuto alla nostra debolezza…
e intercede con insistenza per noi, con “aneliti senza rumore”.
QUANDO?:…
quando dobbiamo fare tante piccole cose senza senso, come sorridere a qualcuno, mentre tutto ci amareggia o ribolle dentro
quando lasciamo ad altri un minuscolo successo o affermazione, senza ritorsioni, per lasciarli crescere… in pace
quando silenziosamente condividiamo la passione dei sofferenti e disperati della terra - seduti per terra con loro
quando sperimentiamo il desiderio e insieme l’impossibilità di uscire dalle gabbie della carne e dall’egoismo - e confidiamo lo stesso che la liberazione è vicina e non ci sarà negata
quando la fame di compagnia e tenerezza ci rode la carne - e la solitudine sembra l’unica assurda risposta
quando facciamo i conti della nostra vita e vediamo un passivo incolmabile scavato nell’anima - e ci fidiamo che un Altro, inafferrabile, pareggerà
quando stiamo dentro l’amara realtà quotidiana sino alla fine, sottomettendoci con fatica alla monotonia corrosiva di una vita che si svuota
quando ci ostiniamo a pregare, sicuri di essere in ogni caso esauditi, anche se nessun segno ci perviene
quando la caduta diventa l’estremo umano modo di camminare, che ci rimane - perché sempre di nuovo chiediamo di essere accolti, amati, sollevati
quando affidiamo la domanda irrisolta e il desiderio inesaudito al mistero di grazia che tutto avvolge - dove Qualcuno, nel buio o nel disagio interiore, ci chiama con il nostro nome
quando ci esercitiamo nei disappunti delle faccende quotidiane, per imparare a morire con serenità ed amore - vivendo, appunto, come vorremmo morire
quando ci sono offerte scintille di gioia e compiutezza, e cerchiamo di condividerle …
DOVE?:…
dove è nascosta la possibilità piccola, ma qualitativamente essenziale, della nostra libertà - di donarci
dove incontriamo… il diverso – perché l’alterità è la casa dello Spirito, “dove si manifesta la verità ‘più’ intera e le cose future”
dove siamo chiamati al coraggio di atteggiamenti nuovi… per “abbeverare di Spirito la nostra carne”, aprendola a gusti diversi, in vista della redenzione del nostro corpo
dove è nascosta la mistica quotidiana, perché questa accoglienza dello Spirito … è l’unione con Dio, l’eterno che scorre nella nostra storia!
dove si può gustare la sobria ebbrezza dello Spirito, di cui parlano i Padri e l’antica Liturgia: sobria, perché vissuta laicamente e sommessamente nella storia d’ogni giorno; ebbrezza, perché è una strana forza interiore, che vuole mandarci ‘fuori’… dagli angusti schemi mondani».
Giuliano […. su un testo di K Rahner…]
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