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mercoledì 18 maggio 2016

Festa della Trinità


 

Dal libro dei Proverbi (Pr 8,22-31)

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-5)

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 16,12-15)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

La prossima domenica la Chiesa celebra la festa della Trinità.

Il termine non è biblico, ma entra nella dottrina della comunità credente nei primi secoli di vita cristiana, volendo indicare la realtà del Dio rivelato da Gesù: un unico Dio in tre persone.

La parola “trinità” suona sempre un po’ astratta, un po’ lontana dalla nostra sensibilità. Ha forse delle eco anche un po’ spaventose, come tutto ciò che ci rimanda a qualcosa di difficilmente comprensibile e misterioso.

Questo è forse dovuto all’uso che se ne è fatto, a come ci è stata presentata nei vari percorsi di formazione cristiana, quando si educava al rispetto con la paura e si sostituiva la conoscenza della narrazione evangelica con la memorizzazione dei dogmi o delle definizioni del catechismo.

In realtà, la Chiesa parla di “trinità” perché deve tener conto di un dato evangelico inequivocabile: Gesù ha parlato del Padre e dello Spirito santo. Ecco perché “trinità” e non semplice “monoteismo” in senso stretto.

martedì 26 maggio 2015

La Trinità


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 4,32-34.39-40)
Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,14-17)
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 28,16-20)
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
 
Chiuso il Tempo di Pasqua con la celebrazione della Pentecoste, Lunedì è ricominciato il Tempo Ordinario, che avevamo già incontrato nelle Domeniche tra il Tempo di Natale e quello della Quaresima, e che ci accompagnerà fino alla fine di questo anno liturgico, cioè fino a quando, con il prossimo Avvento, inizierà l’anno nuovo: abbiamo perciò davanti a noi circa sei mesi di Tempo Ordinario.
Ma chi si aspettava, già per questa prima Domenica dopo Pentecoste, una Liturgia della Parola “ordinaria” (e magari ne aveva anche un po’ nostalgia…), dovrà invece fare i conti col fatto che la Chiesa ponga proprio in questa Domenica (e anche nella prossima, quando celebreremo il Corpus Domini) una delle solennità più significative per la comprensione del mistero cristiano: la Trinità.
È di questo dunque che dobbiamo parlare oggi…
…anche se non nascondo una certa resistenza nel farlo, perché mi pare che la precomprensione un po’ semplicistica e materialistica che abbiamo di questi contenuti di fede, sia davvero troppo invincibile perché si riesca a fare un discorso capace di incidere sul nostro vissuto.
Cosa intendo dire?
Che la situazione di una persona di cultura cristiano-cattolica che sente parlare di “Trinità” potrebbe essere tratteggiata in questo modo:
1.      il rimando immediato e istintivo che ha, di fronte a questa parola, non è il vangelo, ma il Catechismo;
2.      la sensazione prima è quella di essere di fronte a qualcosa di “pericoloso”, su cui non si può scherzare, né fare domande: c’è di mezzo l’eresia e l’atavica paura cattolica di fronte ad essa (perché voleva dire morire… sul rogo!);
  1. il mistero della Trinità perciò non va indagato, ma “preso”, più o meno con le stesse modalità con cui si terrebbe in mano una scoria radioattiva;
 4.      e se mai salisse alla mente una domanda sul significato di questa parola “strana”, essa verrebbe immediatamente bypassata ricordando che il “mistero della Trinità” non per niente si chiama “mistero” e che se proprio si vuole dire cosa significa, basta guardare al dogma: “Un unico Dio in tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo”…
  1. e se ci sentiamo ancora quelli di prima… amen… vedi il punto 3.
 
Forse esagero un po’… ma la mia impressione è proprio questa… che tutti conosciamo questa parola, tutti sapremmo ripetere il dogma, tutti saremmo pronti a difenderlo con le unghie, ma poi…
… poi questa cosa non si declina in nessun modo nel nostro agire, pensare, parlare… cioè: non ha incidenza alcuna sul nostro vivere da uomini e da cristiani.
Forse allora è necessario provare a partire da un altro punto di vista, che è poi quello da cui è partita la Chiesa: e cioè che Gesù nella sua storia ha parlato (nel senso forte che si può dare a questo verbo) del Padre e dello Spirito, anzi, più radicalmente si è detto sempre in relazione al Padre e allo Spirito, quasi che la sua identità non fosse dicibile se non dentro a questa relazione. Gesù è cioè chi non può essere detto senza contemporaneamente dire Padre e Spirito.
Allora, è dentro a questa dinamica che siamo chiamati ad immergerci (battezzarci), abbandonando la visione “cosale” della Trinità (Dove stanno? Come fanno a essere uno e tre? Come devo rivolgermi loro? Sempre con in testa il Padre con la barba, Gesù lì con Lui nell’alto dei cieli e lo Spirito che non si capisce bene se è lì o qui o un po’ qui e un po’ lì…) per accedere ad una prospettiva relazionale, per la quale io – come uomo – non posso dirmi se non in relazione a Dio, che a sua volta non può che essere Padre (pensabile sempre e solo come in relazione al Figlio e allo Spirito), Figlio (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e allo Spirito) e Spirito (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e al Figlio).

martedì 10 giugno 2014

La Trinità


Dal libro dell’Èsodo (Es 34,4-6.8-9)
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 13,11-13)
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,16-18)
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
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 Per introdurci nel nucleo di senso della festa che la Chiesa celebra in questa domenica, quella della Santissima Trinità, è fondamentale collocare nel suo contesto la prima lettura che la liturgia ci propone: i versetti che la compongono infatti (Es 34,4-6.8-9) sono l’ultima parte di una sezione ben più ampia (Es 32,1-34,35) che inizia con la fabbricazione del vitello d’oro.

Già questa annotazione fa intuire come il senso della collocazione di questo brano nella liturgia della parola della festa della Santissima Trinità, abbia il senso di spingere la riflessione sulla questione dell’identità di Dio: chi è il Dio vero? Chi è Dio? E di fatti dire di Dio che è Trinità per i cristiani è dirne l’identità vera…

Ma procediamo con calma… soprattutto per evitare che gli echi estrinsecistici del parlare di Dio del catechismo ci fuorviino. La risposta corretta infatti è certamente che l’identità vera di Dio sia il suo essere uno e trino, ma al di là della formulazione dottrinale, il problema sta nel tentare di indagare cosa questo voglia dire.

L’incipit del brano di Esodo (32,1) mostra immediatamente il problema: «Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”».

Il monte su cui Mosè, a detta del popolo, si sta attardando è chiaramente il Sinai. Qui egli sta stringendo con Dio per il suo popolo l’alleanza, suggellata dal dono delle tavole della legge; infatti il versetto che immediatamente precede quello appena citato è il seguente: «Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Es 31,18).

Dato il contesto, ciò che è desolatamente disarmante è questa assoluta nonchalance con la quale il popolo chiede esplicitamente ad Aronne di fargli un dio: fatti da mano d’uomo infatti sono solo gli idoli, i falsi dei, quelli che secondo il profeta Baruc 6,50 «sono una menzogna; […] non sono dèi, ma lavoro delle mani d'uomo, privi di ogni qualità divina» e che proprio per questo a detta del Salmo 114,5-7 «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni».

La situazione appare dunque paradossale: mentre Dio sta stringendo col suo popolo per mezzo di Mosè sul Sinai la loro alleanza, lo stesso popolo chiede di farsi un altro dio, un dio finto; il tutto, tra l’altro, non in una situazione di totale inesperienza di Dio, bensì a liberazione avvenuta, a mirabilia Dei già mostrati: ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto!

Com’è possibile che il popolo sia arrivato a questo punto? Com’è possibile da un lato mettere in discussione Dio, il Dio conosciuto, il Dio con cui si ha già un rapporto, una storia, fatta di parole e segni, cura e protezione…? E com’è possibile dall’altro che su tutto questo prevalga la necessità di farsi un dio, un dio a misura di uomo, un dio che si può toccare, vedere, sul quale si possono cioè mettere le mani, sul quale si possono mettere gli occhi?

Stando alla Bibbia… dovremmo, dal nostro punto di vista, però, fare un po’ meno gli scandalizzati…

Già nelle sue prime pagine infatti essa ci rivela come questo sguardo ambiguo su Dio, questo metterlo in discussione, e insieme questa necessità di renderlo toccabile, visibile, contenibile, abbiano accompagnato l’uomo da sempre… anzi caratterizzano l’uomo di sempre… e dunque anche noi.

Gn 3 manifesta infatti che – come mostra in modo eccellente P.A.Sequeri ne Il timore di Dio, 53 - «il rapporto religioso con Dio si è inquinato, senza ragione e sin dall’inizio, tramite il credito che l’uomo ha concesso alla fantasia del serpente. E da allora ogni religione ne rimane inesorabilmente segnata, perché l’uomo viene alla luce in un mondo che ogni volta gli ripropone il sospetto al quale è sin troppo disposto a cedere: il sospetto cioè che il comandamento, invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione».

Ecco l’arcaico sospetto su Dio che ci portiamo dentro, che ci “trasmettono” quando nasciamo e che in qualche modo rilanciamo quando moriamo: che il suo volto sia ambiguo, che da lui – come ogni religione ha sempre pensato del suo/suoi dio/dei – ci possa venire tanto il bene, quanto il male. E a partire da questa atavica paura ecco tutti i tentativi di ingraziarsi dio/gli dei: prima in modi decisamente più triviali (i sacrifici, anche umani), poi in modi sempre più raffinati, ma non certo meno depravati (le preghiere, i fioretti…). Ma non solo… oltre ai tentativi di propiziarsi il divino, il sospetto che da esso potesse venirci tanto il bene quanto il male, ha determinato un’altra rovinosa conseguenza: il fatto che il pensiero si scatenasse in elaboratissime teorie per salvaguardare comunque il rispetto della divinità: e così sono nate le dottrine per cui se da dio ti viene il male, lo fa per motivi pedagogici, per darti cioè un insegnamento morale, un’edificazione spirituale; oppure le dottrine per cui dio infligge il male, ma per un bene maggiore… e via discorrendo su questo canovaccio…

Che non sono altro che i tentativi a posteriori di difendere dio nelle sue implicazioni col male: dando però come presupposto appunto che col male egli sia immischiato… che è l’anti-Vangelo.

Il punto infatti è che come scrive ancora Sequeri «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente». È quello che dicevamo anche per il popolo: nella concretezza il rapporto che avevano instaurato con Dio aveva parlato solo di liberazione, protezione, cura… «Lo spazio dell’incredulità, sin dall’inizio, si apre nell’immaginazione: non nell’esperienza».

Eppure: «Una volta che è stato portato alla luce, questo sospetto non ci abbandona più. Ogni uomo, almeno una volta, sperimenta il sentimento della possibile ambiguità di Dio».

Questa incredulità “cronica” è una dinamica antropologica che stupisce perfino Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,13). Anch’egli infatti sperimenta la crescente resistenza di fronte al suo annuncio, tant’è che diventa pretestuosa ogni cosa «persino la guarigione di un paralitico nel giorno sacro, o la restituzione di un amico morto all’affetto dei suoi cari».

«Ma la coscienza di Gesù appare folgorata dall’intenzione di attestare la verità di Dio sul principio di un’evidenza ‘entusiasmante’: prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano». Ecco la buona notizia di Gesù: che da Dio viene solo il bene per l’uomo! Che nessun uomo sulla faccia della terra deve inerpicarsi nell’avventura impossibile di salvarsi la vita («Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?», Lc 12,25), ma che essa è già amata, ben-voluta, salvata!

Non a caso infatti il Vangelo che la liturgia ci offre in questa festa, in cui siamo invitati in qualche modo a “sbirciare” nell’identità di Dio, proclama: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Ecco il nocciolo radicale dove dobbiamo porre la nostra conversione!

 Per farlo però bisogna ancora rendere ragione di due questioni:

1-      Se da Dio ci viene solo il bene, come va inteso il “castigo” raccontato in Gn 3, che è uno dei testi che abbiamo preso come riferimento?

2-      Perché è così importante non sbagliare l’identità di Dio? Addirittura porre qui la nostra conversione (piuttosto che sul sesso, sulla politica, sui soldi)?

1- è ancora Sequeri a venirci in soccorso: «Da molti indizi comprendiamo quale attaccamento alla propria creatura percorra come un filo incandescente e luminoso la reazione di Dio: […] l’uomo e la donna non muoiono. […] La maledizione invece è per il serpente: […] una clamorosa e appassionata riconferma della superiore dignità della donna e della stirpe di lei (Gn 3,15). [Infatti] Dopo aver sperimentato la differenza della verità di Dio e dell’immagine del serpente, l’uomo si sente vergognosamente solidale col serpente. Dio ristabilisce la differenza, ponendo inimicizia fra il serpente e la donna. E l’ultima parola rimane all’uomo: e alla vittoria della sua specie su quella del maligno. Così d’un sol tratto, Dio ripristina la differenza di sé e della sua immagine creata: rispetto alla fantasia del serpente a riguardo di entrambi. L’immagine di Dio rimane quella della dedizione. La natura dell’uomo quella della comunione. […] L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde il serpente con l’uomo». Ecco il senso dei gesti di Dio riportati sul finale di Gn 3: l’inimicizia tra il serpente e la donna (la non confusione da parte di Dio del serpente con l’uomo), la fabbricazione delle tuniche di pelli per l’uomo e la donna (la dedizione di Dio per l’uomo), l’allontanamento dal giardino (la distanza tra Dio e l’immagine di lui che ne ha dato il serpente). Quanto ai dolori del parto, la fatica nel lavoro, ecc… sono «la percezione della incolmabile distanza che esiste fra la condizione limitata dell’uomo e la promessa iscritta nella creazione». L’uomo non è Dio! E tuttavia questo riconoscimento non è mortificante, ma vitale. L’uomo non è Dio, ma è uomo. E questa è la sua dignità. La sua personalissima destinazione!

2- Destinazione che può cogliere nella sua verità e trasparenza solo se colloca bene Dio: «è da ciò che l’uomo crede di Dio che dipendono il senso della vita e della morte sulla terra». Infatti l’uomo che dà credito all’ipotesi formulata dal serpente «impara la paura e coltiva l’istinto di proteggersi da Dio. […] La cosa non gli rende la vita più facile. Ma ogni volta gli offre anche pretesti per la propria voglia di prevaricazione». E non esiste peccato peggiore, dirà Gesù, chiamandolo il peccato contro lo Spirito santo; il peccato contro colui che conosce i segreti di Dio («Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio», 1Cor 2,11): infatti «chiunque insegna ai bambini a scandalizzarsi di Dio, farebbe meglio a legarsi una macina da mulino al collo e gettarsi in acqua. Il peccato contro lo Spirito, che impugna l’attendibilità del sentimento di Dio come padre, chiude ogni varco per la relazione che tiene in vita la speranza dell’uomo».

Ed ecco ritrovata la nostra Trinità, la verità dell’uno e trino Signore: la sua affidabilità, che sola abilita la nostra fraternità, perché solo una vita che non ha bisogno di salvarsi la pelle, può guardare all’altro non come ad un rivale, ma come ad un fratello!

giovedì 23 maggio 2013

Trinità 2013


Dal libro dei Proverbi (Pr 8,22-31)

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-5)

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 16,12-15)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

Domenica scorsa, con la celebrazione della solennità di Pentecoste, si è chiuso anche per quest’anno il Tempo di Pasqua. Lunedì è infatti ripreso il cosiddetto Tempo Ordinario. Eppure, in questa prima domenica dopo Pentecoste, ci ritroviamo subito a festeggiare un’altra solennità: quella della Santissima Trinità. Non è facile “star dietro” a tutte queste feste (ascensione, pentecoste, trinità…), una dietro l’altra, perché i misteri che vogliono celebrare sono davvero grandi… e soprattutto sono impastati di così tante precomprensioni culturali, che – a volte – già solo nominarle, fa scappar via la gente…

Per esempio… parlare di Trinità non è così immediatamente agevole… si rifugge all’idea di provare a spiegare o spiegarsi cosa stia realmente dietro a questa parola, che non è nemmeno biblica… istintivamente vengono in mente piroette filosofico-teologiche che tutti sentiamo come assolutamente estranee, estrinseche, lontane, incomprensibili… con nessuna incidenza o significatività per la concretezza e quotidianità della nostra vita…

E allora m’è perfin venuto da chiedermi: “Ma perché la Chiesa celebra questa festa”, “Perché mi costringe a riflettere su ‘questa cosa’ così complicata?”… E la risposta che mi son data, mi ha fatto quasi sorridere nella sua semplicità ed evidenza così spesso dimenticate o offuscate da tante impalcature intellettualistiche che i secoli passati ci hanno montato nella testa: “La Chiesa celebra questa festa e parla di Trinità, semplicemente perché è ciò che emerge dal vangelo. La Chiesa parla di Trinità perché Gesù, oltre che di sé, ha parlato del Padre e ha parlato dello Spirito”.

E non lo ha fatto occasionalmente, o per inciso… Ma tutta la sua vita è come sostenuta da una passione “urgente” di rivelare il Padre, di farlo conoscerlo, di farlo vedere («La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato», Gv 14,24); e da una “fissazione quasi ossessiva” per l’annuncio del dono dello Spirito («Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me», Gv 15,26).

È per questo che parliamo di Trinità! Perché Gesù non ha semplicemente parlato di sé come del Messia o del Dio fattosi uomo, ma ha contemporaneamente parlato (con le parole e con la vita) di un Padre e di uno Spirito…

Un annuncio che poi la Chiesa ha condensato nel dogma niceno del Dio uno (nella sostanza) e trino (nelle persone). Ma – appunto – diversamente da quanto noi spesso facciamo (e in parte nei secoli passati anche la chiesa ha fatto) è il vangelo a dare la misura e il senso al dogma, non il contrario: per cui di fronte alla solennità della Trinità il nostro pensiero non deve immediatamente andare a chissà quale congegno intellettualistico partorito dall’uomo per tentare di spiegare (inventarsi?) dio; quanto piuttosto alle parole di Gesù, che indubitabilmente fanno con costanza riferimento al Padre ed allo Spirito. È lui – che noi crediamo l’insuperabile rivelazione di Dio – che ci ha parlato dell’intimità di Dio in quei termini. Tra l’altro all’interno di un contesto in cui non era facile elaborare una “teoria” del genere: siamo infatti nella culla dell’ebraismo, religione che tutti ricordano e riconoscono come il primo grande e ferreo monoteismo della storia. Una religiosità che non a caso ha nel primo dei suoi dieci comandamenti, precisamente la “blindatura” della sua rigorosità in materia: «Non avrai altro Dio»!

Ma… se tutto questo è vero… la domanda diventa: “Cosa ha dunque detto Gesù del Padre e dello Spirito?”.

Evidentemente non possiamo qui ora richiamare alla memoria tutti i passi (espliciti o meno) in cui Gesù – vivendo – fa tralucere questa sua relazione intimissima col Padre («Chi ha visto me, ha visto il Padre», Gv 14,9; «io sono nel Padre e il Padre è in me», Gv 14,11; bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, «e come il Padre mi ha comandato, così io agisco», Gv 14,31), che è lo Spirito… Ma possiamo certamente annotare come “premura incalzante” di Gesù sia quella di annunciare agli uomini la loro non - orfanità: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18).

Dire che Dio è Abbà e dire che il ritorno di Gesù a lui non è abbandono, ma assenza colmata («io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) è il vangelo di Gesù, la sua buona notizia. Dire “trinità” è dire non-solitudine: questo è Dio per Gesù, una non-solitudine che vuole coinvolgere l’uomo, perché non sia e non si senta mai (mai più) solo, nemmeno di fronte alla morte, che è così paurosa perché – per quel che vediamo noi – è solitudine estrema, eterizzata, abbandonata…

La non-solitudine che invece è il Dio che ci ha raccontato Gesù è relazione da sempre e per sempre. Questo è Dio: relazione da sempre e per sempre. E non una “relazione qualsiasi”…

Per specificarla dovremmo forse dire “una relazione d’amore”, ma quest’ultima espressione risulta così abusata da non essere più in grado di dire e significare niente… o tutto e il contrario di tutto, che è poi lo stesso…

Diciamo allora che è “relazione decentrante” – che è lo stesso che dire “amore” ma con un termine un po’ meno noto e dunque, forse, meno scontato –, relazione cioè in cui si vive della custodia dell’altro (degli altri) e per la custodia dell’altro (degli altri); dove quindi non sono io a dovermi pre-occupare di me, perché è il bene degli altri che mi “tiene”, ma devo piuttosto pre-occuparmi degli altri, perché siano “tenuti” da me… Dio è questa “cosa” qui; tra l’altro circolare (ha tre persone coinvolte) e non solamente reciproca (relazione a due): perché è come se il bene che i due (Padre e Figlio) si vogliono, straripasse al di là dei confini del loro rapporto e diventasse a sua volta terzo elemento del rapporto (Spirito) “sovrabbondante”, che ingenera una specie di reazione a catena coinvolgendo sempre qualcun altro… Come quelle particelle che si liberano nelle reazioni chimiche e vanno ad innescare altre reazioni, che a loro volta liberano un sovrappiù di “particelle” che andranno ad innescare nuove reazioni… e così via… a catena…

E questa storia – che è la stessa del dogma niceno, solo raccontata con parole più laiche e più riconoscibili dalle orecchie dei giorni nostri – non è quella che a me è piaciuto inventare o che a qualche padre conciliare è piaciuto ipotizzare 1700 anni fa (il Concilio di Nicea è del 325): è la storia che è piaciuto narrare (vivendola) a Gesù di Nazareth, che noi crediamo essere il Figlio di Dio e la sua piena rivelazione… Dio è la non-solitudine, è l’esserci per l’altro…

Ma se questo è vero – e lo è radicalmente – allora bisogna essere coraggiosi fino in fondo: «A ben vedere, [infatti] ogni tentazione cristiana (e, a livello inconsapevole, ogni tentazione umana) è una tentazione antitrinitaria. Ogni totalitarismo, che censura le differenze per esaltare un solo valore; ogni spiritualismo che deprezza la carne e la debolezza ad essa legata, esaltando superuomini; ogni materialismo che seppellisce il seme dello Spirito e il suo gemito nascosto nel cuore dell’umanità; ogni lucignolo di verità spento in nome delle verità più grandi; ogni uomo isolato o perseguitato per le sue idee o la sua diversità; ogni debole oppresso dalla prepotenza di altri uomini; ogni bimbo che non può crescere e gioire a causa del nostro egoismo… è una bestemmia contro la Trinità. Noi cristiani, cui questo mistero è affidato, ne abbiamo fatte e dette tante di queste eresie storiche - e Giovanni Paolo II ne ha chiesto perdono a tutti più di cento volte… Ma è pure vero che un’innumerevole folla di martiri ha testimoniato il rifiuto della prepotenza politica o ideologica di capi, re e imperatori. Generazioni di credenti, laici e consacrati, famiglie e chiese, hanno sfidato la logica del potere e del danaro…e hanno seminato nel mondo il fermento del primato della persona, e quindi l’accudimento del malato e del debole, l’assistenza e l’istruzione del meno fortunato, l’ascolto e il rispetto di tutti i pareri diversi…» [Giuliano].

È ben vero allora che l’idea di Dio che abbiamo in testa non è ininfluente sulla vita che costruiamo (foss’anche l’idea che Dio non c’è – perché anche questa è un’idea di Dio…), ma anzi: dall’idea di Dio che uno ha in testa, si capisce anche che uomo egli è; e viceversa, ovviamente: da che vita uno conduce, si può capire in che “idea” di Dio crede… se in un dio monadico, totalitario, autoritario, autosufficiente, autoriferito, ecc… o in un Dio di relazione, di pluralità, di custodia, di solidarietà, di collaborazione…
Un “dio per sé” ha infatti seguaci che vivono per se stessi; un “Dio per gli altri” ha seguaci che vivono per gli altri…

martedì 29 maggio 2012

Trinità

Chiuso il Tempo di Pasqua con la celebrazione della Pentecoste, Lunedì è ricominciato il Tempo Ordinario, che avevamo già incontrato nelle Domeniche tra il Tempo di Natale e quello della Quaresima, e che ci accompagnerà fino alla fine di questo anno liturgico, cioè fino a quando, con il prossimo Avvento, inizierà l’anno nuovo: abbiamo perciò davanti a noi circa sei mesi di Tempo Ordinario.

Ma chi si aspettava, già per questa prima Domenica dopo Pentecoste, una Liturgia della Parola “ordinaria” (e magari ne aveva anche un po’ nostalgia…), dovrà invece fare i conti col fatto che la Chiesa ponga proprio in questa Domenica (e anche nella prossima, quando celebreremo il Corpus Domini) una delle solennità più significative per la comprensione del mistero cristiano: la Trinità.

È di questo dunque che dobbiamo parlare oggi…

…anche se non nascondo una certa resistenza nel farlo, perché mi pare che la precomprensione un po’ semplicistica e materialistica che abbiamo di questi contenuti di fede, sia davvero troppo invincibile perché si riesca a fare un discorso capace di incidere sul nostro vissuto.

Cosa intendo dire?

Che la situazione di una persona di cultura cristiano-cattolica che sente parlare di “Trinità” potrebbe essere tratteggiata in questo modo:

1.      il rimando immediato e istintivo che ha, di fronte a questa parola, non è il vangelo, ma il Catechismo (che non è solo una questione di copertina del libro…);

2.      la sensazione prima è quella di essere di fronte a qualcosa di “pericoloso”, su cui non si può scherzare, né fare domande: c’è di mezzo l’eresia e l’atavica paura cattolica di fronte ad essa (perché voleva dire morire… sul rogo!);

  1. il mistero della Trinità perciò non va indagato, ma “preso”, più o meno con le stesse modalità con cui si terrebbe in mano una scoria radioattiva;


4.      e se mai salisse alla mente una domanda sul significato di questa parola “strana”, essa verrebbe immediatamente bypassata ricordando che il “mistero della Trinità” non per niente si chiama “mistero” e che se proprio si vuole dire cosa significa, basta guardare al dogma: “Un unico Dio in tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo”…

  1. e se ci sentiamo ancora quelli di prima… amen… vedi il punto 3.



Forse esagero un po’… ma la mia impressione è proprio questa… che tutti conosciamo questa parola, tutti sapremmo ripetere il dogma, tutti saremmo pronti a difenderlo con le unghie, ma poi…

… poi questa cosa non si declina in nessun modo nel nostro agire, pensare, parlare… cioè: non ha incidenza alcuna sul nostro vivere da uomini e da cristiani.

Forse allora è necessario provare a partire da un altro punto di vista, che è poi quello da cui è partita la Chiesa: e cioè che Gesù nella sua storia ha parlato (nel senso forte che si può dare a questo verbo) del Padre e dello Spirito, anzi, più radicalmente si è detto (ha detto – agendo – di sé) sempre in relazione al Padre e allo Spirito, quasi che la sua identità non fosse dicibile se non dentro a questa relazione. Gesù è cioè chi non può essere detto senza contemporaneamente dire Padre e Spirito.

Allora, è dentro a questa dinamica che siamo chiamati ad immergerci (battezzarci), abbandonando la visione “cosale” della Trinità (Dove stanno? Come fanno a essere uno e tre? Come devo rivolgermi loro? Sempre con in testa il Padre con la barba, Gesù lì con Lui nell’alto dei cieli e lo Spirito che non si capisce bene se è lì o qui o un po’ qui e un po’ lì…) per accedere ad una prospettiva relazionale, per la quale io – come uomo – non posso dirmi se non in relazione a Dio, che a sua volta non può che essere Padre (pensabile sempre e solo come in relazione al Figlio e allo Spirito), Figlio (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e allo Spirito) e Spirito (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e al Figlio).

venerdì 28 maggio 2010

Dio è la non-solitudine che si riversa su tutti

Domenica scorsa, con la celebrazione della solennità di Pentecoste, si è chiuso anche per quest’anno il Tempo di Pasqua. Lunedì è infatti ripreso il cosiddetto Tempo Ordinario. Eppure, in questa prima domenica dopo Pentecoste, ci ritroviamo subito a festeggiare un’altra solennità: quella della Santissima Trinità. Non è facile “star dietro” a tutte queste feste (ascensione, pentecoste, trinità…), una dietro l’altra, perché i misteri che vogliono celebrare sono davvero grandi… e soprattutto sono impastati di così tante precomprensioni culturali, che – a volte – già solo nominarle, fa scappar via la gente…

Per esempio… parlare di Trinità non è così immediatamente agevole… si rifugge all’idea di provare a spiegare o spiegarsi cosa stia realmente dietro a questa parola, che non è nemmeno biblica… istintivamente vengono in mente piroette filosofico-teologiche che tutti sentiamo come assolutamente estranee, estrinseche, lontane, incomprensibili… con nessuna incidenza o significatività per la concretezza e quotidianità della nostra vita…
E allora m’è perfin venuto da chiedermi: “Ma perché la Chiesa celebra questa festa”, “Perché mi costringe a riflettere su ‘questa cosa’ così complicata?”… E la risposta che mi son data, mi ha fatto quasi sorridere nella sua semplicità ed evidenza così spesso dimenticate o offuscate da tante impalcature intellettualistiche che i secoli passati ci hanno montato nella testa: “La Chiesa celebra questa festa e parla di Trinità, semplicemente perché è ciò che emerge dal vangelo. La Chiesa parla di Trinità perché Gesù, oltre che di sé, ha parlato del Padre e ha parlato dello Spirito”.
E non lo ha fatto occasionalmente, o per inciso… Ma tutta la sua vita è come sostenuta da una passione “urgente” di rivelare il Padre, di farlo conoscerlo, di farlo vedere («La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato», Gv 14,24); e da una “fissazione quasi ossessiva” per l’annuncio del dono dello Spirito («Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me», Gv 15,26).
È per questo che parliamo di Trinità! Perché Gesù non ha semplicemente parlato di sé come del Messia o del Dio fattosi uomo, ma ha contemporaneamente parlato (con le parole e con la vita) di un Padre e di uno Spirito…
Un annuncio che poi la Chiesa ha condensato nel dogma niceno del Dio uno (nella sostanza) e trino (nelle persone). Ma – appunto – diversamente da quanto noi spesso facciamo (e in parte nei secoli passati anche la chiesa ha fatto) è il vangelo a dare la misura e il senso al dogma, non il contrario: per cui di fronte alla solennità della Trinità il nostro pensiero non deve immediatamente andare a chissà quale congegno intellettualistico partorito dall’uomo per tentare di spiegare (inventarsi?) dio; quanto piuttosto alle parole di Gesù, che indubitabilmente fanno con costanza riferimento al Padre ed allo Spirito. È lui – che noi crediamo l’insuperabile rivelazione di Dio – che ci ha parlato dell’intimità di Dio in quei termini. Tra l’altro all’interno di un contesto in cui non era facile elaborare una “teoria” del genere: siamo infatti nella culla dell’ebraismo, religione che tutti ricordano e riconoscono come il primo grande e ferreo monoteismo della storia. Una religiosità che non a caso ha nel primo dei suoi dieci comandamenti, precisamente la “blindatura” della sua rigorosità in materia: «Non avrai altro Dio»!
Ma… se tutto questo è vero… la domanda diventa: “Cosa ha dunque detto Gesù del Padre e dello Spirito?”.
Evidentemente non possiamo qui ora richiamare alla memoria tutti i passi (espliciti o meno) in cui Gesù – vivendo – fa tralucere questa sua relazione intimissima col Padre («Chi ha visto me, ha visto il Padre», Gv 14,9; «io sono nel Padre e il Padre è in me», Gv 14,11; bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, «e come il Padre mi ha comandato, così io agisco», Gv 14,31), che è lo Spirito… Ma possiamo certamente annotare come “premura incalzante” di Gesù sia quella di annunciare agli uomini la loro non - orfanità: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18).
Dire che Dio è Abbà e dire che il ritorno di Gesù a lui non è abbandono, ma assenza colmata («io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) è il vangelo di Gesù, la sua buona notizia. Dire “trinità” è dire non-solitudine: questo è Dio per Gesù, una non-solitudine che vuole coinvolgere l’uomo, perché non sia e non si senta mai (mai più) solo, nemmeno di fronte alla morte, che è così paurosa perché – per quel che vediamo noi – è solitudine estrema, eterizzata, abbandonata…
La non-solitudine che invece è il Dio che ci ha raccontato Gesù è relazione da sempre e per sempre. Questo è Dio: relazione da sempre e per sempre. E non una “relazione qualsiasi”…
Per specificarla dovremmo forse dire “una relazione d’amore”, ma quest’ultima espressione risulta così abusata da non essere più in grado di dire e significare niente… o tutto e il contrario di tutto, che è poi lo stesso…
Diciamo allora che è “relazione decentrante” – che è lo stesso che dire “amore” ma con un termine un po’ meno noto e dunque, forse, meno scontato –, relazione cioè in cui si vive della custodia dell’altro (degli altri) e per la custodia dell’altro (degli altri); dove quindi non sono io a dovermi pre-occupare di me, perché è il bene degli altri che mi “tiene”, ma devo piuttosto pre-occuparmi degli altri, perché siano “tenuti” da me… Dio è questa “cosa” qui; tra l’altro circolare (ha tre persone coinvolte) e non solamente reciproca (relazione a due): perché è come se il bene che i due (Padre e Figlio) si vogliono, straripasse al di là dei confini del loro rapporto e diventasse a sua volta terzo elemento del rapporto (Spirito) “sovrabbondante”, che ingenera una specie di reazione a catena coinvolgendo sempre qualcun altro… Come quelle particelle che si liberano nelle reazioni chimiche e vanno ad innescare altre reazioni, che a loro volta liberano un sovrappiù di “particelle” che andranno ad innescare nuove reazioni… e così via… a catena…
E questa storia – che è la stessa del dogma niceno, solo raccontata con parole più laiche e più riconoscibili dalle orecchie dei giorni nostri – non è quella che a me è piaciuto inventare o che a qualche padre conciliare è piaciuto ipotizzare 1700 anni fa (il Concilio di Nicea è del 325): è la storia che è piaciuto narrare (vivendola) a Gesù di Nazareth, che noi crediamo essere il Figlio di Dio e la sua piena rivelazione… Dio è la non-solitudine, è l’esserci per l’altro…
Ma se questo è vero – e lo è radicalmente – allora bisogna essere coraggiosi fino in fondo: «A ben vedere, [infatti] ogni tentazione cristiana (e, a livello inconsapevole, ogni tentazione umana) è una tentazione antitrinitaria. Ogni totalitarismo, che censura le differenze per esaltare un solo valore; ogni spiritualismo che deprezza la carne e la debolezza ad essa legata, esaltando superuomini; ogni materialismo che seppellisce il seme dello Spirito e il suo gemito nascosto nel cuore dell’umanità; ogni lucignolo di verità spento in nome delle verità più grandi; ogni uomo isolato o perseguitato per le sue idee o la sua diversità; ogni debole oppresso dalla prepotenza di altri uomini; ogni bimbo che non può crescere e gioire a causa del nostro egoismo… è una bestemmia contro la Trinità. Noi cristiani, cui questo mistero è affidato, ne abbiamo fatte e dette tante di queste eresie storiche - e Giovanni Paolo II ne ha chiesto perdono a tutti più di cento volte… Ma è pure vero che un’innumerevole folla di martiri ha testimoniato il rifiuto della prepotenza politica o ideologica di capi, re e imperatori. Generazioni di credenti, laici e consacrati, famiglie e chiese, hanno sfidato la logica del potere e del danaro…e hanno seminato nel mondo il fermento del primato della persona, e quindi l’accudimento del malato e del debole, l’assistenza e l’istruzione del meno fortunato, l’ascolto e il rispetto di tutti i pareri diversi…» [Giuliano].
È ben vero allora che l’idea di Dio che abbiamo in testa non è ininfluente sulla vita che costruiamo (foss’anche l’idea che Dio non c’è – perché anche questa è un’idea di Dio…), ma anzi: dall’idea di Dio che uno ha in testa, si capisce anche che uomo egli è; e viceversa, ovviamente: da che vita uno conduce, si può capire in che “idea” di Dio crede… se in un dio monadico, totalitario, autoritario, autosufficiente, autoriferito, ecc… o in un Dio di relazione, di pluralità, di custodia, di solidarietà, di collaborazione…
Un “dio per sé” ha infatti seguaci che vivono per se stessi; un “Dio per gli altri” ha seguaci che vivono per gli altri…

domenica 9 maggio 2010

Ridisegnare la Storia col soffio dello Spirito

Perché a me? Perché a noi?...
Il contesto del Vangelo di oggi è quello dell’ultima cena secondo il racconto del Vangelo di Giovanni. E fa parte di quella sezione che gli studiosi chiamano per convenzione (e impropriamente in quanto come lui stesso dice, non se ne va: l’andare al Padre non vuol dire che si “assenta” dalla nostra storia…) “discorsi di addio”.

Qui siamo nel primo di questi discorsi che inizia in Gv 13,31. Bisognerebbe ricollocarsi esistenzialmente in quel contesto per cogliere in tutta la sua profondità ciò che Giovanni ci vuole trasmettere in ciò che dice e fa Gesù…

Il brano riportato nella liturgia è propriamente parlando una risposta di Gesù alla domanda di un discepolo (Giuda, non l’Iscariota che è già “uscito”). La domanda era: «Signore come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». La risposta di Gesù nel dare un senso nuovo alla domanda, dà la chiave di lettura di come sarà possibile il suo “manifestarsi al mondo”…

Se uno mi ama, osserverà la mia parola
Gesù mostra che la fede non nasce da una evidenza, da una cogenza alla quale non ci si può non consegnare: nemmeno la resurrezione lo è! Non esiste un miracolo capace di “costringere” alla conversione. La fede – questo è il bello della fede – è un atto di amore, un atto della libertà che si apre all’incontro-conoscenza con l’altro generando comunione. Non è un “aderire a un’idea” o peggio a “una dottrina” e men che meno una “costrizione”. La fede è un fidarsi-affidarsi che nasce dall’amore che si fa storia comune. In questa risposta Gesù unisce fede-speranza-carità come dimensione profonde della relazione tra l’uomo e Gesù (e, a partire del suo amore per noi che precede e rende possibile il nostro, tra i discepoli cfr 13,34ss).
Il punto di partenza quindi è l’appropriazione personale della sua parola: questo è l’Amore secondo Giovanni. Amare Gesù è vivere della sua Parola al punto da non poterne più fare a meno, se non un sentirsi “morire dentro”. Osservare i comandamenti (v. 15) e osservare la sua parola non hanno niente a che fare per Gesù (e Giovanni!) con “l’osservanza materiale di precetti” ma indicano un rapporto vitale con la parola (logos-dabar) che produce comunione, condivisioni di vite e sequela…
Il manifestarsi di Gesù è un manifestarsi possibile solo a coloro che “gli si fanno suoi”, che accettano di farsi suoi… per questo chi non lo ama, “non può” vivere della sua parola e quindi “non lo può” conoscere (il binomio “conoscere-amare” e “non conoscere-odiare” è fondamentale in tutto il Vangelo di Gv fin dalle sue prime battute nel Prologo cfr anche oltre ai capitoli 13-17 ad esempio il c. 10 sul rapporto d’amore – conoscenza reciproca – tra le pecore e il pastore)…

L’amore per il logos di Gesù è l’amore per Gesù, Logos del Padre, e quindi è nello stesso tempo amore per il Padre… Amore che è dono dello Spirito d’amore tra il Padre e il Figlio e i figli.

Per questo, questo amore, questo vivere della sua parola, è comunione col Padre e col Figlio che si fa presenza concreta, dimora reciproca, reciproco dimorare l’uno nell’altro, reciproca inabitazione, con-vivenza sponsale (cfr il segno-simbolo – sacramentum – del matrimonio) di reciproca conoscenza…
E questo è lo Spirito, Amore tra il Padre e il Figlio e i figli, che alimenta e si alimenta del nostro reciproco vivere l’uno dell’altro, degli uni negli altri, degli uni per gli altri… per questo lo Spirito ricorda e insegna l’amore-parola di Gesù che è Gesù stesso perché Gesù è la sua parola in quanto è tutto in tutto quello che fa e che dice… Il ricordare dello Spirito allora non può essere nel senso biblicistico di riportare a memoria qualcosa che si è dimenticato (es una citazione biblica) o di rivivere la nostalgia di un tempo passato (es il periodo storico di Gesù o di un’epoca “d’oro” della Chiesa), ma un riportare a reciproca presenza, un ripresentare l’uno all’altro il volto dell’uno e dell’altro, per rivitalizzare, vivificare, mantenere in vita l’amore dell’uno per l’altro, il vivere dell’uno con l’altro. Questo “ricordare” dello Spirito, fa dello Spirito il paraclito per l’uomo, cioè consolatore (testimone alla coscienza credente della promessa del Padre che si attua nella storia, e per questo dà forza e coraggio, esorta e spinge all’azione nella storia) e in Dio è colui che intercede per noi con gemiti inesprimibili. Questo significa il ricordare la parola di Gesù: rivivere alla presenza nostra e del Padre l’azione liberante del Cristo…

Tempio di Dio
Questo è il dono più grande, che fa del discepolo il luogo della comunione con Dio, il luogo della presenza di Dio vivente, tempio vivente del Dio vivente.

Per questo il discepolo non può che rallegrarsi del fatto che il Signore vada al Padre, perché solo così la sua presenza diventa definitiva. Perché il suo ritornare col Padre diventi presenza tangibile nel dono dello Spirito per la vita di ogni uomo di ogni luogo e di ogni tempo, senza più i limiti sensibili della dimensione spazio-temporale.

Questa presenza, questa inabitazione reciproca di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio, attuata dall’amore alla sua parola, fa dell’uomo un creatura nuova, autentico «sacramento di Cristo» (M. Magrassi, Vivere la chiesa, 113).

Ciò che Gesù afferma nel Vangelo è descritto con un linguaggio profetico, apocalittico nella seconda lettura. Qui dobbiamo uscire da un equivoco… Se è vero che il libro dell’Apocalisse dà una chiave di lettura della storia in prospettiva escatologica (a partire dal suo fine), questo non vuol dire che ciò che è descritto come “compimento” non sia già una realtà vissuta e sperimentata dal cristiano fin da ora… Anzi il compimento è possibile, proprio perché ciò che deve compiersi alla fine della storia è già pienamente presente nella storia: nulla le manca per poter giungere al proprio compimento!

Per capirci possiamo fare una analogia con la persona di Gesù: il suo “tutto è compiuto” sulla croce, non vuol dire che egli non fosse pienamente figlio anche prima! Anzi il suo vivere pienamente da figlio prima della croce rende possibile fare la volontà del Padre fino al suo compimento!

Altrimenti il libro dell’Apocalisse sarebbe l’unico libro della Bibbia che propone una visione “alienante” della storia presente: una fuga dai problemi dell’oggi nell’attesa di una promessa “oltre la storia”…

La “Gerusalemme celeste” (con tutto quello che nella simbolica dell’Antico e Nuovo Testamento rappresenta), lungi dall’essere allora una realtà da contrapporre alla “Gerusalemme terrestre” è quella dimensione già ora presente nella storia in coloro che vivono della parola dell’Agnello… e diventano comunione e tempio della presenza di Dio in mezzo a noi. Siamo ben lontani dalla contrapposizione agostiniana.
E come domenica scorsa ci ricordava il Vangelo (Gv 13,35: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri), il discepolo non è colui che appartiene a questa o quella istituzione ecclesiale o religiosa, ma è colui che vive di questo amore lasciandosi abitare dall’amore di Cristo, che è, ci ricorda il Vangelo di oggi, amore alla sua parola, al suo logos, al suo dabar. Perché la sua parola ha in sé la capacità di rendersi “amabile” in quanto ci rivela (ricorda) il volto del Padre nel volto del Figlio per l’azione dello Spirito.

L’azione dello Spirito nella storia: l’incarnazione della Parola nella vita dei discepoli
I discepoli allora costituiscono una comunità, come una città che «non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna» perché «la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello». La Parola abita il discepolo perché il discepolo la abita, vive della Parola e nella parola, per questo non c’è tempio: «il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio». Tempio del discepolo è la Parola vivificata dallo Spirito.
Ora tutto questo prima di essere una promessa futura, è già una realtà vissuta dal cristiano-discepolo… che si attua storicamente e giunge fino a noi anche nella testimonianza della vita della comunità credente, fin dai suoi albori: Come ci è descritto anche dalla prima lettura di oggi, tratta dagli Atti degli Apostoli, dove gli Apostoli mostrano un coraggio inaudito!

Di quale coraggio si tratta?… Il brano ci parla di un concreto problema: cosa devono fare i pagani per convertirsi al Cristianesimo? Devono o non devono aderire in toto agli insegnamenti della Torah? Che si noti bene: data da Dio stesso!

Inoltre, Gesù non era forse ebreo? Certo che sì e osservava tutti i precetti della Torah ed era circonciso! E disse che neanche uno iota della Torah passerà… Dunque pare evidente che se un pagano vuole farsi cristiano deve fare come Gesù e quindi convertirsi nello stesso tempo all’ebraismo!
Gli apostoli stessi erano ebrei, circoncisi e praticanti: ancora negli Atti si vede che per la preghiera, come ogni pio israelita si recavano al tempio e alla sinagoga…
Quindi sembrava logico, che chiunque venisse da un’altra cultura, da un’altra religione, da un’altra etnia, dovesse prima di tutto inserirsi, nella religione, nella cultura e nell’etnia giudaica… Non è forse lo stesso ragionamento di molti cristiani che trovano ovvio pretendere ad altri la propria “superiore cultura cristiana”?…

Aperti alla storia di ogni uomo
Invece gli apostoli facendo un salto culturale senza precedenti, manifestano un coraggio inaudito che li rende capaci, lasciandosi guidare dallo Spirito di Cristo, di “staccarsi”, di andare oltre, persino al Cristo secondo la storia… per entrare nella prospettiva del Cristo secondo la gloria.

Ecco in che cosa consiste, concretamente, il lasciarsi guidare, illuminare, soltanto dallo Spirito di Cristo che fa rivivere in noi la sua parola: avere il coraggio di andare oltre persino alla propria storia, al proprio cammino storico-culturale di fede, per saper dare risposte nuove a domande nuove, che i problemi nuovi dell’incontro con l’altro propone alla nostra storia quotidiana…
Non esistono risposte che vanno bene per tutte le domande, per tutti i periodi storici, per ogni uomo e donna, per ogni situazione… Il dono dello Spirito che rivitalizza la parola-azione di Cristo nella storia della comunità credente, rende capace l’uomo di una libertà inaudita persino rispetto alle proprie più sacre tradizioni…

Sulle ali dello Spirito…
Il cammino fatto fin qui di comprensione della “parola” che la Chiesa ci propone nella liturgia odierna, ci dice quanto il nostro vissuto ecclesiale debba maturare per vivere questa realtà e questo coraggio che nascono dall’amore alla Parola… In nome della Tradizione, spesso si è voluto giustificare il nostro tradimento all’amore per la Parola di Gesù.
Quante volte diciamo che una cosa non si può fare perché nella Tradizione non è mai stata fatta… quante volte abbiamo detto di non sentirci autorizzati a cambiare quello che hanno deciso gli Apostoli… Gli Apostoli stessi invece ci mostrano, in quello che è il Vangelo della Chiesa, che non solo si può, ma – perché la salvezza di Cristo raggiunga ogni uomo nell’oggi della storia – addirittura si deve! Questo è il “comandamento” dell’amore! Che diffonde nel mondo il “rallegrarsi” dei discepoli e non “intristisce lo Spirito” liberandone la forza creativa.

Ma anche nel nostro vissuto familiare, spesso noi adulti, abbiamo rifiutato l’incontro con i nostri figli e nipoti (per parlare di persone che pretendiamo amare), semplicemente perché andare incontro a loro, capire veramente le domande del loro cuore e concordare con ciascuno di loro percorsi educativi per una ricerca comune di una risposta adeguata, avrebbe richiesto l’uscire dai nostri schemi, dalle nostre certezze, dai nostri innegoziabili principi… maschere delle nostre paure, frutto della nostra mancanza di fede e di amore verso la Parola ri-creatrice!

Ciò che l’amore alla Parola di Gesù ci propone invece è di rivivere l’esperienza di Gesù che si aperto all’incontro con l’altro anche a costo di diventare un “maledetto da Dio” (e maledetto dalla sua comunità credente!) avendo come solo conforto (paraklesis) la testimonianza del nostro amore per la sua Parola attestato nella nostra vita dallo Spirito Paraclito donatoci dal Padre… e da noi “riconsegnato” al Padre e al mondo.

venerdì 5 giugno 2009

È tempo di bilanci...

È tempo di bilanci… l’anno (almeno quello scolastico, su cui però si ritma anche la vita di chi a scuola non ci va più) sta per finire; è finito anche il Tempo di Pasqua… per la sottoscritta si è anche completato proprio in questa settimana il ventisettesimo anno di età… Inevitabile dunque diventa il fare una sosta, non tanto per guardare a cosa si è fatto e cosa si deve fare, in cosa si è riusciti e in cosa si è falliti, cosa è andato bene e cosa è andato male… quanto piuttosto per guardare chi si è diventati, chi siamo (nel profondo) e quanto il lento percorso di immersione nello Spirito di Cristo, nel prendere cioè conformazione cristica, nel vivere una vita secondo il Vangelo si sia dato… quanto cioè questa logica, questa mentalità, questa dinamica, abbia pian piano – goccia dopo goccia – corroso la nostra impalcatura egoistica e autoreferenziale, sempre ansiosa di salvare se stessa, e abbia lubrificato invece i canali della donazione di sé, della voglia di spendersi per il bene altrui, del desiderio di un mondo migliore, per tutti…
E in questa analisi, alla ricerca della verità di noi, dell’identità bella che ogni tanto scordiamo e sporchiamo ma che Qualcuno tiene sempre per noi, della felicità vera che sa solo d’amore, mi pare che le letture di questa domenica in cui si festeggia la santa Trinità possano davvero aiutarci. In esse infatti è quasi racchiuso un sunto della storia della salvezza, della storia della salvezza universale e della storia della salvezza personale, del sogno di Dio su ciascuno dei suoi figli…


La prima lettura dal libro del Deuteronomio fa infatti risuonare l’inaudita notizia che scaravolta tutto l’impianto religioso umano: è quella di un Dio in cerca dell’uomo, «Ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?».
Di fronte al sempre riemergente desiderio dell’uomo di arrivare a Dio, di mettersi alla ricerca di Dio, di inventarsi modi, gesti, parole, sacrifici, riti per raggiungerlo, il messaggio biblico inverte i termini in gioco: la ricerca di Dio da parte dell’uomo è illusione, proiezione, sete di potere, dominio sugli altri… è Dio piuttosto che cerca l’uomo. E come scrive Armido Rizzi questo «Non è un ritocco: è un capovolgimento»…
Anche perché questo ribaltamento non è vago, non è una ricerca dell’uomo (da parte di Dio) di cui non si sa bene lo scopo… Esso è invece chiaramente dichiarato, appassionatamente ribadito e mai smentito: «perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te»!
È un capovolgimento perché… pensate se davvero ci credessimo… se davvero per un attimo dessimo credito a questi tre primi guadagni che le Scritture ci forniscono: non c’è bisogno di fare chissà cosa per cercare e trovare Dio, è Lui che è in cerca di noi; e ci cerca perché vuole la nostra felicità… Proviamo cioè a fare il percorso inverso del moderno che ha costruito il mondo etsi Deus non daretur: noi proviamo a pensare la nostra vita etsi Deus daretur, e non un Deus qualsiasi, ma questo Dio, quello di Gesù… Proviamo cioè a “far finta” che Dio ci sia per davvero, che sia proprio il Dio d’amore che ci ha rivelato suo Figlio: come cambierebbe il nostro orizzonte di senso, i nostri criteri per scegliere, l’impostazione della nostra vita… come cambieremmo noi!!!
Eppure… Ogni volta che queste cose si scrivono o si dicono… si ha sempre come la percezione di non riuscire a farsi capire… Forse di non capire fino in fondo neanche noi… Perché è come se immediatamente, non si sa bene da dove, emergesse un rigurgito nauseabondo: “Siamo stufi di sentirci ripetere che Dio è amore, ci cerca, ci vuol bene, ci vuole felici”… Siamo stufi perché di fatto questa è una notizia che non ha nessuna incidenza sulla nostra vita… Dopo che so che Dio mi ama? Devo continuare ad andare a lavorare, faticare per la realizzazione dei miei sogni (che chissà se si realizzeranno mai…), litigare, questionare… è un annuncio che ha perso completamente incidenza sul quotidiano, quando addirittura non diventa fastidioso, non suscita forme di ribellione, di disprezzo: “Basta con quelle finte pacche sulle spalle e quei finti luoghi comuni basati su una presunta benevolenza divina con cui spesso si risponde ai drammi della vita”…
È per questo perenne rischio di essere fraintesi, che forse molti oggi tacciono… è perché non si sa più dire che credere vuol dire dar credito a quelle tre frasi messe sopra, che si tace l’invito alla fede, certi che la gente capirebbe – giustamente dal suo punto di vista – tutt’altro… si tace perciò l’annuncio di quell’amore, che aveva tutt’altro significato, ma che si è svilito, consunto, quasi rovinato e se suscita reazioni sono quelle di qualche gruppo di spiritualisti esaltati o di qualche ferito dalla vita infastidito da un Dio che ama tutti tranne lui…
Eppure… eppure per chi questo amore l’ha incontrato nella carne, la prospettiva è diversissima… Ci sono alcuni che queste stesse parole non le travisano, ma le sentono nello stesso nostro univoco senso… sono i privilegiati, che – proprio perché testimoni in prima persona – continuano caparbiamente a non soccombere alla mentalità di morte, sfiducia, rassegnazione che ci sta crescendo intorno… Come in quella vecchia storia in cui un branco di cani segue la volpe e dopo un lungo correre e correre e correre, solo quelli che avevano davvero sentito l’odore non desistono… Gli altri correvano perché avevano visto i loro simili correre, ma non avevano sentito l’odore… e si son fermati…
Chi ha sentito l’odore non è più bravo, è solo più fortunato… è per questo che ha un compito preciso, che è quello di non desistere nel raccontare di quell’amore a cui gli altri non credono più, perché non l’hanno sentito… non desistere nel raccontare di quell’amore nato dal cuore stesso di Dio e tutto dedito al bene dell’uomo, tutto dedito a riversarsi su altri perché – ci dice sempre la Scrittura di questa domenica – così è la natura stessa di Dio. Egli non è un’unità monodica e statica e sola e noiosa… è una dinamica a tre, una “fornace trinitaria” – la chiama qualcuno –, un circolo e ricircolo di energia amante.
Ecco perché l’inaudita notizia non può essere fraintesa… non si tratta di un Dio che sta lassù nell’alto dei cieli e solo nominalisticamente continua ad amare l’uomo in una maniera impercettibile, insignificante, in fin dei conti, inutile… con un amore così appiattente e ripetitivo da risultare noioso… quasi da rifuggire… come – per ridere – spesso emerge dai nostri discorsi quotidiani: “Che noia stare in paradiso tutta l’eternità…”.
La notizia inaudita è piuttosto che il desiderio di Dio è che l’uomo entri a far parte di questo circolo trinitario, che cioè non semplicemente sia un contenitore anonimo in cui è versato l’anonimo amore di Dio, insignificante per la quotidianità del contenitore, ma che l’uomo nella sua singolarità e irripetibilità è chiamato attivamente a far parte di quel ricircolo amoroso che vuole inondare il mondo: «Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo»!
È l’inaudita notizia che un mondo diverso è possibile, che logiche diverse sono possibili, che (almeno) pezzi di Regno sono realizzabili! Detto laicamente: che davvero la vita può essere bella! Non perché senza dolori e problemi, ma perché davvero tenuta in mano dall’energia cristica intrastorica, che è lo Spirito, che è l’amore, che “non fa da sé”, ma coinvolge me: «Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito». Il capovolgimento di cui si parlava all’inizio infatti è quello per cui non solo – come chiunque può dire – a noi interessa di Dio (perché potrebbe essere quello che ci salva la vita), ma a Dio interessa di noi! Nella nostra storia, ne va di Dio! Questo è il messaggio di Gesù: «l’originario divino si riferisce all’uomo come a chi Lo riguarda, Dio prende in conto cosa l’uomo man mano iscrive nel tempo» [Ubbiali].
Ma come convincere i cani che non hanno sentito l’odore della volpe a continuare a correre? Non serve inondarli di parole, di discorsi, di mezzi poco puliti perché alla fine ci seguano… Bisogna escogitare modi perché sentano l’odore… ecco perché la Chiesa ha bisogno di modalità nuove di immersione della gente nello Spirito… Ecco perché il comando finale e di sempre di Gesù è di andare per tutto il mondo ad immergere la gente in questa fornace amorosa che è il continuo scambio tra il Padre, il Figlio, lo Spirito e ciascuno di noi: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli (= immergendoli) nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»!
«Insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato», aggiunge l’evangelista Matteo… che guarda caso è nuovamente l’amore… l’amore capace di darsi fino alla morte per il bene altrui: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Ma, ancora una volta, non un annuncio da vivere in solitaria, ma dentro ad una dinamica collegiale: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

La sorgente dell’amore!

«Andate, consegnate e fate ripetere le mie parole a tutte le genti. Immergetele nel Nome del Padre, Colui che crea parlando; del Figlio, la Parola creatrice che il Padre pronuncia sempre nella materia vivente; dello Spirito, l’energia divina vivente che guida il creato verso la sua trasfigurazione»
Il segno e le parole del “Dio cristiano”
…ci sono voluti solo pochi anni dalla morte e resurrezione di Gesù perché già si battezzasse e si celebrasse l’eucaristia nel segno e nel nome di questo Dio “Padre e Figlio e Spirito Santo”.
…ci vorranno più di tre secoli perché concili ecumenici, vescovi e teologi, con grande fatica e conflitti, affinino la loro comprensione del mistero trinitario, il mistero centrale della fede cristiana, fino ad elaborare un “simbolo della fede” che esprima senza devianze né censure il cuore dell’intimità di Dio stesso, fin da quando ha tanto amato il mondo da mandare il figlio suo unigenito per salvarci… e in lui, Gesù, abbiamo intravvisto colui dal quale veniva e verso il quale tutti, con il suo Spirito, camminiamo.
… ci sono voluti millenni, anche se stava scritto subito da principio che “Dio è amore”, perché il lungo percorso socioculturale dei cristiani riuscisse a integrare (e siamo solo all’inizio!) ciò che nel lungo peregrinare dell’umanità era faticosamente emerso in Cristo; ciò che “i profeti di ogni popolo e nazione ” hanno sempre intuito e testimoniato… al di là di tutte le amare e talora sanguinose smentite storiche: che l’arma più efficace di trasformazione del mondo è l’Amore, perché è l’essenza stessa di Dio. E dunque, in Dio c’è movimento del cuore, c’è relazione plurale… ci sono volti che si amano… un Io, un Tu, un noi . Come dire che “amare”, in Dio, non è solo ciò “che si fa”, ma “ciò che si è”! Credere in lui vuol dire aprirsi, lasciarsi avvolgere e impregnare, seppure nelle dosi minuscole a noi accessibili, dal suo “intimo infinito circuito di benevolenza divina” nella storia… Questo doveva essere la missione della chiesa, portatrice del mistero cristiano: andate… fate discepoli tutti i popoli… battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Cosa abbiam capito del mistero di Gesù nella storia
Oggi la chiesa celebra, a sintesi del ciclo pasquale, la festa della Trinità: un Dio che è, dunque, comunione, relazione, famiglia… Padre, Figlio e Amore che spira tra loro, per usare le parole umane che richiamano la nostra esperienza originaria di amore vitale. Non la solitudine di un motore immobile, ma una realtà dinamica, interpersonale, viva e relazionale. Dire …“Famiglia” o comunità, non vuol dire un’entità monolitica, statica: ma vuol dire tutto un insieme di desideri, di dinamiche, di rapporti, di situazioni… che abbiamo provato, per disporci ad accogliere infinitamente di più, come a noi si è rivelato in Gesù e nel dono del suo Spirito. Dio si è rivelato, così com’era… “nella sua economia”, direbbero i padri greci, cioè nella sua misteriosa e talora incomprensibile strategia di salvezza, come si è incarnata dentro la nostra storia – dove, con instancabile pazienza e ostinazione, ha combattuto contro le maschere che la paura e la volontà di potenza dell’uomo gli attribuivano. Un Dio sempre diverso, imprevedibile e incontenibile negli schemi umani, un Dio sperimentato e trasmesso come comunione di molteplici interventi e presenze, fraintendimenti e ricomprensioni. Un Dio, alla fine, annunciabile solo… nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo… Con queste parole cariche di senso i discepoli di Gesù hanno cercato di esprimere l’esperienza della fede a cui Gesù li aveva educati. Il mistero della Trinità è il germe segreto e potente che sta impregnando lo spessore storico della loro avventura umana sulla terra. La fede è il dono della consapevolezza e della partecipazione all’amore del Padre verso il mondo, realizzato in Cristo e in corso di elaborazione nello Spirito. Ma la comunità dei credenti, depositaria privilegiata di questo segreto, fa una fatica improba a convincersene e impegnarvi la vita, perché l’esperienza che chiameranno poi trinitaria sconvolge ogni barriera, ogni schema, ogni prudenza… come si vede negli “atti” degli apostoli e nelle varie lettere pastorali… dell’età sorgiva della Chiesa.
Missione trinitaria, missione universale
“Fermiamoci a considerare le parole che sono il centro della liturgia di questa domenica:
«Andate, consegnate e fate ripetere le mie parole a tutte le genti. Immergetele nel Nome del Padre, Colui che crea parlando; del Figlio, la Parola creatrice che il Padre pronuncia sempre nella materia vivente; dello Spirito, l’energia divina vivente che guida il creato verso la sua trasfigurazione» (cfr. Mt 28, 19). Traduzione un po’ lunga, ma necessaria per la liberazione dell’immagine trinitaria dagli algebrismi che sopra vi abbiamo costruito. Ho parafrasato le parole: «ammaestrate» con «consegnate e fate ripetere le mie parole»; Gesù non conosceva altro modo di ammaestramento che quello proprio della sua gente. Ancor oggi presso i popoli semiti, ebrei e arabi, l’insegnamento della Rivelazione è basato sulla ripetizione ritmica delle parole dei testi sacri; ripetizione che fa scendere le parole in tutto l’essere del recitante e lo predispone all’ascoltazione di Colui che le ha pronunciate e che, con voce percepibile dall’orecchio interiore, continua a pronunciare… «Battezzandole», dice la traduzione; essa limita la parola di Cristo al battesimo sacramentale; il verbo «immergetele», invece, comprende il primo ma anche molto di più: inondate il mondo con l’onda del Nome. Del Nome dal quale derivano tutti gli altri nomi, anche quelli del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. I nomi delle cose visibili e invisibili discendono dal primo ineffabile Nome; fermarsi a uno di essi è distaccarlo dalla sua sorgente, compiere atto d’idolatria, alterare l’armonia dei mondi. I credenti hanno la missione di immergersi e di immergere nell’onda trinitaria tutto il creato. Di vivere cioè la certezza di fede che il creato non è la risultante di un cieco impulso di cellule mosse dal caso o dalla necessità, ma lo straripamento di una Coscienza infinita che su tutti gli esseri amorosamente vigila: questa è la immersione nel Padre (Giovanni Vannucci, «La fioritura della vita», in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Festa della Santissima Trinità - Anno B; Pag. 97-100).
Evangelizzare – cioè educare ad amare…
La missione della chiesa – che inizia con questi primi discepoli di Gesù è dunque di annunciare l’amore che li ha chiamati, trasformati nel cuore e nella mente, e spediti nel mondo a “immergere” l’umanità… nel nome di questo Dio Padre e Figlio e Spirito santo. Tutto il resto è secondario e dipende da qui. “La carità (l’agape) è davvero il « cuore « della Chiesa, come aveva ben intuito santa Teresa di Lisieux, che ho voluto proclamare Dottore della Chiesa proprio come esperta della scientia amoris: «Capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d’Amore. Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa [...] Capii che l’Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l’Amore era tutto»… Che cosa significa questo in concreto? … Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come « uno che mi appartiene «, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni , per offrirgli una vera e profonda amicizia. (Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, §42s)
…alcuni però dubitavano.
È consolante che l’atteggiamento dell’animo dei discepoli, in questo momento solenne in cui “tutto” è affidato al cuore e alla responsabilità di Cristo, che se ne sta tornando al Padre, sia lacerato tra adorazione, cioè affidamento totale a lui, e dubbio… Dubitavano non tanto di Dio (allora era impensabile!) ma dubitavano se bisognasse proprio “passare” da un fede monolitica, unitaria, discriminante… ad una fede dinamica, evolutiva, trinitaria, macerata nella storia, e sempre daccapo da ricondurre al Padre, al Figlio e al loro Amore. E se bisognava lasciarsi recuperare sempre là dove la sorgente sembrava sparire, nelle discariche, vicino agli uomini scartati, come il fondatore della nostra fede, perché disomogenei alle architetture e dogmatiche dei progetti umani.
Non possiamo fermarci al Nome del Padre, ma vivere la realtà del Figlio. La realtà del Figlio è nel sentire che la terra, la carne, la materia sono il frutto della parola pronunciata da Colui che parla e crea, la sua corporificazione: la Parola si è fatta carne. Dal Figlio nasce l’amore per la terra, il coraggio di credere al suo destino, di amarlo, di anelare alla sua luminosa realizzazione. Amore che non è fine a se stesso, ma è chiamato ad andare sempre oltre, finché tutto non approderà nell’infinita coscienza, nell’infinito amore, nell’infinita libertà dei figli di Dio, immergendo in tal modo il creato nello Spirito” (Giovanni Vannucci, idem).

giovedì 15 maggio 2008

Santissima Trinità: l'affidabilità di Dio

Per introdurci nel nucleo di senso della festa che la Chiesa celebra in questa domenica, quella della Santissima Trinità, è fondamentale collocare nel suo contesto la prima lettura che la liturgia ci propone: i versetti che la compongono infatti (Es 34,4-6.8-9) sono l’ultima parte di una sezione ben più ampia (Es 32,1-34,35) che inizia con la fabbricazione del vitello d’oro.
Già questa annotazione fa intuire come il senso della collocazione di questo brano nella liturgia della parola della festa della Santissima Trinità, abbia il senso di spingere la riflessione sulla questione dell’identità di Dio: chi è il Dio vero? Chi è Dio?
E di fatti dire di Dio che è Trinità per i cristiani è dirne l’identità vera…
Ma procediamo con calma… soprattutto per evitare che gli echi estrinsecistici del parlare di Dio del catechismo ci fuorviino. La risposta corretta infatti è certamente che l’identità vera di Dio sia il suo essere uno e trino, ma al di là della formulazione dottrinale, il problema sta nel tentare di indagare cosa questo voglia dire.
L’incipit del brano di Esodo (32,1) mostra immediatamente il problema: «Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”».
Il monte su cui Mosè, a detta del popolo, si sta attardando è chiaramente il Sinai. Qui egli sta stringendo con Dio per il suo popolo l’alleanza, suggellata dal dono delle tavole della legge; infatti il versetto che immediatamente precede quello appena citato è il seguente: «Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Es 31,18).
Dato il contesto, ciò che è desolatamente disarmante è questa assoluta nonchalance con la quale il popolo chiede esplicitamente ad Aronne di fargli un dio: fatti da mano d’uomo infatti sono solo gli idoli, i falsi dei, quelli che secondo il profeta Baruc 6,50 «sono una menzogna; […] non sono dèi, ma lavoro delle mani d'uomo, privi di ogni qualità divina» e che proprio per questo a detta del Salmo 114,5-7 «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni».
La situazione appare dunque paradossale: mentre Dio sta stringendo col suo popolo per mezzo di Mosè sul Sinai la loro alleanza, lo stesso popolo chiede di farsi un altro dio, un dio finto; il tutto, tra l’altro, non in una situazione di totale inesperienza di Dio, bensì a liberazione avvenuta, a mirabilia Dei già mostrati: ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto!
Com’è possibile che il popolo sia arrivato a questo punto? Com’è possibile da un lato mettere in discussione Dio, il Dio conosciuto, il Dio con cui si ha già un rapporto, una storia, fatta di parole e segni, cura e protezione…? E com’è possibile dall’altro che su tutto questo prevalga la necessità di farsi un dio, un dio a misura di uomo, un dio che si può toccare, vedere, sul quale si possono cioè mettere le mani, sul quale si possono mettere gli occhi?
Stando alla Bibbia… dovremmo, dal nostro punto di vista, però, fare un po’ meno gli scandalizzati…
Già nelle sue prime pagine infatti essa ci rivela come questo sguardo ambiguo su Dio, questo metterlo in discussione, e insieme questa necessità di renderlo toccabile, visibile, contenibile, abbiano accompagnato l’uomo da sempre… anzi caratterizzano l’uomo di sempre… e dunque anche noi.
Gn 3 manifesta infatti che – come mostra in modo eccellente P.A.Sequeri ne Il timore di Dio, 53 - «il rapporto religioso con Dio si è inquinato, senza ragione e sin dall’inizio, tramite il credito che l’uomo ha concesso alla fantasia del serpente. E da allora ogni religione ne rimane inesorabilmente segnata, perché l’uomo viene alla luce in un mondo che ogni volta gli ripropone il sospetto al quale è sin troppo disposto a cedere: il sospetto cioè che il comandamento, invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione».
Ecco l’arcaico sospetto su Dio che ci portiamo dentro, che ci “trasmettono” quando nasciamo e che in qualche modo rilanciamo quando moriamo: che il suo volto sia ambiguo, che da lui – come ogni religione ha sempre pensato del suo/suoi dio/dei – ci possa venire tanto il bene, quanto il male. E a partire da questa atavica paura ecco tutti i tentativi di ingraziarsi dio/gli dei: prima in modi decisamente più triviali (i sacrifici, anche umani), poi in modi sempre più raffinati, ma non certo meno depravati (le preghiere, i fioretti…). Ma non solo… oltre ai tentativi di propiziarsi il divino, il sospetto che da esso potesse venirci tanto il bene quanto il male, ha determinato un’altra rovinosa conseguenza: il fatto che il pensiero si scatenasse in elaboratissime teorie per salvaguardare comunque il rispetto della divinità: e così sono nate le dottrine per cui se da dio ti viene il male, lo fa per motivi pedagogici, per darti cioè un insegnamento morale, un’edificazione spirituale; oppure le dottrine per cui dio infligge il male, ma per un bene maggiore… e via discorrendo su questo canovaccio…
Che non sono altro che i tentativi a posteriori di difendere dio nelle sue implicazioni col male: dando però come presupposto appunto che col male egli sia immischiato… che è l’anti-Vangelo.
Il punto infatti è che come scrive ancora Sequeri «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente». È quello che dicevamo anche per il popolo: nella concretezza il rapporto che avevano instaurato con Dio aveva parlato solo di liberazione, protezione, cura… «Lo spazio dell’incredulità, sin dall’inizio, si apre nell’immaginazione: non nell’esperienza».
Eppure: «Una volta che è stato portato alla luce, questo sospetto non ci abbandona più. Ogni uomo, almeno una volta, sperimenta il sentimento della possibile ambiguità di Dio».
Questa incredulità “cronica” è una dinamica antropologica che stupisce perfino Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,13). Anch’egli infatti sperimenta la crescente resistenza di fronte al suo annuncio, tant’è che diventa pretestuosa ogni cosa «persino la guarigione di un paralitico nel giorno sacro, o la restituzione di un amico morto all’affetto dei suoi cari».
«Ma la coscienza di Gesù appare folgorata dall’intenzione di attestare la verità di Dio sul principio di un’evidenza ‘entusiasmante’: prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano». Ecco la buona notizia di Gesù: che da Dio viene solo il bene per l’uomo! Che nessun uomo sulla faccia della terra deve inerpicarsi nell’avventura impossibile di salvarsi la vita («Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?», Lc 12,25), ma che essa è già amata, ben-voluta, salvata!
Non a caso infatti il Vangelo che la liturgia ci offre in questa festa, in cui siamo invitati in qualche modo a “sbirciare” nell’identità di Dio, proclama: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
Ecco il nocciolo radicale dove dobbiamo porre la nostra conversione!
Per farlo però bisogna ancora rendere ragione di due questioni:
1- Se da Dio ci viene solo il bene, come va inteso il “castigo” raccontato in Gn 3, che è uno dei testi che abbiam preso come riferimento?
2- Perché è così importante non sbagliare l’identità di Dio? Addirittura porre qui la nostra conversione (piuttosto che sul sesso, sulla politica, sui soldi)?
1- è ancora Sequeri a venirci in soccorso: «Da molti indizi comprendiamo quale attaccamento alla propria creatura percorra come un filo incandescente e luminoso la reazione di Dio: […] l’uomo e la donna non muoiono. […] La maledizione invece è per il serpente: […] una clamorosa e appassionata riconferma della superiore dignità della donna e della stirpe di lei (Gn 3,15). [Infatti] Dopo aver sperimentato la differenza della verità di Dio e dell’immagine del serpente, l’uomo si sente vergognosamente solidale col serpente. Dio ristabilisce la differenza, ponendo inimicizia fra il serpente e la donna. E l’ultima parola rimane all’uomo: e alla vittoria della sua specie su quella del maligno. Così d’un sol tratto, Dio ripristina la differenza di sé e della sua immagine creata: rispetto alla fantasia del serpente a riguardo di entrambi. L’immagine di Dio rimane quella della dedizione. La natura dell’uomo quella della comunione. […] L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde il serpente con l’uomo». Ecco il senso dei gesti di Dio riportati sul finale di Gn 3: l’inimicizia tra il serpente e la donna (la non confusione da parte di Dio del serpente con l’uomo), la fabbricazione delle tuniche di pelli per l’uomo e la donna (la dedizione di Dio per l’uomo), l’allontanamento dal giardino (la distanza tra Dio e immagine di lui che ne ha dato il serpente). Quanto ai dolori del parto, la fatica nel lavoro, ecc… sono «la percezione della incolmabile distanza che esiste fra la condizione limitata dell’uomo e la promessa iscritta nella creazione». L’uomo non è Dio! E tuttavia questo riconoscimento non è mortificante, ma vitale. L’uomo non è Dio, ma è uomo. E questa è la sua dignità. La sua personalissima destinazione!
2- Destinazione che può cogliere nella sua verità e trasparenza solo se colloca bene Dio: «è da ciò che l’uomo crede di Dio che dipendono il senso della vita e della morte sulla terra». Infatti l’uomo che dà credito all’ipotesi formulata dal serpente «impara la paura e coltiva l’istinto di proteggersi da Dio. […] La cosa non gli rende la vita più facile. Ma ogni volta gli offre anche pretesti per la propria voglia di prevaricazione». E non esiste peccato peggiore, dirà Gesù, chiamandolo il peccato contro lo Spirito santo; il peccato contro colui che conosce i segreti di Dio («Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio», 1Cor 2,11): infatti «chiunque insegna ai bambini a scandalizzarsi di Dio, farebbe meglio a legarsi una macina da mulino al collo e gettarsi in acqua. Il peccato contro lo Spirito, che impugna l’attendibilità del sentimento di Dio come padre, chiude ogni varco per la relazione che tiene in vita la speranza dell’uomo».
Ed ecco ritrovata la nostra Trinità, la verità dell’uno e trino Signore: la sua affidabilità, che sola abilità la nostra fraternità, perché solo una vita che non ha bisogno di salvarsi la pelle, può guardare all’altro non come ad un rivale, ma come ad un fratello!
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