Chiuso il Tempo di Pasqua con la celebrazione della Pentecoste, Lunedì è ricominciato il Tempo Ordinario, che avevamo già incontrato nelle Domeniche tra il Tempo di Natale e quello della Quaresima, e che ci accompagnerà fino alla fine di questo anno liturgico, cioè fino a quando, con il prossimo Avvento, inizierà l’anno nuovo: abbiamo perciò davanti a noi circa sei mesi di Tempo Ordinario.
Ma chi si aspettava, già per questa prima Domenica dopo Pentecoste, una Liturgia della Parola “ordinaria” (e magari ne aveva anche un po’ nostalgia…), dovrà invece fare i conti col fatto che la Chiesa ponga proprio in questa Domenica (e anche nella prossima, quando celebreremo il Corpus Domini) una delle solennità più significative per la comprensione del mistero cristiano: la Trinità.
È di questo dunque che dobbiamo parlare oggi…
…anche se non nascondo una certa resistenza nel farlo, perché mi pare che la precomprensione un po’ semplicistica e materialistica che abbiamo di questi contenuti di fede, sia davvero troppo invincibile perché si riesca a fare un discorso capace di incidere sul nostro vissuto.
Cosa intendo dire?
Che la situazione di una persona di cultura cristiano-cattolica che sente parlare di “Trinità” potrebbe essere tratteggiata in questo modo:
1. il rimando immediato e istintivo che ha, di fronte a questa parola, non è il vangelo, ma il Catechismo (che non è solo una questione di copertina del libro…);
2. la sensazione prima è quella di essere di fronte a qualcosa di “pericoloso”, su cui non si può scherzare, né fare domande: c’è di mezzo l’eresia e l’atavica paura cattolica di fronte ad essa (perché voleva dire morire… sul rogo!);
- il mistero della Trinità perciò non va indagato, ma “preso”, più o meno con le stesse modalità con cui si terrebbe in mano una scoria radioattiva;
4. e se mai salisse alla mente una domanda sul significato di questa parola “strana”, essa verrebbe immediatamente bypassata ricordando che il “mistero della Trinità” non per niente si chiama “mistero” e che se proprio si vuole dire cosa significa, basta guardare al dogma: “Un unico Dio in tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo”…
- e se ci sentiamo ancora quelli di prima… amen… vedi il punto 3.
Forse esagero un po’… ma la mia impressione è proprio questa… che tutti conosciamo questa parola, tutti sapremmo ripetere il dogma, tutti saremmo pronti a difenderlo con le unghie, ma poi…
… poi questa cosa non si declina in nessun modo nel nostro agire, pensare, parlare… cioè: non ha incidenza alcuna sul nostro vivere da uomini e da cristiani.
Forse allora è necessario provare a partire da un altro punto di vista, che è poi quello da cui è partita la Chiesa: e cioè che Gesù nella sua storia ha parlato (nel senso forte che si può dare a questo verbo) del Padre e dello Spirito, anzi, più radicalmente si è detto (ha detto – agendo – di sé) sempre in relazione al Padre e allo Spirito, quasi che la sua identità non fosse dicibile se non dentro a questa relazione. Gesù è cioè chi non può essere detto senza contemporaneamente dire Padre e Spirito.
Allora, è dentro a questa dinamica che siamo chiamati ad immergerci (battezzarci), abbandonando la visione “cosale” della Trinità (Dove stanno? Come fanno a essere uno e tre? Come devo rivolgermi loro? Sempre con in testa il Padre con la barba, Gesù lì con Lui nell’alto dei cieli e lo Spirito che non si capisce bene se è lì o qui o un po’ qui e un po’ lì…) per accedere ad una prospettiva relazionale, per la quale io – come uomo – non posso dirmi se non in relazione a Dio, che a sua volta non può che essere Padre (pensabile sempre e solo come in relazione al Figlio e allo Spirito), Figlio (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e allo Spirito) e Spirito (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e al Figlio).
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