«Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. Dossetti, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].
Raccogliendo l’invito di don Dossetti, anche noi allora, proviamo in questa Domenica di ascensione a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare.
Innanzitutto va detto che i testi riguardanti l’ascensione cercano di trasmetterci l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto del mistero che è condensato in questa partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi»). Essa allora come oggi implica infatti una presa di distanza fisica del Signore dai suoi, una nuova modalità di presenza (detto in positivo), ma che sull’altro versante vuol dire l’esperienza di un’assenza! È questa la difficoltà insita in questo evento della vita di Gesù e della Chiesa: che storicamente si fa l’esperienza di un Dio che è l’assente, il lontano, l’invisibile, l’irraggiungibile… E il rimando è dunque alla nostra solitudine, alla paura atavica che essa ci fa patire, fino alle estreme manifestazioni dell’angoscia per la morte, che altro non è che la solitudine definitiva.
Questo è il problema a cui l’ascensione rimanda: è possibile continuare a credere e più radicalmente continuare a vivere dopo che Gesù diventa l’assente? Si può – cioè –affidarsi a un fondamento, a una sensatezza, a una salvezza, nonostante non sia verificabile? Si può dargli credito, sapendo che o ha consistenza o noi non l’abbiamo? O non resta che fermarsi col naso all’insù, aspettando che ritorni?
La risposta degli Atti sembra netta: «Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”».
C’è dunque, incontestabilmente una lontananza, una distanza, un’assenza… Eppure sembra che essa non sia destinata a interrompere il flusso della vita e dell’amore che la vita storica di Gesù ha prodotto… Sembra anzi che ci sia non solo una possibilità di continuazione della vita, ma quasi una necessità, un dovere, un’urgenza: non si sta col naso all’insù ad attendere il ritorno del Signore, ma ci si deve buttare a capofitto nella storia.
Ma bisogna avere un’attenzione… perché, certo, sarebbe facile e immediato dire, come infatti spesso è stato detto: l’ascensione è il momento in cui “finisce” il tempo di Gesù e inizia il tempo della Chiesa… e quindi “non stare col naso all’insù” vuol dire che l’Istituzione chiesa “deve prendere (come ha preso) il posto di Gesù” nella storia…
Prima c’era Gesù, incontrabile sulle strade della Palestina, che ha detto delle cose, ne ha fatte altre, ecc… ecc… ecc… ora c’è la Chiesa, che ci dice cosa dobbiamo fare, cosa dobbiamo credere, ecc…
Noi fotografiamo un po’ così il mistero dell’ascensione…
In realtà… forse, con un po’ troppa facilità… Saltando a piè pari quello che invece ha voluto dire storicamente per i primi discepoli non vedere più Gesù, non averlo più “a portata di mano” (vivo o risorto), non poterlo più consultare, ecc… e troppo spesso – parlando di ascensione – saltiamo a piè pari quello che vuol dire per noi questo non vederlo, non averlo “a portata di mano”, non poterlo consultare, ecc… cosa vuol dire per la Chiesa…
Patiamo questa cosa… ma quando dobbiamo parlare di ascensione partiamo come dei treni con quello che abbiamo imparato a catechismo (l’ascensione è Gesù che viene assunto in cielo) e stop… e ci dimentichiamo del problema…
Che invece c’è! Che Gesù sia e diventi l’assente infatti fa problema ad ogni credente: perché troppo spesso la vita ci rimanda ad un doverci far carico in prima persona, in solitaria (che si parli di se stessi o della Chiesa), di noi, delle scelte, delle fatiche, delle sofferenze, del male, dell’amore… E troppo spesso questa stessa vita, queste stesse scelte e fatiche e dolori, sembrano sovrastarci, sembrano mancare di un’intelligibilità, di una sensatezza, di una finalità…
Forse allora prima di precipitare subito su slogan tipo “è finito il tempo di Gesù inizia quello della Chiesa” dando per scontato tutto o troppo e risultando quindi di fatto insignificante per la nostra vita (tanto che i nostri ragazzi – e non solo loro… – se sanno che c’è l’ascensione – la pensano come una specie di Gesù fantasmino che se ne va in alto, non si sa bene dove, forse verso Dio che è addirittura al di là del cielo e… chi lo vede più? Concludendo ovviamente che lui starà pure lassù, ma quaggiù a noi tocca cavarcela da soli), forse – dicevo – è utile fare un passetto intermedio… e chiederci cosa vuol dire davvero questa ascensione.
Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [Ivi, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso»: Gesù assunto in cielo, vuol dire cioè Gesù immerso nel Padre. «Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui»!
Ecco perché nasce il tempo della Chiesa: non perché ci sia una cesura (finito il tempo di Gesù – che ormai non ha più niente a che fare col mondo dell’aldiqua – inizia il tempo della chiesa), ma perché nasce la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto. Tant’è che anche il vangelo che la liturgia ci propone per questa domenica, mentre sta parlando dell’inizio della missione degli apostoli («Allora essi partirono e predicarono dappertutto»), annota: «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano».
È in questo rapporto intimo – accessibile ad ogni credente – che infatti «scaturisce quella scintilla della fede che ci fa ritrovare Cristo glorificato nel Padre e presente in noi, e che realizza già per noi – dobbiamo avere il coraggio di dirlo – il ritorno di Cristo. Con ciò non si vuole confondere questo momento in cui Cristo ritorna in ciascuno di noi, personalmente, col momento del ritorno universale del Signore; però sono scintille dello stesso fuoco» [Ivi,, 100].
Infine, è proprio a partire da questa possibilità di accesso personale – nell’intimo – per ciascuno al Signore, che si può anche rendere ragione delle parole esplosive di Paolo, riportate nella seconda lettura: «Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti». Perché se è vero che subito dopo l’apostolo fa riferimento ai diversi ministeri e carismi presenti nella comunità ecclesiale («ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri»), intanto ha messo la bomba, sempre mal digerita dalla gerarchia e praticamente (cioè nella prassi) sempre da essa ben celata, per cui Dio «opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti»! Alla faccia di tutte le nostre gerarchie, istituzionalizzazioni e vocazioni! Come scriveva infatti Giuliano a proposito di Tersa di Gesù bambino: «Teresa cerca come amare il Signore e i fratelli nel modo più totale possibile: questi grandi desideri insaziati le facevano soffrire un vero martirio e cercava nel Vangelo una risposta: "Sento dentro di me la vocazione del guerriero, del prete, dell'apostolo, del dottore del martire... sento il bisogno, il desiderio di compiere per Gesù, tutte le opere più eroiche... Sento nella mia anima tutto il coraggio di un crociato, di uno zuavo pontificio, vorrei morire su di un campo di battaglia per la difesa della Chiesa... Sento in me la vocazione del prete... ma pur desiderando esser prete, ammiro e invidio l'umiltà di S.Francesco e mi sento la vocazione di imitarlo, rifiutando la sublime dignità del sacerdozio" (B 250,251). Anche lei vuole e non vuole: perché vorrebbe tutte le vocazioni insieme ma sono incompossibili. Soprattutto sono storicamente, cioè transitoriamente ineliminabili, necessarie ... ma hanno dentro una divisione. Chi fa il guerriero, fosse pure per amore della Chiesa, uccide; chi fa il prete si divide dal laico, chi fa lo zuavo pontificio mette fuori dalla porta qualcheduno: sono tutte vocazioni necessarie alla nostra storia, ma sono realtà divisorie, cioè inevitabilmente discriminanti - che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali. Ogni vocazione che non sia l'ultima divide, ha dentro di sé un po' di male, un po' di veleno ineliminabile. E' necessario, deve accadere così, ma qualcuno ci deve piangere. Quelli che stanno fuori dalla nostra vocazione, dalla nostra casa, dalle nostre competenze e diritti - normalmente li chiudiamo fuori ... sono esclusi in qualche modo. Non se ne esce. Ecco perché Teresa rinuncia a tutte queste vocazioni: non la soddisfano. Ne cerca una di fondo che non sia divisoria, vivendo la quale non debba escludere nessuno, con la quale non debba scontrarsi con nessuno: una vocazione che riesca a includere tutte le altre e ad eliminarne tendenzialmente quel po' di veleno discriminante che contengono. Non si tratta di un male morale, ma insanguina lo stesso o divide lo stesso. La storia grande - come le nostre piccole storie lasciano sempre dietro di sé scie di sofferenze e di divisioni. Teresa cerca allora l'unica cosa che non divide, l'amore».
E che cos’è l’amore? Comportarsi «con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace»… in modo che fioriscano i segni della fede (nella carne degli uomini): «nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno»… così che l’emorragia di vita data dalla paura dell’orfanità, si trasformi nell’investimento dell’esistenza in una fraternità che tocca la pelle.
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