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mercoledì 4 maggio 2016

Ascensione


Dagli Atti degli Apostoli (At 1,1-11)

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,24-28;10,19-23)

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,46-53)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Negli anni del ciclo liturgico C, come questo in corso, la Chiesa ci fa leggere le due versioni del racconto di ascensione narrate da Luca: una negli Atti degli apostoli e l’altra nel vangelo.

Il III evangelista è l’unico che traccia la scansione temporale dei 40 giorni dopo Pasqua per descrivere l’ascensione; scansione che è entrata poi anche nella liturgia: Pasqua – 40 giorni – Ascensione – 10 giorni – Pentecoste.

Nelle altre testimonianze neotestamentarie il ritorno di Gesù presso Dio e il dono dello Spirito santo sono invece piuttosto ravvicinati e quasi iscritti dentro alla Risurrezione.

Possiamo concludere che il dato della scansione temporale sia stato introdotto da Luca per motivi liturgico-pedagogici e che non rispecchi la cronologia degli eventi in senso stretto.

Resta però da chiarire quale sia il motivo che ha originato questi testi.

Il problema di fondo – che gli altri evangelisti lasciano aperto e che invece Luca vuole approfondire – potrebbe essere espresso in questo modo: perché, se Gesù è risorto, non lo si può incontrare come prima?

Luca cioè si preoccupa di dare una risposta ai cristiani delle generazioni successive a quella apostolica, che domandavano come fosse per loro possibile credere a Gesù, senza averlo mai visto, né vivo né risorto. È la stessa problematica che traspare anche nella prima finale di Giovanni, quando al cap. 20 v. 29 diceva: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Uno dei problemi delle prime comunità cristiane è stato perciò quello di rendere ragione dell’assenza di Gesù, o meglio dell’impossibilità di un incontro con lui nelle modalità precedenti (non è più incontrabile in carne ed ossa perché è morto; ma non è più incontrabile nemmeno da risorto, nelle apparizioni, come era invece stato possibile per i discepoli).

Ecco perciò che si introduce – come risposta a questa realtà – l’ascensione: Gesù non è più incontrabile nella modalità precedente, perché è asceso al cielo, cioè è tornato presso Dio.

Il racconto non è da prendere alla lettera: come dico ai miei bimbi a scuola, non è che Gesù è partito come un missile per raggiungere lo spazio. È un testo che va interpretato.

Per chiarirci le idee, vi racconto la lezione sull’ascensione che tengo in II elementare. Innanzitutto chiedo: “Che parola vi fa venire in mente ‘ascensione’?”. E loro rispondono: “Ascensore!”.

“Bene. E a cosa serve l’ascensore?”. “A salire”.

“Eh già… Infatti ‘ascendere’ è il contrario di ‘scendere’. È uguale a ‘scendere’, ma con la ‘a’ davanti, che serve per dire il contrario della parola che viene dopo. Quindi ‘ascendere’ = il contrario di ‘scendere’ = salire”.

“Ma dove è salito Gesù?”; “In cielo”.

“Sì, ma attenti, non è partito come un missile per andare su marte! Il cielo era un modo per dire ‘Dio’. E siccome si è sempre pensato che Dio fosse in cielo, per dire che Gesù era tornato da Dio, hanno scritto che è salito in cielo!”.

Ecco spiegata l’ascensione… ai bambini… ed ecco spiegato il problema che ha originato i testi di Luca… per i grandi… L’evangelista aveva bisogno di spiegare alle nuove generazioni cristiane perché esse non potessero incontrare Gesù nella modalità delle apparizioni del risorto, perciò gli ha narrato l’ascensione. La risposta è che dopo la morte e la risurrezione Gesù non è più presente nella storia nella modalità precedente: Egli è presso Dio.

È da qui che nascerà il passo successivo. Perché la domanda veniva da sé: ma allora Dio, ora, è assente dalla storia? No, risponderà Luca, è presente in Spirito… ecco il racconto di Pentecoste (che lasciamo a domenica prossima).

Non prendere alla lettera tutto ciò che è scritto nella Bibbia non ci deve spaventare: anzi, è il prendere tutto alla lettera che è sbagliato. La Chiesa da sempre ha ritenuto che i testi biblici fossero da interpretare, perché – come dice la Dei Verbum, un documento che il Concilio Vaticano II ha scritto proprio riguardo alla Parola di Dio – la fede si fonda su ciò che l’autore biblico aveva inteso comunicarci, la sua intenzione profonda, non su quello che capisco io o su quello che una prima lettura fa saltare all’occhio. Ecco perché nella Chiesa si sono sviluppati tutta una serie di studi letterari e linguistici per andare a capire cosa volevano dire gli autori, quando scrivevano i loro testi. Nella Chiesa c’è anche chi fa questo si mestiere: gli esegeti, che attraverso lo studio dei generi letterari, dell’epoca storica, del significato delle parole, ecc… ci presentano l’interpretazione dei testi.

Anche per l’ascensione è così: una lettura letterale ci porta ad un Gesù-missile…

Una lettura ragionata, ci inserisce invece in uno dei problemi con cui la Chiesa di sempre si deve confrontare: Gesù non è più incontrabile come prima. Come si può, dunque, credergli?

«Perché è degno di fede colui che ha promesso», risponde la lettera agli Ebrei.

E come faccio a sapere che è degno di fede uno che non posso incontrare in carne ed ossa e nemmeno da risorto, in un’apparizione? Lo posso sapere leggendo la sua storia e valutando chi ha deciso di essere… ecco la centralità dei vangeli e della loro conoscenza per poter accedere, oggi, ad una relazione con Gesù.

E leggendo i vangeli, non si può non concludere che chi si consegna alla morte (perdonando i suoi carnefici) per non smentire l’annuncio d’amore che traspare da ogni gesto che ha compiuto e da ogni parola che ha pronunciato sia davvero degno di fede.

lunedì 11 maggio 2015

Ascensione


Dagli Atti degli Apostoli (At 1,1-11)
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 4,1-13)
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
 
Dal Vangelo secondo Marco (Mc 16,15-20)
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.
 
La festa dell’Ascensione ci riconsegna tra le mani il problema della vita della Chiesa dopo l’assenza “fisica” di Gesù risorto. Il problema è sostanzialmente il medesimo: gli apostoli hanno incontrato Gesù risorto, hanno parlato con lui, hanno mangiato con lui, ma oggi quest’esperienza non è più possibile, in quei termini: come dico ai miei bambini, “non è che dietro la pianta potete vedere Gesù risorto che vi fa cucù”.
Il racconto dell’ascensione nasce perciò proprio per rendere conto di questa impossibilità di incontrare oggi il Signore risorto in quella forma che ci è stata trasmessa dal racconto delle sue apparizioni.
Si aprono perciò alcuni interrogativi:
-          È possibile comunque incontrare ancora il Signore oggi, seppur in un’altra forma?
-          Quale deve essere la vita dei cristiani alla luce di questa apparente assenza?
 
Riguardo alla prima domanda, le testimonianze del Nuovo Testamento affermano con forza che l’ascensione non è un abbandono. Il Signore non ci consegna ad una orfanità storica: egli è ancora presente («il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano»), ma in una forma diversa. Questa forma verrà poi spiegata con il dono del suo Spirito a Pentecoste, ma, senza introdurci nel difficile districarsi tra persone della Trinità, l’elemento centrale cui rimandano i testi è la certezza dell’accompagnamento costante di Dio o meglio, del fatto che siamo come immersi in Lui. Spiegavo, sempre ai miei bambini a scuola: “quando eravate piccoli coloravate il cielo di azzurro solo in alto, come una strisciolina nella parte alta del foglio. Crescendo avete scoperto che il cielo, l’aria non è solo lassù, ma ci avvolge e ci circonda. Così è Dio: non è solo lassù, ma ci avvolge e ci circonda come l’aria”.
 

 
 
Questa è la nuova forma della sua presenza.
Alla luce di questo: quale deve essere allora la vita dei cristiani? Il vangelo di Marco è esplicito: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato (= immerso) sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Questi sono dunque i pilastri della vita dei cristiani:
-          L’annuncio (con la vita e non tanto con le parole) della buona notizia che Dio ci ama;
-          Il battesimo, cioè l’immersione di ogni uomo in questo amore;
-          Lo scacciare i demòni (non quelli fantasmici della televisione, ma quelle ferite che adombrano il cuore e bloccano il circuito dell’amore, della fantasia, della felicità);
-          Il parlare lingue nuove (non solo “lingue straniere”, ma la lingua, il linguaggio personale di ciascun uomo, per riuscire a intercettarlo e comunicare con lui nelle profondità del suo cuore);
-          Il prendere in mano i serpenti e non esserne avvelenati (cioè affrontare il male del mondo, senza rilanciarlo mai, senza farsene intaccare il cuore, ma tenendo limpido lo sguardo su cosa è “giustizia”);
-          Il guarire i malati (compito non solo dei medici, ma di chiunque si fa carico delle ferite dell’altro, nella carne e nello spirito).
 
Buona festa dell’ascensione a tutti.
 

mercoledì 28 maggio 2014

Ascensione


Dagli Atti degli Apostoli (At 1,1-11)

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 1,17-23)

Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 28,16-20)

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

 

Spiego ai miei bimbi a scuola:

-          l’Ascensione è la festa in cui si fa memoria del ritorno di Gesù risorto presso Dio.

-          Avviene 40 giorni dopo Pasqua.

-          40 giorni di incontri tra il Risorto e le sue amiche e i suoi amici, fatto di non riconoscimento (che ci fa capire che Gesù non è semplicemente ritornato in vita, come Lazzaro, ma è entrato in una vita nuova, in qualche modo diversa… per questo non lo riconoscono: perché in qualche modo è diverso da prima: ha un copro che entra a porte chiuse… lo scambiano per un fantasma…)…

-          … e successivo riconoscimento (per la sua voce, per i segni della crocifissione, perché compie gli stessi gesti di prima: spezza il pane, mangia con loro…), che ci fa capire che il Risorto è il crocifisso (è sempre Gesù, lo stesso di prima!).

-          In questi 40 giorni promette di regalare ai suoi un dono: lo Spirito santo, che essi riceveranno 10 giorni dopo l’Ascensione, cioè 50 giorni dopo Pasqua (a Pentecoste).

-          In questi 10 giorni – ci dicono gli Atti degli apostoli – i discepoli si ritrovano insieme (11 apostoli, con Maria, alcune donne e diversi altri discepoli: 120 ne contano il giorno dell’elezione di Mattia), pregano, eleggono il nuovo 12° apostolo.

 

Noi sappiamo che questa scansione temporale è pedagogica, serve cioè a s-piegare (nel tempo per s-piegare nella testa) il mistero della Risurrezione di Gesù, che ha suscitato domande cui Luca (nel vangelo e negli Atti) e tutti gli altri evangelisti e scrittori neotestamentari ha provato a rispondere con questa sistematizzazione logica:

-          Dove è andato Gesù?

-          E noi? Ora siamo soli (orfani)?

-          E cosa dobbiamo fare in questa storia che non finisce?

 

Il mistero dell’Ascensione che celebreremo domenica vuole rispondere alla prima di queste domande: dove è andato Gesù? Perché non è più incontrabile, consultabile, accessibile?

Per capire questa festa, dobbiamo dunque fare nostre queste domande e non accontentarci del dato registrato nella memoria in qualche momento della nostra infanzia quando ci spiegavano l’Ascensione.

Dobbiamo sentire sulla nostra pelle il problema del fatto che Gesù diventi l’assente.

Anche se forse non faremo fatica a immedesimarci, in questo caso, nei discepoli… quante volte infatti patiamo questa orfanità, questo cielo vuoto che non ci pare per niente pieno della gloria di Dio, come cantiamo a messa.

E allora mi tornavano in mente le parole ascoltate recentemente durante una conferenza del prof. Petrosino, che vorrei tentare di riproporvi, perché presentano questa apparente e insieme reale “assenza” di Dio dalla storia, in una prospettiva che io trovo molto interessante.

Egli sosteneva che quando Dio crea l’uomo lo fa perché egli stia in piedi da sé: è come se si ritraesse e facesse spazio ad altro da sé. Non come un orologiaio distratto che ha fatto un’opera imperfetta e deve continuamente intervenire per aggiustarla. Sta in piedi da sé.

La creatura resta creatura: infatti è creatura e non creatore perché poteva non esserci, perché non si è creata da sé, eppure da quando c’è, ha una sua autonomia, sta in piedi da sola (può fare “senza Dio”).

Il dono della vita che Dio fa, infatti, non è un prestito (ti lascia in vita solo se ti comporti bene…) ma è – appunto – un dono (non dobbiamo restituire niente a Dio: la vita che ci ha donato è nostra!), ma se è donato è donato: la creatura è un assoluto, è autonoma.

In questo modo Dio ha dimostrato di essere capace di altro da sé (altrimenti non saremmo altro da Lui, ma servi, adoratori, in ultima analisi schiavi, in funzione sua: fatti per adorarlo, o compiacerlo, o accontentarlo): «Non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamato amici» (Gv 15,15).

A questo Dio ci ha chiamati, a essere uomini, a stare in piedi da soli, a stargli di fronte in piedi: ecco perché Dio si ritrae e Gesù stesso torna presso Dio!

Perché Dio continua a ripetere all’uomo: “Io non ti dico cosa devi fare” – “Io ti ho fatto bene” – “Ora fai tu!”.

Lui è talmente libero da essere libero anche dal suo essere Dio: per questo la Bibbia insiste così tanto contro l’idolatria: Dio dice anche di sé “Non idolatratemi”, “Fate voi”.

In gioco infatti non c’è il suo primato (figuratevi se Dio ha il problema del suo primato: lui è sicuro della sua identità, non ha il problema di dover avere qualcuno che lo conferma): siamo noi che di fronte a questa proposta di Dio continuiamo a chiedergli conferme sulla nostra esistenza, perché il brivido di stare in piedi, di stargli di fronte, di essere uomini, di fare noi, di fare bene, ci spaventa e preferiamo rifugiarci nelle sicurezze delle leggi, del tutto stabilito, del ditemi cosa devo fare… Perché di fronte a questa autonomia, a questa libertà (come mostra bene il Grande Inquisitore di Dostoevskij) cerchiamo sempre qualcosa su cui appoggiarci, qualcuno di fronte a cui inchinarci.

Allora, questa Ascensione che abbiamo sempre festeggiato, ma con un fondo di amarezza nel cuore per questo “lasciarci” di Gesù, forse potremmo ricomprenderla come la grande festa della dignità dell’uomo che Dio stesso pone: la dignità di poter essere uomini (non schiavi), amici (non servi), che stanno in piedi (non incurvati)…

Capaci di una responsabilità… che è la custodia di questo mondo (dalla formica ad ogni figlio dell’uomo che nasce… a cui raccontare di un Dio così!).

martedì 7 maggio 2013

L'Ascensione: la festa della laicità


Dagli Atti degli Apostoli (At 1,1-11)

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,24-28;10,19-23)

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,46-53)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Quest’anno la liturgia della Parola che la Chiesa ci propone in occasione dell’Ascensione, è curiosamente composta da due racconti del medesimo evento. Esso infatti nel NT è raccontato sia nel Vangelo di Luca (vangelo che caratterizza questo anno liturgico C), che nel libro degli Atti degli Apostoli, che tradizionalmente, ogni anno, va a costituire la prima lettura della solennità dell’Ascensione. Ci troviamo dunque di fronte – quest’anno, e solo per quest’anno C – ad una prima lettura e ad un vangelo che narrano la stessa esperienza…

Ciò detto, bisogna però anche aggiungere che, l’avere a disposizione e l’essere chiamati a meditare su entrambi i racconti neotestamentari dell’ascensione, non rende l’impresa meno ardua… Parlare di ascensione non è facile. Come scriveva don Dossetti infatti: «Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. Dossetti, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].

Raccogliendo dunque l’invito di don Dossetti, anche noi, proviamo a tornare su questo mistero che la Chiesaci invita a celebrare, cercando innanzitutto di precisare meglio perché Egli lo definisca come un qualcosa che «impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere»… Cosa è in gioco con l’ascensione?

In gioco c’è l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto della partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» / «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo»), della sua distanza fisica, della sua assenza, della sua invisibilità, non “consultabilità”, non “fruibilità” almeno nei termini in cui lo era stato fino a quel momento (da vivo o da risorto). Questo è il problema…

Ed è un po’ troppo sbrigativo risolverlo dicendo “Beh, è ‘finito’ il tempo di Gesù, inizia quello della Chiesa”… Innanzitutto perché è una soluzione che toglie la realtà della drammatica in atto – che chiunque ha avuto un morto tra i suoi conosce molto bene –; inoltre perché bisogna intendersi bene su quel “finire del tempo di Gesù” e su quell’“iniziare del tempo della Chiesa”, che sono slogan utili e che dicono anche qualcosa di vero, ma che vanno intesi bene per non risultare fuorvianti…

Forse allora, è utile tornare a chiederci con un po’ di pazienza cosa abbia voluto dire davvero (e cosa voglia dire davvero) questa ascensione… Innanzitutto potremmo farci questa domanda: Letteralmente cosa vuol dire “ascendere”? E soprattutto: Dove è “asceso” Gesù?

Scrivono i biblisti bergamaschi su Scuola della Parola del 2003: «Il racconto dell’Ascensione non concede moltissimo alla descrizione: si dice che Gesù sale al cielo, mentre una nube lo nasconde allo sguardo. Il cielo non è tanto ciò che sta in alto, ma è un altro modo di essere di Gesù. Luca non insiste, non ha l’interesse di stupire il lettore con delle scenografie spettacolari; anzi, il suo modo di esprimersi è molto sobrio, nonostante la qualità del contenuto».

Ma se «il cielo non è tanto ciò che sta in alto», dove è stato assunto Gesù? Dove è andato a finire? E cosa si intende con questo “modo altro di essere”? Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [G. Dossetti, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso».

“Gesù assunto in cielo”, vuol dire allora “Gesù immerso nel Padre”.

«Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui»!

Tant’è che ancora i bergamaschi scrivono: «La parola “ascensione” a noi ricorda soltanto il momento finale, quando – quaranta giorni dopo la Pasqua – Gesù sale al cielo», ma essa «comincia ad apparire molto presto nel vangelo di Luca, ben prima del momento puntuale dell’ascensione. In Luca 9,51 leggiamo: “mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo…”. Letteralmente, quel “tolto dal mondo” è diverso nel testo originale e l’intera frase suonerebbe così: “mentre stavano compiendosi i giorni del suo salire (del suo essere assunto)”. È lo stesso vocabolo che abbiamo in Atti per indicare l’ascensione: il “fu assunto in cielo”, non rappresenta solo (o forse non tanto) l’essere tolto dal mondo, ma è il compimento di quella “salita” di Gesù, incominciata il giorno in cui ha con decisione orientato il suo volto e i suoi passi verso Gerusalemme. Il suo salire non avviene soltanto con l’Ascensione nel quarantesimo giorno, ma inizia con quel cammino verso Gerusalemme», proprio perché non è un salire “fisico”, ma un’immersione in Dio…

Ecco perché l’esperienza umanamente insuperabile – e insuperata – dell’assenza di chi non c’è più, è riletta dal NT come l’esperienza di una nuova modalità di presenza: perché Gesù non si è dissolto nel niente, ma si è immerso – trascinandosi dietro la sua umanità – nel Padre. La buona novella da annunciare a tutto il mondo è infatti che da sempre «la Chiesa vive di questa consapevolezza: Cristo è vivo in mezzo ai discepoli».

In questa ottica anche lo slogan prima citato del “finisce il tempo di Gesù, inizia quello della Chiesa”, assume la corretta intonazione: il tempo di Gesù – di per sé – non finisce; finisce una modalità della sua presenza e ne inizia un’altra, quella che noi chiamiamo Spirito. La Chiesa infatti altro non è (o non dovrebbe essere) che la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto e dentro a questo rapporto imparano la dedizione per gli altri… anzi è la dedizione per gli altri, perché l’incontro in spirito con chi è spirito è riconoscibile (da chi non è ancora solo spirito) sempre e solo a posteriori, mai “in diretta”…

Non a caso mentre il vangelo di Luca termina – senza che nessuno avverta questo come un problema – dicendo degli apostoli che «stavano sempre nel tempio lodando Dio», gli Atti – in maniera quasi sarcastica – aggiungono subito: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Come a dire che il nuovo modo di stare col Signore – starci in spirito – non ha niente a che vedere con il ritagliare uno spazio sacro in cui isolarsi, ma coincide con l’immersione nella secolarità. Dicevamo infatti qualche settimana fa: «il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio» e invece che impostare il comandamento nuovo sulla logica matematica del “come vi ho amati io, amatemi anche voi così”, proclama: «Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri»… Come a dire che l’incontro “spirituale” (in spirito) passa dalla storia e dai volti che in essa abitano e non da un ritrarsi da essa.

La vita cristiana però «fatica a mantenere il modello di equilibrio della difficile tensione escatologica, nata dall’Ascensione, che è insieme un’assenza del Signore, abitata dallo Spirito – e un’attesa del suo ritorno, impegnata nell’annuncio fattivo del Regno a tutti gli uomini. Ci si orienta piuttosto ad una schizofrenia ecclesiale dove i due poli della tensione si separano e tendono a cristallizzarsi in due classi diverse: i laici comuni, che guardano in basso e curano le cose del mondo e i monaci che, alla deriva della fuga et contemptus mundi, guardano solo in alto. Scordandosi così che il Vangelo domanda fedeltà, condivisione, compassione, servizio radicali e totalizzanti per tutti i discepoli, pur in situazioni esistenziali diverse» [Giuliano].
In questo senso aveva proprio ragione, quando scriveva che: «L’Ascensione è la nostra festa: di noi che cerchiamo i semi della laicità, come il dono capace, man mano che gli uomini se ne rendono conto, di svuotare ed eliminare ogni discriminazione sacrale, ideologica, economica, sessuale… discriminazione sempre fondata sulla diversità che noi interpretiamo spesso come inferiorità e disumanità… lasciandoci sfuggire la forza di umanizzazione per noi, che invece ogni uomo che incontriamo sempre riserva come dono che solo lui può farci».

martedì 15 maggio 2012

L'Ascensione

«Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. Dossetti, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].

Raccogliendo l’invito di don Dossetti, anche noi allora, proviamo in questa Domenica di ascensione a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare.


Innanzitutto va detto che i testi riguardanti l’ascensione cercano di trasmetterci l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto del mistero che è condensato in questa partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi»). Essa allora come oggi implica infatti una presa di distanza fisica del Signore dai suoi, una nuova modalità di presenza (detto in positivo), ma che sull’altro versante vuol dire l’esperienza di un’assenza! È questa la difficoltà insita in questo evento della vita di Gesù e della Chiesa: che storicamente si fa l’esperienza di un Dio che è l’assente, il lontano, l’invisibile, l’irraggiungibile… E il rimando è dunque alla nostra solitudine, alla paura atavica che essa ci fa patire, fino alle estreme manifestazioni dell’angoscia per la morte, che altro non è che la solitudine definitiva.

Questo è il problema a cui l’ascensione rimanda: è possibile continuare a credere e più radicalmente continuare a vivere dopo che Gesù diventa l’assente? Si può – cioè –affidarsi a un fondamento, a una sensatezza, a una salvezza, nonostante non sia verificabile? Si può dargli credito, sapendo che o ha consistenza o noi non l’abbiamo? O non resta che fermarsi col naso all’insù, aspettando che ritorni?

La risposta degli Atti sembra netta: «Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”».

C’è dunque, incontestabilmente una lontananza, una distanza, un’assenza… Eppure sembra che essa non sia destinata a interrompere il flusso della vita e dell’amore che la vita storica di Gesù ha prodotto… Sembra anzi che ci sia non solo una possibilità di continuazione della vita, ma quasi una necessità, un dovere, un’urgenza: non si sta col naso all’insù ad attendere il ritorno del Signore, ma ci si deve buttare a capofitto nella storia.

Ma bisogna avere un’attenzione… perché, certo, sarebbe facile e immediato dire, come infatti spesso è stato detto: l’ascensione è il momento in cui “finisce” il tempo di Gesù e inizia il tempo della Chiesa… e quindi “non stare col naso all’insù” vuol dire che l’Istituzione chiesa “deve prendere (come ha preso) il posto di Gesù” nella storia…

Prima c’era Gesù, incontrabile sulle strade della Palestina, che ha detto delle cose, ne ha fatte altre, ecc… ecc… ecc… ora c’è la Chiesa, che ci dice cosa dobbiamo fare, cosa dobbiamo credere, ecc…

Noi fotografiamo un po’ così il mistero dell’ascensione…

In realtà… forse, con un po’ troppa facilità… Saltando a piè pari quello che invece ha voluto dire storicamente per i primi discepoli non vedere più Gesù, non averlo più “a portata di mano” (vivo o risorto), non poterlo più consultare, ecc… e troppo spesso – parlando di ascensione – saltiamo a piè pari quello che vuol dire per noi questo non vederlo, non averlo “a portata di mano”, non poterlo consultare, ecc… cosa vuol dire per la Chiesa…

Patiamo questa cosa… ma quando dobbiamo parlare di ascensione partiamo come dei treni con quello che abbiamo imparato a catechismo (l’ascensione è Gesù che viene assunto in cielo) e stop… e ci dimentichiamo del problema…

Che invece c’è! Che Gesù sia e diventi l’assente infatti fa problema ad ogni credente: perché troppo spesso la vita ci rimanda ad un doverci far carico in prima persona, in solitaria (che si parli di se stessi o della Chiesa), di noi, delle scelte, delle fatiche, delle sofferenze, del male, dell’amore… E troppo spesso questa stessa vita, queste stesse scelte e fatiche e dolori, sembrano sovrastarci, sembrano mancare di un’intelligibilità, di una sensatezza, di una finalità…

Forse allora prima di precipitare subito su slogan tipo “è finito il tempo di Gesù inizia quello della Chiesa” dando per scontato tutto o troppo e risultando quindi di fatto insignificante per la nostra vita (tanto che i nostri ragazzi – e non solo loro… – se sanno che c’è l’ascensione – la pensano come una specie di Gesù fantasmino che se ne va in alto, non si sa bene dove, forse verso Dio che è addirittura al di là del cielo e… chi lo vede più? Concludendo ovviamente che lui starà pure lassù, ma quaggiù a noi tocca cavarcela da soli), forse – dicevo – è utile fare un passetto intermedio… e chiederci cosa vuol dire davvero questa ascensione.

Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [Ivi, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso»: Gesù assunto in cielo, vuol dire cioè Gesù immerso nel Padre. «Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui»!

Ecco perché nasce il tempo della Chiesa: non perché ci sia una cesura (finito il tempo di Gesù – che ormai non ha più niente a che fare col mondo dell’aldiqua – inizia il tempo della chiesa), ma perché nasce la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto. Tant’è che anche il vangelo che la liturgia ci propone per questa domenica, mentre sta parlando dell’inizio della missione degli apostoli («Allora essi partirono e predicarono dappertutto»), annota: «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano».

È in questo rapporto intimo – accessibile ad ogni credente – che infatti «scaturisce quella scintilla della fede che ci fa ritrovare Cristo glorificato nel Padre e presente in noi, e che realizza già per noi – dobbiamo avere il coraggio di dirlo – il ritorno di Cristo. Con ciò non si vuole confondere questo momento in cui Cristo ritorna in ciascuno di noi, personalmente, col momento del ritorno universale del Signore; però sono scintille dello stesso fuoco» [Ivi,, 100].

Infine, è proprio a partire da questa possibilità di accesso personale – nell’intimo – per ciascuno al Signore, che si può anche rendere ragione delle parole esplosive di Paolo, riportate nella seconda lettura: «Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti». Perché se è vero che subito dopo l’apostolo fa riferimento ai diversi ministeri e carismi presenti nella comunità ecclesiale («ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri»), intanto ha messo la bomba, sempre mal digerita dalla gerarchia e praticamente (cioè nella prassi) sempre da essa ben celata, per cui Dio «opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti»! Alla faccia di tutte le nostre gerarchie, istituzionalizzazioni e vocazioni! Come scriveva infatti Giuliano a proposito di Tersa di Gesù bambino: «Teresa cerca come amare il Signore e i fratelli nel modo più totale possibile: questi grandi desideri insaziati le facevano soffrire un vero martirio e cercava nel Vangelo una risposta: "Sento dentro di me la vocazione del guerriero, del prete, dell'apostolo, del dottore del martire... sento il bisogno, il desiderio di compiere per Gesù, tutte le opere più eroiche... Sento nella mia anima tutto il coraggio di un crociato, di uno zuavo pontificio, vorrei morire su di un campo di battaglia per la difesa della Chiesa... Sento in me la vocazione del prete... ma pur desiderando esser prete, ammiro e invidio l'umiltà di S.Francesco e mi sento la vocazione di imitarlo, rifiutando la sublime dignità del sacerdozio" (B 250,251). Anche lei vuole e non vuole: perché vorrebbe tutte le vocazioni insieme ma sono incompossibili. Soprattutto sono storicamente, cioè transitoriamente ineliminabili, necessarie ... ma hanno dentro una divisione. Chi fa il guerriero, fosse pure per amore della Chiesa, uccide; chi fa il prete si divide dal laico, chi fa lo zuavo pontificio mette fuori dalla porta qualcheduno: sono tutte vocazioni necessarie alla nostra storia, ma sono realtà divisorie, cioè inevitabilmente discriminanti - che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali. Ogni vocazione che non sia l'ultima divide, ha dentro di sé un po' di male, un po' di veleno ineliminabile. E' necessario, deve accadere così, ma qualcuno ci deve piangere. Quelli che stanno fuori dalla nostra vocazione, dalla nostra casa, dalle nostre competenze e diritti - normalmente li chiudiamo fuori ... sono esclusi in qualche modo. Non se ne esce. Ecco perché Teresa rinuncia a tutte queste vocazioni: non la soddisfano. Ne cerca una di fondo che non sia divisoria, vivendo la quale non debba escludere nessuno, con la quale non debba scontrarsi con nessuno: una vocazione che riesca a includere tutte le altre e ad eliminarne tendenzialmente quel po' di veleno discriminante che contengono. Non si tratta di un male morale, ma insanguina lo stesso o divide lo stesso. La storia grande - come le nostre piccole storie lasciano sempre dietro di sé scie di sofferenze e di divisioni. Teresa cerca allora l'unica cosa che non divide, l'amore».
E che cos’è l’amore? Comportarsi «con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace»… in modo che fioriscano i segni della fede (nella carne degli uomini): «nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno»… così che l’emorragia di vita data dalla paura dell’orfanità, si trasformi nell’investimento dell’esistenza in una fraternità che tocca la pelle.

giovedì 9 giugno 2011

L'ascensione

«Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].


Raccogliendo l’invito di don Dossetti, anche noi allora, proviamo in questa domenica di Ascensione a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare.

Innanzitutto va detto che i testi riguardanti l’ascensione cercano di trasmetterci l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto del mistero che è condensato in questa partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi»). Essa, allora come oggi, implica infatti una presa di distanza fisica del Signore dai suoi, una nuova modalità di presenza (detto in positivo), ma che sull’altro versante vuol dire l’esperienza di un’assenza!

Troppo spesso invece noi di questa esperienza di orfanità patita nell’ascensione ci dimentichiamo, riducendo questo elemento della fede cristiana a non molto altro che il momento in cui “finisce” il tempo di Gesù e inizia il tempo della Chiesa… Saltiamo cioè a piè pari quello che ha voluto dire per i primi discepoli non vedere più Gesù, non averlo “a portata di mano” (vivo o risorto), non poterlo consultare, ecc… e troppo spesso – parlando di ascensione – saltiamo a piè pari quello che vuol dire per noi questo non vederlo, non averlo “a portata di mano”, non poterlo consultare, ecc… Poi, certo, patiamo questa cosa, ma quando dobbiamo parlare di ascensione partiamo come dei treni con quello che abbiamo imparato a catechismo (l’ascensione è Gesù che viene assunto in cielo) e stop… ci dimentichiamo del problema…

Che invece c’è! Che Gesù sia e diventi l’assente infatti fa problema ad ogni credente: perché troppo spesso la vita ci rimanda ad un doverci far carico in prima persona, in solitaria, di noi, delle scelte, delle fatiche, delle sofferenze, del male, dell’amore… E troppo spesso questa stessa vita, queste stesse scelte e fatiche e dolori, sembrano sovrastarci, sembrano mancare di un’intelligibilità, di una sensatezza, di una finalità…

È questa, dunque, la difficoltà insita in questo evento della vita di Gesù e della Chiesa: che storicamente si fa l’esperienza di un Dio che è l’assente, lontano, invisibile, nel senso di irraggiungibile… E il rimando è dunque alla nostra solitudine, alla paura atavica che essa ci fa patire, fino alle estreme manifestazioni dell’angoscia per la morte, che altro non è che la solitudine definitiva. Tanto che – anche se non vorremmo – spesso ci ritroviamo per la testa o nel cuore pensieri simili a quelli che il libro della Sapienza mette in bocca agli empi: «Dicono fra loro sragionando: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati: è un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale, il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile. Il nostro nome cadrà, con il tempo, nell’oblio e nessuno ricorderà le nostre opere. La nostra vita passerà come traccia di nuvola, si dissolverà come nebbia messa in fuga dai raggi del sole e abbattuta dal suo calore. Passaggio di un’ombra è infatti la nostra esistenza e non c’è ritorno quando viene la nostra fine, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni presenti, gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza! Saziamoci di vino pregiato e di profumi, non ci sfugga alcun fiore di primavera, coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze. Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato. La nostra forza sia legge della giustizia, perché la debolezza risulta inutile”» (Sap 2,1-11)…

È qui che si arriva se si prende sul serio ciò che avviene nell’ascensione e se non si riesce a comprenderla fino in fondo. Perché l’assenza fisica di Gesù che essa impone è il dramma della debole fede di noi uomini di ogni generazione. Infatti il problema a cui l’ascensione rimanda, è precisamente questo: È possibile continuare a credere e più radicalmente continuare a vivere dopo che Gesù diventa l’assente? Si può – cioè –affidarsi a un fondamento, a una sensatezza, a una salvezza, nonostante non sia verificabile? Si può dargli credito, sapendo che o esso ha consistenza o noi non l’abbiamo? Oppure bisogna – con gli empi della Sapienza – rassegnarsi ad una vita senza senso e senza compimento, che di conseguenza si abbandona all’edonismo (cosa che peraltro sta epocalmente avvenendo)?

Molti sembrano incamminarsi per questa strada… Non solo chi la ostenta come l’unica via per l’uomo coraggioso (finalmente maggiorenne), capace di fronteggiare la morte di Dio, di nietzschiana memoria; ma anche chi aveva davvero creduto alla possibilità di costruire una vita sul fondamento della fede nel volto paterno del Dio di Gesù, ma poi, sull’onda delle fatiche della storia, dell’abbandono dei fratelli, della morte degli amati, dell’assenza (appunto!) non ha più retto alla dinamica dell’amore in perdita che il vangelo propone e – spaventato dalla morte – s’è messo a pensare a sé…

Altri invece – che forse si credono uomini di maggior fede ma che invece sono altrettanto impauriti dall’assenza del Signore quanto gli altri – non fanno altro che fermarsi col naso all’insù, aspettando il suo ritorno…

Ma gli Atti degli apostoli, in proposito, sono fin troppo netti: «Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”».

C’è dunque – secondo il racconto di Atti – una lontananza, una distanza, un’assenza… che non è negata… Eppure essa è riletta dentro ad un’ottica diversa da quella della paura: l’assenza del Signore, condensatasi letterariamente nell’episodio dell’ascensione, non è destinata a interrompere il flusso della vita e dell’amore che la vita storica di Gesù ha prodotto… Sembra anzi – stando al racconto di Luca – che ci sia una possibilità di continuazione della vita («perché state a guardare il cielo?»). E non solo della vita biologica o della mera sopravvivenza fisiologica, ma della Vita con la “V” maiuscola proposta dal Signore. È come se la sua dipartita, oltre ad un’assenza che sperimentiamo e patiamo, implichi però qualcosa d’altro, qualcosa di più, un passo ulteriore: non è tutto finito con l’ascensione di Gesù…

Non a caso Luca racconta lo stesso episodio in conclusione al Vangelo e in apertura agli Atti… scelta letteraria che, forse, prima di essere spiegata attraverso slogan tipo “è finito il tempo di Gesù inizia quello della Chiesa”, domanda un approfondimento ulteriore: Cosa vuol dire davvero questa ascensione?

Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso»: Gesù assunto in cielo, vuol dire cioè Gesù immerso nel Padre, «… una passione “umana” infuocata è entrata dentro Dio ed ha assunto la potenza di Dio. È un corpo umano tanto sprofondato e assorbito nella divinità che con essa può impregnare di tenerezza “umana” divinizzata ogni cosa e tracima invadendo tutto il mondo, l’universo, gli angeli e ogni essere che possa esistere, nel tempo e fuori del tempo, come Dio un Dio di carne trasfigurata, che sa cos’è lo spazio e il tempo e la materia, ma non lo limitano più. Ecco l’Ascensione!» [Giuliano]. «Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui» [don Dossetti]. Ecco perché nasce il tempo della Chiesa: non perché finito il tempo di Gesù – che ormai non ha più niente a che fare col mondo dell’aldiqua – inizia il tempo della chiesa, ma perché nasce la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto. È in questo rapporto intimo – accessibile ad ogni credente – che infatti «scaturisce quella scintilla della fede che ci fa ritrovare Cristo glorificato nel Padre e presente in noi, e che realizza già per noi – dobbiamo avere il coraggio di dirlo – il ritorno di Cristo. Con ciò non si vuole confondere questo momento in cui Cristo ritorna in ciascuno di noi, personalmente, col momento del ritorno universale del Signore; però sono scintille dello stesso fuoco» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 100]. «È nell’intimo del nostro essere, dove la benevolenza del Padre ci genera all’unica vita dell’essere e dell’amore, che occorre rientrare per prendere il contatto vitale con Gesù mentre è “trasferito” nel Padre. Perché lì Gesù è “ritornato” e abita come uomo / Dio. Ha trascinato e coinvolto nella sua “glorificazione” (inserimento nel cuore del Padre) tutto l’essere umano, tutto il nostro faticoso rapporto con la storia che ci conduce e ci travolge, tutta la realtà che noi diciamo terrestre, che l’ha nutrito e intriso nella sua vita terrena. Ma soprattutto la rete vitale dei rapporti umani che hanno intessuto e fatto crescere il suo vissuto umano conoscitivo e affettivo… i suoi amori e le sue piaghe, le sue fatiche e le sue gioie. “Tutto questo”, nato e cresciuto nell’avventura umana di Gesù nella persona del Verbo, è stato come raccolto, condensato e imploso nell’intimo di Dio… Ma “tutto questo” non è andato ad abitare chissà dove (cieli, super cieli, troni potestà… che nell’immaginario religioso erano il luogo degno di Dio), ma è andato ad abitare nel profondo del nostro cuore, perché non c’è altro luogo più degno nell’universo, più capace (pur nella sua miserrima fragilità!) di interloquire da amico con Dio, per il dono che il Padre stesso gli ha fatto di “essere per”… e di essere figlio, fratello di Gesù» [Giuliano].

giovedì 13 maggio 2010

L'ascensione: la festa di chi cerca semi di laicità

Quest’anno la liturgia della Parola che la Chiesa ci propone in occasione dell’Ascensione, è curiosamente composta da due racconti del medesimo evento. Esso infatti nel NT è raccontato sia nel Vangelo di Luca (vangelo che caratterizza questo anno liturgico C), che nel libro degli Atti degli Apostoli, che tradizionalmente, ogni anno, va a costituire la prima lettura della solennità dell’Ascensione. Ci troviamo dunque di fronte – quest’anno, e solo per quest’anno C – ad una prima lettura e ad un vangelo che narrano la stessa esperienza…


Ciò detto, bisogna però anche aggiungere che, l’avere a disposizione e l’essere chiamati a meditare su entrambi i racconti neotestamentari dell’ascensione, non rende l’impresa meno ardua… Parlare di ascensione non è facile. Come scriveva don Dossetti infatti: «Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].

Raccogliendo dunque l’invito di don Dossetti, anche noi, proviamo a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare, cercando innanzitutto di precisare meglio perché Egli lo definisca come un qualcosa che «impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere»… Cosa è in gioco con l’ascensione?

In gioco c’è l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto della partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» / «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo»), della sua distanza fisica, della sua assenza, della sua invisibilità, non “consultabilità”, non “fruibilità” almeno nei termini in cui lo era stato fino a quel momento (da vivo o da risorto). Questo è il problema…

Ed è un po’ troppo sbrigativo risolverlo dicendo “Beh, è ‘finito’ il tempo di Gesù, inizia quello della Chiesa”… Innanzitutto perché è una soluzione che toglie la realtà della drammatica in atto – che chiunque ha avuto un morto tra i suoi conosce molto bene –; inoltre perché bisogna intendersi bene su quel “finire del tempo di Gesù” e su quell’“iniziare del tempo della Chiesa”, che sono slogan utili e che dicono anche qualcosa di vero, ma che vanno intesi bene per non risultare fuorvianti…

Forse allora, è utile tornare a chiederci con un po’ di pazienza cosa abbia voluto dire davvero (e cosa voglia dire davvero) questa ascensione… Innanzitutto potremmo farci questa domanda: Letteralmente cosa vuol dire “ascendere”? E soprattutto: Dove è “asceso” Gesù?

Scrivono i biblisti bergamaschi su Scuola della Parola del 2003: «Il racconto dell’Ascensione non concede moltissimo alla descrizione: si dice che Gesù sale al cielo, mentre una nube lo nasconde allo sguardo. Il cielo non è tanto ciò che sta in alto, ma è un altro modo di essere di Gesù. Luca non insiste, non ha l’interesse di stupire il lettore con delle scenografie spettacolari; anzi, il suo modo di esprimersi è molto sobrio, nonostante la qualità del contenuto».

Ma se «il cielo non è tanto ciò che sta in alto», dove è stato assunto Gesù? Dove è andato a finire? E cosa si intende con questo “modo altro di essere”? Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso».

“Gesù assunto in cielo”, vuol dire allora “Gesù immerso nel Padre”.

«Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui»!

Tant’è che ancora i bergamaschi scrivono: «La parola “ascensione” a noi ricorda soltanto il momento finale, quando – quaranta giorni dopo la Pasqua – Gesù sale al cielo», ma essa «comincia ad apparire molto presto nel vangelo di Luca, ben prima del momento puntuale dell’ascensione. In Luca 9,51 leggiamo: “mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo…”. Letteralmente, quel “tolto dal mondo” è diverso nel testo originale e l’intera frase suonerebbe così: “mentre stavano compiendosi i giorni del suo salire (del suo essere assunto)”. È lo stesso vocabolo che abbiamo in Atti per indicare l’ascensione: il “fu assunto in cielo”, non rappresenta solo (o forse non tanto) l’essere tolto dal mondo, ma è il compimento di quella “salita” di Gesù, incominciata il giorno in cui ha con decisione orientato il suo volto e i suoi passi verso Gerusalemme. Il suo salire non avviene soltanto con l’Ascensione nel quarantesimo giorno, ma inizia con quel cammino verso Gerusalemme», proprio perché non è un salire “fisico”, ma un’immersione in Dio…

Ecco perché l’esperienza umanamente insuperabile – e insuperata – dell’assenza di chi non c’è più, è riletta dal NT come l’esperienza di una nuova modalità di presenza: perché Gesù non si è dissolto nel niente, ma si è immerso – trascinandosi dietro la sua umanità – nel Padre. La buona novella da annunciare a tutto il mondo è infatti che da sempre «la Chiesa vive di questa consapevolezza: Cristo è vivo in mezzo ai discepoli».

In questa ottica anche lo slogan prima citato del “finisce il tempo di Gesù, inizia quello della Chiesa”, assume la corretta intonazione: il tempo di Gesù – di per sé – non finisce; finisce una modalità della sua presenza e ne inizia un’altra, quella che noi chiamiamo Spirito. La Chiesa infatti altro non è (o non dovrebbe essere) che la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto e dentro a questo rapporto imparano la dedizione per gli altri… anzi è la dedizione per gli altri, perché l’incontro in spirito con chi è spirito è riconoscibile (da chi non è ancora solo spirito) sempre e solo a posteriori, mai “in diretta”…

Non a caso mentre il vangelo di Luca termina – senza che nessuno avverta questo come un problema – dicendo degli apostoli che «stavano sempre nel tempio lodando Dio», gli Atti – in maniera quasi sarcastica – aggiungono subito: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Come a dire che il nuovo modo di stare col Signore – starci in spirito – non ha niente a che vedere con il ritagliare uno spazio sacro in cui isolarsi, ma coincide con l’immersione nella secolarità [cfr. brano di R. La Valle*]. Dicevamo infatti qualche settimana fa: «il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio» e invece che impostare il comandamento nuovo sulla logica matematica del “come vi ho amati io, amatemi anche voi così”, proclama: «Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri»… Come a dire che l’incontro “spirituale” (in spirito) passa dalla storia e dai volti che in essa abitano e non da un ritrarsi da essa.

La vita cristiana però «fatica a mantenere il modello di equilibrio della difficile tensione escatologica, nata dall’Ascensione, che è insieme un’assenza del Signore, abitata dallo Spirito – e un’attesa del suo ritorno, impegnata nell’annuncio fattivo del Regno a tutti gli uomini. Ci si orienta piuttosto ad una schizofrenia ecclesiale dove i due poli della tensione si separano e tendono a cristallizzarsi in due classi diverse: i laici comuni, che guardano in basso e curano le cose del mondo e i monaci che, alla deriva della fuga et contemptus mundi, guardano solo in alto. Scordandosi così che il Vangelo domanda fedeltà, condivisione, compassione, servizio radicali e totalizzanti per tutti i discepoli, pur in situazioni esistenziali diverse» [Giuliano].

In questo senso aveva proprio ragione, quando scriveva che: «L’Ascensione è la nostra festa: di noi che cerchiamo i semi della laicità, come il dono capace, man mano che gli uomini se ne rendono conto, di svuotare ed eliminare ogni discriminazione sacrale, ideologica, economica, sessuale… discriminazione sempre fondata sulla diversità che noi interpretiamo spesso come inferiorità e disumanità… lasciandoci sfuggire la forza di umanizzazione per noi, che invece ogni uomo che incontriamo sempre riserva come dono che solo lui può farci».

*RANIERO LA VALLE, Se questo è un Dio, 76-86.97.115-118

«Risalendo alle origini, il primo impulso documentato nell’esperienza di Israele è stato quello di stabilire una netta separazione dal sacro (per gli ebrei qadoš). Se il sacro fa male [«Chi vede Dio muore»], meglio prenderne le distanze, fissare una netta demarcazione di confini. Ma la cosa non è affatto facile, perché il sacro non si fa agevolmente circoscrivere, invade tutta la realtà. […] E se il sacro malefico invadeva tutta la realtà, il problema era appunto quello di ritagliarne e separarne lo spazio profano, una specie di zona franca di ciò che restava indenne e disponibile all’uomo. E così fu fatto, e sul confine fu fissata una barriera protettiva, i cui effetti, come spesso è dei muri, saranno devastanti. La barriera era quella che distingueva l’impuro dal puro; e le norme di purità furono poste a garanzia di tutto il sistema. […] All’inizio al sacro si sposava il termine impuro, al profano il termine puro. Impuro è ciò che sta in contatto col sacro, e ne viene contaminato. […] Poi le cose cambiano […]: l’impurità viene legata al peccato, e il rapporto tra le due coppie di opposti [puro-impuro; sacro-profano] si inverte, da parallelo che era; è la purità, non più l’impurità che viene attirata nella sfera del divino; distinguere il sacro dal profano coincide ormai con la separazione del puro dall’impuro. Dio tre volte qadoš, sacro, sacro, sacro, come lo cantano i cherubini di Isaia (Is 6,3) è puro; è il mondo, è il profano, è la storia che giacciono nell’impurità. […] Questa concezione del contrasto tra puro e impuro è troppo importante, è troppo potente nella sua pretesa di invadere e spartire l’intera realtà umana e divina, per liquidarla come una fissazione di rubricisti, per non interrogarsi sulla sua persistenza storica, per non chiedersi se non sia rimasta all’opera fino a oggi, anche se in forme sempre mutate. Anche le pulizie etniche vengono da lì. E non basta nemmeno dirimere la questione se alla coppia sacro-profano corrisponda la coppia impuro-puro o viceversa. […] Ancora più necessario è chiedersi in che cosa consista l’essere puro o impuro, sia che a essere puro sia il sacro, come è ormai nel senso comune, sia che lo fosse il profano, come era all’inizio. […] Ora dalla lettura delle prescrizioni bibliche, dalla ricognizione dei testi ebraici antichi […] risulta che il connotato essenziale della purità consiste nella separazione dei diversi, e che il disordine della impurità consiste nella loro reciproca contaminazione. La purità sta nella omogeneità e identità con se stesso di ognuno dei due ordini, il sacro e il profano, l’impurità sta nella loro congiunzione, confusione, interferenza. Per estensione, la purità è non mischiarsi con l’altro da sé, l’impurità è il meticciato. La purità è la solitudine, l’impurità è la compagnia. […] Quella che si afferma è una antropologia della disuguaglianza per natura degli esseri umani. La discriminazione tra puro e impuro degenera in una discriminante tra uomini e no, perfetti e incompiuti, nobili e volgari, integri per natura e malriusciti e contaminati. La categoria puro-impuro diventa il paradigma e il primo travestimento culturale di una discriminazione, e perciò di un dominio, che percorrerà tutta la storia». Ma… Innanzitutto: «Se [Dio] ci avesse tenuto alla purità, alla non contaminazione, alle identità prigioniere di se stesse, non avrebbe fatto l’uomo a sua immagine, non avrebbe introdotto la riproduzione sessuata, causa di tutte le combinazioni e le differenze, non avrebbe dato corso alla storia, la quale senza relazioni non sarebbe possibile». E soprattutto: non si sarebbe fatto uomo. Infatti «Con l’apparizione di Dio nel bambino neonato accadde la caduta di tutta la strutturazione della realtà nelle categorie di puro e impuro e la sua riconduzione a unità. Il primo segno è che per il parto non si trova luogo – che fosse una casa o un albergo – dove fosse possibile osservare le regole di purità», (cfr Lev. 12,2 per le regole di purità per la donna che aveva appena partorito e Is 1,3 per la vicinanza agli animali). «Se quella era la nuova “Presenza” di Dio sulla terra, essa si manifesta quindi fuori del luogo deputato, e fino ad allora esclusivo; fuori del santo dei santi, fuori del tempio, senza la mediazione dei sacerdoti vestiti solo di lino; è un’altra struttura del divino che cade. Ciò troverà poi piena esplicazione nella risposta di Gesù alla Samaritana («Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre; i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità, Giov. 4,21-23) e nel fatto che la sua morte e risurrezione avverranno fuori della città, fuori del tempio. Ma è già alla nascita che egli si pone fuori del recinto del sacro. […] La divisione tra sacro e profano entra in crisi con l’incarnazione. In quella che nella liturgia e nell’arte sacra chiamiamo “epifania di Gesù”, non ve n’è più traccia. Finisce quell’ambiguo gioco di rimandi tra puro e impuro, tra sacro puro e profano impuro. E cade non perché sopravviene una concezione più avanzata, ma perché ne viene meno (ne viene tolto) il presupposto radicale: la giustapposizione tra il divino e l’umano, l’intransitabilità della soglia che divide il mondo da Dio. Se l’invasione di campo del sacro nel profano e del profano nel sacro, la mescolanza, la contaminazione tra Dio e uomo rappresentano la massima impurità, proprio questa Dio sceglie e fa sua. Il gesto sorprendente di Dio è di mantenere la distinzione ma di abolire la distanza. […] La massima impurità diventa pertanto la nuova forma dell’economia divina: la comunione del sacro col profano (nulla è più riservato, tutto è riportato alla condizione comune), il meticciato tra il divino e l’umano. Il Dio puro dell’assoluta trascendenza si impasta anche lui di terra, e si presenta nel volto di Cristo come divino e umano insieme, “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, veramente Dio e veramente uomo”, come professa il Concilio di Calcedonia. Un Dio meticcio».
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