Domenica scorsa, con la celebrazione della solennità di Pentecoste, si è chiuso anche per quest’anno il Tempo di Pasqua. Lunedì è infatti ripreso il cosiddetto Tempo Ordinario. Eppure, in questa prima domenica dopo Pentecoste, ci ritroviamo subito a festeggiare un’altra solennità: quella della Santissima Trinità. Non è facile “star dietro” a tutte queste feste (ascensione, pentecoste, trinità…), una dietro l’altra, perché i misteri che vogliono celebrare sono davvero grandi… e soprattutto sono impastati di così tante precomprensioni culturali, che – a volte – già solo nominarle, fa scappar via la gente…
Per esempio… parlare di Trinità non è così immediatamente agevole… si rifugge all’idea di provare a spiegare o spiegarsi cosa stia realmente dietro a questa parola, che non è nemmeno biblica… istintivamente vengono in mente piroette filosofico-teologiche che tutti sentiamo come assolutamente estranee, estrinseche, lontane, incomprensibili… con nessuna incidenza o significatività per la concretezza e quotidianità della nostra vita…
E allora m’è perfin venuto da chiedermi: “Ma perché la Chiesa celebra questa festa”, “Perché mi costringe a riflettere su ‘questa cosa’ così complicata?”… E la risposta che mi son data, mi ha fatto quasi sorridere nella sua semplicità ed evidenza così spesso dimenticate o offuscate da tante impalcature intellettualistiche che i secoli passati ci hanno montato nella testa: “La Chiesa celebra questa festa e parla di Trinità, semplicemente perché è ciò che emerge dal vangelo. La Chiesa parla di Trinità perché Gesù, oltre che di sé, ha parlato del Padre e ha parlato dello Spirito”.
E non lo ha fatto occasionalmente, o per inciso… Ma tutta la sua vita è come sostenuta da una passione “urgente” di rivelare il Padre, di farlo conoscerlo, di farlo vedere («La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato», Gv 14,24); e da una “fissazione quasi ossessiva” per l’annuncio del dono dello Spirito («Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me», Gv 15,26).
È per questo che parliamo di Trinità! Perché Gesù non ha semplicemente parlato di sé come del Messia o del Dio fattosi uomo, ma ha contemporaneamente parlato (con le parole e con la vita) di un Padre e di uno Spirito…
Un annuncio che poi la Chiesa ha condensato nel dogma niceno del Dio uno (nella sostanza) e trino (nelle persone). Ma – appunto – diversamente da quanto noi spesso facciamo (e in parte nei secoli passati anche la chiesa ha fatto) è il vangelo a dare la misura e il senso al dogma, non il contrario: per cui di fronte alla solennità della Trinità il nostro pensiero non deve immediatamente andare a chissà quale congegno intellettualistico partorito dall’uomo per tentare di spiegare (inventarsi?) dio; quanto piuttosto alle parole di Gesù, che indubitabilmente fanno con costanza riferimento al Padre ed allo Spirito. È lui – che noi crediamo l’insuperabile rivelazione di Dio – che ci ha parlato dell’intimità di Dio in quei termini. Tra l’altro all’interno di un contesto in cui non era facile elaborare una “teoria” del genere: siamo infatti nella culla dell’ebraismo, religione che tutti ricordano e riconoscono come il primo grande e ferreo monoteismo della storia. Una religiosità che non a caso ha nel primo dei suoi dieci comandamenti, precisamente la “blindatura” della sua rigorosità in materia: «Non avrai altro Dio»!
Ma… se tutto questo è vero… la domanda diventa: “Cosa ha dunque detto Gesù del Padre e dello Spirito?”.
Evidentemente non possiamo qui ora richiamare alla memoria tutti i passi (espliciti o meno) in cui Gesù – vivendo – fa tralucere questa sua relazione intimissima col Padre («Chi ha visto me, ha visto il Padre», Gv 14,9; «io sono nel Padre e il Padre è in me», Gv 14,11; bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, «e come il Padre mi ha comandato, così io agisco», Gv 14,31), che è lo Spirito… Ma possiamo certamente annotare come “premura incalzante” di Gesù sia quella di annunciare agli uomini la loro non - orfanità: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18).
Dire che Dio è Abbà e dire che il ritorno di Gesù a lui non è abbandono, ma assenza colmata («io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) è il vangelo di Gesù, la sua buona notizia. Dire “trinità” è dire non-solitudine: questo è Dio per Gesù, una non-solitudine che vuole coinvolgere l’uomo, perché non sia e non si senta mai (mai più) solo, nemmeno di fronte alla morte, che è così paurosa perché – per quel che vediamo noi – è solitudine estrema, eterizzata, abbandonata…
La non-solitudine che invece è il Dio che ci ha raccontato Gesù è relazione da sempre e per sempre. Questo è Dio: relazione da sempre e per sempre. E non una “relazione qualsiasi”…
Per specificarla dovremmo forse dire “una relazione d’amore”, ma quest’ultima espressione risulta così abusata da non essere più in grado di dire e significare niente… o tutto e il contrario di tutto, che è poi lo stesso…
Diciamo allora che è “relazione decentrante” – che è lo stesso che dire “amore” ma con un termine un po’ meno noto e dunque, forse, meno scontato –, relazione cioè in cui si vive della custodia dell’altro (degli altri) e per la custodia dell’altro (degli altri); dove quindi non sono io a dovermi pre-occupare di me, perché è il bene degli altri che mi “tiene”, ma devo piuttosto pre-occuparmi degli altri, perché siano “tenuti” da me… Dio è questa “cosa” qui; tra l’altro circolare (ha tre persone coinvolte) e non solamente reciproca (relazione a due): perché è come se il bene che i due (Padre e Figlio) si vogliono, straripasse al di là dei confini del loro rapporto e diventasse a sua volta terzo elemento del rapporto (Spirito) “sovrabbondante”, che ingenera una specie di reazione a catena coinvolgendo sempre qualcun altro… Come quelle particelle che si liberano nelle reazioni chimiche e vanno ad innescare altre reazioni, che a loro volta liberano un sovrappiù di “particelle” che andranno ad innescare nuove reazioni… e così via… a catena…
E questa storia – che è la stessa del dogma niceno, solo raccontata con parole più laiche e più riconoscibili dalle orecchie dei giorni nostri – non è quella che a me è piaciuto inventare o che a qualche padre conciliare è piaciuto ipotizzare 1700 anni fa (il Concilio di Nicea è del 325): è la storia che è piaciuto narrare (vivendola) a Gesù di Nazareth, che noi crediamo essere il Figlio di Dio e la sua piena rivelazione… Dio è la non-solitudine, è l’esserci per l’altro…
Ma se questo è vero – e lo è radicalmente – allora bisogna essere coraggiosi fino in fondo: «A ben vedere, [infatti] ogni tentazione cristiana (e, a livello inconsapevole, ogni tentazione umana) è una tentazione antitrinitaria. Ogni totalitarismo, che censura le differenze per esaltare un solo valore; ogni spiritualismo che deprezza la carne e la debolezza ad essa legata, esaltando superuomini; ogni materialismo che seppellisce il seme dello Spirito e il suo gemito nascosto nel cuore dell’umanità; ogni lucignolo di verità spento in nome delle verità più grandi; ogni uomo isolato o perseguitato per le sue idee o la sua diversità; ogni debole oppresso dalla prepotenza di altri uomini; ogni bimbo che non può crescere e gioire a causa del nostro egoismo… è una bestemmia contro la Trinità. Noi cristiani, cui questo mistero è affidato, ne abbiamo fatte e dette tante di queste eresie storiche - e Giovanni Paolo II ne ha chiesto perdono a tutti più di cento volte… Ma è pure vero che un’innumerevole folla di martiri ha testimoniato il rifiuto della prepotenza politica o ideologica di capi, re e imperatori. Generazioni di credenti, laici e consacrati, famiglie e chiese, hanno sfidato la logica del potere e del danaro…e hanno seminato nel mondo il fermento del primato della persona, e quindi l’accudimento del malato e del debole, l’assistenza e l’istruzione del meno fortunato, l’ascolto e il rispetto di tutti i pareri diversi…» [Giuliano].
È ben vero allora che l’idea di Dio che abbiamo in testa non è ininfluente sulla vita che costruiamo (foss’anche l’idea che Dio non c’è – perché anche questa è un’idea di Dio…), ma anzi: dall’idea di Dio che uno ha in testa, si capisce anche che uomo egli è; e viceversa, ovviamente: da che vita uno conduce, si può capire in che “idea” di Dio crede… se in un dio monadico, totalitario, autoritario, autosufficiente, autoriferito, ecc… o in un Dio di relazione, di pluralità, di custodia, di solidarietà, di collaborazione…
Un “dio per sé” ha infatti seguaci che vivono per se stessi; un “Dio per gli altri” ha seguaci che vivono per gli altri…
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venerdì 28 maggio 2010
martedì 23 marzo 2010
Soli!
postato da
Mario

C’è un pensiero triste – triste come la morte – che spesso può attraversare la mente di un genitore: quello di non credere più alla possibilità di educare e di saper educare i propri figli.
Non c’è niente di peggio per un genitore, e non c’è niente di peggio per un educatore…
In quella grande istituzione anche “educativa” che è la Chiesa, questo è un cancro mortale che gli impedisce di essere Chiesa, missionaria, annunciatrice, di un volto nuovo di Dio…
Quando un genitore arriva a quel punto, o “scomunica” il figlio cacciandolo di casa, o lo denuncia ai carabinieri, per farlo “internare”. In ogni caso gli nasconde il suo volto.
Per alcuni può essere una extrema ratio… Dovrebbero chiamarla però extrema irratio in quanto figlia della disperazione. Sintomo che il dialogo tra educatore e educando si è interrotto da tempo e rivela l’incapacità dell’educatore di perderci di persona per ricomporlo. Di perderci la faccia!
Più che la scacciata del figlio, è la morte del padre, che il padre mette in atto! Perché uccide la speranza, l’unica “cosa” che ci tiene in vita: padri e figli. E uccidendola in sé, il padre la distrugge anche nel figlio!
Una non-paternità, la negazione stessa della propria maternità! Sottraendo il proprio sguardo, al figlio.
Qualcosa del genere accade da tempo in una “pastorale” della Chiesa italiana, in cui la “madre” delega al braccio potente della politica il suo compito di “custodire”, con-vertire, accogliere, dialogare, annunciare… Una Chiesa che chiede al potere secolare di aiutarla o almeno non ostacolarla è diversa da una Chiesa che chiede al potere secolare di sostituirsi alla sua missione educativa.
Chiedi a tutti di aiutarti ad esercitare al massimo il tuo ruolo di educatore, padre, madre, fratello, sorella, ma non delegare a nessuno il tuo essere padre, madre, fratello, sorella!
La legge contro l’aborto che lo limita a casi ben specifici è stata approvata nel lontano 22 maggio 1978 e confermata anche dai cattolici italiani che hanno respinto il doppio referendum che ne chiedeva in parte l’abrogazione (sia in senso permissivo, sia in senso restrittivo) il 17 maggio 1981.
E siamo ancora a quel punto? Ma non è questo il punto…
Affermare, anche indirettamente, come fa Bagnasco nella sua prolusione, che ci vuole un politico pro-life per impedire l’aborto, è un’aberrazione di una madre che ha paura di farsi madre. Che non crede più nelle proprie capacità di convinzione, di annuncio, di formazione delle coscienze… È una Chiesa che rinuncia a farsi missionaria parlando al “cuore” delle persone, prendendone veramente a “cuore” i destini. In tutti questi anni la Chiesa non ha convinto perché non ha parlato al cuore, e non ha parlato al cuore, perché per parlare al cuore, occorre veramente farsi carico delle angosce dell’altro e morirci, come ci muore una madre.
E allora si delega al rappresentante politico, al potere forte della legge e della giustizia il compito che le spetta come Madre.
Quando poi si parla di giustizialismo si sa che cosa si sta dicendo? Il vero giustizialismo non è forse la rinuncia ad essere fratello, sorella e madre? Le relazioni affettive sono sostituite da quelle “contrattuali” della legge! All’astrazione di una legge, che mai può tener conto della “fatica” nell’osservarla!
L’astrazione… si vede anche nel modo in cui si argomenta: dai principi primi ai i principi secondi… Prima viene la vita, dice Bagnasco, in ogni sua dimensione, soprattutto estrema, poi viene la l’oikonomos, la fatica di viverla…
Niente di più falso, niente di più astratto, niente di più antievangelico! Non a caso Gesù mette il rapporto col denaro a fondamento del rapporto con Dio e con gli uomini (e le donne!).
Nel Vangelo Mammona non è il potere, Mammona è il denaro con il quale si raggiunge e si conserva il potere di ogni Faraone, di ogni Erode, che si divorano i nostri feti e i nostri nonni non più “efficienti”.
C’è un vuoto di riflessione nella Chiesa sul denaro e sul suo potere ammaliante sulle coscienze. Che consegna la Chiesa tra le braccia di Mammona.
Anche la pedofilia, per fare una parentesi che parentesi non è: è possibile esercitarla solo da una posizione di “potere”, al quale credo non sia del tutto estranea la dimensione del potere economico che prende la forma del turismo sessuale e della corruzione con regali del minore… Forse sarebbe interessante approfondire anche questo aspetto: «Il potere dei soldi nella corruzione di tutta la morale (non solo sessuale) dell’Occidente e Oltre». Un buon tema, per la prossima prolusione del nostro caro monsignor Bagnasco. Che ci provi almeno, ne scoprirà delle belle!
E la “precisazione ligure” arrivata nelle ore in cui riflettevo su questo scritto, non sposta di una virgola la prospettiva. Anzi, spostando le pedine del gioco, ne conferma il gioco.
Al politico chiedo che faccia bene il suo mestiere di amministratore della polis senza appropriarsi di beni che son di tutti… ma è a mia madre che, senza giudicarmi, domando di tenermi la mano che mi aiuti a sentirmi meno solo.
E allora… A che serve dire, senza dirlo, di non votare Emma Bonino o Mercedes Bresso, ma di votare “gli altri”, se poi la donna quando deve fare la scelta sulla “vita della sua vita” è lasciata sola, illudendosi colpevolmente che le basti un “consultorio” per toglierle il dramma della solitudine?…
A che serve… al disoccupato, forse anche con famiglia a carico, che non ritrova il lavoro, se poi concretamente, i “fratelli e sorelle nella fede”, chiusi nella loro attività parrocchiale lo lasciano solo con i suoi problemi di sopravvivenza, delegando quasi tutto all’istituzione della Cassa Integrazione o all’Ufficio di Collocamento o alla Caritas?…
A che serve… al morente solo col suo dolore, attorniato da extraterrestri in camice bianco che gli fanno capire quanto è di peso, a loro, alla società e ai familiari?…
Servisse a niente! sarebbe già qualcosa. Ma a qualcosa purtroppo serve… a sentirsi ancora più abbandonati, ancora più “usati”, ancor più soli…
Non c’è niente di peggio per un genitore, e non c’è niente di peggio per un educatore…
In quella grande istituzione anche “educativa” che è la Chiesa, questo è un cancro mortale che gli impedisce di essere Chiesa, missionaria, annunciatrice, di un volto nuovo di Dio…
Quando un genitore arriva a quel punto, o “scomunica” il figlio cacciandolo di casa, o lo denuncia ai carabinieri, per farlo “internare”. In ogni caso gli nasconde il suo volto.
Per alcuni può essere una extrema ratio… Dovrebbero chiamarla però extrema irratio in quanto figlia della disperazione. Sintomo che il dialogo tra educatore e educando si è interrotto da tempo e rivela l’incapacità dell’educatore di perderci di persona per ricomporlo. Di perderci la faccia!
Più che la scacciata del figlio, è la morte del padre, che il padre mette in atto! Perché uccide la speranza, l’unica “cosa” che ci tiene in vita: padri e figli. E uccidendola in sé, il padre la distrugge anche nel figlio!
Una non-paternità, la negazione stessa della propria maternità! Sottraendo il proprio sguardo, al figlio.
Qualcosa del genere accade da tempo in una “pastorale” della Chiesa italiana, in cui la “madre” delega al braccio potente della politica il suo compito di “custodire”, con-vertire, accogliere, dialogare, annunciare… Una Chiesa che chiede al potere secolare di aiutarla o almeno non ostacolarla è diversa da una Chiesa che chiede al potere secolare di sostituirsi alla sua missione educativa.
Chiedi a tutti di aiutarti ad esercitare al massimo il tuo ruolo di educatore, padre, madre, fratello, sorella, ma non delegare a nessuno il tuo essere padre, madre, fratello, sorella!
La legge contro l’aborto che lo limita a casi ben specifici è stata approvata nel lontano 22 maggio 1978 e confermata anche dai cattolici italiani che hanno respinto il doppio referendum che ne chiedeva in parte l’abrogazione (sia in senso permissivo, sia in senso restrittivo) il 17 maggio 1981.
E siamo ancora a quel punto? Ma non è questo il punto…
Affermare, anche indirettamente, come fa Bagnasco nella sua prolusione, che ci vuole un politico pro-life per impedire l’aborto, è un’aberrazione di una madre che ha paura di farsi madre. Che non crede più nelle proprie capacità di convinzione, di annuncio, di formazione delle coscienze… È una Chiesa che rinuncia a farsi missionaria parlando al “cuore” delle persone, prendendone veramente a “cuore” i destini. In tutti questi anni la Chiesa non ha convinto perché non ha parlato al cuore, e non ha parlato al cuore, perché per parlare al cuore, occorre veramente farsi carico delle angosce dell’altro e morirci, come ci muore una madre.
E allora si delega al rappresentante politico, al potere forte della legge e della giustizia il compito che le spetta come Madre.
Quando poi si parla di giustizialismo si sa che cosa si sta dicendo? Il vero giustizialismo non è forse la rinuncia ad essere fratello, sorella e madre? Le relazioni affettive sono sostituite da quelle “contrattuali” della legge! All’astrazione di una legge, che mai può tener conto della “fatica” nell’osservarla!
L’astrazione… si vede anche nel modo in cui si argomenta: dai principi primi ai i principi secondi… Prima viene la vita, dice Bagnasco, in ogni sua dimensione, soprattutto estrema, poi viene la l’oikonomos, la fatica di viverla…
Niente di più falso, niente di più astratto, niente di più antievangelico! Non a caso Gesù mette il rapporto col denaro a fondamento del rapporto con Dio e con gli uomini (e le donne!).
Nel Vangelo Mammona non è il potere, Mammona è il denaro con il quale si raggiunge e si conserva il potere di ogni Faraone, di ogni Erode, che si divorano i nostri feti e i nostri nonni non più “efficienti”.
C’è un vuoto di riflessione nella Chiesa sul denaro e sul suo potere ammaliante sulle coscienze. Che consegna la Chiesa tra le braccia di Mammona.
Anche la pedofilia, per fare una parentesi che parentesi non è: è possibile esercitarla solo da una posizione di “potere”, al quale credo non sia del tutto estranea la dimensione del potere economico che prende la forma del turismo sessuale e della corruzione con regali del minore… Forse sarebbe interessante approfondire anche questo aspetto: «Il potere dei soldi nella corruzione di tutta la morale (non solo sessuale) dell’Occidente e Oltre». Un buon tema, per la prossima prolusione del nostro caro monsignor Bagnasco. Che ci provi almeno, ne scoprirà delle belle!
E la “precisazione ligure” arrivata nelle ore in cui riflettevo su questo scritto, non sposta di una virgola la prospettiva. Anzi, spostando le pedine del gioco, ne conferma il gioco.
Al politico chiedo che faccia bene il suo mestiere di amministratore della polis senza appropriarsi di beni che son di tutti… ma è a mia madre che, senza giudicarmi, domando di tenermi la mano che mi aiuti a sentirmi meno solo.
E allora… A che serve dire, senza dirlo, di non votare Emma Bonino o Mercedes Bresso, ma di votare “gli altri”, se poi la donna quando deve fare la scelta sulla “vita della sua vita” è lasciata sola, illudendosi colpevolmente che le basti un “consultorio” per toglierle il dramma della solitudine?…
A che serve… al disoccupato, forse anche con famiglia a carico, che non ritrova il lavoro, se poi concretamente, i “fratelli e sorelle nella fede”, chiusi nella loro attività parrocchiale lo lasciano solo con i suoi problemi di sopravvivenza, delegando quasi tutto all’istituzione della Cassa Integrazione o all’Ufficio di Collocamento o alla Caritas?…
A che serve… al morente solo col suo dolore, attorniato da extraterrestri in camice bianco che gli fanno capire quanto è di peso, a loro, alla società e ai familiari?…
Servisse a niente! sarebbe già qualcosa. Ma a qualcosa purtroppo serve… a sentirsi ancora più abbandonati, ancora più “usati”, ancor più soli…
venerdì 21 novembre 2008
Vivere l'armonia
postato da
Mario
Nel monastero le dimensioni dell'esperienza umana
Di secoli ne sono passati proprio tanti, pari o tutt'al più inferiori, alle parole sprecate nel recriminare contro le claustrali, tanto da non valer neppure la pena di offrirne un assaggio!
Passiamo da questo "happy hour" al vero banchetto: quello della Parola che ogni giorno la Chiesa offre a chi voglia prendervi parte.
Vita contemplativa non significa vita reclusa o imbottigliata, significa fare dello spazio dello propria vita lo spazio della Parola. Esserne talmente magnetizzate che ogni uscita dalla Parola - Gesù Cristo, presente nell'Eucaristia e nella Sacra Scrittura - non viene neppure ipotizzata. La relazione con Colui che è presente e con le sorelle crea un'intersoggettività che innerva il quotidiano ed esige di sostare, intendendo così riconoscere alla clausura non il valore di un principio autonomo - si rischierebbe di essere assimilato agli ergastolani - ma la realtà che consente e custodisce la comunione amorosa con Dio e ne fonda la stessa possibilità.
Tutte le persone sono in cammino, lo ammettano o meno, dalla nascita alla morte (per usare il termine autentico e non ricorrere "alla dipartita della cara estinta!") da un dove preciso ad un altro dove, anch'esso preciso, conosciuto e amato nella fede: il Volto del Padre.
Tutta la vita monastica è un pellegrinaggio interiore parallelo a quello esteriore: attraversiamo il deserto guidate dalla colonna di fuoco e dalla nube. Lo attraversiamo come persone in relazione fra di noi, monache, ma dilatate ed aperte alla storia, alle sue vicende, a tutti i fratelli e le sorelle.
Il più piccolo monastero, situato nel borgo più sperduto del mondo, non è un buco in cui la donna-struzzo ha infilato la sua testa per rimuovere il grande spettro della falce... è il punto irradiante, centro del mondo delle relazioni, da cui la Luce di Dio si espande e si rifrange esattamente là dove deve andare, là dove la sofferenza è più acuta, là dove il fratello e la sorella gemono e patiscono.
Uno spazio amato che, purtroppo, viene definito con un termine, clausura, che suscita subito nell'immaginario umano un vortice di chiavistelli, di linee di demarcazione, di sanzioni disciplinari. Indubbiamente la Chiesa, da madre qual è, indica e tutela ma, soprattutto, suscita e incoraggia a permanere nell'ascolto dello Spirito, il solo che, nel silenzio e nella solitudine, sappia schiudere i sentieri del silenzio interiore.
Il rapporto fra le sorelle innerva il quotidiano e il monastero diventa così spazio di equilibrio fra le diverse dimensioni della vita: preghiera, lavoro, studio. Alla ricerca di un'armonia che è una grande sfida: vivere il Vangelo come anticipazione dei beni futuri.
L'insensatezza diventa allora la grande e unica sensatezza cui è chiamata la monaca: scoprirsi abitata per lasciarsi abitare da ogni gioia e dolore, da ogni evento, da ogni grido e da ogni richiamo. Non è un vuoto, è un'apertura proprio come la persona, così insegnava il prof. Ratzinger, è un'apertura all'Infinito. Noi Lo accogliamo e Lo doniamo, come Maria di Nazaret.
Passiamo da questo "happy hour" al vero banchetto: quello della Parola che ogni giorno la Chiesa offre a chi voglia prendervi parte.
Vita contemplativa non significa vita reclusa o imbottigliata, significa fare dello spazio dello propria vita lo spazio della Parola. Esserne talmente magnetizzate che ogni uscita dalla Parola - Gesù Cristo, presente nell'Eucaristia e nella Sacra Scrittura - non viene neppure ipotizzata. La relazione con Colui che è presente e con le sorelle crea un'intersoggettività che innerva il quotidiano ed esige di sostare, intendendo così riconoscere alla clausura non il valore di un principio autonomo - si rischierebbe di essere assimilato agli ergastolani - ma la realtà che consente e custodisce la comunione amorosa con Dio e ne fonda la stessa possibilità.
Tutte le persone sono in cammino, lo ammettano o meno, dalla nascita alla morte (per usare il termine autentico e non ricorrere "alla dipartita della cara estinta!") da un dove preciso ad un altro dove, anch'esso preciso, conosciuto e amato nella fede: il Volto del Padre.
Tutta la vita monastica è un pellegrinaggio interiore parallelo a quello esteriore: attraversiamo il deserto guidate dalla colonna di fuoco e dalla nube. Lo attraversiamo come persone in relazione fra di noi, monache, ma dilatate ed aperte alla storia, alle sue vicende, a tutti i fratelli e le sorelle.
Il più piccolo monastero, situato nel borgo più sperduto del mondo, non è un buco in cui la donna-struzzo ha infilato la sua testa per rimuovere il grande spettro della falce... è il punto irradiante, centro del mondo delle relazioni, da cui la Luce di Dio si espande e si rifrange esattamente là dove deve andare, là dove la sofferenza è più acuta, là dove il fratello e la sorella gemono e patiscono.
Uno spazio amato che, purtroppo, viene definito con un termine, clausura, che suscita subito nell'immaginario umano un vortice di chiavistelli, di linee di demarcazione, di sanzioni disciplinari. Indubbiamente la Chiesa, da madre qual è, indica e tutela ma, soprattutto, suscita e incoraggia a permanere nell'ascolto dello Spirito, il solo che, nel silenzio e nella solitudine, sappia schiudere i sentieri del silenzio interiore.
Il rapporto fra le sorelle innerva il quotidiano e il monastero diventa così spazio di equilibrio fra le diverse dimensioni della vita: preghiera, lavoro, studio. Alla ricerca di un'armonia che è una grande sfida: vivere il Vangelo come anticipazione dei beni futuri.
L'insensatezza diventa allora la grande e unica sensatezza cui è chiamata la monaca: scoprirsi abitata per lasciarsi abitare da ogni gioia e dolore, da ogni evento, da ogni grido e da ogni richiamo. Non è un vuoto, è un'apertura proprio come la persona, così insegnava il prof. Ratzinger, è un'apertura all'Infinito. Noi Lo accogliamo e Lo doniamo, come Maria di Nazaret.
di C. Dobner, in SIR, 21 novembre 2008
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