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venerdì 21 novembre 2008

Vivere l'armonia

Nel monastero le dimensioni dell'esperienza umana

Di secoli ne sono passati proprio tanti, pari o tutt'al più inferiori, alle parole sprecate nel recriminare contro le claustrali, tanto da non valer neppure la pena di offrirne un assaggio!
Passiamo da questo "happy hour" al vero banchetto: quello della Parola che ogni giorno la Chiesa offre a chi voglia prendervi parte.
Vita contemplativa non significa vita reclusa o imbottigliata, significa fare dello spazio dello propria vita lo spazio della Parola. Esserne talmente magnetizzate che ogni uscita dalla Parola - Gesù Cristo, presente nell'Eucaristia e nella Sacra Scrittura - non viene neppure ipotizzata. La relazione con Colui che è presente e con le sorelle crea un'intersoggettività che innerva il quotidiano ed esige di sostare, intendendo così riconoscere alla clausura non il valore di un principio autonomo - si rischierebbe di essere assimilato agli ergastolani - ma la realtà che consente e custodisce la comunione amorosa con Dio e ne fonda la stessa possibilità.
Tutte le persone sono in cammino, lo ammettano o meno, dalla nascita alla morte (per usare il termine autentico e non ricorrere "alla dipartita della cara estinta!") da un dove preciso ad un altro dove, anch'esso preciso, conosciuto e amato nella fede: il Volto del Padre.
Tutta la vita monastica è un pellegrinaggio interiore parallelo a quello esteriore: attraversiamo il deserto guidate dalla colonna di fuoco e dalla nube. Lo attraversiamo come persone in relazione fra di noi, monache, ma dilatate ed aperte alla storia, alle sue vicende, a tutti i fratelli e le sorelle.
Il più piccolo monastero, situato nel borgo più sperduto del mondo, non è un buco in cui la donna-struzzo ha infilato la sua testa per rimuovere il grande spettro della falce... è il punto irradiante, centro del mondo delle relazioni, da cui la Luce di Dio si espande e si rifrange esattamente là dove deve andare, là dove la sofferenza è più acuta, là dove il fratello e la sorella gemono e patiscono.
Uno spazio amato che, purtroppo, viene definito con un termine, clausura, che suscita subito nell'immaginario umano un vortice di chiavistelli, di linee di demarcazione, di sanzioni disciplinari. Indubbiamente la Chiesa, da madre qual è, indica e tutela ma, soprattutto, suscita e incoraggia a permanere nell'ascolto dello Spirito, il solo che, nel silenzio e nella solitudine, sappia schiudere i sentieri del silenzio interiore.
Il rapporto fra le sorelle innerva il quotidiano e il monastero diventa così spazio di equilibrio fra le diverse dimensioni della vita: preghiera, lavoro, studio. Alla ricerca di un'armonia che è una grande sfida: vivere il Vangelo come anticipazione dei beni futuri.
L'insensatezza diventa allora la grande e unica sensatezza cui è chiamata la monaca: scoprirsi abitata per lasciarsi abitare da ogni gioia e dolore, da ogni evento, da ogni grido e da ogni richiamo. Non è un vuoto, è un'apertura proprio come la persona, così insegnava il prof. Ratzinger, è un'apertura all'Infinito. Noi Lo accogliamo e Lo doniamo, come Maria di Nazaret.
di C. Dobner, in SIR, 21 novembre 2008

giovedì 2 ottobre 2008

Non solo idraulica!!!


E' di oggi questo articolo pubblicato su Avvenire, ci sembra una bella alternativa ai corsi di idraulica che alcune auspicano per la formazione permanente, pur senza precludere una simile preziosa manualità!!!

Le monache benedettine dell’Adorazione perpetua che tengono la Scuola di cultura monastica: «La clausura non è fuga dal mondo, ma servizio»
Lezioni di ebraico biblico in monastero DI ANNALISA GUGLIELMINO
Le finestre del monastero di via Bellotti non sono solo « aperte sul cielo». Fuori dalla clausura, c’è un mondo al servizio del quale si apre la chiesa delle benedettine dell’Adorazione perpetua: il corso elementare di ebraico biblico è l’ennesimo segno di questo servizio.
La «Scuola di cultura» per i laici è un’iniziativa che negli ultimi dieci anni, sotto il patrocinio del Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma e dell’Istituto superiore di scienze religiose della Lombardia, ha offerto corsi di storia del monachesimo e delle Regole, d’iconografia, di arte delle miniature. Quest’anno il tema proposto è « Il monachesimo e il mondo » , che svilupperà l’ipotesi delle radici ebraiche del monachesimo cristiano (inizio: 20 ottobre). E per la prima volta, spiega la Priora del monastero, madre Maria Geltrude Arioli, « per ampliare le conoscenze del mondo ebraico e per fornire strumenti per lo studio approfondito della Parola di Dio, comincerà anche il corso di ebraico biblico » ( inizio: 23 ottobre). Ancora per alcuni giorni è possibile l’iscrizione.
«Una volta quando si parlava di monasteri, si evocava sempre l’immagine della “fuga dal mondo” – sorride madre Geltrude –. Ma questa definizione è assai parziale». La religiosa ricorda il recente intervento di Papa Benedetto XVI a Parigi, sulla funzione svolta dai monasteri benedettini nella edificazione della civiltà europea. «Anche oggi – aggiunge – questi elementi essenziali della vita benedettina sono attuali e vivi nelle realtà monastiche » . Come in via Bellotti, dove sorge il monastero delle benedettine del Santissimo Sacramento: proprio nel centro cittadino, le monache offrono la possibilità di frequentare la chiesa, sempre aperta, partecipando all’adorazione eucaristica, alla celebrazione della Messa cantata in gregoriano e delle ore liturgiche che ritmano il tempo delle giornate con il canto e la contemplazione della Parola di Dio. La sera che precede le più grandi solennità è poi possibile partecipare a veglie liturgiche secondo il rito latino o bizantino, animate dal canto di salmi o di inni orientali. Le stesse monache, inoltre, scrivono le icone sacre che adornano il monastero. «Tutto questo – conclude la priora – conferma che la clausura monastica è un modo per “aprirsi” di più, in modo solidale ed essenziale ai bisogni più veri delle persone ».

lunedì 2 giugno 2008

Totalitarismi: la strage di Tibhirine

Riporto per intero un articolo apparso sulla "La Stampa" di oggi...

Padre Armand Veilleux si sveglia ogni mattina alle quattro. La prima preghiera lo attende nella grande chiesa di pietra grigia, spoglia, affondata in un parco ricchissimo di alberi e fiori. Tutta la cadenza della sua giornata è scandita da regole scritte quattordici secoli fa. In questa abbazia di monaci trappisti, vecchia di centosessanta anni, padre Armand conduce la sua ricerca solitaria, lenta, faticosa, in certi momenti disperante, su Tibhirine. Lì, in quel monastero ai piedi delle montagne dell’Atlante, in terra algerina, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 sette confratelli furono sequestrati da un gruppo islamico. La morte dei prigionieri fu annunciata circa due mesi dopo. Lui era presente a quei funerali, chiese con insistenza di aprire le bare per l’ultimo saluto ai monaci e, tra l’imbarazzo e i balbettamenti delle autorità, scoprì che le casse di legno lunghe due metri non contenevano alcun corpo ma solo sette teste. Era la prima menzogna ufficiale che affiorava. Con un retroscena inquietante. Spesso erano le forze regolari che seguivano quella macabra procedura, per dimostrare ai loro ufficiali che la battaglia si era conclusa con l’eliminazione dei nemici, e per avere un indennizzo proporzionato. La prima menzogna era stata anticipata nelle settimane precedenti da svariate ambiguità e soprattutto sarà seguita negli anni successivi da altre falsità, contraddizioni sfacciate, reticenze, che hanno costruito un autentico e compatto muro di gomma attorno a quel massacro. Preceduto alcuni mesi prima da una lucida profezia di padre Luc, una delle vittime, incontrata da padre Armand in visita a Thibirine: «Se ci succederà qualcosa sappiate che non saranno stati gli islamici, ma quelli con le divise regolari». L’Algeria dal 1992 era precipitata in una spirale di guerra civile che produrrà duecentomila morti, nella quale era e sarà sempre più difficile vedere il confine tra i due schieramenti. Qui, in questa abbazia dove si erano installate le truppe tedesche nella seconda guerra mondiale, e vicino alla quale Hitler aveva un suo bunker, approdano da anni lettere, telefonate, confidenze verbali di laici e religiosi che cercano di ricostruire i fatti di quella notte ai piedi dell’Atlante, una delle vicende più torbide e complicate che attraversa la cronaca europea degli ultimi quindici anni. Da questo confessionale anomalo, sperduto nella campagna belga, nel 2003 è partita la prima ed unica denuncia al Tribunale di Parigi, per indagare sulla morte di quei sette cittadini francesi. E’ firmata dai familiari di una delle vittime, padre Christophe Lebreton - settimo di dodici figli, ex sessantottino, che abbandona rapidamente Marx e Lenin e diventa monaco nel 1974 - e da padre Veilleux. Quella denuncia ha interrotto il sonno della giustizia in Francia e ha stimolato due testimoni, molto diversi tra loro, che più di altri, lentamente, corrodono quel muro di gomma. Il primo, Abdelkader Tigha, ha lavorato con la Sicurezza militare, era sottufficiale presso il Centro di ricerche e investigazioni di Blida, ed era fuggito in Siria dopo gli avvertimenti ostili dei suoi superiori. Aveva chiesto protezione ai colleghi francesi, ma senza successo. Era entrato in scena pubblicamente alla fine del 2002, con una intervista clamorosa al quotidiano Liberation. Raccontava che il 25 marzo due furgoni erano stati approntati all’interno della sua caserma per la spedizione al monastero. I veicoli erano rientrati la notte tra il 26 e il 27. «Credevamo a un arresto di terroristi. Invece erano stati arrestati i monaci. Furono interrogati da Mouloud Azzout, braccio destro dell’emiro Zitouni. Due giorni dopo lo stesso Azzout li conduceva sulle alture di Blida e poi alla base dell’emiro». Questa testimonianza diretta, dall'interno, smontava la versione ufficiale subito adottata e caparbiamente mantenuta dalle autorità algerine. Per loro tutto il quadro era semplice e chiaro. Djamel Zitouni, il capo dei gruppi islamici armati a quell’epoca, aveva rivendicato il sequestro con un comunicato, successivamente in un altro comunicato aveva annunciato l’uccisione dei prigionieri. E dopo poche settimane dai funerali anche Zitouni, un ignoto venditore di polli elevato rapidamente ai vertici dei gruppi islamici, senza esperienza politica e senza preparazione religiosa, era stato ucciso. Cioè eliminato bruscamente dal gioco. Con il passare del tempo sempre nuovi dettagli hanno dimostrato che Zitouni era in realtà un infiltrato dei servizi segreti, che aveva fatto deragliare disastrosamente quel sequestro su commissione.Oggi Tigha ha ridotto le sue affermazioni pubbliche. Vive in una specie di limbo, in Olanda, dove la giustizia dice che ha diritto all’asilo politico, mentre la polizia dello stesso paese vuole espellerlo. Intanto gli algerini continuano a richiedere con insistenza, e con vari pretesti, la sua estradizione. E il suo esilio ha seguito un percorso tortuoso, toccando Damasco, Bangkok, Ginevra, Amman, Amsterdam, Bruxelles, con scali virtuali a Mogadiscio e Kuala Lumpur, attraverso carceri, ambasciate, chiese, caserme, aeroporti, ministeri, studi legali, uffici dell’Onu. Parallelamente sua moglie, rimasta in patria, ha trovato in casa decine di foto con abitazioni incendiate o distrutte, candele accese, e ha cominciato a ricevere minacce, telefonate mute oppure cariche di oscenità, secondo un copione convenzionale. Varie Ong si interessano ormai alla sua vicenda.Solo la giustizia francese per ora lo ignora. Ma l’avvocato che ha presentato la denuncia della famiglia Lebreton è convinto che il disertore può dire molte cose sui misteri di quella notte. Certo Tigha non è un santo, e i nobili principi della verità e della giustizia forse non sono al primo posto nelle ragioni della sua fuga. Ma se il giudice francese non lo interroga sarà l’avvocato a chiedere l’interrogatorio, innescando un meccanismo che renderà pubbliche le contraddizioni di Algeri, e mostrerà l’imbarazzante lentezza investigativa del Tribunale di Parigi. Tra le contraddizioni documentate e protocollate emerge la testimonianza dei militari algerini su una operazione del 24 novembre 2004, nelle montagne attorno a Bougara, dove in una base degli islamici erano stati trovati documenti appartenenti ai monaci, descritti in tutti i particolari. Ma in un’altra deposizione gli stessi documenti, sempre descritti con gli stessi dettagli, risultano trovati invece nella zona di Medea, già nel maggio 1996, ben otto anni prima, raccolti in una busta di plastica.Il secondo testimone invece fino ad oggi è rimasto in ombra, anzi nella lunga lista dei sessanta nomi che potrebbero aiutare la giustizia, lui nemmeno compare. Non ha precedenti con i servizi segreti, è francese, ha una solida reputazione. A lui gli algerini non potranno rispondere con gli insulti e le minacce che riservano ai loro disertori. Questa persona ha già confidato privatamente, a interlocutori diversi e autorevoli, che i monaci furono uccisi dalle forze regolari algerine. Anche lui racconta, in dettaglio, che la responsabilità della uccisione ricade, come l’iniziativa del sequestro, sulle autorità militari di Blida. Conferma che certo in quella città c’erano gli esecutori materiali, mentre gli ordini erano arrivati dai vertici della onnipotente Sicurezza militare. Insomma i monaci erano stati coinvolti in un finto sequestro, come quello già avvenuto con i tre personaggi del consolato francese ad Algeri nel 1993, per mostrare all’opinione pubblica internazionale che l’Algeria era gravemente minacciata dagli islamici, ma che le autorità locali avevano i mezzi per reagire. Quella volta i prigionieri furono liberati tre giorni dopo, sottratti ad ogni assedio mediatico, e mandati rapidamente in missione in un posto sperduto dell’oceano Indiano. Ma nonostante queste precauzioni le ricostruzioni ufficiali dell’episodio avevano mostrato subito contraddizioni e vuoti di memoria. Anche per i sette monaci tutto doveva concludersi felicemente e in fretta. Il generale Philippe Rondot, ai vertici delle Sicurezza francese, si era trasferito subito nella ex colonia, forte dei suoi rapporti personali con il generale Smain Lamari, ai vertici della Sicurezza militare locale. Due anni prima proprio Lamari, con una soffiata decisiva, gli aveva consentito di catturare il terrorista Carlos, di compiere l’operazione più brillante della sua carriera, guadagnandosi la Legion d’onore. Rondot aveva subito rassicurato fiducioso l’arcivescovo di Algeri che il sequestro sarebbe finito in pochi giorni. La Chiesa cattolica aveva reagito con dolore e cautela dopo il massacro di Tibhirine, ripetendo ai suoi rappresentanti in quel paese islamico, ormai sconvolto dalla guerra civile, «Sia fatta la volontà di Dio, preghiamo». Altri religiosi e religiose erano già stati uccisi. Padre Armand allora era il Procuratore generale dei cistercensi, accolse l’invito della gerarchia, ma non in modo passivo. Aggiunse a quella direttiva le parole pronunciate dalla madre di un giovane nero ucciso in Sudafrica ai tempi dell’apartheid: «Voglio perdonare, ma prima voglio sapere chi devo perdonare». Diventerà la sua linea di comportamento nella ricostruzione dei fatti, nella ricerca della verità, in segno di rispetto umano per i suoi confratelli. E conoscerà presto l’ostilità felpata del potere quando l’ambasciatore francese ad Algeri gli dirà: «La Francia aveva chiesto ai suoi concittadini di lasciare questo paese. I vostri monaci, come altri missionari, sono rimasti, per ragioni che noi comprendiamo e stimiamo. Ma quando succede un evento sfortunato come questo entrano in gioco imperativi che non sono più di vostra competenza». Nella abbazia di Scourmont tutti osservano la regola del silenzio. E il silenzio parallelamente è stato scelto dalle autorità di diversi paesi in questa vicenda. Tibhirine in lingua araba significa «giardino». Nonostante il nome poetico del luogo, e la vita pacifica di quei monaci, da lì si snoda una vicenda opaca, brutale, rocambolesca, nella quale si concentrano alcuni elementi inquietanti e ricorrenti della cronaca recente: la guerra civile, il terrorismo islamico, le alleanze tra servizi segreti, la reticenza dei governi, l’indolenza della giustizia, e l’arma sempre più diffusa ed efficace dei sequestri che dall’Algeria si è poi allargata in maniera contagiosa all’Iraq e all’Afghanistan. C’è anche il suicidio di un giornalista francese, Didier Contant, in appendice alla vicenda dei monaci. Si era recato dalla moglie di Tigha per raccogliere informazioni, più o meno nei giorni degli avvertimenti con le foto delle case bruciate e con le candele accese. Rientrato a Parigi si gettava, ufficialmente, dal sesto piano. Prima di quel giorno avrebbe confidato ad alcuni amici: «Ho l’impressione di aver messo i piedi in una storia che non riesco a controllare». Padre Armand oggi è l’abate di Scourmont. La sua ricerca della verità in certi momenti sembra fare un passo avanti e tre indietro. Per lui è attuale quel messaggio di sant’Agostino, figlio illustre della terra algerina, per il quale è più facile raccogliere l’acqua del mare in una buca che comprendere il mistero della fede. Anche la notte di Tibhirine dopo dodici anni resta un mistero. Ma c’è un’altra dimensione nella fatica di conoscere. L’abate di Scourmont è nato in Canada, ha fondato monasteri in Africa e in sud America, richiama un personaggio simbolico della letteratura francese, appare come un nuovo conte di Montecristo trasferito in un contesto metafisico, in un carcere impalpabile, quello appunto dei segreti di stato, dove scava il suo tunnel. Lui sorride ricordando una notte in autostrada, mentre andava in Francia, con una pioggia violenta, e un’auto lo tallonava a fari spenti con insistenza. Un episodio simile lo attendeva a Ciampino, quando scese dall’aereo e andò a noleggiare una vettura. Un’auto bianca lo seguì ovunque, anche al parcheggio, fino a quando si fermò in una piccola strada di Roma. E l’elenco degli episodi strani può continuare. Sembra un film di spionaggio di terzo ordine. Dice con semplicità: «Ho costruito un itinerario per conoscere la verità, sto attento a quando compare un nuovo elemento». Lo aiutano le preghiere e una padronanza strepitosa dell’elettronica. Tutta l’abbazia, per sua volontà, è collegata a internet senza cavo, come le migliori università e certe grandi aziende. I sette di Tibhirine non erano uomini persi in una dimensione mistica, di pura contemplazione, staccati dalla realtà del mondo. Padre Luc, il decano, aveva alle spalle una vita di oltre ottanta anni, era un medico, aveva conosciuto i campi di concentramento tedeschi, poi nel 1947 era arrivato in Algeria, era stato preso in ostaggio dai guerriglieri ai tempi della guerra anticoloniale contro i francesi, per mezzo secolo aveva curato i suoi pazienti algerini, gratuitamente, senza fare distinzioni di sorta. Padre Christian era il priore, figlio di un generale francese, lui stesso era stato nell’esercito per oltre due anni durante la guerra di indipendenza, disegnando con la sua scelta di vita religiosa una parabola simbolica dalla violenza alla integrazione, verso la stessa popolazione prima oppressa. Padre Celestin anche lui era passato attraverso la guerra coloniale, e aveva curato un partigiano che i suoi superiori invece volevano giustiziare. Poi aveva lavorato in Francia, aiutando alcolizzati e prostitute. Al monastero chiamavano «fratelli della montagna» i guerriglieri islamici, e «fratelli della pianura» i gendarmi e i soldati. Per tutti valeva il divieto di entrare in quel luogo di preghiera con le armi addosso. E da anni nel terreno dei religiosi la gente della zona aveva potuto costruire una moschea. Era la linea di neutralità del monastero, mantenuta anche dopo la guerra civile iniziata nel 1992. E questa scelta aveva guadagnato a quegli uomini stranieri, rappresentanti di una religione diversa, il rispetto e la confidenza degli algerini.Nel febbraio 2006, decimo anniversario del massacro, l’allora ministro degli interni Sarkozy andò in visita a Tibhirine per ricomporre i rapporti tra i due paesi, ben sapendo che quel luogo rappresentava e rappresenta tuttora un momento di imbarazzo e di ambiguità reciproca, e per ricavare qualche beneficio nella imminente campagna elettorale. Era accompagnato da un massiccio schieramento di forze lungo il tragitto, come se la minaccia islamica fosse sempre incombente. Aveva riletto in pubblico il testamento di padre Christian, il priore del monastero, presentandosi come esponente della Francia repubblicana e laica. Il paese che, appunto, fino ad oggi non ha voluto conoscere i modi e le ragioni di quel massacro. Padre Luc, il decano del monastero, aveva lasciato una indicazione precisa. «Per la mia morte, se non sarà violenta, chiedo mi si legga la parabola del figliol prodigo e che si dica la preghiera di Gesù. E poi, se ce n’è, datemi un bicchiere di champagne». Per la musica aveva scelto una celeberrima canzone di Edith Piaf: «Non, je ne regrette rien - No, non rimpiango nulla».

mercoledì 17 ottobre 2007

NUOTARE

Nuotare è sempre una notevole sfida entrando in acque sconosciute e da percorrere per la prima volta. Ci si pone in contrasto o in accoglienza con le correnti che possono portare alla deriva, con la forza della marea che monta o che decresce? L’impeto del vento impone una scelta, nuoto perché nuoto e quindi mi lascio portare o cullare oppure ho una meta precisa e devo lottare e giungere alla mia meta?
La persona, il suo corpo con tutti i muscoli e i nervi, con tutto il sistema nervoso all’erta, si gioca del tutto e osa, sia per il piacere di una lunga nuotata, sia per salvarsi la pelle se necessario.
Comunque, misurarsi, conoscere e sperimentare, è ovvio ed l’unica strada per non dover rimanere seduti sulla battigia, inerti e, magari, delusi.
Questa descrizione potrebbe risultare una sorta di metafora della nostra vita così attratta e, simultaneamente respinta, da ideali, desideri, sconfitte e vittorie, e mete da voler raggiungere.
Il piano concreto è non solo visibilissimo, ma addirittura svincolato da dimostrazioni: non mi tuffo e nuoto in acque che non mi consentono, misurato lo stipendio mensile, di vivere ogni giorno. Ovvero un’offerta di lavoro può rispondere ad ogni mio desiderio e capacità ma se la prestazione rimane gratuita, io come vivo? Cioè come declino il mio quotidiano se non posso contare su di un introito sicuro? Oppure, voglio avere un tetto sopra la testa, mia e della mia famiglia, come fare? Ancora una volta la misura del concreto si impone, correnti, maree e venti: tutto da tenere in conto.
Perché allora quando accogliamo il Dio che fa irruzione della nostra vita serpeggia un disagio magari inespresso? Perché ci sfiora l’angoscia di abbandonare il terreno del concreto per avventurarsi in quello dell’inesistente, dell’irreale. Insomma, perché per noi Dio, e la relazione con Lui, non sono il concreto più concreto?
Statistiche, indagini, progetti e programmi invadono il quotidiano, è davvero, talora, imbarazzante, sapersi orientare ed evitare la reazione, adolescenziale, di cestinare tutto: trash, Ok.
Uno sguardo più profondo, più concreto oso affermare, ci farebbe individuare e percepire le grandi correnti della storia dei popoli, le maree che ci lambiscono e si ritirano per poi ritornare con più energia e vigoria, i venti che soffiano portando in avanti e quelli invece che fanno perire e colare a picco.
Sulla scena politica odierna, così lacerata e lacerante, la marea inarrestabile delle tuniche arancione e delle ciotole capovolte dei monaci buddisti birmani, è di una forza dirompente, incalcolabile e senza ritorno. Dall’interno di una vita che rifiuta i parametri “concreti”, economici, di profitto e di carriera e si affida, giunge un appello che si rovescia sull’esterno per poi ricondurre, da vento impetuoso, all’interno ancora una volta: che senso ha il vivere concreto delle persone se manca la libertà?
Il richiamo dello Spirito è netto, tangibile.
Non però solo la situazione limite dell’oppressione richiama una corrente inattesa, nuova, è il quotidiano, nella sua ripetitività, che deve essere nuovamente scoperto e affrontato.
Dire relazione con Dio, significa dire preghiera, ascolto e colloquio, attesa e risposta. Certezza che l’interlocutore è là ad attenderti, ad attendere proprio solo te e a proporti la chiave della vita. Può insegnarti a nuotare sul filo di una corrente che, anche se non pare, muove le forze della storia umana e di ogni storia.
Significa non essere gettati, improvvisamente, senza scopo e con danno proprio, nel tempo e nella storia (chi mai lo ha chiesto?), come postula qualche filosofia contemporanea, ma ritrovarsi dono ricevuto, dall’amore dei propri genitori (perché credo ancora nell’amore del padre e della madre e non solo nell’alchimia delle provette) e dalla bontà di un Dio che ha pensato a me, così come sono e come vorrei essere.
Il tuffo allora non è pericoloso e attanagliante, è un immergersi sorretti da braccia potenti che ti immettono, se tu lo vuoi, nella grande corrente degli oranti, di tutti coloro cioè che vivono il quotidiano più concreto possibile, quello della relazione con Lui, il concreto per eccellenza e possono sospingere, alimentare, corroborare ogni concreto visibile e tangibile.
Ognuno di noi può esserlo con una semplice modalità: avvertirLo presente e considerarLo l’Amico dell’uomo e della donna e l’Amico dell’umanità intera.
Le bracciate allora non sono affannose e senza ritmo, puro battere le onde senza avanzare, schiuma che travolge, ma ritmo sicuro che fende l’acqua, la smuove e dona impulso a procedere.
Vorrei dire: rovescio la mia ciotola ma non ne sono capace, è quasi ora del pasto (molto concreto). Voglio però dire: la ciotola è scagliata lontano ed io a mani nude e vuote attendo che la forza di Lui mi trapassi e si getti su tutto e tutti, come forza dirompente, come incitamento reale. Così nuoto in quel concreto che è il grande mare dell’amore Trinitario e la storia si riplasma. Possiamo farlo tutti e sempre.

Cristiana Dobner

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