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lunedì 18 novembre 2013

Giù la maschera!

Disegno di San Giovanni della Croce
 
Le letture di oggi non sono di immediata comprensione perché presuppongono da parte nostra la conoscenza del contesto culturale giudaico che va dal II sec. a.C. alla prima metà del I sec. d.C. È in questo periodo che vive Gesù!
In che cosa consiste questo movimento culturale? Prendo un esempio dalla nostra vita. Ci sarà capitato di vivere e quindi sperimentare concretamente un fatto importante nella nostra vita… la morte di… la nascita di… un’esperienza bella di amicizia… una scelta di vita che ha cambiato il nostro modo di vivere e quindi di essere, grazie all’incontro con una persona! Ebbene il nostro giudizio sulla vita, sulla storia, sul mondo non può non essere influenzato da questa esperienza storica. Cioè questa esperienza diventa il punto da cui noi partiamo per guardare, giudicare, vivere la vita! Il punto in cui virtualmente mi situo per guardare, è il punto di prospettiva da cui parto per descrivere quel che accade nella mia vita e non solo nella mia! Tutto è sottoposto al giudizio dell’esperienza vissuta! E questo non può non influenzare persino il linguaggio con cui lo descrivo.
Ecco allora che l’esperienza di chi ha incontrato Gesù, la sua vita, la sua passione morte e resurrezione diventa il punto prospettico da cui giudicare la propria vita, il mondo, le relazioni umane, la politica, l’economia, la religione, la famiglia, la sessualità! Così gli apostoli e i discepoli. E così si spiegano il fatto che esistano i vangeli: sono la lettura del reale a partire da questo punto di vista particolare che è l’incontro con la persona di Gesù! Gesù stesso parla a partire dalla sua prospettiva di relazione col Padre! E il Padre? Dalla prospettiva della Croce del Figlio! Cfr l’immagine sopra, disegnata da san Giovanni della Croce – ripresa da Salvador Dalì - che mostra la visione della Croce dal punto prospettico del Padre: il Padre guarda il mondo a partire dal sacrificio innocente del figlio. Per questo il Padre “non può non perdonare”!

Tornando ai nostri brani, Israele è stato fortemente segnato dall’esperienza di liberazione di Yhwh! Un’esperienza di liberazione che implicava una promessa di liberazione totale e definitiva (non avrebbe senso una liberazione… part-time: sarebbe una beffa!). E questa promessa è stata tenuta viva nella vita culturale del popolo attraverso la preghiera (salmi), l’azione dei profeti (profezia), il ricordo dell’azione di Dio nel passato (libri storici) all’inizio oralmente poi anche per iscritto. La bibbia è il libro che codifica questa promessa e tiene viva la speranza di una liberazione già presente ma che attende di essere finalmente compiuta (nel futuro).

Ma in un’epoca dove tutto è già stato raccontato, tutto è stato profetizzato, tutto è stato pregato… come faccio a tenere viva la speranza nel compimento? La speranza che non si tornerà in Egitto? Semplice: mostrandolo! Mostrando il compimento! E siccome non ci sono ancora nel futuro, che linguaggio uso, come ne parlo? Semplice: creo un linguaggio che attinge alle immagini del passato, degli avvenimenti passati in cui Dio ha mostrato la sua potenza di liberazione: Tutte le manifestazioni di Dio nella Scrittura sono accompagnate da segni cosmici (fuoco, vento, turbine, nubi), il Signore della Storia, incide realmente nella storia e in ciò che l’accoglie, il cosmo, il creato. Abbiamo così immagini di guerra (Mosè con le braccia alzate, Davide che stermina i nemici…), immagini di fuoco (Gomorra e Sodoma), immagini delle piaghe d’Egitto e dall’esperienza del Sinai (cavallette, acqua in sangue, cataclismi),… e nella Pentecoste (Atti). Immagini che ritroviamo alla morte di Gesù… Insomma la lotta contro i Faraoni della storia continua e questa lotta non potrà essere poi meno cruenta di quella fatta da Mosè con le 10 piaghe e di Gesù sulla Croce…

Questa prospettiva che si pone alla fine della storia per coglierne il compimento e il fine che si realizza nel presente è detto “escatologico” (fine) e il linguaggio che usa è detto “apocalittico”: perché ci svela il senso della lotta di oggi a partire dal suo fine: la liberazione/salvezza compiuta! Letteralmente ci “toglie il velo” che ci impedisce di vederlo.

Guai allora a prendere alla lettera il linguaggio della Bibbia e soprattutto delle letture di oggi! Esse non annunciano una cattiva notizia (per i Faraoni forse) ma semmai una bella notizia: la liberazione è vicina, le ferite personali e della storia che avvengono nella lotta della sua realizzazione non sono il senso della vita. Il senso della vita non sono né le ferite, né le piaghe… e nemmeno la camminata nel deserto… il senso della storia è la Terra Promessa (simbolo della liberazione compiuta) a cui siamo destinati e che proprio queste ferite, queste piaghe, questa arsura patita nel deserto stanno a significare! E paradossalmente anticipano, mostrano all’orizzonte! In sintesi il “no” testardo del Faraone e della storia, non può che scatenare il “sì”, molto più testardo, di Dio!

La difficoltà nostra a far calare tutto questo nella nostra vita concreta nasce anche dal fatto che noi poniamo una distanza tra gli avvenimenti biblici e la nostra storia, come se i fatti descritti dell’Esodo riguardassero gli ebrei, il passato, e non noi e il nostro presente, se non marginalmente! Infatti ci limitiamo a una lettura che resta chiusa in una visione che potremmo definire morale. Infatti leggiamo la storia biblica per cercare le figure negative e non fare come loro, e cercando i personaggi positivi e per fare come loro!

Ecco il primo insegnamento delle letture di oggi: passato, presente e futuro biblico riguardano la tua vita, il tuo passato, presente e futuro! Tu non sei estraneo al racconto, tu non sei fuori dal testo, ma sei colui che fa parte di quella storia sacra lì e la stai vivendo ora! Non a caso già nell’AT si parla di memoriale e noi cristiani l’abbiamo applicato alla nostra liturgia: passato presente e futuro nell’azione liturgica si fondono nell’adesso di cui tu fai parte!

Infatti mai un ebreo si sognerebbe di leggere quegli avvenimenti come se fossero passato, ma li legge come suo presente! E infatti a ben vedere quando noi diciamo che nella nostra storia continuiamo la storia sacra di Dio descritta nella bibbia, dovremmo riflettere che se aggiungiamo un pezzo a “quella” storia sacra è perché stiamo vivendola! Il “quella” diventa “questa” e viceversa.

Ci resta ora poco tempo per comprendere le letture, ma se imparassimo a leggere la bibbia così (e vediamo che non possiamo saltare l’AT per arrivare al vangelo: ci farebbe più male che bene, perché necessariamente lo traviseremmo!) sarebbe già un gran progresso che ci aprirebbe la strada a letture finalmente feconde nell’oggi della nostra vita!

Il vangelo di Lc usa meno il linguaggio apocalittico degli altri, perché non era compreso dalla cultura greca e ora capiamo anche il perché: Le immagini sono comprensibili dal mondo ebraico, perché attingono alla sua storia, sono incomprensibili per chi questa storia non l’ha conosciuta! Per questo Lc si limita a sottolineare lo scontro tra i popoli e la persecuzione dei discepoli, che diventa così una solenne testimonianza perché fondata sull’azione di Dio nella storia (“suggerirà le parole necessarie a tempo debito” (cf Lc 12,11-12). Così sottolinea maggiormente le false escatologie che seminano terrore (che abbiamo visto estraneo al dato biblico) annunciando una fine che non è per adesso. Il “terrore” infatti è lo strumento del potere che ha bisogno di diffondere il panico per poter meglio soggiogare le persone. Per questo il terrore è inconcepibile all’amore: i casi son due o ha ragione Giovanni quando dice che “Dio è amore” o hanno ragione i predicatori del “Dio sterminatore” perché le due cose non possono coesistere!

Prima del racconto della passione Lc si preoccupa di farci capire che la storia non termina con Gesù ma essa semmai è l’inizio del compimento della liberazione definitiva che si realizzerà con la seconda venuta di Cristo, quando costituirà il Regno definitivo di Dio.

Ciò che viene chiesto è la perseveranza, cioè la fedeltà disarmata (Agnello di Dio in mezzo ai lupi) e dinamica (fate come me) che alla fine supererà ogni difficoltà presente. La persecuzione diventa così la chiave di comprensione del mondo futuro perché vi sono uomini e donne che rischiano la vita per realizzare la giustizia di Dio, che non è altro che il suo lasciarsi trucidare nelle infinite croci che l’uomo gli inchioda addosso nei suoi figli! Perché alche il “malvagio” si converta all’amore!

In questo modo Luca ci invita a stabilire un rapporto tra la vita di Gesù e la nostra, tra resurrezione ed fine della storia perché la fine del mondo non è altro che la risurrezione di Gesù estesa all’universo intero (Teilhard de Chardin).

Di fronte alla magnificenza del tempio “splendente nel suo splendore di luce dorata” (c’era così tanto oro che quando viene distrutto il prezzo dell’oro nella regione crollò!); vera meraviglia del mondo (nella ricostruzione archeologica l’immensità della sua spianata poteva agevolmente ospitare le tre più grandi piramidi egizie!); capostipite estremo dei simboli del potere politico-religioso di sempre (pensate alla basilica di san Pietro), allo scopo di celebrare un potere provocando la sottomessa venerazione dei sudditi; Gesù dice: non fermatevi al significato immediato e più evidente. Ogni apparenza è un camuffamento della realtà. Lasciarsi ingannare dalla maestosità del tempio, vuol dire non saper cogliere la Presenza di Colui che abita «nel» tempio. Così lasciarsi ingannare dalla spettacolarità degli avvenimenti della storia (impressionante come spesso tutto si riduca a un “wow!”) impedisce di cogliere Chi della Storia è Signore!

Dio è presente e attivo nella storia non siamo abbandonati, semmai siamo noi che abbandoniamo lui (seconda lettura), aspettando che lui faccia il nostro lavoro! Per occuparci e preoccuparci di apparire, cioè occupati e preoccupati del niente! Mentre egli ci ha dato lo Spirito che ci mostra i segni del suo cammino con noi nei volti che ce ne hanno mostrato l’immagine come anteprima/caparra del Volto che contempleremo senza fine!

Guardiamo la Storia, viviamola con tutto l’impegno e l’interesse che merita, senza preoccuparci di cosa accadrà o non accadrà perché poi in fondo noi già lo sappiamo: ciò che accadrà, Gesù ce lo dice spesso, è inscritto nel nostro vivere quotidiano, basta saperlo leggere! E non fermarsi alla superficie.

lunedì 16 agosto 2010

Vacuità...

L'inizio
È venuta l’ora di analizzare la morte di quella che è stata chiamata, in gran fretta e proditoriamente, Seconda Repubblica. Doveva essere qualcosa che somigliava alla quinta repubblica di De Gaulle, inaugurata alla fine degli Anni 50: un sistema che restituisse alla politica la nobiltà, lo sguardo lungo, l’efficacia che il predominio di fazioni e partiti le aveva tolto. Doveva, partendo dalla simultanea svolta avvenuta a Nord con Mani Pulite e a Sud con l’offensiva contro la mafia di Falcone e Borsellino, rigenerare un ceto politico corrotto da anni di democrazia senza alternanza, di poteri paralleli e illegali. Le forze che dopo il ‘45 avevano ricostruito il Paese gli avevano dato una Costituzione vigile sulla democrazia, ma antichi mali, non curati, si erano incancreniti: il rapporto degli italiani e dei politici con lo Stato in primo luogo, e la maleducazione civile, lo sprezzo della legalità, del bene comune. Tutti questi mali sopravvissero alla Prima Repubblica, e per questo anche la seconda sta morendo.

Quel che mancò, nei primi Anni ‘90, fu la rigenerazione delle classi dirigenti. La politica abdicò, accettò di farsi screditare, e forze estranee ad essa se ne appropriarono. Furono queste ultime ad annunciare l’avvento del Nuovo: nuovi uomini, non prigionieri dei vecchi partiti; nuova attitudine manageriale al comando; nuova fermezza nel decidere. La Seconda Repubblica è stata innanzitutto un sistema di dominio il cui scopo era di radicare quest’immagine del potere nelle menti di italiani stanchi di lungaggini, assetati di efficacia. Altri obiettivi non esistevano, se non la libertà del leader da ogni vincolo. Il conflitto d’interessi non era un ostacolo: sanciva tale libertà. Ovvio che la rigenerazione dello Stato e della legalità divenne non solo impossibile ma esecrata. Mani Pulite e Falcone-Borsellino erano escrescenze di una Prima Repubblica caduta per motivi che restando arcani non insegnavano nulla se non più furbizia e più menzogne.

I dati lo confermarono presto, dopo Tangentopoli: la corruzione non solo era ripresa, ma s’era inasprita fino ad assumere, oggi, proporzioni enormi. L’impunità dei dirigenti s’estese. L’informazione televisiva, ieri lottizzata, è ora monopolizzata da una persona. La Seconda Repubblica era nata, ma affatto diversa dal racconto che se ne faceva. Ha dato vita al bipolarismo, ma un bipolarismo tra due concezioni dello Stato e della legge, non fra due politiche. In sedici anni ha creato un sistema che salvaguarda i difetti del regime precedente, distruggendo le forze e gli anticorpi che nonostante tutto esso ancora possedeva. Non c’è dunque una sola Seconda Repubblica. Ce n’è una cui tendevano i veri riformatori. E ce n’è un’altra, effettiva, che usurpando il linguaggio dei riformatori ha installato un regime che confonde la crisi della politica con l’inutilità della politica, e mette il potere esecutivo al riparo da ogni controllo. Che non ha corretto nulla se non l’immagine del leader, e l’uso democratico di frenare il potere eccessivo con altri poteri.

Questa Seconda Repubblica non è falsa a causa del predominio di una persona (Berlusconi). È falsa perché ha dato agli italiani, contemporaneamente, un uomo forte e uno Stato disarticolato, con poteri di controllo indeboliti se non neutralizzati. Per poteri di controllo s’intende la magistratura, la stampa indipendente, il Capo dello Stato che incarna il legame con la Costituzione, la Costituzione stessa. Quando si parla di regime non si parla di un uomo, ma di questa ben organizzata disarticolazione.

Gli italiani hanno avuto quel che non chiedevano. Non la politica rinobilitata, ma il suo discredito. Non una giustizia più rapida, ma una giustizia celere con i deboli, impotente e interminabile con i forti: una giustizia giudicata usurpatrice se giudica i potenti, come usurpatrice è giudicata la stampa indipendente. La Prima Repubblica aveva anticorpi che l’affossarono; la Seconda forse ne ha ma di meno, sicché neppure ricorre all’ipocrisia: Berlusconi non esita a rompere con Fini che chiede il rispetto della legalità, non esita a definire golpista il potere del Quirinale di sciogliere il Parlamento. L’interiorizzazione dell’illegalità non potrebbe essere più esplicita e impudente.

Tuttavia anche la Seconda Repubblica sta morendo. Perché non c’è leader che alla lunga possa vivere d’immagine, senza esserlo. Perché non basta inoculare nelle menti lo sprezzo della politica, per aggiustarla. Quando Berlusconi incolpa il «teatrino della politica», sa di che parla perché tutto in lui è teatrale. Hannah Arendt spiega bene come simili teatranti si adoperino a «defattualizzare la realtà» (memorabile il saggio sulla guerra in Vietnam, New York Review of Books 18-11-‘71). Un «enorme sforzo fu dispiegato», scrisse quando i Pentagon Papers rivelarono l’inutile disastro della guerra, per «dimostrare l’impotenza della grandezza». Egualmente impotente è la grandezza del Premier italiano: proprio come leader ha fallito, incapace di tener unite la ampie maggioranze di cui disponeva.

Se si vuole analizzare la fine della Seconda Repubblica, bisogna fare quel che non si è fatto: capire perché la Prima cadde, e come. Riconoscere i mali che sopravvissero nella Seconda, e anche certe virtù che nella distruzione vennero spazzate via. La Prima Repubblica infatti non fu solo storia criminale. Fu anche partecipazione all’Unione europea. Fu la tendenza ad aggirare magari la Costituzione, non a demolirla. Fu Mani Pulite e l’opera di Falcone e Borsellino. Fu l’incorruttibile lealtà istituzionale di Vincenzo Bianchi, il generale della Guardia di Finanza morto l’altro ieri a Civitavecchia: nell’81, su incarico dei magistrati Turone e Colombo, l’allora colonnello scoprì a Castiglion Fibocchi, una fabbrica di Gelli, la lista dei 972 affiliati alla P-2. Fu, infine, la capacità di resistere alla grave sfida delle Br. Basti pensare al ruolo decisivo che i pentiti svolsero nell’anti-terrorismo, al colpo mortale inferto dalle prime deposizioni di Patrizio Peci nell’80. Il giudice Giancarlo Caselli ricorda, nel libro scritto con il figlio Stefano (Le Due Guerre, 2009), gli esordi della Seconda Repubblica, quella raccontata come nuova: come prima cosa, nella lotta alla mafia e ai suoi legami con la politica, vengono mozzati l’uso e la protezione dei pentiti. Meritevole non è più chi parla ma chi omertosamente tace, come Mangano.

Rimeditare la fine della Prima Repubblica significa svelare la vera natura della Seconda. Non è detto che si riesca, tanto vasta è la manipolazione, lo spin di chi guida il regime. Tutti ne sono prigionieri: anche la stampa, quando accetta di mettere sullo stesso piano le vicende monegasche di Fini e quelle di Berlusconi e dei suoi. Quando denuncia la politica fatta a colpi di dossier sui mali altrui. Il risultato, lo spiega Michele Brambilla su La Stampa, è di «attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre». È una trappola in cui Fini, che ha rotto sulla legalità, rischia di cadere. Da giorni, i suoi uomini invocano una tregua, e tanti reclamano la fine di «contrapposizioni dannose»: se Berlusconi con i suoi giornali smette gli attacchi al presidente della Camera, anche i finiani smetteranno l’offensiva su illegalità e corruzione. La rottura non servirebbe ad altro che a rendere gli scandali tutti eguali: la vendita di una casa di An e la corruzione di magistrati, l’uso privato del denaro pubblico, il monopolio televisivo. La tregua, presentata come progresso, sarebbe il fallimento del Presidente della Camera, non di Berlusconi. Non la casa a Montecarlo rischia di squalificare Fini, ma la rinuncia alla battaglia sulla legalità, e a una Repubblica che cessi di definirsi nuova solo perché viene «defattualizzata» e abusivamente chiamata Seconda.
Il fine

martedì 15 dicembre 2009

Lo sfregio

Di Marco Belpoliti dal sito Nazione Indiana

Che cosa suggerisce la visione del viso insanguinato del Presidente del Consiglio? Quello di un uomo che ha subito un incidente, che si è rotto il labbro, che si è fratturato il naso, che sanguina copiosamente. Un accidente casalingo, un incidente d’auto, un’effrazione improvvisa e inattesa. Qualcosa di fortuito e casuale. In realtà, come sappiamo tutti per averlo visto nei telegiornali, o su You Tube, Silvio Berlusconi è stato colpito da un oggetto scagliato con forza da un uomo.
Un attentato dissennato, dato l’oggetto usato per ferirlo – un souvenir, un simbolo della città di Milano in miniatura –, e vista la situazione. Un gesto folle, eclatante, assurdo. Un attentato in miniatura, si dovrebbe dire, perché non mortale, nonostante la situazione e il contesto, simile a quello di mille altri attentati a uomini politici negli ultimi due secoli: all’aperto, tra la folla, all’inizio o alla fine di un comizio. Qualcuno si sporge tra la massa dei sostenitori e compie l’atto fatale. Ma qui non accade.

La follia ha sempre metodo, e più di una ragione. Chi ha scagliato l’oggetto contro il Presidente del Consiglio, Massimo Tartaglia, voleva violare il corpo del Re, un corpo sacro, che diventa tale attraverso l’investitura del potere, i rituali della vestizione, le cerimonie della proclamazione, il culto che lo circonda. In queste settimane Silvio Berlusconi ha spesso parlato dell’investitura che avrebbe ricevuto dal Popolo; ha parlato, seppure con metodi mediatici da telegiornale e tele-spot, del proprio potere in termini sacrali, simili a quelli dei sovrani medievali e rinascimentali. Ha caricato di segni e simboli la sua stessa persona.

Si tratta di un processo che va avanti da tempo, in modo postmoderno, e non più medievale, attraverso tecniche che tendono a rendere giovane e quasi eterno il suo corpo: fitness, lifting, liposuzioni, trapianti dei capelli, cure di vario tipo e grado. L’eternità del corpo di Berlusconi sfida la mortalità stessa del corpo tradizionale del Re, destinato, alla pari di tutti i corpi, a invecchiare e morire. Nella tradizione medievale e moderna la regalità, il corpo immortale del Re, è trasmessa ai discendenti: “Il Re è morto, viva il Re”, si proclama quando muore il vecchio re e gli succede il nuovo.
Nel caso di Berlusconi il corpo vivo coincide con la regalità. Il corpo del Capo è diventato il corpo politico stesso, la sua regalità riposa sul suo stesso corpo che egli cerca di sottrarre al passare del tempo, al suo naturale logoramento, per renderlo, e qui sta il paradosso, eterno nel tempo: “una giovinezza eterna senza passato”.
È una mescolanza di aspetti antichi e moderni, medievali e postmoderni. L’aver posto tutta l’attenzione sul proprio corpo, in sintonia con quello che accade all’intera società occidentale, fondata sul “narcisismo di massa” e sulla cura ossessiva del corpo, è l’elemento centrale della sua politica. Abbiamo un solo corpo, ci dice continuamente la pubblicità, bisogna curarlo. Si tratta dell’unico bene di cui disponiamo, per questo va conservato, modellato, ringiovanito. Berlusconi si trova al culmine di questo processo, lo incarna e lo orienta con i suoi stessi comportamenti.
Ma la sacralizzazione del corpo mortale del Capo ha sempre messo in moto meccanismi opposti di desacralizzazione, come è accaduto molte volte nella storia. Nel 1990 a Sofia, la folla inferocita assaltò il mausoleo del Capo, Gheorghi Dimitrov, fondatore del Partito comunista bulgaro, e cercò di bruciare la sua mummia. Nel 1945 il corpo morto di Benito Mussolini fu gettato sul selciato di Piazzale Loreto, e dissacrato mediante una sconcia impiccagione a testa in giù. La folla l’aveva acclamato, ora la folla l’ha deturpato. Sono tanti i gesti del genere che traggono la loro motivazione nel rovesciamento della sacralità stessa del leader.
Il messaggio sacrale della ritualità moderna, ci spiegano gli antropologi, fa a meno della sfera religiosa tradizionale, e non ha più bisogno di ricorrere alle magie e alle superstizioni del medioevo, quando ai Re di Francia veniva attribuito il potere taumaturgico del tocco che guariva dalle malattie perniciose della pelle. Tuttavia il sacro non è scomparso, si è solo trasformato. Meglio: si è travestito, è entrato a far parte della nostra vita quotidiana attraverso gli schermi televisivi, le riviste patinate, i messaggi pubblicitari, i personal computer. Che lo sappia o no, che sia studiato o meno, Silvio Berlusconi mette in moto meccanismi che funzionano per gli attori come per i santi, per Marylin Monroe e per Padre Pio. Il corpo è sacro nella sua stessa materialità, in quanto corpo che muore, per questo viene investito di una significato totale e totalizzante.
Due gesti compiuti da Silvio Berlusconi ferito dall’atto del folle di ieri colpiscono. Col primo egli si china, si copre il viso con un pezzo di stoffa. Qui c’è il gesto umano, della persona ferita, che cerca riparo, che è stordita, che non capisce cosa gli è accaduto, e vacilla. Col secondo il Capo ritorna tale: dopo essere entrato nell’auto, spinto dai suoi guardiaspalle, esce di nuovo. Si mostra alla folla. Vuole far vedere che è vivo, certo, rassicurare i suoi sostenitori, ma vuole anche compiere un gesto di ostensione. Una sorta di Sacra Sindone al vivo: viva e sanguinolenta.
Si mostra perché è nell’ostensione che il suo potere corporale esiste e prospera. Ha compiuto tutto questo in modo istintivo, senza ripensamenti. Fossimo stati negli Stati Uniti, la sicurezza lo avrebbe caricato in auto e sarebbe partita a tutta velocità. Poteva esserci ancora pericolo. No, Silvio Berlusconi sfida il pericolo, si espone di nuovo, seppur dolorante, col sangue sul viso, atterrito ma vivo, allo sguardo dei fedeli, perché questo è la natura stessa del patto che ha stretto con loro.
La politica dell’immagine di Silvio Berlusconi, che passa attraverso sempre più attraverso la politica del proprio corpo, mostra qui qualcosa d’inquietante: il suo legame con la vita e insieme con la morte.
Il folle gesto simbolico di Tartaglia rivela quel lato in ombra che la sacralizzazione quotidiana delle immagini televisive e fotografiche nasconde, e che al tempo stesso ne è il rovescio: l’inconscio desiderio di desacralizzazione. Lo sfregio, l’abrasione, il colpo al viso sono antropologicamente – sacralmente, si dovrebbe dire – parte stessa di quella politica d’incentivazione del corpo. L’ostensione chiama implacabilmente la violazione. Il gesto di ieri a Milano è stato compiuto da un folle, che nella sua follia ci manifesta qualcosa di terribile. Il potere del sacro non perdona. Di Marco Belpoliti dal sito Nazione Indiana



Nota: "Il corpo ferito del Capo" è il titolo originale del post (citato anche da Filippo Ceccarelli in un suo articolo su Repubblica.it).

L'immagine con cui io l'ho accompagnato, spero non venga ritenuta "offensiva" o "fuori luogo". Essa cerca soltanto, nello stabilire un parallelo, di sottolineare la pertinenza delle argomentazioni e ricordare come "l'oggetto sacrale", artistico e non, religioso o profano, è "corporalmente" esposto , "radicalmente indifeso", allo "sfregio" dissacrante e desacralizzante...
La "morte" di Dio (o il suo tentativo), passa sempre per la morte del "corpo" (o il suo "ferimento"): tentativo che spesso coincide con la loro "riduzione idolatrica".
Il senso cristiano della "resurrezioni dei corpi", sta indicare anche questo: il ristabilimento, in Cristo, della regalità di Dio e della dignità dell'uomo nella loro "relazionabilità permanente", che nemmeno il ferimento o la morte possono oramai diminuire. Ed è anche questo il senso del Natale!

domenica 22 novembre 2009

Siamo ciò che vogliamo essere

«Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità» (Francis Ford Coppola)
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.

Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati ­ parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia ­ profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».

In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.

Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.

Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.

Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».

È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.

Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).

Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.

Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.

Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti ­ nel regime, nei giornali ­ interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.

Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).

Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».

Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».
di BARBARA SPINELLI su LaStampa.it

mercoledì 28 ottobre 2009

Oltre Kunta Kinte: progettare sradicandosi



Al di là delle scelte politiche, che staremo a vedere a cosa ci porterànno... trovo interessanti le molteplici provocazioni.

Sottolineo qui, per la riflessione che stiamo facendo sul "regno di Dio" la sua osservazione, quasi filologica, sul nuovo orizzonte culturale che la storia ci domanda (e sempre ci domanderà). Altro che abbarbicarsi sulle "radici" (cristiane o non) occorre invece "sradicarsi", per poter vivere una progettualità che crei la storia e non la uccida nel tentativo illusorio di farla rivivere, di ripeterla.

In fondo è la stessa logica evangelica e biblica cioè dell'uomo autentico. Occorre come Abramo abbandonare la propria terra, occorre come Mosé vivere un Esodo mai compiuto, occorre "uscire per andare verso" come chiede Gesù per i suoi discepoli, dopo averlo vissuta lui sradicandosi continuamente anche dalla propria culturale divinità e, sulla croce, della propria culturale umanità. Per il cristiano c'è una sola radice che non è una radice ma qualcosa che ti "sradica" perché è una persona concreta che "per caso", cioè per scelta, si è voluto incontrare sul proprio cammino...

È ovvio che su questo si gioca il futuro della stessa chiesa, non solo italiana, che si dimostra invece così "sovieticamente" arroccata a delle radici che ha perso da tempo: perché le vere radici sono lo sradicamento che il vangelo continuamente ci chiede: quanti comprendono che la vera fedeltà sta nella creatività?... È per questo che da tempo non progettiamo più ma "rieditiamo"!

domenica 8 marzo 2009

Come il Padre, figli oltre ogni limite…

Oltre ogni limite
Fa veramente impressione leggere le prime parole che Dio rivolge ad Abramo nel brano di oggi
Se uno non conoscesse la storia precedente e non sapesse chi fosse Abramo non riuscirebbe a coglierne la violenza… Ma noi sappiamo chi era Abramo e chi era Isacco! Noi sappiamo che Isacco era il figlio donato da Dio a dei vecchi a cui l’età aveva tolto ogni speranza di un futuro storico: la morte li avrebbe oramai riportati nell’oblio del tempo, marchiati col ferro rovente di una sterilità esistenziale…
Ma ecco che inaspettati, gratuiti, arrivano i messaggeri di Dio, che ridanno speranza, ridanno vita a delle carni avvizzite… E nasce Isacco, il figlio della promessa e la vita ritorna a sorridere (etimologia di Isacco) anche a chi non ha più denti per poterlo fare con spavalderia…
E allora quanti figli aveva Abramo? Non era necessario essere un dio per saperlo: quanti poteva averne colui che non ne aveva mai avuti? Uno! Ed è già troppo! Forse che Dio non lo sapesse? Ma no! lo sapeva benissimo glielo ha dato lui! E allora che senso ha porre in tal modo un ordine già di per sé disumano? Ma che Dio è un Dio che sembra girare il coltello nella piaga?… Peggio di un avvoltoio che gira intorno alla preda prima di infliggerle il colpo finale, peggio di un gatto che gioca col topo… Dicesse: «Prendi tuo figlio e offrilo in olocausto»!… che già così è “roba da matti”, ma no! Non gli basta e dice “prendi tuo figlio l’unigenito”… e quanti figli aveva Abramo per dover specificare “l’unigenito”? Non contento aggiunge “che ami”… Roba da «padrone» più che da «padre»! A questo punto esplode con tutta la violenza dirompente come un “colpo di grazia” che uccide un nemico già ridotto a brandelli: «Isacco»! Già! ne aveva così tanti di figli Abramo che rischiava di fare confusione...
Umanamente parlando la frase per intero è di una perfidia inaudita: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Come diceva quel film? Dio… «Tu uccidi un uomo morto!»…

Perché tanto accanimento, perché tanta crudeltà? se non fosse Dio a parlare sembrerebbero parole dell’antico serpente… Il serpente già… questo ci rimanda a quello che meditavamo domenica scorsa sulla tentazione… sullo Spirito che butta Gesù nel deserto, tra le braccia di Satana… Come un padre che volendo insegnare al figlio a nuotare lo butta in acqua: o annega o impara a nuotare… o lotta o soccombe! Ek-ballei, dicevamo, è il termine usato per indicare l’azione dello Spirito… “gettare oltre, al di là” del limite… parola imparentata con syn-ballo (simbolo, sacramentum) e con dia-ballo (diavolo)… Simbolo che unisce, diavolo che separa, Satana che accusa, Spirito che ci difende ma “gettandoci oltre”… oltre sé, oltre il proprio limite, oltre i propri spazi, oltre la propria cultura, oltre il proprio corpo, oltre la propria vita, oltre la propria ragione, oltre i propri affetti, oltre i propri difetti… Come il Logos eterno che in Gv 1,1 si getta oltre sé (pròs…), tra le braccia del Padre (…tòn theón)… Lo Spirito “spinge fuori”, come una madre che deve “spingere” per espellere il figlio se vuole farlo nascere, separandolo da sé, separandoci da lei… C’è qualcosa di più violento e di più “cinico” di un parto? Per la madre e per il figlio? Solo la morte gli è paragonabile, infatti è un altro parto…

Ecco come si fa un figlio… devi “gettarlo fuori”, dopo averlo “conservato dentro”… Ecco perché Gesù dice che chi non odia suo padre e sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle i suoi figli e le sue figlie, i suoi averi e persino la propria vita… non può essere suo discepolo (cf Lc 14,26): perché altrimenti non può nascere, nascere come figlio, figlio come lui…

La speranza è il cammino dell’amore! La speranza è ciò che ci consente di camminare nella storia, superandoci continuamente… il rischio per noi uomini è quello di confondere la speranza con il suo “segno”, la promessa col dono, l’alleato con l’alleanza!
Tentati di non essere figli, tentati di non essere padri per rinchiuderci nel dono… tentati di non vivere e di ritornare alle sicurezze di un ventre materno, caldo e accogliente, senza neanche la fatica di doverci procurare il cibo… ma moriremmo avvizziti dentro la pancia di chi ci ha generati! Chissà, forse in realtà il “paradiso terrestre” descritto nella bibbia è la teatralizzazione (le acque, il cibo…) di come ci si trova(va) nella pancia di nostra madre… e da cui siamo stati forzati a uscire, “sentendoci” cacciati! E col divieto di rientrarci!
E allora Dio, per salvarci da morte certa, ci “forza a nascere” (letteralmente è l’espressione usata da Paolo in 1Cor 15,8 per parlare della propria conversione: ek-trómati): ci “spinge” fuori! Sempre, continuamente, oltre.

Proclamiamo nel “Credo” che il Figlio, il Verbo eterno del Padre, è “generato e non creato”… un bel concetto dinamico questo “generato”… chissà allora cosa ci ha portato a concepire la creazione come qualcosa di statico… Noi siamo creati da Dio, ma non per questo siamo stati creati “ieri”… Dio ci crea e ricrea continuamente… come? gettandoci oltre… La vita è un parto continuo (sempre Paolo in Rm 8,22)… Dio non mi ha creato, Dio mi sta creando… L’uomo si fa nella storia e si fa gettandosi oltre, lasciandosi gettare oltre… Questo è il movimento della speranza… Che tanto ottiene da Dio quanto in lui si abbandona (cf San Giovanni della Croce, “…tanto alcanza de él cuanto ella de él espera.”, NO II,21,8)…

Nascere è Esodo, Passaggio continuo. È lasciare quello che si conosce, per andare verso quello che non si conosce, che è come dire che si cresce lasciando la luce per andare verso l’oscurità… E del buio si ha sempre più paura… ecco allora la Parola, come luce e lampada ai nostri passi (cf Gv 1,9; Sal 119(118),105 e luce)… passi che conducono nei cammini bui della storia, per strade e sentieri stretti che non si conoscono perché del Padre!… come Gesù che se da un lato è l’unico che conosce il Padre (Mt 11,27), dall’altro sembra che gli manchi ancora qualcosa da conoscere (Mt 24,36)… E qualcosa gli resterà sempre… Per questo la speranza come l’amore è eterna, non solo perché l’amore tutto spera (1Cor 13,7), ma perché il Figlio sia tale e non si sostituisca al Padre è necessario che si “attenda” dal Padre: per questo lo Spirito intercede, geme, langue, invoca, ama e spera (cf Rm 8,26ss)… Ecco perché ci è nascosta anche l’ora della morte... ci ucciderebbe come figli il saperlo!

In fondo è la stessa esperienza degli apostoli sul monte. Dopo la luce della visione… il giorno sarà apparso più buio… ma fermarsi alla visione — «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne» (Mc 9,5) — vorrebbe dire uccidere la vita… E “costruire capanne” è il movimento contrario all’Esodo: ma perché la vita viva, deve andare oltre, attraversare il Mar Rosso, incontrare il buio della croce. Dell’assurda, ingiusta, stolta, disumana, diabolica, croce… per ritrovare in pienezza la ragionevole, giusta, saggia, umana, divina, vita! Così l’uomo si crea!

Ecco perché il Padre «non ha risparmiato il proprio Figlio» (Rm 8,32) e non ne risparmia mai nessuno! Diversamente dalle nostre madri così iperprotettive da uccidere il figlio e uccidersi come donne. Ma questo e solo questo è amare veramente, e rivela il nuovo volto dell’Amore! E il nuovo modo di dirsi padri, madri, figli, mogli, mariti, fratelli e sorelle!



«Ma intanto ora Dio tentava Abrahamo, e gli dice: Prendi il tuo figlio carissimo, che ami (Gen 22,1-2); non gli era bastato aver detto figlio, ma aggiunge anche carissimo; sia pure, ma perché aggiunge ancora: che ami? Considera la gravità della tentazione: mediante questi dolci e cari nomi, di nuovo e più volte ripetuti, sono eccitati i sentimenti del padre, affinché, essendo ben desta la memoria dell’amore, la destra del padre sia trattenuta nell'immolare il figlio, e tutta la milizia della carne faccia lotta contro la fede dell’anima. Prendi, dice dunque, il tuo figlio carissimo, che ami, Isacco; sia pure, Signore, che tu ricordi il figlio al padre; aggiungi anche carissimo di colui che comandi di uccidere; basti questo al supplizio del padre; di nuovo aggiungi anche che ami; pure in questo siano triplicati i supplizi del padre; ma che bisogno c'è ancora che tu ricordi anche Isacco? Forse che Abrahamo non sapeva che quel suo figlio carissimo, colui che egli amava, si chiamava Isacco? Ma perché si aggiunge ciò a questo punto? Perché Abrahamo si ricordasse che gli avevi detto: In Isacco si chiamerà per te la discendenza, e in Isacco saranno per te le promesse. Viene anche ricordato il nome, affinché subentri la disperazione nei confronti delle promesse che erano state fatte in questo nome» (Origene, Omelie sulla Genesi, VIII,2)

lunedì 2 giugno 2008

Totalitarismi: la strage di Tibhirine

Riporto per intero un articolo apparso sulla "La Stampa" di oggi...

Padre Armand Veilleux si sveglia ogni mattina alle quattro. La prima preghiera lo attende nella grande chiesa di pietra grigia, spoglia, affondata in un parco ricchissimo di alberi e fiori. Tutta la cadenza della sua giornata è scandita da regole scritte quattordici secoli fa. In questa abbazia di monaci trappisti, vecchia di centosessanta anni, padre Armand conduce la sua ricerca solitaria, lenta, faticosa, in certi momenti disperante, su Tibhirine. Lì, in quel monastero ai piedi delle montagne dell’Atlante, in terra algerina, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 sette confratelli furono sequestrati da un gruppo islamico. La morte dei prigionieri fu annunciata circa due mesi dopo. Lui era presente a quei funerali, chiese con insistenza di aprire le bare per l’ultimo saluto ai monaci e, tra l’imbarazzo e i balbettamenti delle autorità, scoprì che le casse di legno lunghe due metri non contenevano alcun corpo ma solo sette teste. Era la prima menzogna ufficiale che affiorava. Con un retroscena inquietante. Spesso erano le forze regolari che seguivano quella macabra procedura, per dimostrare ai loro ufficiali che la battaglia si era conclusa con l’eliminazione dei nemici, e per avere un indennizzo proporzionato. La prima menzogna era stata anticipata nelle settimane precedenti da svariate ambiguità e soprattutto sarà seguita negli anni successivi da altre falsità, contraddizioni sfacciate, reticenze, che hanno costruito un autentico e compatto muro di gomma attorno a quel massacro. Preceduto alcuni mesi prima da una lucida profezia di padre Luc, una delle vittime, incontrata da padre Armand in visita a Thibirine: «Se ci succederà qualcosa sappiate che non saranno stati gli islamici, ma quelli con le divise regolari». L’Algeria dal 1992 era precipitata in una spirale di guerra civile che produrrà duecentomila morti, nella quale era e sarà sempre più difficile vedere il confine tra i due schieramenti. Qui, in questa abbazia dove si erano installate le truppe tedesche nella seconda guerra mondiale, e vicino alla quale Hitler aveva un suo bunker, approdano da anni lettere, telefonate, confidenze verbali di laici e religiosi che cercano di ricostruire i fatti di quella notte ai piedi dell’Atlante, una delle vicende più torbide e complicate che attraversa la cronaca europea degli ultimi quindici anni. Da questo confessionale anomalo, sperduto nella campagna belga, nel 2003 è partita la prima ed unica denuncia al Tribunale di Parigi, per indagare sulla morte di quei sette cittadini francesi. E’ firmata dai familiari di una delle vittime, padre Christophe Lebreton - settimo di dodici figli, ex sessantottino, che abbandona rapidamente Marx e Lenin e diventa monaco nel 1974 - e da padre Veilleux. Quella denuncia ha interrotto il sonno della giustizia in Francia e ha stimolato due testimoni, molto diversi tra loro, che più di altri, lentamente, corrodono quel muro di gomma. Il primo, Abdelkader Tigha, ha lavorato con la Sicurezza militare, era sottufficiale presso il Centro di ricerche e investigazioni di Blida, ed era fuggito in Siria dopo gli avvertimenti ostili dei suoi superiori. Aveva chiesto protezione ai colleghi francesi, ma senza successo. Era entrato in scena pubblicamente alla fine del 2002, con una intervista clamorosa al quotidiano Liberation. Raccontava che il 25 marzo due furgoni erano stati approntati all’interno della sua caserma per la spedizione al monastero. I veicoli erano rientrati la notte tra il 26 e il 27. «Credevamo a un arresto di terroristi. Invece erano stati arrestati i monaci. Furono interrogati da Mouloud Azzout, braccio destro dell’emiro Zitouni. Due giorni dopo lo stesso Azzout li conduceva sulle alture di Blida e poi alla base dell’emiro». Questa testimonianza diretta, dall'interno, smontava la versione ufficiale subito adottata e caparbiamente mantenuta dalle autorità algerine. Per loro tutto il quadro era semplice e chiaro. Djamel Zitouni, il capo dei gruppi islamici armati a quell’epoca, aveva rivendicato il sequestro con un comunicato, successivamente in un altro comunicato aveva annunciato l’uccisione dei prigionieri. E dopo poche settimane dai funerali anche Zitouni, un ignoto venditore di polli elevato rapidamente ai vertici dei gruppi islamici, senza esperienza politica e senza preparazione religiosa, era stato ucciso. Cioè eliminato bruscamente dal gioco. Con il passare del tempo sempre nuovi dettagli hanno dimostrato che Zitouni era in realtà un infiltrato dei servizi segreti, che aveva fatto deragliare disastrosamente quel sequestro su commissione.Oggi Tigha ha ridotto le sue affermazioni pubbliche. Vive in una specie di limbo, in Olanda, dove la giustizia dice che ha diritto all’asilo politico, mentre la polizia dello stesso paese vuole espellerlo. Intanto gli algerini continuano a richiedere con insistenza, e con vari pretesti, la sua estradizione. E il suo esilio ha seguito un percorso tortuoso, toccando Damasco, Bangkok, Ginevra, Amman, Amsterdam, Bruxelles, con scali virtuali a Mogadiscio e Kuala Lumpur, attraverso carceri, ambasciate, chiese, caserme, aeroporti, ministeri, studi legali, uffici dell’Onu. Parallelamente sua moglie, rimasta in patria, ha trovato in casa decine di foto con abitazioni incendiate o distrutte, candele accese, e ha cominciato a ricevere minacce, telefonate mute oppure cariche di oscenità, secondo un copione convenzionale. Varie Ong si interessano ormai alla sua vicenda.Solo la giustizia francese per ora lo ignora. Ma l’avvocato che ha presentato la denuncia della famiglia Lebreton è convinto che il disertore può dire molte cose sui misteri di quella notte. Certo Tigha non è un santo, e i nobili principi della verità e della giustizia forse non sono al primo posto nelle ragioni della sua fuga. Ma se il giudice francese non lo interroga sarà l’avvocato a chiedere l’interrogatorio, innescando un meccanismo che renderà pubbliche le contraddizioni di Algeri, e mostrerà l’imbarazzante lentezza investigativa del Tribunale di Parigi. Tra le contraddizioni documentate e protocollate emerge la testimonianza dei militari algerini su una operazione del 24 novembre 2004, nelle montagne attorno a Bougara, dove in una base degli islamici erano stati trovati documenti appartenenti ai monaci, descritti in tutti i particolari. Ma in un’altra deposizione gli stessi documenti, sempre descritti con gli stessi dettagli, risultano trovati invece nella zona di Medea, già nel maggio 1996, ben otto anni prima, raccolti in una busta di plastica.Il secondo testimone invece fino ad oggi è rimasto in ombra, anzi nella lunga lista dei sessanta nomi che potrebbero aiutare la giustizia, lui nemmeno compare. Non ha precedenti con i servizi segreti, è francese, ha una solida reputazione. A lui gli algerini non potranno rispondere con gli insulti e le minacce che riservano ai loro disertori. Questa persona ha già confidato privatamente, a interlocutori diversi e autorevoli, che i monaci furono uccisi dalle forze regolari algerine. Anche lui racconta, in dettaglio, che la responsabilità della uccisione ricade, come l’iniziativa del sequestro, sulle autorità militari di Blida. Conferma che certo in quella città c’erano gli esecutori materiali, mentre gli ordini erano arrivati dai vertici della onnipotente Sicurezza militare. Insomma i monaci erano stati coinvolti in un finto sequestro, come quello già avvenuto con i tre personaggi del consolato francese ad Algeri nel 1993, per mostrare all’opinione pubblica internazionale che l’Algeria era gravemente minacciata dagli islamici, ma che le autorità locali avevano i mezzi per reagire. Quella volta i prigionieri furono liberati tre giorni dopo, sottratti ad ogni assedio mediatico, e mandati rapidamente in missione in un posto sperduto dell’oceano Indiano. Ma nonostante queste precauzioni le ricostruzioni ufficiali dell’episodio avevano mostrato subito contraddizioni e vuoti di memoria. Anche per i sette monaci tutto doveva concludersi felicemente e in fretta. Il generale Philippe Rondot, ai vertici delle Sicurezza francese, si era trasferito subito nella ex colonia, forte dei suoi rapporti personali con il generale Smain Lamari, ai vertici della Sicurezza militare locale. Due anni prima proprio Lamari, con una soffiata decisiva, gli aveva consentito di catturare il terrorista Carlos, di compiere l’operazione più brillante della sua carriera, guadagnandosi la Legion d’onore. Rondot aveva subito rassicurato fiducioso l’arcivescovo di Algeri che il sequestro sarebbe finito in pochi giorni. La Chiesa cattolica aveva reagito con dolore e cautela dopo il massacro di Tibhirine, ripetendo ai suoi rappresentanti in quel paese islamico, ormai sconvolto dalla guerra civile, «Sia fatta la volontà di Dio, preghiamo». Altri religiosi e religiose erano già stati uccisi. Padre Armand allora era il Procuratore generale dei cistercensi, accolse l’invito della gerarchia, ma non in modo passivo. Aggiunse a quella direttiva le parole pronunciate dalla madre di un giovane nero ucciso in Sudafrica ai tempi dell’apartheid: «Voglio perdonare, ma prima voglio sapere chi devo perdonare». Diventerà la sua linea di comportamento nella ricostruzione dei fatti, nella ricerca della verità, in segno di rispetto umano per i suoi confratelli. E conoscerà presto l’ostilità felpata del potere quando l’ambasciatore francese ad Algeri gli dirà: «La Francia aveva chiesto ai suoi concittadini di lasciare questo paese. I vostri monaci, come altri missionari, sono rimasti, per ragioni che noi comprendiamo e stimiamo. Ma quando succede un evento sfortunato come questo entrano in gioco imperativi che non sono più di vostra competenza». Nella abbazia di Scourmont tutti osservano la regola del silenzio. E il silenzio parallelamente è stato scelto dalle autorità di diversi paesi in questa vicenda. Tibhirine in lingua araba significa «giardino». Nonostante il nome poetico del luogo, e la vita pacifica di quei monaci, da lì si snoda una vicenda opaca, brutale, rocambolesca, nella quale si concentrano alcuni elementi inquietanti e ricorrenti della cronaca recente: la guerra civile, il terrorismo islamico, le alleanze tra servizi segreti, la reticenza dei governi, l’indolenza della giustizia, e l’arma sempre più diffusa ed efficace dei sequestri che dall’Algeria si è poi allargata in maniera contagiosa all’Iraq e all’Afghanistan. C’è anche il suicidio di un giornalista francese, Didier Contant, in appendice alla vicenda dei monaci. Si era recato dalla moglie di Tigha per raccogliere informazioni, più o meno nei giorni degli avvertimenti con le foto delle case bruciate e con le candele accese. Rientrato a Parigi si gettava, ufficialmente, dal sesto piano. Prima di quel giorno avrebbe confidato ad alcuni amici: «Ho l’impressione di aver messo i piedi in una storia che non riesco a controllare». Padre Armand oggi è l’abate di Scourmont. La sua ricerca della verità in certi momenti sembra fare un passo avanti e tre indietro. Per lui è attuale quel messaggio di sant’Agostino, figlio illustre della terra algerina, per il quale è più facile raccogliere l’acqua del mare in una buca che comprendere il mistero della fede. Anche la notte di Tibhirine dopo dodici anni resta un mistero. Ma c’è un’altra dimensione nella fatica di conoscere. L’abate di Scourmont è nato in Canada, ha fondato monasteri in Africa e in sud America, richiama un personaggio simbolico della letteratura francese, appare come un nuovo conte di Montecristo trasferito in un contesto metafisico, in un carcere impalpabile, quello appunto dei segreti di stato, dove scava il suo tunnel. Lui sorride ricordando una notte in autostrada, mentre andava in Francia, con una pioggia violenta, e un’auto lo tallonava a fari spenti con insistenza. Un episodio simile lo attendeva a Ciampino, quando scese dall’aereo e andò a noleggiare una vettura. Un’auto bianca lo seguì ovunque, anche al parcheggio, fino a quando si fermò in una piccola strada di Roma. E l’elenco degli episodi strani può continuare. Sembra un film di spionaggio di terzo ordine. Dice con semplicità: «Ho costruito un itinerario per conoscere la verità, sto attento a quando compare un nuovo elemento». Lo aiutano le preghiere e una padronanza strepitosa dell’elettronica. Tutta l’abbazia, per sua volontà, è collegata a internet senza cavo, come le migliori università e certe grandi aziende. I sette di Tibhirine non erano uomini persi in una dimensione mistica, di pura contemplazione, staccati dalla realtà del mondo. Padre Luc, il decano, aveva alle spalle una vita di oltre ottanta anni, era un medico, aveva conosciuto i campi di concentramento tedeschi, poi nel 1947 era arrivato in Algeria, era stato preso in ostaggio dai guerriglieri ai tempi della guerra anticoloniale contro i francesi, per mezzo secolo aveva curato i suoi pazienti algerini, gratuitamente, senza fare distinzioni di sorta. Padre Christian era il priore, figlio di un generale francese, lui stesso era stato nell’esercito per oltre due anni durante la guerra di indipendenza, disegnando con la sua scelta di vita religiosa una parabola simbolica dalla violenza alla integrazione, verso la stessa popolazione prima oppressa. Padre Celestin anche lui era passato attraverso la guerra coloniale, e aveva curato un partigiano che i suoi superiori invece volevano giustiziare. Poi aveva lavorato in Francia, aiutando alcolizzati e prostitute. Al monastero chiamavano «fratelli della montagna» i guerriglieri islamici, e «fratelli della pianura» i gendarmi e i soldati. Per tutti valeva il divieto di entrare in quel luogo di preghiera con le armi addosso. E da anni nel terreno dei religiosi la gente della zona aveva potuto costruire una moschea. Era la linea di neutralità del monastero, mantenuta anche dopo la guerra civile iniziata nel 1992. E questa scelta aveva guadagnato a quegli uomini stranieri, rappresentanti di una religione diversa, il rispetto e la confidenza degli algerini.Nel febbraio 2006, decimo anniversario del massacro, l’allora ministro degli interni Sarkozy andò in visita a Tibhirine per ricomporre i rapporti tra i due paesi, ben sapendo che quel luogo rappresentava e rappresenta tuttora un momento di imbarazzo e di ambiguità reciproca, e per ricavare qualche beneficio nella imminente campagna elettorale. Era accompagnato da un massiccio schieramento di forze lungo il tragitto, come se la minaccia islamica fosse sempre incombente. Aveva riletto in pubblico il testamento di padre Christian, il priore del monastero, presentandosi come esponente della Francia repubblicana e laica. Il paese che, appunto, fino ad oggi non ha voluto conoscere i modi e le ragioni di quel massacro. Padre Luc, il decano del monastero, aveva lasciato una indicazione precisa. «Per la mia morte, se non sarà violenta, chiedo mi si legga la parabola del figliol prodigo e che si dica la preghiera di Gesù. E poi, se ce n’è, datemi un bicchiere di champagne». Per la musica aveva scelto una celeberrima canzone di Edith Piaf: «Non, je ne regrette rien - No, non rimpiango nulla».

venerdì 7 marzo 2008

Giovanni 7,1-2.10.25-30

In quel tempo, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più andare per la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo. Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne. Andati i suoi fratelli alla festa, vi andò anche lui; non apertamente però, di nascosto. Alcuni di Gerusalemme dicevano: “Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia”. Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure io non sono venuto da me e chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato”. Allora cercarono di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora.

nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora... Secondo la prospettiva del Vangelo di Giovanni chi determina “l’ora” è sempre Gesù. Gesù è Signore della propria vita e la dona quando vuole lui. Questo si vede tra l'altro in 2,4; 4,23; 8,20; 12,23; 12,27; 13,1; 17,1 e persino sulla croce 19,29-30 è sempre Gesù che determina il momento di morire. Gesù cioè non subisce la storia, la crea.

Stiamo vivendo un momento di svolta epocale e per questo di crisi culturale, che ci obbliga a ripensare culturalmente ciò che fino a ieri era ritenuto ancora “immutabile”. Ripensare la fede è compito della fede che vuole essere se stessa. E non c’è ambito che non ne debba essere coinvolto: l’idea e il vissuto di Chiesa, di laico, di famiglia, di movimento ecclesiale (laicale e non), di “ordine religioso”, di sacerdozio, di Magistero…
Perché stiamo vivendo una svolta multiculturale che la globalizzazione e il cammino della “riflessione” umana stanno accelerando. Capire adeguatamente questo è capire la posta in gioco oggi, nel vissuto concreto che ciascuno di noi sta vivendo. In comunità come in “Provincia”.

Questa è "storia sacra", perché in questa storia lo Spirito di Cristo è all’opera per condurci tutti al Padre. In quanto persona e in quanto membri di una comunità, piccola o grande che sia, dobbiamo essere coscienti del “progetto” del Padre.

In tutta la prospettiva che va da Giovanni a Paolo, il cristiano non è più colui che vive la "propria" vita, ma vive la vita di Cristo. Noi siamo veramente un “altro Cristo in Terra”: per grazia, dal battesimo-cresima-eucaristia, “un altro Lui”...
Questo deve comportare per ciascuno di noi di prendere in mano la propria storia accogliendone le “sfide” con la stessa modalità con cui l'ha fatto il Cristo: impegnati a non subirla ma a "ri-crearla" continuamente orientandola decisamente verso il suo compimento. Non è un’“imitazione”, né una semplice “conformazione” esteriore, ma una “comunione” profonda: Lui è in noi, e noi siamo in Lui, una cosa sola col Padre e con lo Spirito. L’agente di questa modalità è il suo Spirito Santo che vive in noi, proprio come lo è per Lui: una comunione che si estende ad ogni umanità…

Una certa corrente spiritualista ha spesso visto nella "rassegnazione", nell'umile sottomissione agli eventi storici, il vertice della "consegna" alla volontà del Padre... Vertice di questa prospettiva fatalista e determinista della storia, è una certa “iconografia” dell'Agnello pasquale, che passivamente docile e umile va al sacrificio del dono di sé.
Questo è solo parzialmente vero, e spesso ne abbiamo fatto un'immagine caricaturale deresponsabilizzante, scusante “ideologica” delle nostre paure alla lotta che il cambiamento esige… È più facile morire “martiri” che morire testimoni della modalità nuova di essere presenti nella storia.
Questa prospettiva infatti è completamente estranea alla tradizione apostolica che ne smaschera tutta la sua diabolica seduzione, in quanto non è altro che manifestazione di sé e non della misericordia del Padre, come si può intuire ad esempio in 1Cor 13,3. Questa prospettiva “pagana”, riduce l’uomo a mero esecutore, a “comparsa” di una storia già scritta da altri e quindi ultimamente non più storia!
Nel cristianesimo invece la storia è un film la cui sceneggiatura è scritta a più mani e molti cuori: l’umanità e Dio. E la storia è storia vera perché ogni volta è messa radicalmente in gioco nelle sue dinamiche più profonde di relazione uomo/donna-Dio-uomini/donne nella forma nuova di figlio/a-Padre-fratelli/sorelle. Per questo è ogni volta storia nuova, perché nulla è stato scritto che non debba essere riscritto! Per questo essa è ogni volta storia “sacra”, nel suo “sì” come nel suo “no”.

Il Vangelo di Giovanni dal canto suo ci indica il modo per essere “spirituali”, il modo di essere veri Agnelli sacrificali: non il lasciarsi prendere, ma il consegnarsi; non il lasciarsi rubare ma il donarsi; non “perché non se ne può fare a meno”, ma pur conoscendo le vie di fuga, restare! Questo, come Maria, è l’agire del discepolo: re/stare, re/agire. Sempre! Solo che le modalità cambiano dall’ora! Se ci si sottrae a quest’ora è per consegnarsi a quell’ora! e solo fino a che quell’ora non sia giunta…

L’unica domanda che resta è “come conoscere l’ora?”, la risposta non può che venire dalla relazione personale col Padre. Solo il Padre conosce l’ora, quella di Gesù e quella degli “altri Gesù”, i suoi discepoli. Non l’ora della morte, come se il Padre avesse deciso la nostra morte e il momento del nostro morire, perché il Padre è tale perché è colui che dà la vita, sempre! Ma l’ora in cui la morte diventa vivibile e vivificante, libera e liberante, salvifica per sé e per l’umanità. Solo così diventa manifestazione della Sua Gloria e non autoglorificazione. E questo può accadere solo quando tutto è “compiuto”!
Solo nel dilatarsi di questo rapporto col Padre, matura l’autocoscienza, personale e comunitaria, di quando tutto è compiuto e l’ora è giunta. E di come orientare la storia (particolare e universale) verso l’ora del compimento! Ed è il Padre stesso che nello Spirito lo “rivela” a ciascuno di noi. Non a chiunque però ma solo a coloro che vivono fino in fondo la dimensione dell’essere figli nel Figlio!

Se ci è cara la “storia” carica di umanità che viviamo, solo questa è la Via, perché essa sia “attualmente” recuperata.
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