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martedì 23 settembre 2014

XXVI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 18,25-28)

Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 2,1-11)

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 21,28-32)

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

La parabola che costituisce il vangelo di questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresa, va collocata nel contesto in cui Matteo la inserisce. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di una sua interpretazione riduttiva: qui infatti il senso non è tanto quello di un generico appello alla pronta osservanza della volontà di Dio, o una sottolineatura del primato dell’azione sulla parola, per cui elogiato sarebbe il primo figlio che, nonostante all’invito del padre in prima battuta, avesse detto «Non ne ho voglia, poi si pentì e vi andò»; il senso piuttosto va cercato altrove: in particolare tentando di delineare chi è rappresentato in questi due figli.

giovedì 22 settembre 2011

XXVI Domenica del Tempo Ordinario: "Che ve ne pare?"

La parabola che costituisce il vangelo di questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresa, va collocata nel contesto in cui Matteo la inserisce. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di una sua interpretazione riduttiva: qui infatti il senso non è tanto quello di un generico appello alla pronta osservanza della volontà di Dio, o una sottolineatura del primato dell’azione sulla parola, per cui elogiato sarebbe il primo figlio che, nonostante all’invito del padre in prima battuta, avesse detto «Non ne ho voglia, poi si pentì e vi andò»; il senso piuttosto va cercato altrove: in particolare tentando di delineare chi è rappresentato in questi due figli.

Per non rischiare di fare identificazioni campate per aria, fondamentale è riferirsi al contesto prossimo di questo brano: il capitolo 21 di Matteo in cui il nostro testo è collocato, inizia narrando l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme; dopo l’accoglienza osannante della folla, che lo dichiara profeta, Gesù si dirige subito verso il tempio dove scaccia tutti i venditori e i cambiavalute; qui ha un primo confronto duro con i sommi sacerdoti e gli scribi, che si sdegnano nel sentirlo chiamare figlio di Davide dai bambini; confronto che si riaccende la mattina seguente quando «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo gli dissero: “Con quale autorità fai questo?”»; domanda cui Gesù risponde a sua volta con un altro interrogativo, riguardante il Battista «Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?», interrogativo a cui i capi religiosi ebrei non rispondono per timore della folla; Gesù conclude allora dicendo: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo».

È chiaro che il tono è ormai quello del battibecco, di chi non spera più di usare le parole per farsi comprendere, ma semplicemente le affila per mettere in difficoltà l’altro. E infatti è proprio a questo punto che Gesù, rendendosi conto dell’andamento che ha preso il discorso, cambia registro e tenta di coinvolgere i suoi interlocutori (sommi sacerdoti, scribi e anziani del popolo) con una parabola (le parole «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli...» seguono infatti immediatamente le ultime citate: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo»).

L’intento di Gesù è infatti quello di portare i suoi interlocutori a sbilanciarsi in un parere, in modo da stanarli dai loro apparati concettuali preconfezionati e poter così far breccia nella loro logica di pensiero: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?».

Quando essi «risposero: “Il primo”», la trappola è ormai scattata e a Gesù il gioco riesce facile; ribalta infatti contro di essi il giudizio da loro stessi formulato: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto».

Incredibilmente, il primo figlio viene così a rappresentare i pubblicani e le prostitute, cioè il così vasto gruppo di uomini e donne per antonomasia lontani dalla religione, (e dunque – direbbero i sommi sacerdoti) da Dio (quelli cioè «che con la loro vita avevano detto tanti ‘no’ al Padre, ma che, di fatto, commossi dal messaggio di Giovanni Battista, avevano finito per accogliere la sua volontà» [Giuliano]); il secondo figlio invece, viene a rappresentare la minuta schiera di intransigenti uomini religiosi («coloro – cioè – che sono l’esempio dell’assenso religioso ufficiale a Dio e sono impegnati a lavorare (… insegnare e comandare) nella vigna del Signore, e che però di fatto dicono di no, quando Giovanni propone loro, a nome di Dio, la conversione dai loro privilegi fallaci alla vera umiltà del cuore» [Giuliano]).




Questa identificazione però, anche a questo punto (dopo cioè la fatica dell’analisi del contesto prossimo), risulta in prima battuta paradossale: delinquenti e prostitute passerebbero davanti, nel regno di Dio, ai pii e devoti uomini religiosi?

Bisogna che andiamo più a fondo, perché questa è una “materia che scotta”…

Cos’è infatti che fa dire a Gesù una frase tanto forte («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»)? Che cosa ha visto, nella sua vita di uomo, nei volti e nelle storie di questi personaggi che abitualmente i benpensanti condannano? E che cosa non ha trovato invece in quelli che rappresentavano, per la mentalità comune (di allora e di oggi), il mondo della sacralità, dell’osservanza, della inappuntabilità?

-          Stando alla narrazione dell’intero vangelo ha trovato in questi ultimi la durezza di cuore (di loro dice infatti: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli», Mt 5,20; oppure rivolgendosi direttamente ad essi: «Se aveste compreso che cosa significa: “Misericordia io voglio e non sacrificio”, non avreste condannato individui senza colpa», Mt 12,7; inoltre vengono tratteggiati come pedanti osservatori delle regole, ma dimentichi dell’uomo, tanto che visto Gesù guarire un uomo in giorno di sabato «usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo», Mt 12,14; o addirittura, vedendo Gesù risanare un indemoniato, «presero a dire: “Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebul, principe dei demoni», Mt 12,24; sono sempre i farisei insieme agli scribi poi che «vennero da Gesù e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. Egli rispose loro: […] avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia dicendo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”», Mt 15,1-9; di essi dice infine: «Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi», Mt 15,14; per non citare quanto aggiungerà poi nei capitoli successivi al nostro, cfr. il cap. 23);

-          mentre nei primi (“pubblicani e prostitute” e tutti i “senza dio” che queste categorie rappresentano) ha trovato invece sempre una disponibilità a farsi incontrare, quasi un anelito della loro interiorità che accoglie da lui una parola nuova (come sa Matteo stesso, chiamato ad essere discepolo, proprio mentre era al banco dei pubblicani: «Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”», Mt 9,9; o come ha appreso lo stesso Gesù, «che ha fatto anche lui il faticoso passaggio dal dire di no (un no durissimo: Mt 15,22ss) ad una di queste povere di Dio, per scoprire poi che la sua “presunzione razziale e religiosa”, ereditata dalla cultura corrente, lo chiudeva alla compassione… fino a concludere che la sirofenicia (impura e pagana) “lo precedeva” nella comprensione dei disegni del Padre: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. Una donna, di religione e razza sbagliata, un cane infedele per i giudei osservanti, gli insegna a dire di sì a un disegno più grande di lui… a riscoprire anche per sé il monito antico di Dio attraverso il profeta: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?» [Giuliano]).

Sono proprio questi “senza dio” infatti che, forse perché privi di un apparato concettuale che gli fa da maschera, ma anzi denudati e svergognati davanti a tutti, hanno la possibilità/capacità di porsi di fronte a Gesù in trasparenza e verità, al di là delle condizioni che vivono.

«Eretici e scismatici o credenti di altre fedi e religioni, schiavi e servi della gleba, prostitute e peccatori pubblici, ‘perfidi’giudei, poveri e ignoranti, laici e laiche, operai, indios e neri, carcerati, omosessuali, aidetici, ubriachi, drogati, divorziati, sacerdoti sposati o infedeli, atei, ragazze madri… cioè tutti coloro che sono emarginati dal consesso religioso e civile, per la loro incapacità o rifiuto a portare sulle spalle pesi superiori alle loro forze o doveri che  sovrastano le loro risorse… morali o psicologiche. Tutti costoro, rispetto a noi che viviamo da buoni cristiani e cittadini per bene, tante volte, hanno affinato un intuito istintivo più attento a percepire il cammino della giustizia» [Giuliano] e dunque ad accogliere il Signore e il suo Regno di misericordia.

Ma questa parabola… oggi a chi si rivolge?

Come allora, a chi è tra «i più vicini a Dio, i più osservanti, i più capaci di dedizione alle forme esplicite di culto e di riti per onorare Dio» [Giuliano]

Il meccanismo è infatti il medesimo che si configurava anche nei vangeli di queste ultime domeniche (la parabola del servo spietato, la parabola dei lavoratori pagati tutti lo stesso salario…), dove il punto di vista era sempre quello di chi si credeva giusto… che è un meccanismo molto presente nel vangelo, basti pensare alla parabola del figliol prodigo, dove – certo – c’è un grande lieto annuncio per chi è tra le fila dei “senza dio” (chi si identifica col figliol prodigo appunto), ma dove al centro resta la figura dell’altro fratello, quello che si ritiene giusto e del quale non si sa, alla fine, se decide di rientrare in casa e unirsi alla festa per il fratello ritrovato o di starsene fuori chiuso nella sua durezza. La parabola ha infatti una “finale aperta”, cioè è il lettore nella sua vita a decidere come va a finire quella storia… L’interlocutore è dunque qualcuno che si può identificare con questo fratello… quello che si sente giusto, appunto…

Siamo allora, di fronte, nuovamente (il vangelo sembra sempre portarci lì) a questo nodo: Come guardiamo a questo mondo e a chi lo abita? Con gli occhi di chi si sente giusto, arrivato, dalla parte giusta, dalla parte dei giusti, con l’inevitabile durezza di cuore che questo punto di vista implica? Oppure stiamo pian piano macerando il nostro perbenismo nel tentativo di avere in noi «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» che ha guardato ciascuno sentendolo suo?

Forse anche a noi  ‑ cosiddetti credenti impegnati e osservanti ‑ «tocca imparare, secondo il detto di Gesù, da chi, del tutto inconsapevolmente, ci sta “avanti” nel cammino del Regno dei cieli… Affiancarci a chi attorno a noi, appartiene ai nuovi elenchi di quelli che nell’opinione civile ed ecclesiastica corrente sono, con la loro vita, dalla parte sbagliata. Capita infatti che costoro “ci precedono”, perché sono più disponibili al vangelo, di noi che, analogamente agli antichi Ebrei, abbiamo l’appartenenza ecclesiale, i sacramenti, il culto, le devozioni e la giusta formazione morale…», [Giuliano] ma il cuore duro!

domenica 8 marzo 2009

Come il Padre, figli oltre ogni limite…

Oltre ogni limite
Fa veramente impressione leggere le prime parole che Dio rivolge ad Abramo nel brano di oggi
Se uno non conoscesse la storia precedente e non sapesse chi fosse Abramo non riuscirebbe a coglierne la violenza… Ma noi sappiamo chi era Abramo e chi era Isacco! Noi sappiamo che Isacco era il figlio donato da Dio a dei vecchi a cui l’età aveva tolto ogni speranza di un futuro storico: la morte li avrebbe oramai riportati nell’oblio del tempo, marchiati col ferro rovente di una sterilità esistenziale…
Ma ecco che inaspettati, gratuiti, arrivano i messaggeri di Dio, che ridanno speranza, ridanno vita a delle carni avvizzite… E nasce Isacco, il figlio della promessa e la vita ritorna a sorridere (etimologia di Isacco) anche a chi non ha più denti per poterlo fare con spavalderia…
E allora quanti figli aveva Abramo? Non era necessario essere un dio per saperlo: quanti poteva averne colui che non ne aveva mai avuti? Uno! Ed è già troppo! Forse che Dio non lo sapesse? Ma no! lo sapeva benissimo glielo ha dato lui! E allora che senso ha porre in tal modo un ordine già di per sé disumano? Ma che Dio è un Dio che sembra girare il coltello nella piaga?… Peggio di un avvoltoio che gira intorno alla preda prima di infliggerle il colpo finale, peggio di un gatto che gioca col topo… Dicesse: «Prendi tuo figlio e offrilo in olocausto»!… che già così è “roba da matti”, ma no! Non gli basta e dice “prendi tuo figlio l’unigenito”… e quanti figli aveva Abramo per dover specificare “l’unigenito”? Non contento aggiunge “che ami”… Roba da «padrone» più che da «padre»! A questo punto esplode con tutta la violenza dirompente come un “colpo di grazia” che uccide un nemico già ridotto a brandelli: «Isacco»! Già! ne aveva così tanti di figli Abramo che rischiava di fare confusione...
Umanamente parlando la frase per intero è di una perfidia inaudita: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Come diceva quel film? Dio… «Tu uccidi un uomo morto!»…

Perché tanto accanimento, perché tanta crudeltà? se non fosse Dio a parlare sembrerebbero parole dell’antico serpente… Il serpente già… questo ci rimanda a quello che meditavamo domenica scorsa sulla tentazione… sullo Spirito che butta Gesù nel deserto, tra le braccia di Satana… Come un padre che volendo insegnare al figlio a nuotare lo butta in acqua: o annega o impara a nuotare… o lotta o soccombe! Ek-ballei, dicevamo, è il termine usato per indicare l’azione dello Spirito… “gettare oltre, al di là” del limite… parola imparentata con syn-ballo (simbolo, sacramentum) e con dia-ballo (diavolo)… Simbolo che unisce, diavolo che separa, Satana che accusa, Spirito che ci difende ma “gettandoci oltre”… oltre sé, oltre il proprio limite, oltre i propri spazi, oltre la propria cultura, oltre il proprio corpo, oltre la propria vita, oltre la propria ragione, oltre i propri affetti, oltre i propri difetti… Come il Logos eterno che in Gv 1,1 si getta oltre sé (pròs…), tra le braccia del Padre (…tòn theón)… Lo Spirito “spinge fuori”, come una madre che deve “spingere” per espellere il figlio se vuole farlo nascere, separandolo da sé, separandoci da lei… C’è qualcosa di più violento e di più “cinico” di un parto? Per la madre e per il figlio? Solo la morte gli è paragonabile, infatti è un altro parto…

Ecco come si fa un figlio… devi “gettarlo fuori”, dopo averlo “conservato dentro”… Ecco perché Gesù dice che chi non odia suo padre e sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle i suoi figli e le sue figlie, i suoi averi e persino la propria vita… non può essere suo discepolo (cf Lc 14,26): perché altrimenti non può nascere, nascere come figlio, figlio come lui…

La speranza è il cammino dell’amore! La speranza è ciò che ci consente di camminare nella storia, superandoci continuamente… il rischio per noi uomini è quello di confondere la speranza con il suo “segno”, la promessa col dono, l’alleato con l’alleanza!
Tentati di non essere figli, tentati di non essere padri per rinchiuderci nel dono… tentati di non vivere e di ritornare alle sicurezze di un ventre materno, caldo e accogliente, senza neanche la fatica di doverci procurare il cibo… ma moriremmo avvizziti dentro la pancia di chi ci ha generati! Chissà, forse in realtà il “paradiso terrestre” descritto nella bibbia è la teatralizzazione (le acque, il cibo…) di come ci si trova(va) nella pancia di nostra madre… e da cui siamo stati forzati a uscire, “sentendoci” cacciati! E col divieto di rientrarci!
E allora Dio, per salvarci da morte certa, ci “forza a nascere” (letteralmente è l’espressione usata da Paolo in 1Cor 15,8 per parlare della propria conversione: ek-trómati): ci “spinge” fuori! Sempre, continuamente, oltre.

Proclamiamo nel “Credo” che il Figlio, il Verbo eterno del Padre, è “generato e non creato”… un bel concetto dinamico questo “generato”… chissà allora cosa ci ha portato a concepire la creazione come qualcosa di statico… Noi siamo creati da Dio, ma non per questo siamo stati creati “ieri”… Dio ci crea e ricrea continuamente… come? gettandoci oltre… La vita è un parto continuo (sempre Paolo in Rm 8,22)… Dio non mi ha creato, Dio mi sta creando… L’uomo si fa nella storia e si fa gettandosi oltre, lasciandosi gettare oltre… Questo è il movimento della speranza… Che tanto ottiene da Dio quanto in lui si abbandona (cf San Giovanni della Croce, “…tanto alcanza de él cuanto ella de él espera.”, NO II,21,8)…

Nascere è Esodo, Passaggio continuo. È lasciare quello che si conosce, per andare verso quello che non si conosce, che è come dire che si cresce lasciando la luce per andare verso l’oscurità… E del buio si ha sempre più paura… ecco allora la Parola, come luce e lampada ai nostri passi (cf Gv 1,9; Sal 119(118),105 e luce)… passi che conducono nei cammini bui della storia, per strade e sentieri stretti che non si conoscono perché del Padre!… come Gesù che se da un lato è l’unico che conosce il Padre (Mt 11,27), dall’altro sembra che gli manchi ancora qualcosa da conoscere (Mt 24,36)… E qualcosa gli resterà sempre… Per questo la speranza come l’amore è eterna, non solo perché l’amore tutto spera (1Cor 13,7), ma perché il Figlio sia tale e non si sostituisca al Padre è necessario che si “attenda” dal Padre: per questo lo Spirito intercede, geme, langue, invoca, ama e spera (cf Rm 8,26ss)… Ecco perché ci è nascosta anche l’ora della morte... ci ucciderebbe come figli il saperlo!

In fondo è la stessa esperienza degli apostoli sul monte. Dopo la luce della visione… il giorno sarà apparso più buio… ma fermarsi alla visione — «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne» (Mc 9,5) — vorrebbe dire uccidere la vita… E “costruire capanne” è il movimento contrario all’Esodo: ma perché la vita viva, deve andare oltre, attraversare il Mar Rosso, incontrare il buio della croce. Dell’assurda, ingiusta, stolta, disumana, diabolica, croce… per ritrovare in pienezza la ragionevole, giusta, saggia, umana, divina, vita! Così l’uomo si crea!

Ecco perché il Padre «non ha risparmiato il proprio Figlio» (Rm 8,32) e non ne risparmia mai nessuno! Diversamente dalle nostre madri così iperprotettive da uccidere il figlio e uccidersi come donne. Ma questo e solo questo è amare veramente, e rivela il nuovo volto dell’Amore! E il nuovo modo di dirsi padri, madri, figli, mogli, mariti, fratelli e sorelle!



«Ma intanto ora Dio tentava Abrahamo, e gli dice: Prendi il tuo figlio carissimo, che ami (Gen 22,1-2); non gli era bastato aver detto figlio, ma aggiunge anche carissimo; sia pure, ma perché aggiunge ancora: che ami? Considera la gravità della tentazione: mediante questi dolci e cari nomi, di nuovo e più volte ripetuti, sono eccitati i sentimenti del padre, affinché, essendo ben desta la memoria dell’amore, la destra del padre sia trattenuta nell'immolare il figlio, e tutta la milizia della carne faccia lotta contro la fede dell’anima. Prendi, dice dunque, il tuo figlio carissimo, che ami, Isacco; sia pure, Signore, che tu ricordi il figlio al padre; aggiungi anche carissimo di colui che comandi di uccidere; basti questo al supplizio del padre; di nuovo aggiungi anche che ami; pure in questo siano triplicati i supplizi del padre; ma che bisogno c'è ancora che tu ricordi anche Isacco? Forse che Abrahamo non sapeva che quel suo figlio carissimo, colui che egli amava, si chiamava Isacco? Ma perché si aggiunge ciò a questo punto? Perché Abrahamo si ricordasse che gli avevi detto: In Isacco si chiamerà per te la discendenza, e in Isacco saranno per te le promesse. Viene anche ricordato il nome, affinché subentri la disperazione nei confronti delle promesse che erano state fatte in questo nome» (Origene, Omelie sulla Genesi, VIII,2)

domenica 1 marzo 2009

Gettati nella mischia per essere figli

Miguel Angel Reyes - Llave, Lotta
Spinti tra le braccia di Satana per incontrare quelle del Padre?
L’espressione evangelica “tentato da Satana” (peirazómenos úpò toū satanā) esige prima di tutto una comprensione del significato delle parole tentare e tentazione…
Tentazione e tentato (dal verbo tentare) sono espressioni strettamente collegate rispettivamente al sostantivo tentativo (péira) e al verbo tentare (peiráō): queste espressioni hanno in sé il concetto di “portare al di là”, “portare fuori”, “sforzarsi di arrivare oltre” (cf Tentazione in Diz. Teol. Concetti N.T., ed. EDB)… e quindi per estensione tentare, mettere alla prova, provare, misurare, valutare, verificare, soppesare, pesare, spingere oltre… L’immagine che più si avvicina è quella delle “prove di resistenza” dei materiali che si fanno nei laboratori scientifici: si porta il campione al punto di rottura e se ne conoscono così le qualità di resistenza (alla trazione, compressione e torsione…) per permetterne l’uso adeguato alle sue “capacità”…

Ma cosa, chi, spingere oltre? E dove? Oltre il proprio limite per valutarne la tenuta!
In questo senso “tentare Dio” è un’espressione usata anche nell’AT. È volerne misurare la pazienza, la misericordia, portarlo al limite di sopportazione per misurarne i limiti: “voglio vedere quanto resisti a…”: volermi bene, essermi amico, proteggermi, sopportarmi, a sopportare… (da qui gli attestati continui alla infinita misericordia di Dio, alla sua infinita grandezza, potenza, ecc.!). È evidente qui come essa sia quindi collegata a una mancanza di fiducia, di fede: “non ci credo veramente che sei capace di”… volermi bene, essermi amico, proteggermi, sopportarmi, a sopportare…!

Sempre in questo senso anche nel libro di Giobbe, ancora Satana propone a Dio di misurare la fedeltà di Giobbe! E Dio acconsente!?! «Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai…» (1,11)!

Persino Giobbe rimprovera proprio questo a Dio: «Che cosa è l’uomo perché tu lo renda grande e presti a lui attenzione, e lo visiti ogni mattina mettendolo alla prova ad ogni istante?» (7,17ss). E anzi lo sfida: «Ma egli conosce la strada che io prendo; se mi provasse, ne uscirei come l’oro» (23,10)… Dai, provaci! Ti terrò testa!

Interessante notare anche il cinismo degli amici: : «Sia dunque Giobbe provato sino alla fine, perché le sue risposte sono come quelle degli uomini malvagi» (34,36)… Ovvio, direbbe san Giovanni, chi non si fida di Dio, come può fidarsi degli uomini, e viceversa?

Ma Giobbe in fondo invece si fida, da qui la sua “confessione di fede” nell’impossibilità di misurare Dio: «Oh, sapessi dove trovarlo, per poter arrivare fino al suo trono! Esporrei la mia causa davanti a lui, riempirei la mia bocca di argomenti. Saprei le parole con le quali mi risponderebbe, e capirei ciò che avrebbe da dirmi. Contenderebbe egli con me con grande forza? No, invece mi presterebbe attenzione. Là l’uomo retto potrebbe discutere con lui, così sarei assolto dal mio giudice per sempre. Ecco, vado ad oriente, ma là non c'è; ad occidente, ma non lo scorgo; opera a settentrione, ma non lo vedo; si volge a mezzogiorno, ma non riesco a vederlo» (23,3-9).

E cioè qualora il metro dell’attenzione, della discussione e dell’assoluzione è quello del “cercare di”… sapere, capire, contendere, come tentativo di “misurare”, vagliare, tentare Dio, coerentemente non si può che concludere che, visto che “non riesco a” sapere (non so!), a capire (non capisco!), a dialogare (non contendo!)..., non si può non affermare che allora Dio non mi presta attenzione, non si può discutere con lui, non può assolvermi! Cioè c’è già qui presente in modo abbastanza inaudito per il nostro pensiero occidentale, che la conoscenza di Dio è influenzata dal mio rapporto con lui e non il contrario: se non mi fido di lui, non posso, non solo conoscerlo, ma neanche volerlo conoscere! È solo la fede-fiducia reciproca che ci permette di incontrarLo e di incontrarci! E questo vale anche tra gli uomini!

Questo per dire che il tema della “tentazione” è un tema talmente fondamentale che necessariamente è sotteso a tutto il discorso biblico e non basta cercare la parola “tentazione” ma occorre cercare il contenuto semantico che essa esprime cioè tutte quelle espressioni che in un modo o nell’altro rimandano a ciò che i lemma “tentare” e “tentazione” significano: e non solo le espressioni “affini” (si veda ad esempio i termini “stanchezza”, “stanco”...) ma anche i gesti e i comportamenti, come abbiamo visto nel Satana in Giobbe, dove la parola tentazione di per sé non c’è, ma c’è l’azione del tentare, del provare…
E questo ci fa dire che se è vero che il tema dei 40 giorni del Vangelo di oggi richiama il cammino nel deserto, l’idea della tentazione rinvia a tutta la storia di Israele e anzi dell’umanità! Al rapporto uomo-Dio, Dio-uomo e al rapporto uomo-uomo!
È chiaro che sviluppare adeguatamente questo tema esigerebbe la rilettura integrale della Bibbia sotto questa prospettiva…

Ora in tutte queste “tentazioni” nel senso sopra brevissimamente esposto che cosa è in questione? A cosa dobbiamo “resistere”?

Sempre prendendo da Giobbe (ma Alessandro D'Alatri: Il giardino dell'Eden, Gesù è spinto nel desertovedi anche ad esempio Abramo e il “sacrificio” di Isacco in Genesi 22)… quello che è in questione, non è tanto in primis l’idea che io ho di Dio, il “chi è Dio?”, “il suo volto”, ma il nostro rapporto con lui. La questione è “come ci relazioniamo con lui? (Eva, Abramo, Mosè, Israele, Gesù…)! La bibbia dice il “chi” attraverso la storia della “relazione”: ed è proprio questo a cui rimanda il nome di Dio rivelato a Mosè, Yhwh.

Insomma è il nostro rapporto con l’altro che ci rivela chi è l’altro: se lo trattiamo da nemico, lo vediamo nemico e non lo conosciamo affatto! Ecco perché “bisogna” amare il nemico: uno non “è” nemico, lo facciamo nemico, decidiamo noi che sia così o meglio lo lasciamo decidere alle le nostre paure di cui diventiamo schiavi. In una parola Dio, l’uomo, la donna, il creato, ci è nemico se gli siamo nemici, ci sono stranieri se decidiamo di essergli straniero!

Il Tentatore è proprio colui che accusa (da cui il nome satana: a cui si oppone la difesa dello Spirito e Gesù come “avvocati, difensori”, mediatori, intercessori) uno dei “poli” del rapporto di amicizia (alleanza): Dio (Genesi, e qui nel Vangelo), l’uomo (Giobbe, e sempre qui nel Vangelo) e cerca di creare una rottura, una crasis: divide (da cui il nome diavolo: a cui si oppone la comunione nello Spirito di Cristo) con lo scopo di porre se stesso come centro di una relazione asimmetrica (Mammona, qui Satana cfr passi Mt 4,1ss; Lc 4,1ss)… Incredibile, nel nostro brano genesiaco, il passo in cui Dio si pente di essersi pentito di aver creato l’uomo: anche Dio cioè si “confessa” di aver ceduto alla tentazione… ed è tentato di cedervi… e lo tentiamo ogni volta che gli chiediamo di usare il nostro criterio di giustizia! Ma Dio da Noè, ha deciso di esserci Padre e di esserlo per tutti! O almeno questo è il significato che l'episodio biblico dell'arca ci vuole trasmettere: non sognatevi di pensare che Dio possa cessare un giorno di esserci Padre (o non esserlo per il malvagi!)... perché da sempre ha deciso di esserci Padre e mai si rimangerà la propria paternità, anche se lo tentiamo! Anche se, assumendo il ruolo di accusatori (satan) cerchiamo di separare (diaballo) il Padre dai suoi figli e i figli dal loro Padre (magari per tenercelo tutto per noi: cf Caino)...

La questione è insomma il “tentativo” di mettere in discussione la figliolanza: “il nostro essere figlio/a!” a cui cor-“risponde” l’espressione “padre”, “mio padre”, “padre vostro”, “padre nostro”: che non a caso sono “in-vocazione”, preghiera e che qui sono tutte espressioni implicite nel termine “tentazione” come loro negazione, gli altri evangelisti invece esplicitano le tentazioni col rischio però di ridurle ad alcuni aspetti della vita, mentre è la Vita tout-court che è tentata (persino in Dio, persino del Padre) di diventare Morte, di restare senza figli, sterile, perché i figli sempre sono anche un problema, che scombussolano la vita, persino di Dio!

Tornando al Vangelo, la Tentazione (con la t maiuscola) permanente di Gesù e la nostra, non è la tentazione moralistica e pulsionale della nostre “voglie”, la Tentazione è quella per cui Gesù ha pregato e ci invita a pregare “non ci indurre in tentazione”… di cui il “non abbandonarci nella prova” è solo un aspetto! Una traduzione più vicina a noi non ci esime dalla comprensione profonda… Allora questa prova in cosa consiste? È un termine complesso abbiamo visto, che non è spingere al peccato, anzi il peccato ne è la conseguenza…

Sostanzialmente quindi il problema della tentazione è il decidersi di “non voler stare solo” (Dio col diluvio, Adamo), “non volersi fare da sé” (peccato di Adamo… e per questo Dio nella storia si serve di “inviati”, profeti, apostoli), rifiutare il parricidio (Gesù), il figlicidio (Dio a Noè, la Risurrezione di Cristo)!
Allora che cosa vuol dire essere figlio (e per converso Padre)? Essere figlio vuol dire lasciarsi coinvolgere in una storia di comunione (alleanza) con Dio che solo allora “diventa” Padre. Questa storica concreta di comunione, Gesù la chiama “Regno”! Decidere di lasciarsi coinvolgere in una avventura nuova con Dio accolto come Padre… ecco perché Gesù subito annuncia il Regno… ecco perché conversione vuol dire “cambiare direzione” proprio come tentazione, vuol dire andare “al di là” del rapporto, emanciparsi, rompere il rapporto, cambiare strada, costruirsi una storia per conto proprio, solipsisticamente… Ecco allora la sola vera tentazione presente in ogni tentazione: di chi vuoi essere figlio? «“Se” sei figlio… non è possibile che», “il tuo essere figlio… ti dà diritto di..”, ecc.

Il deserto come dimensione permanente del cammino nello Spirito!
Anche lo Spirito “tenta”, anche Satana “spinge”: solo che uno spinge al deserto (le prove di Giobbe) cioè all’abolizione di ogni stampella nell’affidarsi a Dio: e là, la fede o cresce o crolla. Ma in questo senso dal deserto non si deve mai uscire, se non si vuole uscire dalla fede, dal rapporto con Dio, in cui ci decidiamo (“sì o no”) come figlio. Da questo nuovo rapportarsi con Dio, “nasce”, prende corpo allora il volto nuovo di Dio, che si rivela solo allora Padre, nella misura in cui noi accettiamo di farci figli! Ecco perché Gesù rivela il Padre: in quanto figlio! Non per intervento “magico” ma per radicale figliolanza!
Alessandro D'Alatri: Il giardino dell'Eden, Gesù è provocato e si lascia pro-vocare
Dobbiamo stare attenti a non vedere i vari racconti di Gesù come se fossero separati tra di loro, come grani di un rosario… Come se Gesù una volta superata la prova si fosse lasciato il deserto dietro le spalle… Gesù e il discepolo sono nel deserto tutta la vita… non ne escono mai perché si lasciano guidare dallo Spirito e quindi ogni istante la loro figliolanza è “provata”: "Gesù fu tentato in tutto come noi, eccetto che nel peccato" (Eb 4,15): sempre, fin che era nella storia! L’illusione che noi abbiamo di porre fine alla tentazione è essa stessa una tentazione, una fuga, perché pretende di sottrarci dall’azione dello Spirito…

Infatti appena Gesù esce dal un deserto ne entra in uno ben più grande: Giovanni è stato ammazzato! Ma questo lo spinge ulteriormente ad andare oltre, ad impegnarsi, a gettarsi nella mischia, non a fuggire, ed annuncia il Vangelo!

Spero che siano chiari ora i due movimenti contrari: lo Spirito spinge alla lotta, satana alla fuga! L’uno alla comunione, l’altro alla separazione…
Per questo appare fondamentale notare che anche lo Spirito (pneuma) “spinge”, “getta oltre”, “getta, spinge fuori” (ekballei) ma nel deserto cioè tra le braccia di satana, perché forza alla lotta, lo Spirito cerca lo scontro (cf “addestra le mie mani alla battaglia” Salmo 22,35)… È veramente “strano” il cristianesimo, mentre tutte le religioni spingono alla fuga dal male… lo Spirito spinge all’incontro, ad affrontarlo…. vittoriosamente! Si veda Paolo in 1 Cor 12,9 quando chiede di essere liberato dalla “prova” e Gesù risponde: ti basti la mia grazia!... È come se Dio lottasse contro la sua stessa tentazione di non esserci più Padre (siamo fatti a sua immagine anche in questo?!) in un vero corpo a corpo (cf Gen 32,26 in cui Giacobbe costringe Dio ad essergli Padre: «Non ti lascerò andare, se non mi avrai prima benedetto! E vince! E Dio si lascia vincere perché vuole “essere” e rivelarsi Padre) e ci spingesse per questo a lottare contro la tentazione di non esserGli più figlio: perché se non c’è il figlio, non c’è il padre! E così scopriamo che nemmeno Dio è Padre “automaticamente”… ma decide di esserlo in ogni istante “restando fedele a se stesso”… Insomma saremmo stati “tentati” anche se non avessimo mai ceduto alla tentazione, anche se non esistesse il peccato originale…

Lo Spirito, il deserto-satana e la prova sono quindi l’itinerario di un solo movimento che spinge tra le braccia del Padre e dei fratelli… attraverso “l’abbraccio” con satana! Altro che la banalizzazione che noi facciamo del diavolo: il Vangelo risponde qui al nostro peccato (si badi bene: dico peccato, non tentazione!) che ci fa credere che il diavolo, l’accusatore, il nemico, sia l’altro o sia altrove, invece siamo noi stessi, è dentro di noi, è persino in Dio: è la voglia che noi abbiamo di starcene da soli in pace, senza troppi problemi! È la tentazione solipsista!

Allora, l’amore del Padre e l’amore del figlio, si concretizzano storicamente in una storia che nella maturazione del loro rapporto, li fa Padre e figlio in una storia comune che si chiama Regno, giustizia nuova, nuova alleanza! Ed ecco perché Gesù è nuovo Mosè, guida autentica di una alleanza rinnovata: conduce al Padre, perché conduce all’unica figliolanza possibile! La scoperta del volto di Dio, insomma non nasce da uno studio biblico, né teologico, né filosofico, né da una testimonianza strettamente intesa… ma nasce da un incamminarsi, ingaggiarsi, gettarsi nella mischia, coinvolgesi e lasciarsi coinvolgere in una storia in cui noi accettiamo di rivelarci al volto di Dio come figlio/a e questo ci rivela Dio come Padre e lo rivela agli altri uomini chiamati ad essere figli: infatti è il Figlio che rivela il Padre… e più uno è figlio e più mostra il Padre: nostro compito (conversione) allora è fare che Dio ci sia Padre. Fare che il Padre sia! Ed è quello che ci testimoniano gli apostoli e qui la prima lettera di Pietro!

Sinteticamente, nella lettera agli Ebrei (5,8) c’è espresso analogamente lo stesso pensiero: come Gesù anche per noi, è imparando l’obbedienza, è facendoci figli, che riconosciamo il volto di Dio come volto di Padre, cioè volto salvifico: costi quel che costi (il deserto, la lotta: cf Apocalisse), altrimenti sarebbe cedere alla tentazione, rompendo il legame, l’alleanza, la figliolanza, la familiarità! Ma uccidendo il Padre, uccidiamo necessariamente il figlio che noi siamo!

Alessandro D'Alatri: Il giardino dell'Eden, Gesù vince e accoglie la pro-vocazione

sabato 18 ottobre 2008

La bellezza dei semplici


Verranno beatificati domani, 19 ottobre, a Lisieux i genitori di santa Teresa

Domenica 19 ottobre, verranno beatificati, nella basilica di Lisieux (Francia), Luigi Martin (1823-1894) e Zelia Guérin (1831-1877), genitori di santa Teresa del Bambino Gesù, dottore della Chiesa, patrona delle missioni e della Francia (insieme a santa Giovanna d'Arco). Il rito sarà presieduto dal vescovo di Bayeux et Lisieux, mons. Pierre Pican, mentre la formula di beatificazione sarà pronunciata dal card. José Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi.
Luigi e Zelia avevano entrambi pensato alla vita religiosa, prima di incontrarsi e di sposarsi il 12 luglio 1858. Cristiani ferventi, ebbero nove figli, di cui quattro morirono nei primi mesi o anni di vita. Nel 1865, Zelia fu colpita da un cancro, ma non per questo rinunciò a nuove maternità; all'età di 41 anni diede alla luce l'ultimogenita, Teresa, che aveva poco più di quattro anni quando la madre morì. Luigi seguì la crescita umana e spirituale delle figlie e diede il suo consenso alla loro vocazione religiosa. Nel 1888, iniziò per lui la prova di una malattia, durata fino alla morte. La quotidianità più semplice e, se si vuole banale, è quella domestica, della propria casa, della propria famiglia: padre, madre e prole. Un ritmo che batte intenso lo scorrere del tempo e delle giornate. L'esperienza della vita, dell'esistenza che inizia e che si conclude, donando a ciascuno un volto, un'educazione, un sentire specifico per cui si può dire "noi".
"Noi" Martin appunto. Luigi e Zelia e una schiera di bimbi, purtroppo con sole cinque figlie sopravvissute all'alta mortalità infantile di allora. Borghesi lavoratori: orologiaio e gioielliere lui, imprenditrice lei. Orari precisi, commerci da sviluppare. Zelia, donna dalle mani d'oro, aveva appreso un famoso punto detto Alençon, un traforo di pizzo straordinario. Non si accontentava però di produrlo, era capace di farlo produrre da una serie di operaie a domicilio. Per sé riservava la parte più ardua: unire i diversi pezzi senza che le cuciture risaltassero all'occhio. Lavoro massacrante e "detestato" perché sottraeva energie, ricercato però perché educare e accasare ben cinque figlie non era impresa da poco, neppure nella seconda metà dell'Ottocento.
Luigi, pur lui uomo dalle mani d'oro, prosperava con il suo negozio, coltivava l'hobby della pesca e dei viaggi. La richiesta però del pizzo l'indusse a diventarne l'incaricato delle vendite (così viaggiava ancora!!) e il conto in banca dei Martin si ingrossava notevolmente. Una bella casa, una domestica, qualche vacanza al mare, gli "status symbols" della vita borghese si notavano tutti. Eppure, in questo contesto, così ovvio e scontato, vibrava ben altro: il centro della vita dei genitori era il loro amore radicato nell'Amore di Dio. Non era il succedaneo della domenica o delle feste, quel tocco natalizio e pasquale che, via, allora non poteva mancare nella Francia cattolica. Era atmosfera, aria che si respirava a pieni polmoni. Senza costrizione, senza rigore, con piena e sovrana libertà: Luigi rideva e giocava con le sue bimbe, Zelia a fatica si separava da lui durante le vacanze al mare. In casa risuonava il canto della bella voce di Luigi, il chiacchiericcio delle piccole, i loro bisticci infantili presto corretti e riportati alla pace. I rapporti umani, solidi e veri, erano il terreno più fecondo perché l'amicizia di Dio pervadesse tutto. Niente di strano che da questo piccolo ambiente scaturisse la grande santa Teresa di Gesù Bambino.
Un quotidiano portato a santità, un quotidiano vissuto nella relazione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, senza forzature ma con piena riconoscenza e adesione.
Spesso i genitori chiedono: come fare a trasmettere la fede ai figli? Talvolta, diventa un interrogativo dilaniante che si scontra con il muro del rifiuto opposto proprio da chi nella vita è più caro perché gli si è data la vita stessa. Luigi e Zelia forse non se lo sono mai chiesto, semplicemente hanno vissuto la loro testimonianza. Teresa scrive di non aver mai avuto bisogno di imparare a pregare, le era sufficiente guardare il volto di suo padre orante per capire come pregavano i santi. E non si sbagliò, neppure in questo! Santi entrambi i genitori, santi nel vincolo del matrimonio, del loro reciproco affetto.
Una società, per molti aspetti, sdolcinata e legata a forti condizionamenti borghesi, illuminata dalla luce del Vangelo, avrebbe prodotto il frutto della semplicità più rara: una coppia di amanti, di genitori attenti, di cristiani volti al servizio di chiunque avesse bisogno. Prestare ingenti somme, intaccando il capitale in banca per soccorrere qualche persona caduta nell'indigenza, non è una decisione facile, neppure per un single, figurarsi per una famiglia con cinque figlie! Alzarsi in tempo per la prima messa delle 5 e 30, malgrado il cancro divorante che per ben 12 anni annientò il fisico di Zelia, senza per questo sottrarsi a nessuno compito lavorativo ed educativo, non è "normale". Prestarsi nelle mansioni più umili (in concreto: svuotare i pitali della famiglia!) era per Luigi compito onorevole, quanto l'Adorazione notturna e un bel viaggio/pellegrinaggio. Temperamento coraggioso e irascibile il suo, eppure reso mite dalla grazia: lo si vedeva arrossire ma non trascendere. Quanto gli costò separarsi da Zelia e rimanere solo con cinque giovani figlie, lo dissero le lacrime copiose; decise anche, generosamente, di lasciare Alençon, dove aveva cari amici ed era stimato, per avvicinare le figlie alla cognata a Lisieux.
Luigi e Zelia: il volto feriale, borghese, di una coppia trasfigurata dall'Amore e divenuta festa di santi.

C. Dobner in Sir, 15 ottobre 2008

giovedì 20 dicembre 2007

La forma dell'attesa: senza paura d'amare, ma con fedeltà e coinvolgimento

Ed eccoci giunti all’ultima domenica prima di Natale… Ormai ci siamo… il mistero tanto atteso inizia ad essere intravisto, tant’è che il brano del Vangelo di Matteo che la Chiesa ci propone incomincia con la dichiarazione esplicita di che cos’è ciò che stavamo aspettando: «la nascita di Gesù Cristo». Ma ci vien detto di più… infatti non solo è detto il fatto, ma il desiderio di volercelo narrare: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo».
È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare…
E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…
Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa IV domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no?
No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo martedì, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…
Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale? Se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a), di che cosa parla sto Vangelo?!?
Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal rannicchiamento sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…
Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.
La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»…
Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… è vero sappiamo tutto… ma – ipotizziamo – se un ragazzino dei miei arrivasse e mi chiedesse “Tu che queste cose le sai già tutte, dimmi allora chi è Gesù, cosa vuol dire che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo…?”… ecco, se arrivasse, non so voi, ma io sbiancherei e con un bel giro di parole lo intorterei su per evitare il discorso…
E allora, forse… anche a noi, a me, che sappiamo già tutto e sappiamo già come va a finire la storia, fa bene metterci un po’ nei panni dei protagonisti e lasciarci istruire da come loro hanno vissuto le cose… o almeno da come ce le racconta Matteo…
Insomma… sto Giuseppe si ritrova con sto ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata con una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio…
[…che peccato che i cristiani non abbiano imparato da Giuseppe…]
Il versetto 19 e la prima parte del 20 ci descrivono quest’uomo contorto nei suoi pensieri, nella preoccupazione sul da farsi, nei giramenti di viscere tra incredulità di fronte all’accaduto, rabbia per un tradimento subito, amore per la sua Maria a cui comunque non vuol far del male: «Giuseppe poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto», «mentre stava considerando queste cose».
Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina… a me vengo subito in mente io… quante volte mi ritrovo, ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del gatto che si morde la coda…
E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il ragionare, partorisce la sua risoluzione… una risoluzione che non può che essere il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla…
Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci sta intorno… ma d'altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro?
«Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».
È avvenuto qualcosa… Giuseppe arriva all’unica risoluzione che dà gioia, all’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa!
È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo qua determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).
È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il groppo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù »).
E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe…
Troppo spesso lo immaginiamo come lo sfigato – passatemi il termine – della situazione: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con sta storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce pure, senza che si sappia più niente di lui… insomma…
E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato…
Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…
È interessante che la Chiesa ci metta proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: che ci voglia dire che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…?
Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…
Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…
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