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sabato 26 dicembre 2015
Santa Famiglia 2015
sabato 27 dicembre 2014
Santa famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria
sabato 28 dicembre 2013
Santa Famiglia 2013








venerdì 24 dicembre 2010
Santa famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria
Partiamo proprio da qui. Infatti mi pare che sia subito da mettere in luce un’indicazione interessante: e cioè il fatto che, sia la prima che la seconda lettura, parlino dei rapporti familiari all’interno di discorsi più ampi, stigmatizzando la vita di coppia o il rapporto con i figli come situazioni emblematiche per la vita. Ne parlano infatti insieme all’altra condizione fondamentale dell’uomo, quella della sua attività (cfr Sir 3,17: «Figlio, nella tua attività sii modesto»), in particolare all’interno del rapporto servo-padrone (cfr Col 3,22: «Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni»). Inoltre, in modo esplicito il libro del Siracide introduce il brano dov’è contenuta la lettura di questa domenica con questa frase: «Figli, ascoltatemi, sono vostro padre; agite in modo da essere salvati» (Sir 3,1).
L’orizzonte ampio in cui si collocano le parole sui rapporti genitori-figli è allora quello della salvezza: per essere salvati, sembra dire il Siracide, è necessario che curiate le relazioni di generazione, quelle che toccano l’origine della vostra vita.
Eppure, nonostante l’evocazione di questa pista di riflessione crei notevoli aspettative, di fatto poi, la lettura del testo del Siracide, lascia una certa impressione di delusione... Non tanto per quanto dice... ma soprattutto per quanto non dice:
- si parla di onore al padre e alla madre… indicazione certo inconfutabile, se non fosse che a noi riecheggia subito nelle orecchie quanto cantava De Andrè nel suo Testamento di Tito: «Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore». A dire che forse non sempre l’automatismo del comandamento ha una plausibilità storica;
- si parla poi, per chi onora il padre, di esaudimento della preghiera, di gioia dai propri figli, di vita lunga... ma semplicemente noi sappiamo che non è così... basta attraversare un po’ l’umanità e le tragedie che investono la sua storia per rendersene conto: persone che sono state figli esemplari non hanno visto le loro preghiere esaudite, non hanno avuto gioia dai loro figli, non hanno avuto una vita lunga… e chissà cos’altro…;
- si parla di un padre che perde il senno, ma non sono considerate tutte le altre drammatiche situazioni che le nostre famiglie attraversano…
Non credo però ci sia troppo da stupirsi... mi pare infatti che l’intento del Siracide in questi versetti sia semplicemente quello di delineare una buona condotta familiare, contenuta in un testo più generale che vuole dare “consigli per il vivere”, attraversando molti campi esistenziali, senza la pretesa di indagarli nello specifico. E come insegna la buona esegesi, non si può far dire a un testo più di quello che dice.
Da quanto detto quindi mi pare emerga un dato di fatto: se oggi la Chiesa ci chiede di concentrarci sul tema della famiglia, non possiamo farlo limitandoci a proporre banali regole di buon comportamento, abituali pacche sulle spalle che non consolano né incoraggiano più nessuno, aridi discorsi moralistici che non fanno altro che buttare sulle spalle della gente pesi che noi non tocchiamo neanche con un dito (Lc 11,46).
In questo senso è interessante proseguire la nostra riflessione notando che, come il Siracide, che elencava una norma comportamentale per i figli al fine di salvarsi, anche la vicenda del Vangelo parli della necessità di un mettersi in salvo: «I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13). È ancora più curioso il fatto che, chi deve essere messo in salvo (lui è ancora troppo piccolo per poterlo fare da sé), sia proprio il Salvatore del mondo...
Ma qui, diversamente dal Siracide, in merito alla salvezza non si parla astrattamente di ‘come ci si deve comportare in famiglia’: qui ci è raccontato un pezzetto della storia di una famiglia e del suo ‘immischiamento’ nel fango e nelle fatiche di questo mondo...
Di essa infatti si dice subito che sta tutta dalla parte dei derelitti, di quelli a cui certo non bastano le buone norme comportamentali: questa, di Gesù, Maria e Giuseppe è una famiglia profuga (tra l’altro in Egitto...), povera («non c’era posto per loro nell’albergo»), strana (è infatti una famiglia moralmente incriminabile, come trapela da Mt 1,18-25, che mette in evidenza la tensione di Giuseppe all’idea di avere in moglie una ragazza madre)… è una famiglia che dunque si impone come paradigma non solo per le famiglie “apposto” da un punto di vista giuridico-canonico, ma per tutte le famiglie, anche per quelle che in senso stretto non dovremmo neanche chiamare così: le comunità, le fraternità, le famiglie allargate, le famiglie rimpicciolite, le s-famiglie (per citare un’opera di P. Crepet)… insomma – prendendo il termine in senso lato e ampio – per tutte quelle situazioni umane in cui ci si ritrova almeno in due a tentare di vivere l’accoglienza di Gesù, lasciandosi da lui normare la vita…
Perché seppure le povertà siano diverse, tra miseri, poveri, emarginati, si crea una sorta di solidarietà di base... di sentirsi collocati dalla stessa parte del mondo (quella sbagliata naturalmente)... E allora è davvero consolante leggere che la santa famiglia sta anch’essa da ‘questa parte di qua’: dalla parte delle famiglie profughe, povere, strane... dalla parte delle famiglie che non possono più dirsi famiglie... dalla parte di famiglie in cui manca il padre, la madre, un figlio... dalla parte delle famiglie che preferirebbero non avere quel padre, quella madre, quel figlio... dalla parte di quelle «nuove famiglie che la Chiesa non vede» (come scriveva Aldo Schiavone, sula Repubblica di lunedì 24 dicembre 2007)...
Infatti «… Questa “santa” famiglia è così tanto culturalmente disomogenea ad ogni modello e tanto fuori da ogni misura, proprio per questa divina inabitazione, da contenere ogni famiglia […]. Allora, adesso, ogni luogo d’amore umano che anela ad esser “famigliare”, (ove cioè l’uomo tenta di addestrarsi comunque ad esser uomo), si tratti di famiglia “normale” o incompiuta, legalizzata o emarginata, affranta sotto il peso della condanna ecclesiale o sociale, o da paure e divisioni, peccato o fragilità, sessualità normotipiche o incoative – dentro o al di fuori di ogni frontiera culturale tutte sono abitate “carnalmente, e per questo ancor più “profeticamente” da Dio stesso … Magari pàgano un amaro tributo alla prima radice carnale, ma possono sempre essere redimibili e salvifiche perché aggrappate alla seconda. Nessuno può più a priori condannarle, ma anzi deve accudirle e custodirle e illuminarle, perché dentro le ferite della tormentata storia biologica, culturale o personale che le ha prodotte, il cristiano sa che c’è sempre, almeno un brandello della “buona notizia di carne” – che è questo “bambino”». Ma «… bisogna forse fermarsi un momento a riflettere per capire come questa ‘unica’ irrepetibile famiglia possa essere significativa per le nostre… se dev’essere in qualche modo il modello della famiglia cristiana, proprio perché è la famiglia di Gesù il Cristo. È una ben strana famiglia, questa, che vive un’avventura umana così eccezionale ed irrepetibile… Una continua sorpresa a se stessa! A leggere il racconto di Matteo, Giuseppe desiderava invece una normalissima famiglia, ma ad ogni momento importante ha un sussulto per un cambio di rotta sconvolgente… Non avrebbe mai “sognato” di vivere un’avventura così. Altri sogni invece lo istradano verso progetti impensabili» [Giuliano].
Progetti, sogni, avventura che come dice bene Paolo son fatti… «di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità», ma soprattutto «di carità/amore, che li unisce tutti»…
Accogliere Gesù, infatti, da bambino e poi da grande e poi da crocifisso e poi come Signore della propria vita, vuol dir proprio questo – alla fine – se ci pensiamo… plasmare il nostro cuore (dentro il miracolo – “diluito” lungo tutta la vita – di con-vertirci a Lui) perché si disponga sempre come “capace” di amare… tutti…
Ciò che infatti alla famiglia di Nazareth sarà chiesto lungo la storia – a Giuseppe con Gesù bambino (un bambino non suo) e poi da grande in particolare a Maria – è rompere i confini della generazione carnale, per aprirsi all’universalità del bene (non a caso Maria è madre sua e madre nostra, cioè di tutti): ella infatti – come si vede bene nei testi che parlano di lei (Mt 12,46-50, Lc 2,33-35, Lc 2,48-51, Gv 2,1-5, Gv 2,12) – vive una tensione che man mano la porterà ad essere non più solo la madre di Gesù – vocazione che “istintivamente” le riusciva bene – ma la madre dell’umanità – vocazione che invece le richiede l’accettazione di una spada che trafigge l’anima… per lei infatti, al seguito di suo figlio, la maternità non si esaurirà più nella custodia – fino alla morte – del proprio figlio… Ma diventerà il modo d’essere di sempre, la modalità di esistenza di fronte a chiunque, il nuovo DNA per stare al mondo: in Gesù “essere madre / essere materni” («tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, carità/amore») diventerà il modo nuovo di accostarsi a ciascun figlio dell’uomo, a qualsiasi grumo di sangue, a qualsiasi pezzetto di carne umana si incontri nella propria vita. È infatti precisamente quello che chiederà a sua madre quando, sotto la croce (Gv 20,25-27), le affiderà Giovanni, un altro figlio, mentre lui, il suo muore… Questa è la maternità riscritta da Gesù – per niente sdolcinata o sentimentale – che chiede la dilatazione del proprio grembo per farci stare non solo i nostri ma chiunque abbia bisogno di un po’ di spazio, di un po’ di accudimento, di un po’ di casa…
In questo senso tutte le “famiglie sbagliate” che abitano il nostro mondo (a vario titolo ‘maledette’… composte da orfani, figli di separati, di omosessuali, di extracomunitari, di prostitute, di pedofili, di violenti, di carcerati, di malati, di psicolabili...) non sono “fuori dai giochi, ma anzi anch’esse abilitate a “provare ad amare così” e addirittura – forse – anche più “predisposte” perché loro l’alterità, la stranezza, la diversità che gli altri leggono come estraneità (facendone dei “non nostri”) ce l’hanno in casa… come Maria e Giuseppe!
In proposito vi metto qui sotto, anche un testo scritto da Giuliano per i monasteri (pensati come cantieri antropologici in cui provare a vivere il vangelo), in cui si delinea – a mio parere – un certo modo “evangelico” (appunto!) di esse famiglia, di qualsiasi tipo sia…
• Con S. Teresa d’Avila inizia un nuovo progetto umanistico, innestato sul tronco antico del monachesimo carmelitano:
Costruire uno spazio esteriore ed interiore ove coinvolgere tutta la persona per sempre, affascinandola al progetto di cambiare la propria vita “spirituale” in amicizia con Dio, attraverso l’umanità di Cristo, entro un gruppo di sorelle amiche!
Privilegiando la via dell’esperienza, rispetto alla via intellettuale o pastorale o devozionale o sacrale:
o Dunque una via accessibile alle donne – monache (del tempo! : cioè accessibile ai laici – anche non colti!)
o Compatibile con il lavoro manuale (alla portata di gente immersa nelle faccende quotidiane – non chierici)
In un laboratorio di libertà: ove poter dedicarsi totalmente (in uno spazio preservato dall’autonomia monastica anche canonica) ad una dinamica evangelica ovviamente disomogenea al contesto circostante – di cui la clausura è la custodia (come presa di distanza in ogni campo: culturale, ecclesiale, fraterna, monastica, economica...) – e il filtro (che lascia entrare solo ciò che serve a questa scelta radicale).
Ove tutte le risorse e la passione della persona e della comunità siano rivolte al primato della relazione / dilatazione dell’amore
Agevolando l’esperienza ricettiva, la potenza della passività, la significatività della relazione accolta sia nella solitudine e nel silenzio, come nell’intensità della relazione – sonora e amabile, non affatto isolata nè ombrosa:
“l’orazione infatti altro non è che coltivare una relazione di amicizia intrattenendoci frequentemente in solitudine con chi sappiamo che ci ama. E se voi ancora non lo amate (in quanto, affinché l’amore sia vero e l’amicizia durevole, occorrono condizioni di parità,e invece è notorio che la natura di Dio va immune da qualsiasi difetto, mentre la nostra è viziosa sensuale ingrata) - ossia se non riuscite ad amarlo abbastanza, perché lui non è alla pari di voi, per lo meno, constatando quanto vantaggio vi apporti godere la sua amicizia e quanto egli vi ami, ce la farete a sopportare la pena di intrattenervi a lungo con Chi pure è tanto diverso da voi”
[ S. Teresa V,8, 5]
Si tratta di imparare a dirsi di no (!) per uscire dalla condizione infantile della paura di perdere l’io: quella che ci impedisce di seguire il Signore:e non ci lascia mai passare da ciò che si è a ciò che non si è (ancora!); infatti:
o sei ancora lì (stanca) – nel luogo da dove non sei mai partita (purtroppo)
o vivi (senza gioia) quello che non hai voluto morire
o sei affamata (senza pace) di quello che non hai voluto mangiare
non bastava “congedarsi” da casa – ma bisognava rinchiudersi in una casa – ove:
o il non / io è accolto in te: tu non vai via, né lo chiudi fuori: lasci lui venire a te
o sorridi all’intrusione del diverso, all’irruzione del disagio, al protagonismo dell’altro
o contieni la tracimazione dell’insofferenza (è solo l’io che... ha messo i suoi confini)
lasciando invece scavare, dentro di te, il fondo dell’interiorità, per farci stare ognuno e ogni cosa che chiederà uno spazio – è terreno tuo che offri alla dilatazione del Regno:
o per ospitare l’oltranza, e fare dell’altruità un’attitudine del cuore
o per uscire da sé – alterarsi o alienarsi un poco
o rovinare dolcemente i gusti e i significati per simpatizzare con le diversità e le antipatie
o imparando a gustare le non/esperienze/ il dentro che viene da “fuori”
domenica 27 dicembre 2009
“Io devo occuparmi delle cose del Padre mio!”

Gesù ha colto con sorprendente lucidità il dramma della continuità e della rottura, della libertà e della sottomissione, del confronto e della sofferenza che il crescere della persona comporta, senza rinunciare mai alla propria identità in mezzo agli altri, ma anche senza deprezzare mai la diversa impostazione culturale altrui! In questo ragazzo di dodici anni siamo tutti noi uomini e donne, dei millenni passati come dei prossimi, che tentiamo faticosamente di uscire dal guscio degli archetipi culturali, i quali, dopo averlo avviato, impediscono o frenano il nostro destino personale e irripetibile, differente da ogni altro. Una destinazione interiore che a tutti urge dentro – perché non viene solo da noi, ma attraverso noi, da urgenza misteriosa di livelli di coscienza superiori (diciamo così – per intendere gli ampi spazi o i progetti creativi o le diverse espressioni che il Padre di tutti i destini ha spalancati per noi, più dilatati, più vasti, più intensi e più personalizzanti … che ci fecondano e ci nutrono, se gli diamo ascolto). Questo ragazzo, secondo Luca, ne è il profeta … e gli altri, uomini o forse ancor più, donne silenziose e fervide, prima di lui soltanto lo annunciavano, nei templi o nei deserti o nel segreto delle tende e delle case … Il criterio che lo guida, fin dalle sue prime parole, è sempre il “Padre”. Appositamente usa questo termine, perché è lo stesso che nella famiglia tribale accumulava ogni potere di vita e di morte, di autorità suprema. Di modo che soltanto la chiamata in causa del legame personale supremo di ogni uomo al Creatore, vero unico “Padre” di ogni cosa, può attenuare e poi superare l’oppressione che lo schema culturale imponeva al singolo. Diveniamo uomini e donne maturi in proporzione a che prendiamo coscienza di quello che dobbiamo compiere come individui personali, attraverso la consapevolezza della nostra propria identità, che ci commisura e ci distanzia da ogni altro, attraverso il nostro pensiero, il nostro lavoro, soprattutto attraverso la trasformazione della nostra coscienza, attraverso i nostri tentativi di gesti nuovi, che la confermano e la orientano.
È assolutamente determinante, come annuncio evangelico, questo gesto iniziale della vita di Gesù, che prende coscienza di sé, della propria libertà e responsabilità, non sostituibile né suffragabile da nessuna autorità esteriore, per quanto sacra e veneranda. Se non ritroviamo nella vita questa libertà di Gesù di fronte alle varie istanze autoritative, che pure riconosciamo utili e necessarie, avverrà che queste ci pongono in uno stato di difficoltà inibente, di sofferenza paralizzante, ci spengono la libertà, ci soffocano nelle ristrettezze mentali di quelli che possono anche non comprendere le nostre aspirazioni, perché rimasti chiusi su altre posizioni.
Io devo occuparmi delle cose del Padre mio! Queste parole di Cristo, e tutte quelle che nella sua vita si rifaranno alla stessa sorgente interiore di vita e di comprensione, sono alla base di tutto il cammino di liberazione che la coscienza umana ha portato avanti nel corso dei secoli – che lo sappia o meno! – con ribellioni, sofferenze dolorose, resistenze indomite, soprattutto di ignari martiri, testimoni e ricercatori di aneliti più veri, di orizzonti più adeguati, di spazi interiori più vivibili nel divenire della coscienza umana: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (Mt 11,26s).
La solennità liturgica di questa domenica costituisce qualcosa di nuovo nella nostra Chiesa, che come spesso capita, prende decisioni ed elabora interventi volti a salvare strutture in crisi, pescando nel tesoro della tradizione antica cose nuove e cose antiche, come il vecchio scriba del vangelo, senza tenere in conto, forse, che la novità evangelica è sempre esplosiva, in ogni contesto culturale venga seminata.
Il disfacimento della famiglia tradizionale ha suggerito di ricorrere al modello e alla testimonianza esemplare della famiglia di Nazareth. Soltanto che tanto è grande la dipendenza che noi abbiamo attraverso la famiglia dalla carne e dal sangue e dalla cultura, tanto più è dirompente la parola e sono provocatori i gesti di Gesù, che proprio nel cuore di questo nodo vitale della vita umana che è la famiglia, pone il seme sconvolgente della propria libertà inappellabile – e quindi della libertà di ogni uomo. Una reazione tanto determinata e imprevista, quella di Gesù, da sgomentare i genitori, ma altrettanto sapiente e mite che subito si è sottomessa alla normalità della vita quotidiana, dei suoi bisogni e dei suoi ritmi. Soltanto dopo, però, che ne ha denunciato vistosamente la precarietà e l’ambiguità. Si sottomette con la decisione di chi consegna lucidamente la propria libertà, mantenendone sempre la chiave, per riprendersela appena rischiasse di tradirla. Perché non è libertà per sé, ma per la verità!
La madre aveva tutti i diritti – secondo il modello ebraico della famiglia – di rimproverare il figlio di essersi allontanato dai genitori senza aver avvertito e senza aver detto dove andava, ma la risposta di Cristo è una di quelle parole luminose e taglienti che scendono nel nostro cuore (oltre che in quello dei genitori) come una spada, che ferisce e illumina… Ma, al momento, è troppa la sofferenza sconvolgente che provoca, per capire subito il dono di futuro che ci porta. E il Vangelo lo nota espressamente: non capirono quello che lui aveva detto. “E anche noi molto lentamente comprendiamo le parole di Cristo, perché, a differenza delle parole degli altri uomini, sono come il grano che viene gettato nella terra e lentamente porta a fecondità la terra e a maturazione il grano. E lentamente le parole di Cristo maturano nel nostro spirito, anche se non sempre ne siamo pienamente coscienti. E la parola che Cristo dà ai genitori costituisce una rottura con il modello della famiglia veterotestamentaria e romantica” (Vannucci).
Viviamo in una società e in una chiesa tanto disorientate e ripiegate su di sé da perdere spesso di vista i grandi orizzonti e gli spazi umani, che mai sono stati così a portata di mano di tutti gli uomini, come in questo nostro tempo! Ogni uomo che prende coscienza di essere chiamato a “compiere le cose del Padre”, è chiamato a essere “differente”cioè libero, ma per amore, per il suo compito di essere se stesso di fronte agli altri, non per contrapposizione competitiva. Soffrirà, ma porterà la novità delle sue piccole conquiste personali, che sono conquiste di coscienza, e che possono trasmettere agli altri, attorno a noi, la novità dei minuscoli interventi o gesti che nessun altro può sostituire. Purtroppo invece una delle più grandi tentazioni della nostra vita è quella di diventare dei ripetitori di un passato, che non ha più aderenza alla vita. Ora, queste novità, queste piccole invenzioni non previste nel fluire del nostro quotidiano, non nascono da noi, non provengono da un ragionamento umano. Perché è la parola di Dio che scende in ogni uomo e ogni uomo è chiamato sulla terra a compiere la volontà del Padre, non la volontà di un altro uomo, di nessun altra autorità. Il Padre infatti, in Gesù, non è più una realtà lontana, ma la Presenza vivente, incombente e immanente nel creato e nelle creature, per orientarle in amore e libertà, verso il compimento del loro specifico e personale destino. Gesù ne è cosciente e cresce (e ci propone di crescere) imparando e trafficando le “cose che sono del Padre nostro”, per la salvezza di tutti. E Maria, che è la figura della Chiesa, tiene nel cuore tutte queste cose, aspettando e pregando che diano il loro frutto nella pazienza dei tempi.
Il Figlio di Dio un dodicenne impertinente?
Il testo – molto curioso nella sua composizione – può essere avvicinato da due punti di vista, che però non vanno mai separati: da un lato, infatti, è necessario ricordare come questo brano faccia ancora parte dei cosiddetti “vangeli dell’infanzia” e dunque vada letto precisamente come testo teologico, non cronologico-descrittivo: siamo infatti di fronte ad un testo epifanico, che attraverso la narrazione di una vicenda vuole rivelare chi sia il bambino di cui si parla; dall’altro non ci si può esimere dal lasciarsi coinvolgere dalla narrazione in quanto tale, dall’episodio inusuale che vede come protagonista Gesù e dalle situazioni, emozioni, reazioni che l’Autore mette in campo: da questo punto di vista ciò che cattura maggiormente l’attenzione è l’ordinarietà più disarmante delle dinamiche familiari descritte.
Il testo epifanico, che, attraverso il gioco di parole «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» / «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» sottolinea la straordinarietà di questo bambino, addirittura la sua divinità, il suo essere figlio del Padre, contemporaneamente lo presenta come il “classico dodicenne che si sente grande e con le sue scelte un po’ in-coscienti fa disperare (angosciare) i genitori”…
Due profili, apparentemente contrapposti e contraddittori, eppure inscindibili: Gesù, il Figlio di Dio, è questo ragazzino dispettoso e anche un po’ impertinente!
Questa constatazione rimanda ad una problematica di uno spessore assolutamente rilevante, e cioè: in che modo il Figlio di Dio ha incarnato l’essere Figlio di Dio? Con che consapevolezza, con che modalità di presa di coscienza, con quale prassi attuativa?
La domanda è interessante, perché non si tratta solo di un filosofare su tematiche che possono apparirci significative (si sta pur sempre parlando del Figlio di Dio…), ma perché precisamente il modo di farsi uomo del Figlio di Dio, può diventare paradigmatico per il nostro tentativo – spesso così mortificante e mortificato – di farci uomini.
Luca dà subito un’indicazione: «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini»: vanno dunque sbaragliate immediatamente quelle risposte alla nostra domanda che vanno nel senso di annullare l’umanità di Gesù, per salvaguardarne la divinità (Gesù sapeva già tutto… faceva finta di essere bambino… per far contento Giuseppe, fingeva di non saper lavorare il legno, così lui glielo insegnava… ecc, ecc, ecc) – vie che la storia della Chiesa ha visto presentarsi al suo orizzonte ma che ha presto rifiutato come “eresie”.
Rimane però il problema… Pur ammettendo che Gesù non facesse finta di essere bambino, ma che lo fosse veramente, come si coniuga il fatto che lui fosse anche il Figlio di Dio?
Un felice orientamento lo dà il classico confronto con la nostra esperienza umana: noi quale consapevolezza abbiamo di essere i figli di nostra madre? E la consapevolezza che avevamo a 3 mesi, 3 anni, 12 anni, è la medesima che abbiamo ora? È giusto dire che rispetto a questa consapevolezza ci sia stata una crescita? Non lo sapevamo forse già da subito che nostra madre era nostra madre?
L’esempio può aiutare… Infatti, se è vero che da sempre noi abbiamo la consapevolezza che nostra madre sia nostra madre, è altrettanto vero che l’esplicitazione e la capacità di elaborazione di questa medesima consapevolezza non è uguale nelle diverse fasi della vita: a tre mesi, mamma vuol dire un seno che mi allatta; a tre anni, la sicurezza che mi fa vivere; a 20, 30, 50 la mamma è simbolo della problematizzazione dell’origine, della cura, della custodia, della vita, del senso della vita…
Si potrebbe dire che da sempre si ha una consapevolezza sintetica di chi sia mia madre e di chi sia per me, ma il suo sviluppo analitico, lo scioglimento in una storia, la presa di coscienza narrativa, avviene appunto percorrendo la temporalità, crescendo, agendo una vicenda.
La stessa cosa si potrebbe applicare all’esperienza di Gesù: questo bambino ha la consapevolezza sintetica di essere Figlio di Dio («Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»), ma – proprio perché veramente uomo – deve agire una vicenda, vivere una storia, far trascorrere una temporalità, per vivere da uomo (e non da bambino) quella medesima consapevolezza: ha bisogno di crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini».
Il brano di vangelo dice tutto questo in maniera molto meno teorica, semplicemente raccontando un episodio, in cui colui che pronuncia una frase così altisonante come «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» è, sulla scena, un ragazzino che, perso nella sua curiosità di scoprire il mondo, non si era ricordato l’orario di partenza della sua carovana ed era rimasto, affascinato dai sapienti della città santa, ad ascoltarli e interrogarli, senza accorgersi del tempo che passava, della preoccupazione della mamma, dei pericoli in cui poteva incorrere: né più né meno come i nostri dodicenni, bambini che si sentono grandi e ci fanno sorridere ed angosciare…
A noi forse sembra inconsueto, addirittura scandaloso, in ogni caso da non dire, che questo impertinente fanciullo, impavido e sfrontato, eppure con i lineamenti ancora da bimbo piccolo tranne qualche baffetto ribelle che spunta qua e là, sia il Figlio di Dio. Per noi il Figlio di Dio o è il bimbo che nasce a Betlemme, divino per il candore che emana in quanto neonato, o il predicatore di Galilea, il grande sapiente taumaturgo che il potere politico-economico-religioso del suo tempo ha fatto crocifiggere: quello è il Figlio di Dio.
Questo ragazzino no…
E invece quell’uomo che tutto il mondo allora conosciuto, arriverà a proclamare Figlio di Dio è precisamente questo dodicenne smemorato di Gerusalemme: perché fino in fondo il Figlio ha accettato la dinamica dell’incarnazione, fino in fondo si è fatto uomo, fino in fondo si è intessuto delle fibre dell’umanità, della crescita, dell’evoluzione del fisico, del necessario costruirsi temporale delle categorie mentali, della fatica della maturità affettiva… passando per l’attonito stupore dei piccoli, gli sfrontati tentativi di crescita dei ragazzi, gli struggenti turbamenti degli adolescenti...
Così il Figlio di Dio è diventato uomo: patendo i tempi lunghi di una vicenda umana che pian piano lo ha costruito come uomo (e come Figlio di Dio – in modo “analitico”), patendo l’oscurità di alcuni frangenti, il non senso di altri… insegnandoci in questo modo che per essere uomini o – detto altrimenti – per essere graditi a Dio, per avere una vita buona/bella/felice/piena, non servono strappi (“Da oggi in avanti sarò più…”), non servono volontarismi, rinunce, estraneazioni dalla storia, dalla nostra storia, prese di distanze da noi, da ciò che siamo stati, abbiamo fatto, ci hanno fatto…
Per diventare uomini (e Figli di Dio, in senso “analitico”) è necessario piuttosto stare dentro alla storia, starne “sottomessi” («Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso»), cioè lasciarla agire, agirla, viverla, imparandone pian piano l’intelligenza, perché se alle verità che intuiamo non facciamo seguire con fatica, e pazientando tutto il tempo che ci vuole, anche le nostre viscere, le fibre della nostra umanità, quelle verità – pur vere – non sono reali: e ci ritroveremmo come dei dodicenni che “fanno i grandi” al Tempio, dimentichi per un attimo della mamma, di cui però abbiamo ancora vitalmente bisogno…
domenica 25 gennaio 2009
Come una piccola scuola dove apprendiamo a vivere di Vangelo

E facendoci aiutare come sempre, anche se solo inizialmente, poi dopo ognuno può continuare nella riflessione e nella preghiera anche lungo il giorno e nei prossimi giorni, facendoci aiutare da questi testi proclamati, come una piccola scuola dove apprendiamo a vivere di Vangelo.
Ci direbbe quel testo molto bello del profeta (Is 45, 14-17) che abbiamo ascoltato poco fa, “non cercando logiche di potere o di forza, ma percorrendo piuttosto i sentieri della mitezza, della giustizia, della bontà”. Questo apre il cuore di una famiglia, di una comunità, di un popolo, alla logica di Dio. E queste parole come diverranno sempre più incisive e concrete man mano che questa logica di Dio si andrà manifestando. Questo era un momento, certo importante, del cammino del popolo di Dio, ma dopo, pensiamo il momento dei libri della Sapienza, il momento di Gesù, questa logica di Dio, intrisa di mitezza e di bontà e di magnanimità sempre più evidente sarebbe apparsa. Questo è un apprendere il Vangelo, e questo vuol dire custodirsi bene da affanni eccessivi, da logiche che non sono somiglianti al Vangelo, e anche all’interno di un’esperienza di famiglia, di comunità, tutto questo può accadere, lo sappiamo, l’esperienza ce lo va dicendo, e come allora diventa bello questa mattina pregare il Signore Dio perché questo ci sia dato come dono e come grazia.
Oppure ci direbbe il testo della Lettera agli Ebrei (Eb 2, 11-17): “prendendosi cura degli altri”, come Lui, in tutto simile a noi, “si è preso cura della stirpe di Adamo” – bellissima questa frase che commenta il mistero dell’Incarnazione del Signore in una forma ineguagliabile come profondità, come bellezza. “Il prendersi cura di” fratelli e sorelle, questo è un apprendere il Vangelo, l’imparare il Vangelo. Ed è l’augurio che la liturgia di oggi sembra consegnare alle famiglie: diventino sempre più spazio e luogo dove la scelta del prendersi cura diventa un valore amato, uno stile educativo, una cosa che ci aiutiamo a perseguire in profondità. E questa ci è data come possibilità, anche avessimo difficoltà, e magari serie, dentro il cammino della nostra famiglia, comunque questa libertà del continuare a prendersi cura, del farsi carico di altri, questa nessuna situazione ce la potrà sottrarre, rimarrà una possibilità sempre aperta; anzi, a volte, sono proprio le persone più segnate dalla prova che si rivelano più capaci di prendersi cura di altri. Quasi come se la prova affinasse il cuore e ci rendesse più capaci di una disponibilità sincera.
Oppure, ed è l’ultima strada che la liturgia ci propone in questi testi: quell’abitare i confini piccoli di Nazareth, si concludeva così il brano (Lc 2, 41-42): “venne a Nazareth e stava loro sottomesso e sua Madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. Come un invito a non ritenere mai che la vita feriale, sempre identica nei suoi ritmi, in contesti semplici e poveri dove scorrono i nostri giorni e i nostri anni, non rassegnarsi mai a pensare che essi diventino la tomba dove si spengono gli ideali, dove i valori grandi escono mortificati. Ci direbbe l’esperienza di Nazareth: “guarda che piuttosto è vero il contrario, che abitare nei confini poveri, con una carica di amore vero, con uno sguardo comunque che va oltre i tuoi confini e che vorrebbe abbracciare l’intera ricerca e sofferenza dell’uomo, questo non è il far morire gli ideali, anzi è un alimentarli e in maniera grande e vera”. Forse alludeva a questo in quella risposta Gesù alla madre e al padre che angosciati lo cercavano: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
Ecco sono alcuni doni che riceviamo nella liturgia di oggi, in questa domenica della famiglia e sappiamo quanto parole e convinzioni così diventino sempre più preziose oggi. E’ insidiata in mille modi oggi la famiglia, addirittura a volte nella stessa possibilità di esserci; e anche quando poi è data la libertà di farla nascere una famiglia, nelle scelte libere del cuore di un uomo e di una donna, la storia ci sta dicendo quanto sia frequente il frantumarsi di tutto, e magari dopo pochissimo tempo. Comunque il venir meno di un sogno , di una scelta, di un amore perseguito come senso della propria vita. A volte tutto questo sembra introdurre uno sguardo pessimista e negativo, che non è più capace né di sognare né di rilanciare, quasi incapsulato dalle tante drammatiche situazioni che segnano oggi la vita di tante famiglie o mettono in salita il loro cammino, anche dal punto di vista delle risorse di cui vivere, delle risorse economiche.
Pregando con calma questi testi, francamente sentivo piuttosto un invito nella direzione opposta: non ad intristirsi fino a divenire incapaci di intuire i valori più grandi, piuttosto un incoraggiamento è ad amarle ancora di più queste scuole di Vangelo, perché poi è forse questa l’esperienza che custodisce e che salva, che consente di nuovo di rimettersi in cammino, di nuovo di dire a dei giovani che un’esperienza come quella di vita matrimoniale è esperienza degna del nome della vocazione, esperienza degna di essere amata e vissuta con tutte le proprie capacità. Ecco, stamattina noi siamo pochi a celebrare, ma come è bello sentirsi dentro lo sterminato mondo delle famiglie e pregare con loro, e pregare a nome loro e pregare noi stessi come famiglia Tua, Signore.
venerdì 26 dicembre 2008
La nuova famiglia, sotto il segno della fede!
la chiamata alle cose impossibili…
Tutta la liturgia di oggi è sotto il segno della fede. È questo il tema delle letture scelte, nell'antico come nel nuovo patto, per far divenire la famiglia umana una nuova opera di Dio. Abramo è esaurito, stanco e sconsolato. Ha già designato come erede il suo domestico fidato. Del resto Sara è sterile… Ma Dio cambia un destino ormai inevitabile in modo inaspettato e fa rinascere in cuore la speranza con una nuova promessa. Questo episodio è fondamentale nell'evoluzione della relazione con Dio. Costituisce un passo discriminante dalle nostre tragiche, se pur inconsce, proiezioni umane ad una più pura concezione di Dio. Ebrei, cristiani e mussulmani vedono in questo episodio sintetizzato il lungo "momento" in cui Dio ha manifestato il suo rifiuto dei sacrifici umani! Dunque, pur ribadendo in modo così drammatico l'assoluto potere sull'uomo, Dio si rivela un potere salvifico, che spinge l'uomo alla vita e alla crescita, non certo alla rinuncia e alla morte. È diviene una luce su tutti i matrimoni e i legami sociali, nella loro innata tentazione di pretendere per sé, e manipolare come copie di sé, i figli. Il figlio è dono di Dio, rimane sempre suo, e quindi sono i suoi progetti che si devono realizzare. Il figlio è il progetto di Dio nella famiglia "nuova", che vuol credere in lui e… affidarsi alla scoperta progressiva, anche se sempre umanamente sconvolgente, della benevolenza creativa del Padre La famiglia non deve mai chiudersi, ma rimanere aperta ai disegni di Dio, che non sono i nostri.
Dio rinnega e sconsacra il sacrificio umano
Tutto questo cammino di fede nell'impossibile, nel diverso, nel nuovo, che appare sempre ostico alla mentalità corrente, viene portato alla provocazione suprema, umanamente intollerabile, con la richiesta del sacrifico di Isacco… Dio fa irruzione così nella famiglia che ha creata e salvata dalla sterilità, e
Dio che visita il suo tempio 'per la prima volta'!
… in veste di bambino, figlio di Dio e figlio dell'uomo! non è accolto dal sommo sacerdote per essere introdotto nel santo dei santi, che sarebbe stata la sua vera casa, rigorosamente "vuota" in attesa di lui. Ma è accolto da un umile popolano di Gerusalemme, che lo prende in braccio, a nome di tutta la gente che da sempre lo attendeva. Perché ripetutamente lo Spirito ha chiamato Simone per spiegargli cosa stava capitando. È un vero profeta: perché è in ascolto della Parola; sa capire cosa dice, ed è proteso ad accoglierne e trasmetterne a tempo giusto il messaggio, che è sempre sia di consolazione che di sofferenza. Di consolazione, perché è la caratteristica di Dio, di essere amore di benevolenza (scudo e ricompensa) – di sofferenza, perché i pensieri e i metodi di Dio sono troppo diversi dai nostri, e quindi sembrano contraddirci. Ma questa "contraddizione" dolorosa e benedetta non è solo la parola promessa che esplicitamente ci chiama a conversione, da Abramo in poi… Adesso è la sua presenza divina stessa, in forma di germoglio umano, che incarna e realizza in modo impensabile e incredibile l'anelito incancellabile dell'uomo, che vuole a tutti i costi un figlio che rappresenti il suo futuro oltre
Dall'economia della attesa a quella del compimento
L'evento che fonda Israele è il primato della fede, che trasforma l'infecondità di Abramo, in totale consegna di sé al Signore. E trova il suo compimento nella santa famiglia, che il vangelo vede riunita nel tempio. Dove l'ultimo mite ed silenzioso patriarca ha accettato di rinunciare anche lui alla sua paternità fisica, abdicazione impensabile per un ebreo, per tutto cedere e consegnare all'unica paternità creatrice. Diviene così profezia del supremo compimento della fecondità umana, che è custodire e accudire il mistero di Dio nel mondo.
Questo passaggio tanto lento quanto imprevedibile alla nuova strategia divina di salvezza, cioè all'economia della presenza, era iniziato dagli ultimi, i pastori, poveri e reietti. Ora il bimbo salvatore, finalmente arrivato, fa il suo ingresso ufficiale nelle grandi istituzioni di Israele, il tempio, la legge e
Saper Vivere è saper morire
Entrambi, nei testi, parlano, facendo quasi un bilancio della loro vita, e ciò che colpisce è il contrasto tra le loro parole.
Abramo infatti, sconfortato, si trova ad esclamare davanti al Signore che pure gli sta promettendo «un ricompensa grande»: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco. Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede».
È interessante quanto un testo cronologicamente così lontano da noi, riesca a esprimere con quel «Signore Dio, che cosa mi darai?», la situazione interiore che l’uomo di sempre, e anche di oggi, sperimenta in vita: quando sembra che neanche più Dio possa dire o possa fare qualcosa che risolva il nostro dramma interiore. «Signore Dio, che cosa mi darai?».
È l’impossibilità della vita, del ritornare a credere alla vita, alla sua sensatezza, alla sua bellezza... Sotto l’onda delle ferite che la storia ci ha inferto, delle disillusioni, delle amarezze, delle umiliazioni, delle infedeltà, davvero non si riesce più a fare come Sara, di cui la Lettera agli Ebrei dice: «ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso». Noi ci ritroviamo invece a non ritenere più degni di fede coloro che ci hanno promesso la vita, che ci hanno detto che c’era una felicità da cercare e che, per avvalorare la loro promessa, dicevano che qualcuno l’aveva anche trovata. Che si tratti di Dio o degli uomini, di chi c’ha messo al mondo o di chi ci ha amato, dandoci l’illusione di un mondo buono... non li riteniamo più degni di fede e con il salmista sempre più ci sentiamo di dire «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 89,10).
Ecco il dramma! Il dramma di Abramo, che non lamenta tanto la semplice mancanza di un figlio, ma in esso, di un futuro, di una consistenza che duri, di un non finire nel niente... che è anche il dramma del salmista, che parla di dileguarsi... e di noi, che così spesso, ci pensiamo come meteore, destinate a una parabola che si consuma ed esaurisce.
Un dramma di fronte al quale non abbiamo risposte adeguate (possibili) e che ci trova perciò sempre arrabattati a inseguirne qualcuna, divisi tra chi si consegna all’angoscia, chi si rifugia nel magico (religioso), chi sceglie il nichilismo, chi la superficialità...
Ma poi c’è Simeone... un uomo che di fronte al finire della vita, dice cose diverse... e bellissime: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».
Sono le parole di un uomo dalla vita compiuta, che può andarsene in pace perché ha visto la salvezza, la sensatezza, la felicità, diremmo noi.
Ma cos’è che fa discrimine tra le parole di questi due uomini? E tra le nostre situazioni umane, che contemplano l’esperienza di entrambe queste condizioni? Forse “solo” la consapevolezza di essere nelle mani di un Altro.
Non tanto nel senso spiritualoide e moralistico che noi spesso diamo a affermazioni come questa; quando di fronte al dolore e al dramma di chi ci sta accanto non sappiamo che dire e ci limitiamo a un’ipocrita e deresponsabilizzante pacca sulla spalla accompagnata da un banale “Affidati al Signore”.
Piuttosto nel senso di ritenere degno di fede colui che ci ha promesso che l’uomo non è destinato a finire nella tomba e a restarci, non è destinato a esaurirsi nei suoi insuccessi, nei suoi fallimenti, nelle sue infedeltà, nel suo peccato... ma è tenuto, nella sua qualità specificamente umana, nella sua identità di amato, anche quando lui stesso dovesse disperderla.
È perché è fondata su un Altro infatti che la mia vita – impossibile (nel superamento delle ferite e dell’annichilimento dell’anima e del corpo) – diviene possibile per me. È perché – come dice Molari – ho imparato a fidarmi così tanto della Vita, che posso perderla per ritrovarla; è perché non devo salvarla io, pestando i piedi in testa a chiunque la metta in pericolo, che posso Viverla.
Ma qualcuno potrebbe dire che questa è fantasia: è la favola consolatoria a cui Simeone, e poi tanti dopo di lui, hanno voluto credere, per sopportare l’atrocità di un destino di solitudine, morte e non-senso eterno.
Eppure Simeone – come tanti dopo di lui – non fonda sulle nuvole il suo saper morire (che equivale al saper vivere!), ma su una promessa, su un’attesa e su un bambino in carne e ossa. Tanto quanto Abramo, che dopo le parole sconsolate di cui abbiamo detto, accoglie invece una promessa, un’attesa, un figlio... Anche noi – come ha recentemente ribadito p. Giuliano Bettati durante il ritiro a Cassano Valcuvia – di questa luce che rifulge in terra tenebrosa possiamo avere in qualche momento esperienza, se facciamo attenzione alle sue scintille fioche e molto intermittenti: incontri, sofferenze, gioie... riconoscenza! [...] Esperienze profonde non catturabili e indimostrabili, e tuttavia presenti nel fondo dell’animo. [...] Possiamo solo riceverle e custodirle, tentare di rendere queste scintille più continue tra di loro attraverso singoli atti di fede, operazioni concrete di obbedienza; attraverso il ritenere degna di fede la promessa che hanno iscritta in se stessi. Ricordando che di tutti i cani che corrono per inseguire la preda, solo quelli che ne hanno sentito davvero l’odore, non desistono!
Ma perché a pochissimi giorni da Natale, dalla scintilla intermittente più decisiva dell’umanità, quella a cui sono riconducibili tutte le altre, ci ritroviamo a riflettere sul morire? Perché, come dice ancora Molari, la morte non è un incidente, bensì il criterio supremo della vita. La decisività di Gesù sta qui: nel dare senso al morire, e dunque al dare la vita, al Vivere! Infatti è solo se – in Lui – non avremo paura di morire, che non avremo anche paura di Vivere!
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