In questa prima domenica dopo il Natale, la Chiesa ci invita a soffermarci sulla Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe; e lo fa presentandoci come brano del vangelo il testo di Luca che parla di Gesù dodicenne.
Il testo – molto curioso nella sua composizione – può essere avvicinato da due punti di vista, che però non vanno mai separati: da un lato, infatti, è necessario ricordare come questo brano faccia ancora parte dei cosiddetti “vangeli dell’infanzia” e dunque vada letto precisamente come testo teologico, non cronologico-descrittivo: siamo infatti di fronte ad un testo epifanico, che attraverso la narrazione di una vicenda vuole rivelare chi sia il bambino di cui si parla; dall’altro non ci si può esimere dal lasciarsi coinvolgere dalla narrazione in quanto tale, dall’episodio inusuale che vede come protagonista Gesù e dalle situazioni, emozioni, reazioni che l’Autore mette in campo: da questo punto di vista ciò che cattura maggiormente l’attenzione è l’ordinarietà più disarmante delle dinamiche familiari descritte.
Il testo epifanico, che, attraverso il gioco di parole «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» / «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» sottolinea la straordinarietà di questo bambino, addirittura la sua divinità, il suo essere figlio del Padre, contemporaneamente lo presenta come il “classico dodicenne che si sente grande e con le sue scelte un po’ in-coscienti fa disperare (angosciare) i genitori”…
Due profili, apparentemente contrapposti e contraddittori, eppure inscindibili: Gesù, il Figlio di Dio, è questo ragazzino dispettoso e anche un po’ impertinente!
Questa constatazione rimanda ad una problematica di uno spessore assolutamente rilevante, e cioè: in che modo il Figlio di Dio ha incarnato l’essere Figlio di Dio? Con che consapevolezza, con che modalità di presa di coscienza, con quale prassi attuativa?
La domanda è interessante, perché non si tratta solo di un filosofare su tematiche che possono apparirci significative (si sta pur sempre parlando del Figlio di Dio…), ma perché precisamente il modo di farsi uomo del Figlio di Dio, può diventare paradigmatico per il nostro tentativo – spesso così mortificante e mortificato – di farci uomini.
Luca dà subito un’indicazione: «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini»: vanno dunque sbaragliate immediatamente quelle risposte alla nostra domanda che vanno nel senso di annullare l’umanità di Gesù, per salvaguardarne la divinità (Gesù sapeva già tutto… faceva finta di essere bambino… per far contento Giuseppe, fingeva di non saper lavorare il legno, così lui glielo insegnava… ecc, ecc, ecc) – vie che la storia della Chiesa ha visto presentarsi al suo orizzonte ma che ha presto rifiutato come “eresie”.
Rimane però il problema… Pur ammettendo che Gesù non facesse finta di essere bambino, ma che lo fosse veramente, come si coniuga il fatto che lui fosse anche il Figlio di Dio?
Un felice orientamento lo dà il classico confronto con la nostra esperienza umana: noi quale consapevolezza abbiamo di essere i figli di nostra madre? E la consapevolezza che avevamo a 3 mesi, 3 anni, 12 anni, è la medesima che abbiamo ora? È giusto dire che rispetto a questa consapevolezza ci sia stata una crescita? Non lo sapevamo forse già da subito che nostra madre era nostra madre?
L’esempio può aiutare… Infatti, se è vero che da sempre noi abbiamo la consapevolezza che nostra madre sia nostra madre, è altrettanto vero che l’esplicitazione e la capacità di elaborazione di questa medesima consapevolezza non è uguale nelle diverse fasi della vita: a tre mesi, mamma vuol dire un seno che mi allatta; a tre anni, la sicurezza che mi fa vivere; a 20, 30, 50 la mamma è simbolo della problematizzazione dell’origine, della cura, della custodia, della vita, del senso della vita…
Si potrebbe dire che da sempre si ha una consapevolezza sintetica di chi sia mia madre e di chi sia per me, ma il suo sviluppo analitico, lo scioglimento in una storia, la presa di coscienza narrativa, avviene appunto percorrendo la temporalità, crescendo, agendo una vicenda.
La stessa cosa si potrebbe applicare all’esperienza di Gesù: questo bambino ha la consapevolezza sintetica di essere Figlio di Dio («Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»), ma – proprio perché veramente uomo – deve agire una vicenda, vivere una storia, far trascorrere una temporalità, per vivere da uomo (e non da bambino) quella medesima consapevolezza: ha bisogno di crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini».
Il brano di vangelo dice tutto questo in maniera molto meno teorica, semplicemente raccontando un episodio, in cui colui che pronuncia una frase così altisonante come «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» è, sulla scena, un ragazzino che, perso nella sua curiosità di scoprire il mondo, non si era ricordato l’orario di partenza della sua carovana ed era rimasto, affascinato dai sapienti della città santa, ad ascoltarli e interrogarli, senza accorgersi del tempo che passava, della preoccupazione della mamma, dei pericoli in cui poteva incorrere: né più né meno come i nostri dodicenni, bambini che si sentono grandi e ci fanno sorridere ed angosciare…
A noi forse sembra inconsueto, addirittura scandaloso, in ogni caso da non dire, che questo impertinente fanciullo, impavido e sfrontato, eppure con i lineamenti ancora da bimbo piccolo tranne qualche baffetto ribelle che spunta qua e là, sia il Figlio di Dio. Per noi il Figlio di Dio o è il bimbo che nasce a Betlemme, divino per il candore che emana in quanto neonato, o il predicatore di Galilea, il grande sapiente taumaturgo che il potere politico-economico-religioso del suo tempo ha fatto crocifiggere: quello è il Figlio di Dio.
Questo ragazzino no…
E invece quell’uomo che tutto il mondo allora conosciuto, arriverà a proclamare Figlio di Dio è precisamente questo dodicenne smemorato di Gerusalemme: perché fino in fondo il Figlio ha accettato la dinamica dell’incarnazione, fino in fondo si è fatto uomo, fino in fondo si è intessuto delle fibre dell’umanità, della crescita, dell’evoluzione del fisico, del necessario costruirsi temporale delle categorie mentali, della fatica della maturità affettiva… passando per l’attonito stupore dei piccoli, gli sfrontati tentativi di crescita dei ragazzi, gli struggenti turbamenti degli adolescenti...
Così il Figlio di Dio è diventato uomo: patendo i tempi lunghi di una vicenda umana che pian piano lo ha costruito come uomo (e come Figlio di Dio – in modo “analitico”), patendo l’oscurità di alcuni frangenti, il non senso di altri… insegnandoci in questo modo che per essere uomini o – detto altrimenti – per essere graditi a Dio, per avere una vita buona/bella/felice/piena, non servono strappi (“Da oggi in avanti sarò più…”), non servono volontarismi, rinunce, estraneazioni dalla storia, dalla nostra storia, prese di distanze da noi, da ciò che siamo stati, abbiamo fatto, ci hanno fatto…
Per diventare uomini (e Figli di Dio, in senso “analitico”) è necessario piuttosto stare dentro alla storia, starne “sottomessi” («Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso»), cioè lasciarla agire, agirla, viverla, imparandone pian piano l’intelligenza, perché se alle verità che intuiamo non facciamo seguire con fatica, e pazientando tutto il tempo che ci vuole, anche le nostre viscere, le fibre della nostra umanità, quelle verità – pur vere – non sono reali: e ci ritroveremmo come dei dodicenni che “fanno i grandi” al Tempio, dimentichi per un attimo della mamma, di cui però abbiamo ancora vitalmente bisogno…
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2 commenti:
Bellissimo poter confrontare con queste pagine l'atteggiamento dei propri figli...scusate magari non c'entra nulla ma leggere questo post mi fa venire in mente il mio "grande", quando si atteggia proprio a fratello grande ad esempio mi suggerisce che lavoro dovrebbe fare il fratello più piccolo ("facciamogli fare il liceo artistico")...oppure il mio "piccolo", che qualche mattina fa è venuto a svegliarmi facendomi tutta una serie di complimenti,"come sei carina", commenti"alzati,il buio è sparito" e infine la riflessione:"mamma...tu sei mia madre...io sono uscito da te!!!".....
Buon Natale a tutti...
il tuo accenno alla "sottomissione" ed al suo significato, lungi dall'idea negativa che generalmente e di primo acchito se ne ha, mi ha fatto pensare al significato di islàm: sottomettersi appunto, ma nel senso di mettersi nelle mani di d-o, affidarvisi e lasciarsi andare, lasciarsi fare ed accudire.
non in modo ozioso ed accidioso, ma... operativamente, sentendo alle spalle qual qualcuno che - come un genitore - guida e sorregge senza tuttavia forzare nè trattenere.
così da "mettersi sotto" non a campana di vetro, ma ad un semplice e prezioso ombrello: che preserva da disastri ma non salva dal doversi avventurare (verbo che usi spesso e mi piace molto) fuori casa.
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