Un assegno di oltre 17 milioni di euro per chiudere una vicenda vecchia di vent’anni. La vicenda è quella di Imi-Sir e a pagare, qualche giorno fa, è stato Cesare Previti. Avvocato, ex ministro della difesa, ex parlamentare della Repubblica fino al 2008, condannato in via definitiva tre anni fa per corruzione in atti giudiziari per quella vicenda. A incassare è Intesa Sanpaolo, prima banca del Paese, subentrata negli anni all’Imi, l’Istituto mobiliare italiano, dopo la fusione con il Sanpaolo di Torino.
Previti esce così definitivamente, con un assegno arrivato nelle casse di Intesa Sanpaolo dopo un piccolo giro del mondo iniziato nei conti correnti di una banca delle Bahamas e transitato per una finanziaria del Liechtenstein, una vicenda che ha segnato profondamente le cronache politiche e giudiziarie del paese. E evita il rischio di un nuovo processo, questa volta per riciclaggio, in relazione ai 34 miliardi di lire che secondo le ricostruzioni dei magistrati sarebbero finiti nelle sue disponibilità quale «ricompensa» per la sentenza che impose ad Imi il pagamento ai Rovelli di quasi mille miliardi di lire. Un accordo standard proposto dai legali di Previti guidati da Romano Vaccarella nei mesi scorsi e accettato dalla banca. Con il quale, in sintesi, Previti si impegna a pagare senza dover riconoscere né l’origine né la titolarità del denaro e l’istituto si impegna a non andare avanti con le sue pretese nelle aule di tribunale, corredato da un accordo di riservatezza tra le parti.
Con il pagamento, il gruppo bancario viene risarcito per una vicenda iniziata nel lontano 1993, quando l’allora Imi venne condannato in via definitiva a pagare 678 miliardi di lire, più le tasse, agli eredi del finanziere Nino Rovelli. Una sentenza «comprata», stabilirà in via definitiva la Cassazione nel maggio del 2006, dopo dieci anni di indagini e processi, condannando Cesare Previti a sei anni, con il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Giovanni Acampora e Attilio Pacifico.
Dopo quella sentenza, l’allora presidente del Sanpaolo (che nel frattempo aveva comprato l’Imi), Enrico Salza, prende carta e penna e scrive un esposto alla procura di Monza per riportare nelle casse della banca la somma pagata nel 1994. Da quell’esposto parte una caccia al Tesoro senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, con la guardia di finanza di Seregno, coordinata dal pm Walter Mapelli, che rintraccia complessivamente circa 250 milioni di euro sparpargliati ai quattro angoli del globo. Quattro trust anonimi, una sfilza di società-schermo e di conti correnti per occultare il denaro frutto della corruzione tra Montecarlo, le Cayman, Singapore, il Costarica, i Caraibi, il Liechtenstein.
Compare allora nelle cronache l’isolotto di Labuan, scelto da Salgari per ambientarci le avventure di Sandokan e dai Rovelli per nasconderci una piccola parte, qualche milione, del loro tesoro. È successo che nel frattempo l’isolotto della Perla anelata dal pirata è diventato un paradiso fiscale dei più riservati e sicuri, luogo ideale per piazzare un conto corrente con uno spicchio dei famosi mille miliardi. Nel dicembre di due anni fa gli eredi di Nino Rovelli - la moglie Primarosa Battistella e i figli - proporranno un accordo a Intesa Sanpaolo, che è subentrata al vecchio Sanpaolo Imi dopo la fusione con Banca Intesa. Paghiamo 200 milioni di dollari, dicono i Rovelli alla banca, e chiudiamo questa storia che ha il suo primo inizio nel 1982, quando Rovelli cita per la prima volta in giudizio l’Imi. La banca accetta, i Rovelli iniziano a pagare: una prima tranche arriva nel primo semestre del 2008, 67 milioni di euro. Una parte manca ancora all’appello.
Non è finita, dice la banca. Ad incassare i soldi dell’allora Imi non furono solo i Rovelli ma anche i corruttori, Previti e Acampora. Parte da lì il «confronto» con i legali di Previti. Il rischio per il loro assisitito è quello di un nuovo processo, questa volta per riciclaggio. Un tira e molla che arriva fino a qualche giorno fa quando viene staccato l’assegno e Previti esce definitivamente, con una condanna a sei anni in più e 17 milioni in meno, dalla lunga storia di Imi-Sir.
di GIANLUCA PAOLUCCI in LaStampa.it
Previti esce così definitivamente, con un assegno arrivato nelle casse di Intesa Sanpaolo dopo un piccolo giro del mondo iniziato nei conti correnti di una banca delle Bahamas e transitato per una finanziaria del Liechtenstein, una vicenda che ha segnato profondamente le cronache politiche e giudiziarie del paese. E evita il rischio di un nuovo processo, questa volta per riciclaggio, in relazione ai 34 miliardi di lire che secondo le ricostruzioni dei magistrati sarebbero finiti nelle sue disponibilità quale «ricompensa» per la sentenza che impose ad Imi il pagamento ai Rovelli di quasi mille miliardi di lire. Un accordo standard proposto dai legali di Previti guidati da Romano Vaccarella nei mesi scorsi e accettato dalla banca. Con il quale, in sintesi, Previti si impegna a pagare senza dover riconoscere né l’origine né la titolarità del denaro e l’istituto si impegna a non andare avanti con le sue pretese nelle aule di tribunale, corredato da un accordo di riservatezza tra le parti.
Con il pagamento, il gruppo bancario viene risarcito per una vicenda iniziata nel lontano 1993, quando l’allora Imi venne condannato in via definitiva a pagare 678 miliardi di lire, più le tasse, agli eredi del finanziere Nino Rovelli. Una sentenza «comprata», stabilirà in via definitiva la Cassazione nel maggio del 2006, dopo dieci anni di indagini e processi, condannando Cesare Previti a sei anni, con il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Giovanni Acampora e Attilio Pacifico.
Dopo quella sentenza, l’allora presidente del Sanpaolo (che nel frattempo aveva comprato l’Imi), Enrico Salza, prende carta e penna e scrive un esposto alla procura di Monza per riportare nelle casse della banca la somma pagata nel 1994. Da quell’esposto parte una caccia al Tesoro senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, con la guardia di finanza di Seregno, coordinata dal pm Walter Mapelli, che rintraccia complessivamente circa 250 milioni di euro sparpargliati ai quattro angoli del globo. Quattro trust anonimi, una sfilza di società-schermo e di conti correnti per occultare il denaro frutto della corruzione tra Montecarlo, le Cayman, Singapore, il Costarica, i Caraibi, il Liechtenstein.
Compare allora nelle cronache l’isolotto di Labuan, scelto da Salgari per ambientarci le avventure di Sandokan e dai Rovelli per nasconderci una piccola parte, qualche milione, del loro tesoro. È successo che nel frattempo l’isolotto della Perla anelata dal pirata è diventato un paradiso fiscale dei più riservati e sicuri, luogo ideale per piazzare un conto corrente con uno spicchio dei famosi mille miliardi. Nel dicembre di due anni fa gli eredi di Nino Rovelli - la moglie Primarosa Battistella e i figli - proporranno un accordo a Intesa Sanpaolo, che è subentrata al vecchio Sanpaolo Imi dopo la fusione con Banca Intesa. Paghiamo 200 milioni di dollari, dicono i Rovelli alla banca, e chiudiamo questa storia che ha il suo primo inizio nel 1982, quando Rovelli cita per la prima volta in giudizio l’Imi. La banca accetta, i Rovelli iniziano a pagare: una prima tranche arriva nel primo semestre del 2008, 67 milioni di euro. Una parte manca ancora all’appello.
Non è finita, dice la banca. Ad incassare i soldi dell’allora Imi non furono solo i Rovelli ma anche i corruttori, Previti e Acampora. Parte da lì il «confronto» con i legali di Previti. Il rischio per il loro assisitito è quello di un nuovo processo, questa volta per riciclaggio. Un tira e molla che arriva fino a qualche giorno fa quando viene staccato l’assegno e Previti esce definitivamente, con una condanna a sei anni in più e 17 milioni in meno, dalla lunga storia di Imi-Sir.
di GIANLUCA PAOLUCCI in LaStampa.it
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