Le letture che la Chiesa ci propone per questa terza domenica di Avvento, sembrano in qualche modo ricalcare la prospettiva che si voleva delineare già una settimana fa: lettura profetica di esultanza per la salvezza imminente (là Baruc 5,1-9 qua Sofonìa 3,14-18), scritto paolino che incoraggia la crescita nell’amore della comunità a cui si rivolge (in entrambi i casi, i cristiani di Filippi – là Fil 1,4-6.8-11, qua Fil 4,4-7), figura del Battista tratta in entrambi i casi dal capitolo III del Vangelo di Luca (là i versetti 1-6, qua i versetti 10-18).
La ripetizione di questa matrice dell’annuncio della Parola, che la Chiesa decide di proporre in questo tempo di Avvento (anno C), seppur crea qualche difficoltà di commento – perché il rischio di ripetersi diventa reale… –, in realtà è molto significativa: ancora una volta è ribadita (addirittura in maniera ridondante) l’impossibilità di avvicinarsi al Natale – e dunque di parlare dell’inizio dell’avventura storica di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, la sua piena Rivelazione – senza “passare” da Giovanni Battista.
I versetti del cap. 3 di Luca che la liturgia non ci fa leggere (quelli dal 7 al 9), indicano infatti questo necessario affluire delle folle (allora) e nostro (oggi) a Giovanni, nel deserto: «Le folle andavano a farsi battezzare da lui».
Perché questo bisogno di “passare” dal Battista? Cosa muoveva le folle di allora? E in che senso anche oggi, per noi, è imprescindibile il passaggio da Giovanni?
Un’intuizione si può avere dalla domanda che più volte gli viene rivolta: «Che cosa dobbiamo fare?», «Maestro, che cosa dobbiamo fare?», «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Questa domanda infatti rimanda al problema dei problemi, al risveglio della coscienza (dovuto ad un annuncio – in questo caso –, o ad un evento tragico o bellissimo, o alla noia di vivere, ecc…), per cui ci si rende conto che quotidianamente – anzi istante per istante – si ha a che fare con un abisso, con l’assoluto, con la scelta radicale di chi essere e chi diventare, col pericolo mortale di non risvegliarsi la mattina dopo e con la domanda inevitabile sul senso, che questa coscienza pone. Giovanni dice: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», perché sta per arrivare l’atteso dai secoli, sta per succedere qualcosa di travolgente e che porta con sé una definitività; e la gente è immediatamente rimandata a se stessa. Di fronte ad un evento che sembra sconvolgere la storia, il problema di ciascuno diventa: “E io? Che cosa devo fare?”. Di fronte al Signore che viene, di fronte ad un mondo che finisce, di fronte alla mia vita che finisce, di fronte ad un figlio che mi nasce, di fronte ad un fratello che mi tradisce, che mi abbandona, che mi muore, che suda lacrime e sangue ogni giorno per i mille e mille motivi per cui nel mondo oggi si sudano lacrime e sangue, io che cosa devo fare? Come mi devo porre? Chi devo/voglio scegliere di essere?
È la domanda delle domande… ecco perché vanno da Giovanni: da uno che in quel momento sembrava poter dare delle risposte, sembrava poter indicare una via, dire qualcosa… Ecco perché anche la Chiesa, continuamente, ci invita a “passare” da Giovanni. Perché “Che cosa dobbiamo fare?” è la domanda che deve salire in petto a tutti: il problema – anche solo sul fronte umano – del senso non può essere eluso: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?
Giovanni – dicevamo già la scorsa volta – è – a detta di Gesù stesso – il più grande frutto della religiosità umana, che – nel suo senso autentico – è precisamente questo inevitabile imbattersi nella domanda del senso… Giovanni è come l’emblema di quella tensione umana per cui non ci si sente mai “risolti”, “finiti”, “arrivati”; per cui è sempre in atto (anzi: deve essere sempre in atto) un necessario migliorarsi, un cercare altrove, oltre; un con-vertirsi, per dirla con le sue parole…
In sostanza Giovanni rappresenta tutto lo sforzo dell’umanità e del singolo a trovare e a perseguire una risposta alla domanda “Cosa siamo qui a fare?”.
Ecco Giovanni! Ecco la necessità di “passare” da lui: perché senza questa tensione per la ricerca di un senso (del senso!), semplicemente essa non si dà. Non c’è vita senza senso, senza tensione – almeno – per un senso. E non c’è possibilità di trovarlo – o meglio di farsi trovare dal senso – se esso non è contemplato come possibile. Ecco perché – forse più che mai – per la nostra generazione contemporanea è indispensabile “passare” da Giovanni…
Anche perché poi – a ben guardare – Giovanni qualche risposta la dà… «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto», «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato», «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe»… Giovanni cioè sembra indicare, come possibile risposta al “Cosa dobbiamo fare?”, la via della solidarietà, intesa in senso forte, non in quello della carità “a distanza” della nostra società occidentale, per cui il povero – se lo si aiuta – lo si fa da lontano, lo si fa “lasciandolo a casa sua”: l’importante è che non venga da noi… No, qua Giovanni parla piuttosto di quella disposizione interiore – fondata, perché scavata nell’“anima” – che guarda all’altro – sempre e comunque – come ad un fratello, ad “uno dei nostri”, “uno dei miei”, per questo mi diventa caro e me ne prendo cura…
Precisamente in questa scia si porrà Gesù!
Eppure…
Gesù non è Giovanni! Anzi, a detta di Giovanni stesso, «viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali».
Infatti – a ben guardare – se è vero che Gesù si inserisce sulla scia della risposta giovannea alla domanda “Che cosa dobbiamo fare?”, proseguendo e radicalizzando l’amore al prossimo come criterio per “pesare”, “misurare”, giudicare la propria vita, è anche vero che Gesù non sarà esattamente come Giovanni se lo aspettava: «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Giovanni infatti sembra ancora dell’idea (in questo ancora molto seguito da tanti cristiani) che il “bene” vada fatto (agli altri), per evitare di avere conseguenze negative (noi): evitare di “bruciare come paglia con un fuoco inestinguibile”, detto con le sue parole; “di andare all’inferno”, detto con le nostre… Dove l’oggetto vero di interesse, ancora una volta, siamo noi e la nostra salvezza: gli altri contano e “servono” solo come mezzi per i miei fini, per il mio bene, per i miei interessi (per quanto di interessi “spirituali” si tratti…).
La logica di Gesù è invece tutt’altra! Tant’è che Giovanni – racconta Matteo – all’inizio non era molto persuaso del modo di essere Messia di Gesù, tant’è che – dal carcere – gli manda i suoi discepoli a chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Perché Gesù stravolge la logica umana (e giovannea) della necessità di salvarsi, del fare il massimo per migliorarsi, dell’essere il “più buoni possibile” per meritarsi il paradiso… La proposta di Gesù infatti non è un itinerario di autosalvezza, non è un percorso ascetico, in cui l’uomo sforzandosi raggiunge la perfezione morale o spirituale o mistica… Questo è ancora Giovanni – il massimo che la ricerca religiosa ex parte hominis può raggiungere…
Ma, come dicevamo anche domenica scorsa… uno sforzo destinato a farci sempre ritrovare seduti per terra: perché tutto parte da noi e arriva a noi; senza possibilità di (con)vincere davvero la nostra radicale consapevolezza di non poterci salvare da soli. Esattamente come non siamo potuti nascere da soli o farci uomini e donne da soli…
Precisamente qui sta il discrimine tra Giovanni e Gesù, tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra un itinerario di autosalvezza e il Vangelo. A differenza di Giovanni, infatti, Gesù non risponde (se non solo in seconda battuta) al “Cosa dobbiamo fare?”, ma al “Chi siamo?” e solo a partire da lì propone anche un “fare” – o meglio un “essere” che si media inevitabilmente in un “fare”.
Gesù infatti ricolloca l’uomo nella giusta posizione che da sempre egli agli occhi di Dio ha tenuto – ma della quale si era scordato (l’uomo, non Dio!) strada facendo: e cioè quella per cui l’uomo è figlio amato, sempre e comunque! Figlio, la cui vita è già sempre tenuta in mano dal Padre, salvata ex parte Dei. Vita – dunque – per la cui salvezza egli non deve dannarsi l’anima, sputare sangue, mortificare il corpo, primeggiare sugli altri… Essa infatti è già “al sicuro”. E se non lo fosse – per opera d’Altri – l’autosalvezza raggiunta sarebbe comunque sempre e solo illusoria, destinata inevitabilmente alla tomba!
Lo scardinamento di Gesù allora sta esattamente a questo livello: proprio perché rivela all’uomo la sua autentica identità filiale (umana in senso pieno), Egli gli consegna anche il “compito/dono” di incarnarla fino in fondo; un “da farsi” dunque, ma che trova senso solo in questa prospettiva, solo in seconda battuta, come risposta (accogliente) ad un regalo arrivato solo per l’incondizionata e inequivoca dedizione dell’Abbà-Dio. Ecco perché il “da farsi” non ha più i contorni dello sforzo, della rinuncia ascetica, del volontarismo, dell’apparire – ultimamente – contrario all’umanizzazione dell’uomo: perché esso diventa circolo d’amore in cui proprio perché inondato di bene, io irraggio sugli altri il bene; proprio perché figlio, divento fratello; proprio perché oggetto di dedizione, divento capace di dare la vita. Ecco in che senso allora Gesù – come concludevamo la scorsa volta – non va cercato, ma semplicemente accolto nell’intimità più intima della nostra interiorità.
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2 commenti:
Quante domande! Sinceramente me le pongo spesso. Un'unica risposta: strada facendo coltivare come un germoglio quella fiducia di essere figlia amata.
Grazie Chia per il tuo commento, trovare il senso della vita tra Gesù e Giovanni, Antico e Nuovo Testamento, tra il vivere quotidiano e il Vangelo. Non ho usato come tu affermi autosalvezza perchè non riesco a pensarci, istintivamente vivo nel bene e nel male, ma con una tensione intima che continuamente cerca di riequilibrarsi davanti alle vicende personali, famigliari,comunitarie.......
mondiali, con ......speranza.
Non è facile, vero?
Chia, ti ho citata qui:
http://lasaladathe.splinder.com/post/21866622/ed+io%3F
insiema ad un altro paio di testi che mi sembravano convergere sul tema del... diciamo del farsi del "destino umano".
ci sono altri vecchi interventi in cui faccio riferimento a tue lectio pubblicate qui, prima o poi li recupererò e te li segnalerò nel punto giusto - per amor di correttezza.
'notte.
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