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venerdì 24 dicembre 2010

Santa famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria

La Chiesa in questa prima domenica dopo Natale, celebrando la festa della Santa Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria, ci invita a riflettere sulla narrazione che ne racconta la storia (almeno un pezzettino…). Ma – come testimonia la scelta delle letture, tratte dal Siracide e dalla lettera di Paolo ai Colossesi – l’invito è quello di estendere la riflessione anche alle nostre famiglie…


Partiamo proprio da qui. Infatti mi pare che sia subito da mettere in luce un’indicazione interessante: e cioè il fatto che, sia la prima che la seconda lettura, parlino dei rapporti familiari all’interno di discorsi più ampi, stigmatizzando la vita di coppia o il rapporto con i figli come situazioni emblematiche per la vita. Ne parlano infatti insieme all’altra condizione fondamentale dell’uomo, quella della sua attività (cfr Sir 3,17: «Figlio, nella tua attività sii modesto»), in particolare all’interno del rapporto servo-padrone (cfr Col 3,22: «Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni»). Inoltre, in modo esplicito il libro del Siracide introduce il brano dov’è contenuta la lettura di questa domenica con questa frase: «Figli, ascoltatemi, sono vostro padre; agite in modo da essere salvati» (Sir 3,1).

L’orizzonte ampio in cui si collocano le parole sui rapporti genitori-figli è allora quello della salvezza: per essere salvati, sembra dire il Siracide, è necessario che curiate le relazioni di generazione, quelle che toccano l’origine della vostra vita.

Eppure, nonostante l’evocazione di questa pista di riflessione crei notevoli aspettative, di fatto poi, la lettura del testo del Siracide, lascia una certa impressione di delusione... Non tanto per quanto dice... ma soprattutto per quanto non dice:

- si parla di onore al padre e alla madre… indicazione certo inconfutabile, se non fosse che a noi riecheggia subito nelle orecchie quanto cantava De Andrè nel suo Testamento di Tito: «Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore». A dire che forse non sempre l’automatismo del comandamento ha una plausibilità storica;

- si parla poi, per chi onora il padre, di esaudimento della preghiera, di gioia dai propri figli, di vita lunga... ma semplicemente noi sappiamo che non è così... basta attraversare un po’ l’umanità e le tragedie che investono la sua storia per rendersene conto: persone che sono state figli esemplari non hanno visto le loro preghiere esaudite, non hanno avuto gioia dai loro figli, non hanno avuto una vita lunga… e chissà cos’altro…;

- si parla di un padre che perde il senno, ma non sono considerate tutte le altre drammatiche situazioni che le nostre famiglie attraversano…

Non credo però ci sia troppo da stupirsi... mi pare infatti che l’intento del Siracide in questi versetti sia semplicemente quello di delineare una buona condotta familiare, contenuta in un testo più generale che vuole dare “consigli per il vivere”, attraversando molti campi esistenziali, senza la pretesa di indagarli nello specifico. E come insegna la buona esegesi, non si può far dire a un testo più di quello che dice.

Da quanto detto quindi mi pare emerga un dato di fatto: se oggi la Chiesa ci chiede di concentrarci sul tema della famiglia, non possiamo farlo limitandoci a proporre banali regole di buon comportamento, abituali pacche sulle spalle che non consolano né incoraggiano più nessuno, aridi discorsi moralistici che non fanno altro che buttare sulle spalle della gente pesi che noi non tocchiamo neanche con un dito (Lc 11,46).

In questo senso è interessante proseguire la nostra riflessione notando che, come il Siracide, che elencava una norma comportamentale per i figli al fine di salvarsi, anche la vicenda del Vangelo parli della necessità di un mettersi in salvo: «I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13). È ancora più curioso il fatto che, chi deve essere messo in salvo (lui è ancora troppo piccolo per poterlo fare da sé), sia proprio il Salvatore del mondo...

Ma qui, diversamente dal Siracide, in merito alla salvezza non si parla astrattamente di ‘come ci si deve comportare in famiglia’: qui ci è raccontato un pezzetto della storia di una famiglia e del suo ‘immischiamento’ nel fango e nelle fatiche di questo mondo...

Di essa infatti si dice subito che sta tutta dalla parte dei derelitti, di quelli a cui certo non bastano le buone norme comportamentali: questa, di Gesù, Maria e Giuseppe è una famiglia profuga (tra l’altro in Egitto...), povera («non c’era posto per loro nell’albergo»), strana (è infatti una famiglia moralmente incriminabile, come trapela da Mt 1,18-25, che mette in evidenza la tensione di Giuseppe all’idea di avere in moglie una ragazza madre)… è una famiglia che dunque si impone come paradigma non solo per le famiglie “apposto” da un punto di vista giuridico-canonico, ma per tutte le famiglie, anche per quelle che in senso stretto non dovremmo neanche chiamare così: le comunità, le fraternità, le famiglie allargate, le famiglie rimpicciolite, le s-famiglie (per citare un’opera di P. Crepet)… insomma – prendendo il termine in senso lato e ampio – per tutte quelle situazioni umane in cui ci si ritrova almeno in due a tentare di vivere l’accoglienza di Gesù, lasciandosi da lui normare la vita…
Perché seppure le povertà siano diverse, tra miseri, poveri, emarginati, si crea una sorta di solidarietà di base... di sentirsi collocati dalla stessa parte del mondo (quella sbagliata naturalmente)... E allora è davvero consolante leggere che la santa famiglia sta anch’essa da ‘questa parte di qua’: dalla parte delle famiglie profughe, povere, strane... dalla parte delle famiglie che non possono più dirsi famiglie... dalla parte di famiglie in cui manca il padre, la madre, un figlio... dalla parte delle famiglie che preferirebbero non avere quel padre, quella madre, quel figlio... dalla parte di quelle «nuove famiglie che la Chiesa non vede» (come scriveva Aldo Schiavone, sula Repubblica di lunedì 24 dicembre 2007)...

Infatti «… Questa “santa” famiglia è così tanto culturalmente disomogenea ad ogni modello e tanto fuori da ogni misura, proprio per questa divina inabitazione, da contenere ogni famiglia […]. Allora, adesso, ogni luogo d’amore umano che anela ad esser “famigliare”, (ove cioè l’uomo tenta di addestrarsi comunque ad esser uomo), si tratti di famiglia “normale” o incompiuta, legalizzata o emarginata, affranta sotto il peso della condanna ecclesiale o sociale, o da paure e divisioni, peccato o fragilità, sessualità normotipiche o incoative – dentro o al di fuori di ogni frontiera culturale tutte sono abitate “carnalmente, e per questo ancor più “profeticamente” da Dio stesso … Magari pàgano un amaro tributo alla prima radice carnale, ma possono sempre essere redimibili e salvifiche perché aggrappate alla seconda. Nessuno può più a priori condannarle, ma anzi deve accudirle e custodirle e illuminarle, perché dentro le ferite della tormentata storia biologica, culturale o personale che le ha prodotte, il cristiano sa che c’è sempre, almeno un brandello della “buona notizia di carne” – che è questo “bambino”». Ma «… bisogna forse fermarsi un momento a riflettere per capire come questa ‘unica’ irrepetibile famiglia possa essere significativa per le nostre… se dev’essere in qualche modo il modello della famiglia cristiana, proprio perché è la famiglia di Gesù il Cristo. È una ben strana famiglia, questa, che vive un’avventura umana così eccezionale ed irrepetibile… Una continua sorpresa a se stessa! A leggere il racconto di Matteo, Giuseppe desiderava invece una normalissima famiglia, ma ad ogni momento importante ha un sussulto per un cambio di rotta sconvolgente… Non avrebbe mai “sognato” di vivere un’avventura così. Altri sogni invece lo istradano verso progetti impensabili» [Giuliano].

Progetti, sogni, avventura che come dice bene Paolo son fatti… «di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità», ma soprattutto «di carità/amore, che li unisce tutti»…

Accogliere Gesù, infatti, da bambino e poi da grande e poi da crocifisso e poi come Signore della propria vita, vuol dir proprio questo – alla fine – se ci pensiamo… plasmare il nostro cuore (dentro il miracolo – “diluito” lungo tutta la vita – di con-vertirci a Lui) perché si disponga sempre come “capace” di amare… tutti…

Ciò che infatti alla famiglia di Nazareth sarà chiesto lungo la storia – a Giuseppe con Gesù bambino (un bambino non suo) e poi da grande in particolare a Maria – è rompere i confini della generazione carnale, per aprirsi all’universalità del bene (non a caso Maria è madre sua e madre nostra, cioè di tutti): ella infatti – come si vede bene nei testi che parlano di lei (Mt 12,46-50, Lc 2,33-35, Lc 2,48-51, Gv 2,1-5, Gv 2,12) – vive una tensione che man mano la porterà ad essere non più solo la madre di Gesù – vocazione che “istintivamente” le riusciva bene – ma la madre dell’umanità – vocazione che invece le richiede l’accettazione di una spada che trafigge l’anima… per lei infatti, al seguito di suo figlio, la maternità non si esaurirà più nella custodia – fino alla morte – del proprio figlio… Ma diventerà il modo d’essere di sempre, la modalità di esistenza di fronte a chiunque, il nuovo DNA per stare al mondo: in Gesù “essere madre / essere materni” («tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, carità/amore») diventerà il modo nuovo di accostarsi a ciascun figlio dell’uomo, a qualsiasi grumo di sangue, a qualsiasi pezzetto di carne umana si incontri nella propria vita. È infatti precisamente quello che chiederà a sua madre quando, sotto la croce (Gv 20,25-27), le affiderà Giovanni, un altro figlio, mentre lui, il suo muore… Questa è la maternità riscritta da Gesù – per niente sdolcinata o sentimentale – che chiede la dilatazione del proprio grembo per farci stare non solo i nostri ma chiunque abbia bisogno di un po’ di spazio, di un po’ di accudimento, di un po’ di casa…

In questo senso tutte le “famiglie sbagliate” che abitano il nostro mondo (a vario titolo ‘maledette’… composte da orfani, figli di separati, di omosessuali, di extracomunitari, di prostitute, di pedofili, di violenti, di carcerati, di malati, di psicolabili...) non sono “fuori dai giochi, ma anzi anch’esse abilitate a “provare ad amare così” e addirittura – forse – anche più “predisposte” perché loro l’alterità, la stranezza, la diversità che gli altri leggono come estraneità (facendone dei “non nostri”) ce l’hanno in casa… come Maria e Giuseppe!

In proposito vi metto qui sotto, anche un testo scritto da Giuliano per i monasteri (pensati come cantieri antropologici in cui provare a vivere il vangelo), in cui si delinea – a mio parere – un certo modo “evangelico” (appunto!) di esse famiglia, di qualsiasi tipo sia…



APPUNTI monastici carmelitani

• Con S. Teresa d’Avila inizia un nuovo progetto umanistico, innestato sul tronco antico del monachesimo carmelitano:

Costruire uno spazio esteriore ed interiore ove coinvolgere tutta la persona per sempre, affascinandola al progetto di cambiare la propria vita “spirituale” in amicizia con Dio, attraverso l’umanità di Cristo, entro un gruppo di sorelle amiche!

Privilegiando la via dell’esperienza, rispetto alla via intellettuale o pastorale o devozionale o sacrale:

o Dunque una via accessibile alle donne – monache (del tempo! : cioè accessibile ai laici – anche non colti!)

o Compatibile con il lavoro manuale (alla portata di gente immersa nelle faccende quotidiane – non chierici)

In un laboratorio di libertà: ove poter dedicarsi totalmente (in uno spazio preservato dall’autonomia monastica anche canonica) ad una dinamica evangelica ovviamente disomogenea al contesto circostante – di cui la clausura è la custodia (come presa di distanza in ogni campo: culturale, ecclesiale, fraterna, monastica, economica...) – e il filtro (che lascia entrare solo ciò che serve a questa scelta radicale).

Ove tutte le risorse e la passione della persona e della comunità siano rivolte al primato della relazione / dilatazione dell’amore

Agevolando l’esperienza ricettiva, la potenza della passività, la significatività della relazione accolta sia nella solitudine e nel silenzio, come nell’intensità della relazione – sonora e amabile, non affatto isolata nè ombrosa:

“l’orazione infatti altro non è che coltivare una relazione di amicizia intrattenendoci frequentemente in solitudine con chi sappiamo che ci ama. E se voi ancora non lo amate (in quanto, affinché l’amore sia vero e l’amicizia durevole, occorrono condizioni di parità,e invece è notorio che la natura di Dio va immune da qualsiasi difetto, mentre la nostra è viziosa sensuale ingrata) - ossia se non riuscite ad amarlo abbastanza, perché lui non è alla pari di voi, per lo meno, constatando quanto vantaggio vi apporti godere la sua amicizia e quanto egli vi ami, ce la farete a sopportare la pena di intrattenervi a lungo con Chi pure è tanto diverso da voi”

[ S. Teresa V,8, 5]

Si tratta di imparare a dirsi di no (!) per uscire dalla condizione infantile della paura di perdere l’io: quella che ci impedisce di seguire il Signore:e non ci lascia mai passare da ciò che si è a ciò che non si è (ancora!); infatti:

o sei ancora lì (stanca) – nel luogo da dove non sei mai partita (purtroppo)

o vivi (senza gioia) quello che non hai voluto morire

o sei affamata (senza pace) di quello che non hai voluto mangiare

non bastava “congedarsi” da casa – ma bisognava rinchiudersi in una casa – ove:

o il non / io è accolto in te: tu non vai via, né lo chiudi fuori: lasci lui venire a te

o sorridi all’intrusione del diverso, all’irruzione del disagio, al protagonismo dell’altro

o contieni la tracimazione dell’insofferenza (è solo l’io che... ha messo i suoi confini)

lasciando invece scavare, dentro di te, il fondo dell’interiorità, per farci stare ognuno e ogni cosa che chiederà uno spazio – è terreno tuo che offri alla dilatazione del Regno:

o per ospitare l’oltranza, e fare dell’altruità un’attitudine del cuore

o per uscire da sé – alterarsi o alienarsi un poco

o rovinare dolcemente i gusti e i significati per simpatizzare con le diversità e le antipatie

o imparando a gustare le non/esperienze/ il dentro che viene da “fuori”

1 commento:

Sam ha detto...

Grazie per la lectio sulle famiglie "strane"....speriamo di essere capaci di cogliere tutto quello che può nascere di buono anche da noi nella "stranezza"!!!

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