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venerdì 3 dicembre 2010

II Domenica di Avvento: La speranza che ci abilita a Vivere

Le letture di questa II domenica di Avvento hanno proprio il sapore di un’introduzione al mistero del Natale… Siamo ancora sulla soglia, ma già si intravede che ciò che ci aspetta è qualcosa di decisivo… La Chiesa ci accompagna in questa attesa, “incuriosendoci” sulla portata dell’evento… Pone infatti in campo parole che attraggono le orecchie e il cuore di ciascuno… Chi infatti non si sente stuzzicato da frasi come «In quel giorno avverrà...», «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione», «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»…?


Se anche facessimo finta che non fossero parole bibliche, esse rimarrebbero comunque cariche del loro fascino:

- Chi, infatti, non ha almeno qualche volta sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...»; che si trattasse del giorno della nostra morte, della venuta del Messia, dell’appuntamento con chi si spera di conquistare, di un colloquio di lavoro, di un incontro dopo tanti anni…?

- Chi, sommerso dal disorientamento e dalla confusione nel maneggiare questa vita, non ha desiderato almeno ogni tanto di avere per le mani un manuale d’istruzioni, in modo da poter dire che «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione»?

- E infine chi, esausto per la fatica di vivere e di dar credito al fatto che ne valga la pena, non ha sperato che «il regno dei cieli» – qualsiasi cosa esso volesse dire – fosse «vicino»?

Ma ri-collocate nel contesto biblico, che è il loro, che cosa vogliono dire queste parole così cariche di aspettative, aspirazioni, sogni, speranze, attese?

La prospettiva di Isaia è – ancora una volta – decisamente luminosa… sta parlando di qualcuno che arriverà: qualcuno fortemente attaccato alla storia dell’umanità, come un germoglio al suo tronco e un virgulto alle sue radici, e nello stesso tempo altrettanto fortemente inondato di profumo divino… qualcuno che contro i violenti e gli empi, starà dalla parte degli umili e dei miseri… Quando arriverà le leggi naturali della vittoria del più forte, della selezione naturale, della paura come anima del mondo, saranno stravolte, per lasciare il posto alla giustizia, alla fedeltà, al dimorare insieme, allo sdraiarsi accanto, al trastullarsi…

Eppure Isaia non sta scrivendo in un momento facile per il suo popolo: niente fa prevedere un lieto fine della situazione, tanto meno un lieto fine cosmico, che coinvolga il mondo nel suo insieme; dilagano corruzione, dispotismo, idolatria, pressione straniera, ingiustizia sociale, povertà, indigenza…

Ma allora perché Isaia interviene con queste parole promettenti? Interessante quanto risponde H. Simian Yofre, mettendo in luce le idee che da questo brano emergono con forza: «Anzitutto la convinzione che davanti ad ogni crisi, non soltanto personale, ma anche e soprattutto sociale, istituzionale, nazionale, perfino internazionale, la fede non è ridotta al silenzio, ma ha una parola importante da dire. Essa genera una parola critica circa la situazione concreta; così il pensiero escatologico, nel momento stesso in cui prospetta un mondo nuovo, non consente una fuga dal presente, ma fa maturare una visione obiettiva e critica a riguardo del presente, e specificamente dell’ingiustizia, del caos istituzionale, dell’ambiguità di certi rapporti politici, della perdita d’identità profonda del popolo. Il pensiero escatologico profetico non si accontenta di proporre una soluzione “spirituale”, ma comincia da un’analisi lucida dei mali presenti nella società!».

Ecco che a noi, allora, a noi che almeno qualche volta abbiamo sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...», viene rimesso in mano il nostro oggi, il nostro presente, la situazione concreta.

Ma… non eravamo partiti da un oggi, un presente, una situazione concreta inospitale, inabitabile, mortifera? E allora che senso ha il ricollocarci del profeta in essa? Se non eravamo capaci prima, non lo saremo neanche ora…

E allora? Allora… la chiave di volta è proprio il fatto che né una fuga spiritualistica da una storia avvelenata, né uno sforzo volontaristico e solipsistico per resistere nel viverla, sono le vie indicate dal profeta. Egli ha una prospettiva diversa: la vita può tornare ad essere vivibile perché è abitata dalla speranza in una promessa: che questa storia è inondata da Dio («la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare»). Che è la medesima speranza di cui parla Paolo quando afferma: «teniamo viva la speranza»! «Paolo – infatti – raccoglie l’eredità di una processione interminabile di antichi padri e profeti, grandi e piccoli, uomini e donne del popolo, che per millenni si sono lasciati impregnare, plasmare e confortare dalla trasmissione di una “speranza”, prima raccontata e poi scritta, in innumerevoli testimonianze, che di generazione in generazione, si intersecano, si riprendono, si illuminano a vicenda. Dio interverrà a salvare il suo popolo, e attraverso di questo tutte le genti, per mostrare finalmente il suo volto. Il peregrinare dei patriarchi, l’esodo, l’esilio, la decadenza della fede e lo sfaldamento del popolo, non riescono a spegnere, anche se ridotta talora a un lucignolo fumigante, la fede di chi ancora attende» [Giuliano].

Ma come vivere il nostro oggi alla luce di questa speranza? Cosa «è stato scritto per la nostra istruzione»?
Purtroppo o per fortuna, non si tratta di un manuale di istruzioni… piuttosto di un invito: «Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi». Non è un modello a cui tentare di assomigliare, ma una persona (Vivente!) con cui entrare in relazione: in una relazione talmente intima da essere conformante! Questa relazione è la speranza realizzata della presenza del Signore nel nostro oggi.

L’attesa trepidante a cui ci invita la Chiesa è allora quella di Uno che amandoci per primo introduce una nuova logica nel mondo: quella dell’accoglienza, dell’«avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù». È ancora una volta la proposta di una vita che si fa vivibile perché com-passionevole, perché com-patita, perché abitata da una solidarietà che rende parte di un popolo in cammino, dell’umanità tutta… che geme, spera, ama, soffre, muore, sorride… come me.

In questo senso, essendo dalla parte di chi ha già letto fino in fondo i Vangeli, a noi fanno un po’ sorridere alcune aspettative di Giovanni Battista: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». Egli è il precursore e realmente è «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». Ma Gesù… sorprenderà anche lui: davvero è un novum nella storia dell’uomo: lui, infatti, in una parabola, di fronte ad un albero che non porta frutto, dirà di lasciarlo ancora per un anno e di prendersene cura perché diventi fecondo (Lc 13,6-9), non di tagliarlo!

Su una cosa però Giovanni non si sbaglia: l’evento atteso e annunciato è decisivo; di fronte ad esso non si possono raffazzonare conversioni posticce, false illusioni, ristrutturazioni di facciata: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo”».

Fa sorridere e tremare che i destinatari di questo ammonimento fossero proprio i più religiosi (sacerdoti e “laici impegnati”)… Proprio loro rischiano di non accogliere la logica di Dio, che sopra ad ogni norma, istituzione, interesse, ragione politica, economica, sociale, religiosa, pone il volto dell’altro, che sempre è fratello!

Ma è proprio questa logica che plasma anche la nostra sete di regno dei cieli. Essa – qualunque cosa voglia dire –, sorta spesso sull’onda di un essere esausti per la fatica di vivere e di dar credito al fatto che ne valga la pena, prende la forma di un’attesa non più vaga e qualunquistica, ma cristicamente centrata, perché solo il suo immergerci nello Spirito santo («vi battezzerà in Spirito Santo»), nel suo Spirito, nella sua logica, nel suo amore, ci salva, ci libera, ci abilita a Vivere.

Non a caso «La carica portante del messaggio del Battezzatore è quella dell'imminenza di Dio nella nostra vita, poiché Egli è venuto e sempre viene, a trasformare il nostro presente, a rincuorare l’uomo entrando nella sua stessa dimensione storica e assumendo la debolezza della sua carne, per apportarvi finalmente la novità della pace, della giustizia, della rettitudine e della gioia, in modo compiuto. Ma è un compimento profetico…
Le promesse di Dio [infatti] ci spingono verso un mondo di pacificazione e tenerezza che ci entusiasma il cuore e dilata la mente… e rimane scritto per nostra consolazione. Ma non è subito qui! Subito scopri che nella storia concreta di questo mondo è proprio sulla sua pelle e con la sua mitezza insanguinata che l’agnello addomestica il lupo, è lasciandosi morsicare la vita infinite volte che il bambino mette la mano nella tana delle vipere e le svelenisce… Cioè: se non si è disposti a fare la fine dell’“Agnello portato al macello”, le profezie non si avvereranno… i conflitti, il dolore e la morte non vengono disinquinate se non attraverso la nostra partecipazione alle sofferenze di Dio nel mondo. Nella forza dello Spirito di Gesù, Giovanni ha capito che le promesse escatologiche hanno una lunga gestazione, nella quale trasformano la storia e la liberano dalle catene del male, secondo tempi e modi che solo il Padre conosce».
Per questo «L’unione al Messia Crocifisso e risorto, che riprende con ciascuno di noi e con la sua chiesa il cammino della storia, è il nome della nostra fede. Riuscire a trasformare con lui la nostra storia è la speranza. Donare con lui la nostra vita è l’amore» [Giuliano].

1 commento:

Denise Cecilia ha detto...

Sono tremendamente confusa.
Perché io questa speranza l'ho incontrata, l'ho letta nell'esperienza e riconosciuta differente da ogni altra; e in conseguenza di ciò ho dato anche un differente valore a certe attese, a certe ferite che portano frutto - che io so esserci, anche se non lo vedo in modo immediato e lampante.
Ma quest'attesa, la sopportazione che dilata la mente, stavolta (che devo prendere una decisione importante) fatico a collocarla nel mio vivere concreto: il Signore mi chiede di perseverare nel suo progetto qui, nell'ambiente in cui ora mi trovo (ma che mi crea un fortissimo disagio), oppure - se è vero che per salvaguardare questo progetto devo necessariamente pensare a salvaguardare la mia... integrità mentale - non si tratta piuttosto di sopportare l'incertezza, il tempo della realizzazione dilazionato, il dover ricominciare da capo?
Trovo che accettare quel che viene da dio non significa prendere tutto quel che viene sulla nostra strada, così com'è e senza criterio - non fosse altro che perché dio, io credo, prepara per ognuno quel che si dice il 'disegno', un percorso di ampio respiro e non una pista obbligata.
Eppure ho paura di non cogliere, o sovvertire le indicazioni che ricevo. Soprattutto di confondere l'irrilevante con ciò che invece è fondamentale.

Immagino che la mia confusione traspaia rumorosa da quel che scrivo, che potrebbe avere un capo ed una coda solo per me.
Ho bisogno di raccontarmi ma non lo faccio esplicitamente, nel timore di beccarmi l'ennesimo schiaffo, l'ennesima incomprensione.

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