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martedì 13 maggio 2014

V Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 6,1-7)

In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola». Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

 

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo (1Pt 2,4-9)

Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso». Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,1-12)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa V Domenica del Tempo di Pasqua, è – in un certo senso – l’ultima parola forte sul senso della Risurrezione che ci accompagna in queste settimane. Da settimana prossima (VI del Tempo di Pasqua) infatti inizieremo a sentir parlare dello Spirito santo, seguiranno la domenica dell’Ascensione e quella di Pentecoste, per reinserirci poi nel tempo ordinario.

Ma la parola dell’odierno vangelo di Giovanni non è “ultima” solo in senso cronologico-liturgico, ma lo è anche nel senso di “definitiva”: Gesù infatti – in questi versetti collocati dall’evangelista durante l’ultima cena – sta spiegando in cosa consiste la salvezza che ha operato nella sua vita, passione, morte e risurrezione: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore». È la dichiarazione più esplicita che il destino di Gesù non è solo suo: ma per tutti.

Il suo “vincere la morte” ha abilitato ciascuno alla nuova vita in Dio, che sgorga in noi già nella nostra vita terrena e che attraversa la “porta” della morte fisica, una “porta” che sull’altra faccia è Gesù (in proposito mi venivano in mente quelle porte che si aprono sia in un senso che nell’altro, non so bene che nome tecnico abbiano, ma insomma, quelle che non si possono aprire o solo verso l’interno o solo verso l’esterno, ma indistintamente).

Ecco perché “non deve essere turbato il nostro cuore”, perché nella storia di Gesù è iscritta questa promessa di vita.

Non mi piace chiamarla “vita eterna”, non perché sia scorretto, ma perché mi pare che – per come è stata intesa – rischi oggi di non farci capire in profondità quanto promette Gesù.

“Vita eterna” infatti da un lato ha portato a una dicotomia tra aldiqua/aldilà che ha scritto nella storia cristiana la logica distorta del “doversi meritare il paradiso”, come se la vita nuova promessa da Gesù non fosse già qui nella nostra vita terrena. E d’altro lato perché “vita eterna” ha fatto pensare a quello scorrere infinito di tempo che ha fatto temere addirittura a qualcuno di potersi poi annoiare…

Mi piace chiamarla piuttosto “vita nuova”, anche se non è espressione neotestamentaria come l’altra, ma sottolinea la discontinuità (vita nuova) ma non la cesura (è sempre vita, sono sempre io, è sempre Gesù) e lascia trasparire insieme la sua indisponibilità (è nuovadunque non analizzabile, ha il suo margine di riservatezza, di inconoscibilità, non si può speculare riguardo ad essa, addentrandosi in fantasiose ipotesi su “come è/sarà”) e la sua rassicurazione (è promessa di vita, non di morte, non fa dunque paura; ha in sé i caratteri del nascondimento di una sorpresa, non quelli di un agguato).

Dunque il testo odierno, il testo finale che la liturgia ci fa ascoltare sulla risurrezione, è il testo della promessa della vita nuova per noi, per ciascuno.

Molto spesso noi prescindiamo da questa promessa nell’impostazione della nostra vita e nel suo dispiegarsi. È un problema che non vogliamo mettere a tema, mettere a fuoco. La nostra mentre rifugge questo soffermarsi sulla morte e sul senso che essa assume alla luce della storia di Gesù, accontentandoci di conclusioni parziali quali: “cerchiamo di vivere bene questa vita, poi si vedrà… se c’è qualcosa, tanto meglio; se non c’è, pace…”.

Eppure questo rifuggire, senza che ce ne accorgiamo, è già un modo di porsi di fronte alla questione: è uno scegliere di nasconderla in fondo alla cantina, pensando che così – non vedendola – in qualche modo sparisca. In realtà essa continua a lavorare, come quei rifiuti tossici sotterrati dalla mafia nella terra dei fuochi che poi a lungo andare rilasciano la loro tossicità e vanno ad avvelenare tutto il territorio. Così è per la questione della morte, della vita nuova, delle promesse “incredibili” di Gesù.

Se non ci mettiamo a pensarci su, a farci attraversare dal dramma del morire, del nostro personale dover morire, se non ci mettiamo a discutere con Gesù e le sue promesse, urlandogli magari contro la nostra poca fede e le nostre angosciose paure, queste ultime nella loro tossicità, a lungo andare contamineranno tutto il terreno del nostro cuore portandoci ad essere, magari mascheratissimi anche a noi stessi, dei coacervi di atavica paura di morire che – per definizione – causa assassini: perché la paura di morire rende capaci di ammazzare (fisicamente e non) chiunque.

martedì 5 novembre 2013

XXXII Domenica del Tempo Ordinario


Dal secondo libro dei Maccabei (2Mac 7,1-14)

In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». Allora il re irritato comandò di mettere al fuoco teglie e caldaie. Appena queste divennero roventi, il re comandò di tagliare la lingua a quello che si era fatto loro portavoce, di scorticarlo e tagliargli le estremità, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre. Dopo averlo mutilato di tutte le membra, comandò di accostarlo al fuoco e di arrostirlo quando ancora respirava. Mentre il fumo si spandeva largamente tutto intorno alla teglia, gli altri si esortavano a vicenda con la loro madre a morire da forti, dicendo: «Il Signore Dio ci vede dall’alto e certamente avrà pietà di noi, come dichiarò Mosè nel canto che protesta apertamente: “E dei suoi servi avrà compassione”». Venuto meno il primo, allo stesso modo esponevano allo scherno il secondo e, strappatagli la pelle del capo con i capelli, gli domandavano: «Sei disposto a mangiare, prima che il tuo corpo venga straziato in ogni suo membro?». Egli, rispondendo nella lingua dei padri, protestava: «No». Perciò anch’egli subì gli stessi tormenti del primo. Giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita”.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (2Ts 2,16-3,5)

Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata come lo è anche tra voi e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

 

Da vangelo secondo Luca (Lc 20,27-38)

In quel tempo, gli si avvicinarono alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 

I testi che la liturgia di questa Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, hanno come tematica centrale quella della risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, ma anche questione tra le più assenti dalla sensibilità quotidiana del nostro vivere.

In parte forse per una motivazione che potremmo chiamare sociologica, per la quale l’uomo moderno e postmoderno si ritrova disilluso di fronte alla speranza di una vita che continua dopo la morte fisica (siamo tutti figli del razionalismo – che crede solo in ciò che è dimostrabile, misurabile, verificabile – della filosofia del sospetto – che lucidamente ha messo in discussione la religiosità illusoria della cristianità – delle grandi tragedie del Novecento – che hanno proposto con forza la domanda “Dov’è finito Dio?”…), in parte forse per una motivazione personale, nata ai piedi delle bare delle persone più care che lungo gli anni perdiamo per strada, senza che tornino, che si facciano sentire presenti, come se davvero fossero finite nel nulla…

Fatto sta che di fronte al dramma della morte, spesso la reazione più intima è proprio quella dell’incredulità nella risurrezione… Ci facciamo tanti discorsi, proviamo a convincerci – ciascuno nel dialogo profondo tra sé e sé –, ma in ultima analisi ci risulta in-credibile che la morte non sia la fine di tutto, ci risulta una pia illusione la speranza nella risurrezione della carne o perlomeno nell’immortalità dell’anima e ci ritroviamo a ripetere con santa Teresa di Gesù Bambino che sembra che «le tenebre assumendo la voce dei peccatori dicano, facendosi beffe di noi: “Tu sogni la luce... credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente”» (C 278)…

Questa situazione – che i più piccoli tra noi ormai leggono come un’evidenza – non è scevra di conseguenze sul piano della vita nell’aldiqua. Sempre più infatti avvertiamo intorno a noi il bisogno di allungare la vita il più possibile, col grande sviluppo – che è sotto gli occhi di tutti – di una cultura “salutista”, “igienista”, “paurosa” verso tutto ciò che può arrecare danno alla salute, divenuto il primo dei beni da salvaguardare in vita… Un bisogno che vede nella malattia non più un normale aspetto della vita umana, ma ciò che radicalmente la dis-umanizza e dunque va aborrito, evitato, eliminato… Non a caso mentre per i nostri vecchi “ci si ammalava per morire”, oggi “si muore perché ci si ammala”… che non è un gioco di parole, ma quasi la traduzione del fatto che, essendo la malattia o l’invecchiamento (è la stessa cosa) la causa prima di morte, si vive pensando che eliminando o ritardando il più possibile (tendenzialmente all’infinito) questi aspetti della vita, appunto, si possa non morire…

Finendo così per elaborare una cultura che, illudendo le persone su una speranza di vita sempre più lunga, sostanzialmente censura la morte dagli argomenti di discussione quotidiani: ne sono esempio il fatto che sempre più nascondiamo ai bambini questa realtà (non gli facciamo vedere i morti), trovandoci – quando più bambini non siamo e di fronte alla morte inevitabilmente ci ritroviamo – assolutamente spiazzati, inebetiti, inconsolabili… Che è la medesima logica che sottosta agli strumenti mediatici (come i TG o i film), che – certo – propongono continuamente davanti ai nostri occhi scene di morte, ma così rapide e istantanee, che impediscono una vera riflessione in proposito, soprattutto l’acquisizione heideggeriana per cui il problema vero della vita non è che “si deve morire”, ma che “io devo morire”…

Con questi pochi accenni, anche se un po’ velocemente, la situazione odierna pare però ben tratteggiata nelle sue linee fondamentali: la caduta dell’“illusione” della vita dopo la morte; la concentrazione conseguente sulla vita nell’aldiqua, che – dunque – deve essere il più lunga possibile; la censura della questione del morire…

È su questo tessuto sociologico-personale che irrompe il messaggio evangelico («I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui») e il racconto – un po’ leggendario, ma di certo emblematico – dei sette fratelli Maccabei («E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»). Annuncio, anch’esso non scevro di conseguenze per la vita (dell’aldiqua)… basti pensare all’esperienza stessa di Gesù e alla sua consegna alla vita e (poi) alla morte… possibile solo perché alimentata dalla fede che quella consegna – in ultima analisi – era la consegna al Padre, che tutto tiene e custodisce, e dalle cui mani nulla va perso per sempre…

Come sempre, allora, di fronte a questo tipo di problematiche per l’uomo si pone la questione “da che parte stare”, “per quale posizione decidere”, “a cosa credere”… sapendo che la scelta di astenersi – percorsa oggi da troppe persone perché la Chiesa non si faccia carico del problema – è già una scelta…

La cosa interessante è che – a differenza di quel che si pensa di solito, e cioè che da una parte stanno quelli dis-illusi (nel senso di realistici, legati alla mentalità razionalistica, quantificabile, dimostrabile), mentre dall’altra gli illusi (i creduloni, i bigotti) – né l’uno né l’altro versante ha in mano la dimostrazione per la sua posizione: non si può dimostrare che Dio esista e che ci aprirà la vita eterna, certo; ma non si può dimostrare nemmeno il contrario… Per entrambe le posizioni si tratta di “credere in” qualcosa, cioè – ultimamente – di una fede…

La fede dei Sadducei (di ieri e di oggi) ha come base l’osservazione (smagata, dicono loro) della realtà, per cui tutta una serie di elementi testimoniano che la vita finisce nella tomba.

La fede dei cristiani invece si fonda sulla Parola di Dio – anche se è interessante che, soprattutto sul versante cattolico, ancora oggi siamo di fronte ad un’ignoranza abissale da questo punto di vista (sarà anche per questo che non sappiamo più rendere ragione della nostra fede? Tanto che i nostri ragazzi – pur battezzati e cresimati e tutto il resto – accettano senza sobbalzare che “tanto dopo la morte non c’è niente”, come dicono di solito?).

La fede dei cristiani si fonda sulla Parola di Dio, che come ha insegnato il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum), è, sì, materialmente contenuta nel testo biblico, ma è eminentemente rintracciabile nella vita di Gesù, cioè nel modo in cui lui – vivendo – ha impegnato la sua libertà, ha deciso di sé, ha deciso chi essere…

Ecco perché la credibilità dell’annuncio della risurrezione della carne è da “misurare” sulla credibilità della persona di Gesù… come a dire che è sulla base di quanto riteniamo affidabile (degno di fede) Gesù, che dobbiamo dar credito al suo vangelo, cioè alla buona notizia che non solo Dio c’è, ma è un Padre che vuole la salvezza (cioè la Vita piena) per ciascun uomo… una Vita piena che non ha fine.

Il problema è quindi a questo livello… Quanto valgono, di fronte alle ragioni che porta il sadduceo che c’è in me (o la sua versione post-moderna) e che mi suscita così tanta angoscia, le ragioni di credibilità di Gesù di Nazareth, della sua vita, del suo vangelo?

E se ritengo Gesù credibile, come la fiducia in una vita che non finisce nella tomba riscrive la mia vita nell’aldiqua?

Per tanti secoli, una certa predicazione ha portato avanti l’idea che se esiste la vita eterna, allora tutto l’aldiqua si gioca nel “guadagnarsi” il paradiso, accumulando meriti presso Dio…

Ma – tornando nuovamente all’annuncio di Gesù – la prospettiva evangelica sembra essere altra: Gesù non insiste mai sulla necessità dell’uomo di meritarsi qualcosa da Dio. Piuttosto la sua insistenza è perché l’uomo accolga il messaggio di un Dio-Padre che porta la salvezza, non che chiede di guadagnarsela.

E non chiede che l’uomo l’accolga, per dire che – conseguentemente – chi non la accoglie non si merita il paradiso, ma perché chi la accoglie ha già la possibilità nell’aldiqua di vivere una vita da salvato: una vita cioè che l’uomo non ha bisogno di redimere, ma che ha solo la preoccupazione di vivere; senza quella competizione con l’altro che ogni meta (foss’anche quella della salvezza eterna) ingenera tra fratelli/concorrenti, ma quella di chi – proprio perché la sua vita è già salvata da un Altro – può dedicarsi alla costruzione del mondo come Dio lo vuole, un mondo in cui ciascuno trovi la sua pienezza umana. Solo per questo motivo il cristiano è disposto a privarsene personalmente (addirittura a perdere la sua vita), come Gesù: che proprio per testimoniare l’amore di Dio per tutti, ha accettato di morire. Nient’altro può giustificare una morti-ficazione della propria vita o l’insegnamento della morti-ficazione della vita altrui.

giovedì 1 agosto 2013

XVIII Domenica del tempo ordinario (C)


Dal libro del Qoèlet (Qo 1,2;2,21-23)

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (Col 3,1-5.9-11)

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,13-21)

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario mostrano con evidenza quella che è una prerogativa di tutto il vangelo, e cioè la sua perenne attualità, la sua capacità di interpellare ogni generazione, di parlare all’uomo di ogni tempo, anche al nostro. Anzi, in questi testi, sembra addirittura intercettata laproblematica vera dell’uomo del nostro tempo (ma forse solo perché – anche se in contenitori culturali diversi – è la problematica dell’uomo di tutti i tempi): e cioè il senso della vita, a fronte della morte… il “cosa siamo qui a fare?”, se poi dobbiamo morire… il “come dunque spendere questo breve tempo che ci è dato?”, “come impegnarlo?”, “in cosa impegnarci?”, “a cosa attaccare il cuore, dare le nostre energie, affidare il nostro tempo?”, “quale senso sposare, per cosa vivere, a cosa credere?”, “a chi dar retta, da chi imparare, chi seguire per non buttar via questa vita e noi stessi con essa?”…

Con il ritornante e sempre mai sopito ritornello amaro del libro del Qoelet: «tutto è vanità. […] Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!». Cioè, con la tentazione/consapevolezza (paura) agnostico atea, per cui, quelle, rimarranno domande senza risposta; tanto che non val neanche la pena affannarsi per pensarci… ma piuttosto smagarsi dall’illusorio incontro/ricerca di una sensatezza, per vivere da uomini/donne maturi, che sanno fronteggiare l’abissalità della morte, che ci riserva il niente («Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”»).

Solo che poi la morte sopraggiunge davvero – e non solo nel nostro immaginario, più o meno esorcizzato con ironia, sarcasmo, acidità o presunta maturità e superiorità quasi indifferente – e ci porta via chi amavamo di più, chi non era giusto che morisse (perché troppo giovane, troppo bello o troppo importante), chi non ha fatto in tempo nemmeno ad affacciarsi in questo nostro tempo (perché troppo fragile, troppo scomodo, troppo piccolo), chi non aveva ancora trovato il “lieto fine” delle sue vicende (perché troppo solo, o troppo ingarbugliato, o troppo poco amato)… chi – semplicemente – avremmo voluto fosse stato ancora un po’ a farci compagnia… e allora si fa esperienza di come tutte le risposte (o rispostine) che ci siamo dati con la testa, che abbiamo messo lì per placare/sfidare l’angoscia, non tengono, non sos-tengono la realtà di una vita inconsistente, in cui «Tutto ciò che esiste, ma, ancor peggio, tutto ciò che è umano e ci è caro, è destinato a morire. Non ha in sé capacità di tenere insieme i pezzi fisici o vitali di cui è composto. Questo vuol dire in/consistenza!»… e allora davvero «Non possiamo reprimere quella parte di noi che si commuove e si ribella. Le bestemmie di Giobbe, come gli incubi dei santi e dei dannati sono sacre, sono quelle di ogni uomo pensoso, per l’ingiustizia del dono di una vita “da morire”»! [Giuliano]

È dentro qui – dentro a questa condizione in-consistente dell’uomo (addirittura “da dentro” questa condizione) – che si innesta la vicenda storica di Gesù e in particolare questo brano del vangelo di Luca che la liturgia oggi ci propone. E che parla di vita e di morte, appunto…

Innanzitutto l’incipit – sempre sorprendente: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?»… Come “Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”? Non era mica Dio, il Figlio di Dio, il Figlio dell’uomo?! Insomma il Messia? Dunque il giudice e mediatore sopra di noi? No! No, almeno nel senso che quest’uomo intendeva/pretendeva, che noi uomini intendiamo/pretendiamo… quando «vorremmo trascinare il vangelo nelle nostre questioni e non ci accorgiamo che esso invece va alla radice e le sconvolge tutte» [Maggioni, il racconto di Luca]: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede»!

Ecco la “radice” della questione: non chi ha ragione o torto, quanto spetta a questo e quanto a quello… ma “da cosa dipende la vita?”, il suo senso?… Che – come dicevamo – è il problema dell’uomo.

Gesù, all’uomo disperso nelle ragioni per aver ragione, nella misurazione di sé e degli altri per aver un po’ di più (di eredità, di soldi, di amore, di lucidità, di cultura, di simpatia, di attenzioni, ecc…) degli altri e “sentirsi sicuro” (e a ben guardare tutta la nostra vita la misuriamo così!), dice: la vita non dipende da ciò che si possiede… c’è da cambiare sguardo, pena il rimanere «consumati nel farsi dar retta» [De Andrè, Verranno a chiederti del nostro amore], cioè nel «primo più ingenuo tentativo di sfuggire alla morte, come privazione di ogni bene, che è la bramosia di accantonare più beni possibile… come sicurezza per sé!» [Giuliano]. C’è da fare un passo indietro – come guardare dal di fuori – tutte queste dialettiche sulle cose, che ci rendono più simili a un pollaio che ad una famiglia… e intravvedere in esse – e nella passione che ci mettiamo (per aver ragione appunto – dunque per sentirci giustificati, sicuri, “apposto”) – quanto siano intrise della logica dell’affermazione di sé, per niente libere – come credevamo e pretendevamo di imporre – ma sempre inserite nel meccanismo: paura della morte – bisogno di affermazione di sé (a scapito degli altri)… come a dire… in un regime di “si salvi chi può”… mors tua, vita mea

A guardarle così… le nostre “ragioni” (religiose, politiche, economiche, affettive, relazionali, ecc…) si sgonfiano proprio, perché ci appaiono non così nobili come volevamo farle apparire, ma meschine tanto quanto quelle degli altri… perché votate non a rispondere al problema del senso, ma a fintarne uno di cui convincersi e convincere, con lo scopo non di Vivere, ma di sopravvivere (più degli altri)…

È da qui che Gesù si tira fuori e vuole tirarci fuori, per fissare lo sguardo altrove: «“Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». Dove il nodo centrale è quel “per sé” – così evidente anche dal monologo che il ricco della parabola si fa tra sé e sé («Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!») – contrapposto al “per chi?” di Gesù («Quello che hai preparato, di chi sarà?”») e al suo “presso Dio” («Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio»).

Un po’ scostati allora (è la preghiera!) dal pollaio delle pretese di possedere le giuste ragioni, orientati dallo sguardo stesso con cui Gesù – anch’egli scostato («stava in preghiera») – ha guardato la nostra storia, si può intravvedere che forse c’è differenza tra morire – perché non si è vinta l’ennesima battaglia della lotta per la sopravvivenza e si è stati sopraffatti da qualcuno/qualcosa più forte di noi – e morire – perché ci si è consegnati alla Vita, che è poi l’A/altro… già durante la vita!

Per arrivare – in pace – alla consegna finale…

Come Gesù… e tanti dietro a Lui…

lunedì 15 aprile 2013

IV Domenica di Pasqua (C)


Dagli Atti degli Apostoli (At 13,14.43-52)

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”». Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 7,9.14-17)

Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. Uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,27-30)

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 


In questa Quarta Domenica di Pasqua, la Chiesa ci offre un vangelo brevissimo, ma intensissimo. Siamo al capitolo 10 del vangelo di Giovanni: Gesù è a Gerusalemme in occasione di una festa ebraica e mentre passeggia nel Tempio, viene interpellato dai Giudei – coi quali aveva già avuto diversi scontri: «Fino a quando terrai l’animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù – quasi sconsolato – risponde: «Ve l’ho detto e non credete… ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io dò loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Ecco… tutto il vangelo odierno è contenuto in queste potentissime frasi… Infatti dopo le prime tre domeniche di Pasqua, in cui il vangelo si soffermava sui racconti di apparizione, la Chiesa vuole ora farci fare un passettino ulteriore: mentre là infatti raccontava l’evento e contemporaneamente lo spiegava, qui prende una piccola distanza dall’evento e prova a concentrarsi sul senso. Come succede con le persone che amiamo: quando le abbiamo vicine le viviamo e le sentiamo, ma per vederle con occhi nuovi serve una distanza nuova. Così è il vangelo (che non a caso è la buona notizia che parla di una persona – anzi di tre): Giovanni infatti fa dire queste parole (che a noi servono per tentare di capire la risurrezione dei morti) a Gesù quando – secondo la cronologia evangelica – egli è ancora “vivo e vegeto”. In realtà però, quando Giovanni scrive, la prima comunità cristiana ha già vissuto “la distanza nuova” della morte e risurrezione che permette appunto di vedere Gesù con occhi nuovi. E dentro a questo gioco strabiliante di passato, presente e futuro che si intrecciano in questo testo, emergono parole potentissime che l’evangelista vuole lasciare alla sua chiesa: alle sue pecore il Signore dà la vita eterna… non andranno perdute in eterno… nessuno le strapperà dalla sua mano… e se questo non bastasse: «Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre»! Quasi a riaffermare in maniera ritornante e sempre più incontrastabile quanto aveva detto qualche versetto prima: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

Con queste espressioni Gesù inserisce nella storia di Israele e nella storia dell’umanità, una novità inaudita. Perché fino ad allora “pastore” dell’uomo era qualcun altro: un pastore terrificante. «Questo “pastore” avvelena da sempre la vita dell’uomo sulla terra, e lo fa spasimare dietro obiettivi fallaci che lo svuotano e lo “sfiniscono”. Come dice l’antica sapienza biblica condensata nel Sal 49: Ascoltate, popoli tutti, / porgete orecchio abitanti del mondo, / voi nobili e gente del popolo, / ricchi e poveri insieme. […] Nessuno può riscattare se stesso, / o dare a Dio il suo prezzo. / Per quanto si paghi il riscatto di una vita, / non potrà mai bastare / per vivere senza fine, / e non vedere la tomba. / [   ] Come pecore sono avviati agli inferi, / sarà loro pastore la morte; / scenderanno a precipizio nel sepolcro, / svanirà ogni loro parvenza / gli inferi saranno la loro dimora. […] Questa è l’esperienza incancellabile degli innumerevoli greggi umani che si susseguono sulla faccia della terra: il pastore che li conduce è la morte – e l’ovile dove tutti li sospinge è … negli inferi. Su questo non c’è dubbio, e tutta la sapienza di Israele ne è impregnata. In questo contesto appare la luce nuova, in Cristo. L’incrollabile speranza che emerge nelle Scritture, infatti, è questa: che Dio e non la morte, è il vero pastore del popolo. Gesù l’ha imparato e poi insegnato: proprio quando ha l’impressione di entrare in una valle oscura, proprio quando le promesse antiche sembrano essersi tutte esaurite, abbandonato dai discepoli e anche dal Padre, si apre un varco attraverso la morte, un sentiero nuovo verso… i pascoli della vita, attraverso modalità impensabili, che fanno fremere le fibre della sua carne e stridere le categorie e i simboli che le vogliono esprimere… E paralizzano i discepoli stessi, che ne sono sconvolti, si disperdono come pecore spaventate (Mt 26,31).

Un agnello, un uomo come tutti, apparso nella fila sterminata del gregge umano, nato da donna, nato sotto la legge, uguale a noi in tutto, eccetto il peccato… passato attraverso le inevitabili sofferenze, esperienze e fragili conquiste umane, in uno sperduto paesino della Galilea… si rivela sempre più chiaramente ai discepoli... attraverso segni e parole… come il Messia, di cui parlavano le Scritture. È consapevole di essere colui che salverà le pecore della casa di Israele dalla perdizione. Vincerà il “pastore antagonista” – la morte! – non evitandola, con qualche privilegio miracoloso, ma affrontandola senza lasciarsene schiavizzare. Non è lei il pastore dell’umanità, ma il Padre, che ha dato a Gesù ogni potere» [Giuliano].

Ecco il punto che Gesù va a toccare, il centro del suo “essere venuto”, lo snodo dove si vede se una proposta, una vicenda, una libertà è degna di essere ascoltata o va a cadere nel vociare confuso del mercato umano: il problema della vita e della morte; della vita che rimane; della morte che non annienta… In base a quello che si dice su queste questioni (che la Chiesa chiama giustamente “ultime”, escatologiche) – in base a quello che si dice a questo livello, dove non c’è possibilità di gradazione, ma c’è il tutto (la vita) o il niente (la morte) – una proposta risulta degna di ascolto o meno; e Gesù lo sa.

Non basta dire parole vere; non basta fare segni che tolgano il problema contingente delle vicende che si stan vivendo; non basta nemmeno fare tutto questo con autorità… L’uomo valuta ciò che sente in base a quanto questo risponde al problema della vita e della morte.

Oggi infatti la mediocrità in cui spesso siamo gettati è dovuta al fatto che nessuna proposta ha la pretesa di dire qualcosa che vinca la morte, che valga al di là della morte… non i soldi, non il successo, non la salute, non gli amori facili… e infatti la nostra vita si riempie di tutte queste cose, per soffocare dentro l’anelito che dice: “Tutto questo finisce sottoterra”… Non crediamo più che ci sia qualcosa che regga il confronto con la morte, nessuna proposta pare all’altezza, tutte in qualche modo sono state screditate… Tanto vale allora vivere senza pensare che si deve morire… E tutta la nostra economia, la nostra politica, il nostro quotidiano pensare, parlare, scegliere, va in questo senso (spesso)… Perché morire fa paura… e allora meglio non pensarci… anche perché nessuno – come dicevamo – in proposito, sembra riuscire a tenere testa al problema del morire (e del rimanere morti, che è il vero dramma).

Ecco, Gesù in questo senso sfida questo indicibile, questo invalicabile confine del nulla, questo straziante destino che fa ammutolire tutti: Lui parla e ha il coraggio di dire che la sua proposta tiene testa anche alla morte, per questo è vera e va ascoltata, perché permette di abitare davvero la tragicità della drammatica umana.

Stando al vangelo sembra che tutto giri intorno al fatto di essere “sue pecore”… E la domanda che sorge spontanea è evidentemente quella che chiede: “Come si fa a essere sue pecore?”. Ecco il punto… il problema vero a cui il brano conduce… essere “sue pecore”… L’immagine è fin troppo inflazionata per lasciar correre con troppa disinvoltura ciò che ci salta in mente con immediatezza: “essere sue pecore è andare a messa”, “è comportarsi da bravi cristiani”, “è non fare il male”… Che non sono cose false o sbagliate… ma bisognerebbe anche saper dire cosa vuol dire andare a messa e vivere una vita eucaristica… cosa vuol dire essere “bravi cristiani” (formula curiosa, perché un cristiano non ha bisogno di essere bravo… dire “cristiano” è infatti già dire molto più che “bravo”…)…

Piuttosto – stando al testo – pare che l’essere sue pecore sia legato a tre caratteristiche: ascoltare il pastore, conoscerlo e seguirlo. Ma non nel senso con cui noi solitamente affrontiamo il problema religioso, per il quale di fronte al problema della salvezza (del salvarsi l’anima), sale pressante la domanda sul da farsi e le indicazioni che si possono racimolare si trasformano in precetti morali, itinerari spirituali, dogmi da credere… sotto questo meccanismo è fin troppo evidente la nostra ritornante mentalità mercantile: Cosa devo fare per pagarmi la salvezza? Credere questo, non fare questo, celebrare questa pratica… e sono apposto… Come se il problema della salvezza sia qualcosa di slegato da me, da chi sono io veramente. È il problema dell’anima, è il problema dell’aldilà. Non c’entra nulla con la mia vita, con ciò che amo, spero, temo… Più o meno come portare la macchina a far la revisione… E il tono della domanda che i Giudei gli rivolgono è molto chiara in questo senso: «Fino a quando terrai l’animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Lette in quest’ottica le parole di Gesù sull’essere sue pecore han veramente poco da dirci… aggiungono forse qualche prescrizione, indicazione, orientamento… Ma questo non è Gesù, questo non è il vangelo… questo slegare vita e morte, anima e corpo, aldiqua e aldilà è un germe che si è insinuato un po’ dopo nella storia della Chiesa e dell’umanità… Per Gesù invece l’aldiqua non va vissuto per l’aldilà. Le due realtà non sono separate. Quello che sarò è quello che sono. Quello che costruirò dentro come consistenza e dilatazione umana, sarò io (da viva e da morta).

E questa “consistenza”, questa “vita che rimane in eterno”, la si scopre mettendosi dietro a lui, come buon pastore… di nuovo, non perché abbia chissà quali consigli, o nuovi precetti, o parole che – limitando la nostra natura umana peccaminosa – ci evitino l’inferno… Ma perché ascoltarlo, conoscerlo, seguirlo, vuol dire ripercorrere la vicenda del darsi storico della sua libertà (chi lui ha deciso di essere) e scoprire che il suo “segreto” per la Vita è stato perderla… non in maniera mortificante e autolesionistica, repressiva di sé e della sua umanità, ma perché affetto da “troppo amore”…

Ecco… chi si fa convincere e contagiare da questa malattia del “troppo amore” è una sua pecora a cui è promessa la vita che rimane e un abbraccio così forte nelle mani del Padre che nessuno potrà strapparlo.
 


 

E dentro a una logica così non c’è spazio per dire: beh, allora, quello là è fuori da questo abbraccio… perché se fosse solo un credo, beh, chi non crede è fuori; se fosse solo una norma, beh, chi non la segue è fuori… ma siccome è una “malattia” che viaggia per contagio, quella del lasciarsi toccare dentro dal troppo dell’amore, beh allora è davvero per tutti. E il compito del cristiano è fin troppo chiaramente evidenziato… contagiare, contagiare, contagiare… senza paura di essere a volte inadeguati, pasticcioni, infelici e imbranati nel proporsi… senza paura addirittura di tradire quello stesso amore che si va contagiando… perché il ricircolo dell’amore che il Signore non ha mai interrotto (né da vivo, né da morente, né da risorto) è nuovamente sempre lì da ri-attingere. Per questo bisogna continuamente seguirlo senza pensare ad un certo punto di essere noi i pastori… perché quando la storia fa tremare d’angoscia le nostre viscere e la paura blocca i nostri canali dell’amore, allora anche noi – magari cristiani da sempre – abbiamo bisogno di tornare a farci contagiare da Lui… fonte inesauribile dell’amore che si commuove dentro…

martedì 13 novembre 2012

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Daniele (Dn 12,1-3)

In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 10,11-14.18)

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 13,24-32)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

 

In questa Trentatreesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa – attraverso la liturgia della Parola – ci invita a riflettere sul tema delle “cose ultime”, dell’escatologia, di ciò che deve accadere. Tema arduo, tanto che «J. Schmidt – come ricorda don Bruno Maggioni ne Il racconto di Marco –, commentando il c. 13 di Marco scrive: “quello che viene chiamato il discorso della parusia, l’apocalisse sinottica, figura tra i passi più incomprensibili del Nuovo Testamento e, di conseguenza, tra i più contestati di tutta la tradizione sinottica” [J. Schmidt, L’evangelo secondo Marco, Brescia 1956]. J. Schmidt ha ragione – prosegue Maggioni –: non è facile comprendere il genere letterario a cui il discorso appartiene (il genere apocalittico) e non è facile ricostruire le situazioni che sembra supporre. […] Non possiamo [quindi] fare a meno di una premessa teologica e letteraria riguardante l’escatologia e l’apocalittica: il discorso s’inserisce infatti in questo filone teologico e letterario. Il significato più ovvio di “escatologia” è quello di discorso sulle ultime e definitive realtà. Certo si tratta – anche se questa convinzione è maturata lentamente e faticosamente – di realtà che vanno oltre la storia, ma ciò non significa che esse non si preparino dentro la storia. In effetti l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla».

Questa indicazione è molto interessante, libera infatti il campo da quelle interpretazioni banali e infondate che leggono nei testi biblici di genere apocalittico un tentativo di penetrare i segreti di Dio o di cedere alle curiosità “del quando e del come”. Interpretazioni che nascono dal fatto che «noi non siamo abituati a questo linguaggio apocalittico, che nella complessità della storia e nella caducità del cosmo sembra enfatizzare i germi negativi, che pur ci sono, ed estremamente gravi. Ma che vanno appunto evangelizzati, perché non paralizzino la speranza. Questo vuol dire che il Vangelo li disinquina dalla loro radice sacrificale e moralistica, che legge i fatti storici come punizione incombente di un Dio irato. Anche oggi perdura questa antica tentazione di sollevare il velo sul destino di consunzione del mondo con ambigue “rivelazioni punitive” … Sono predizioni tristi, annunci di angoscia e paura, che sfruttando in chiave religiosa o filosofica il complesso di colpa originato nell’uomo dalla sua invincibile inadeguatezza, lo schiacciano dentro la sua paura, corrodendone la speranza di salvezza. Sono letture antievangeliche» [Giuliano].

Niente di tutto questo, perciò! Anzi, fondamentale per la corretta interpretazione di questi brani, è un’ulteriore annotazione teologico-letteraria: sempre Maggioni infatti ci ricorda che «il linguaggio di questa letteratura è tipico: descrive gli ultimi tempi come tempi di guerre e di divisioni, di terremoti e carestie, di catastrofi cosmiche, e tutto questo nel segno di una grande subitaneità. Questo linguaggio è ampiamente presente nel discorso di Marco: non è il messaggio, ma semplicemente un mezzo espressivo che tenta di comunicarcelo. In nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera».

Ma, dunque, se sono vere le annotazioni preliminari cha abbiamo fatto (se cioè l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla e se il linguaggio apocalittico non coincide con il messaggio, tanto che in nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera), sorge immediata la domanda riguardo a quale sia allora il messaggio sulla storia che – attraverso questo linguaggio sulle cose ultime – Marco sta proponendo…

In questo senso due paiono le certezze che emergono dal testo: innanzitutto il fatto che Gesù prevede tempi difficili e disorientanti per i suoi discepoli; ma, d’altro canto, che essi saranno accompagnati dalla venuta del Figlio dell’uomo.

A riprova di quanto dicevamo in precedenza, sull’attualità dell’annuncio escatologico (che parla del presente e non del futuro!), non possiamo negare che quella che il vangelo descrive come situazione “che deve avvenire”, “che accadrà in quei giorni”, in verità è la realtà della Chiesa di sempre, del presente di sempre della Chiesa, dell’umanità, di ciascuno: tempi difficili che mettono in discussione il senso dell’esistere – ma contemporaneo e cooriginario affidamento a un senso creduto certo! Quella che dunque immediatamente sembrava una riflessione per i tempi del dopo morte, diventa inaspettatamente un discorso sull’oggi, sulla struttura stessa della coscienza umana, del suo modo di stare al mondo… Essa infatti si trova sempre già ad avere a che fare con i “tempi difficili” e drammaticamente interrogata da essi sul senso del suo esserci, giocarsi, spendersi.

Questa è la trama di tutta la vita umana… l’aver intravisto una promessa di Vita a cui si è attaccato il cuore e l’imbattersi in continue e ripetute smentite di tale Vita… anche per Gesù è stato così. Non a caso Marco inserisce questo testo appena prima della passione di Gesù: lì infatti in maniera paradigmatica per tutta la storia della chiesa successiva, i tempi difficili si fanno intrinsecamente portatori del radicale interrogativo sul senso della vita, della vita di Dio!

Anche per la Chiesa sarà così – annuncia Gesù – anche per ciascun uomo che verrà dopo di Lui: la trama è la medesima…

Eppure in questo dramma, l’altro elemento che Gesù, con altrettanta forza, annuncia è la certezza della venuta del Figlio, la certezza dunque di un senso, di una verità, di una giustizia! «Questo è il tempo ultimo, non ne aspettiamo un altro, se non come compimento della “recente” venuta del Figlio dell’uomo… Nel nostro linguaggio ciò vuol dire che la salvezza avviene non per via di distruzione punitiva di questo mondo caduco, in vista di un altro mondo purificato di eletti , ma piuttosto che la salvezza è già avvenuta per via di un’incarnazionesalvifica - ove la corporeità debole ed effimera del mondo è accolta e assunta dal Figlio dell’uomo, per fermentarla e trasfigurarla dal di dentro» [Giuliano].

Precisamente questo annuncio – che coincide con tutta la vita di Gesù – è ciò che dischiude nuovamente – e nonostante tutte le disillusioni e i fallimenti della nostra Vita – la possibilità di un affidamento al senso, la possibilità del credere, la possibilità della fede… di quel dar credito che permette di guardare ai “tempi difficili” come a sequenze di un film, di cui non diventano mai l’anima. Esse possono far temere, trepidare, scoraggiare… ma non saranno mai la chiave interpretativa dell’interezza della vita, il cui polo gravitazionale – il senso – sta altrove… e cioè precisamente in quegli sprazzi di umanità amante e amata che si sono sperimentati («siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo», 2Cor 4,8-10).

In questo senso assume ancor maggior chiarezza l’indicazione preliminare che ponevamo rispetto al genere letterario apocalittico che caratterizza il vangelo di questa domenica: «L’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla. Questa è la sorprendente prospettiva biblica, interessante e concreta. Lo sguardo al futuro (cioè la rivelazione di ciò che sarà) rende importante il “presente” e offre un criterio di scelta e di valutazione. L’attenzione è, tutto sommato, rivolta al presente: il futuro offre un criterio di orientamento nel presente, ma è in questo presente che il futuro si gioca». Lo sguardo al futuro, è dunque solo un modo per parlare del presente, del mio decidere odierno di me stessa. Ma anche: per imparare a leggere il mio oggi, lo devo guardare come se lo guardassi dal domani; in qualche modo come se guardassi l’attuale scena del mio film, a partire dal finale, così come mirabilmente ha mostrato Henry David Thoreau, ripreso poi dal film “L’attimo fuggente”: Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.

E cos’è che alla fine, in punto di morte, ci eviterà di scoprire che non abbiamo vissuto? Io credo: che ci sia “lì” qualcuno che ci vuole bene… Tanto che forse, addirittura a pensarci bene, tutta la vita è la ricerca di due braccia che ci amano tra cui morire…

Chi ha vissuto in maniera esemplare questa intuizione di vivere guardandosi dalla fine, è Etty Hillesum:

[Prima che Spier morisse] «Delle cose ultime, essenziali della vita e del dolore non si può parlare, la voce non ce la fa. Io comprendo tutto di te e tutto ciò che ti riguarda io lo porto con me ed ho ringraziato di nuovo Dio per il fatto che nella mia vita esista un uomo come te. Devi occuparti della tua salute; è il tuo primo sacro dovere se vuoi aiutare Dio. Un uomo come te, uno dei pochi ad essere una dimora autentica per un po’ di vita, un po’ di dolore, un po’ di Dio – i più infatti hanno tradito da tempo sia la vita che il dolore e Dio, per essi sono ormai soltanto suoni vuoti – ha il sacro dovere di mantenere, nel migliore dei modi possibili, il suo corpo, la sua “dimora terrena” in buono stato, per poter offrire a Dio ospitalità il più a lungo possibile. Manca ancora molto tempo alla fine. Anch’io mi occuperò di te. Ho così tanta forza, che tu puoi prendertela tutta e in me nasceranno nuove energie. Ti ho così infinitamente caro, la tua anima è così infinitamente cara alla mia. La mia anima di quando in quando vorrebbe giacere accanto alla tua, e questo a poco a poco non ha più nulla a che vedere col desiderio che una donna può provare per un uomo. A volte vorrei distendere il mio corpo nudo, così come Dio l’ha creato accanto al tuo corpo nudo, così come Dio ti ha creato, e ho soltanto la sensazione che la mia anima voglia coricarsi accanto alla tua. Se in questo periodo non si scoppia di tristezza, né dall’altro lato per autodifesa ci si indurisce e si diventa cinici o rassegnati, allora si diventa più dolci, più miti, più disperati, più comprensivi, più innamorati. Io so come tutto questo stia accadendo dentro di te e tu mi hai portata con te sul tuo cammino, ed io vivo insieme con te la stessa strada fino alla fine. La mia autenticità ed il mio amore hanno mille anni ed ogni giorno invecchiano di mille anni. Quest’epoca, come noi oggi la esperiamo, posso sopportarla, posso anche perdonare Dio per il fatto che vada come deve andare – il fatto è che si ha in sé tanto amore da riuscire a perdonare Dio!! E tu devi occuparti della tua salute e riposarti e riposarti, ora io non posso star molto vicina a te – col pensiero però sono sempre vicina a te – ma promettimi che avrai buona cura di te».

 

[Alla morte di Spier] «Ho scritto un giorno che volevo leggere la tua vita fino all’ultima pagina. È cosa fatta. L’ho letta fino in fondo. Mi sento colma di una gioia profonda: tutto ciò che è stato era sicuramente giusto, altrimenti non avrei dentro di me questa forza, questa gioia, questa certezza. Eccoti dunque coricato in questo piccolo bilocale, caro grande e buon amico. Ti ho scritto un giorno: il mio cuore volerà sempre verso di te come un uccello libero, ovunque io sia sulla terra, e ti troverà sempre. E c’è questo, che ho scritto sul diario di Tide: tu sei diventato un pezzo di cielo, nella mia vita, che si incurva sopra di me, e non devo far altro che alzare gli occhi al cielo per essere vicina a te. E anche se dovessi essere rinchiusa in una cella sotterranea, questo pezzo di cielo si dispiegherebbe in me, e il mio cuore, come un uccello, spiccherebbe il suo volo libero verso di lui, ecco perché tutto è così semplice, sai, terribilmente semplice, bello e ricco di significato». «Avevo ancora mille cose da chiederti e da imparare dalla tua bocca. Ormai dovrò cavarmela da sola. Sai, mi sento forte, sono persuasa di riuscire nella vita. Sei tu che hai liberato in me le forze di cui dispongo. Mi hai insegnato a pronunciare senza reticenza il nome di Dio. Hai fatto da mediatore tra Dio e me, ma adesso tu, il mediatore, ti sei ritirato, e il mio cammino porta ormai direttamente a Dio».

 
[Quando inizia a stringersi la morsa sulla comunità ebraica] «Sono accadute molte cose dentro di me, in questi ultimi giorni, ma esse hanno finito col cristallizzarsi attorno a un’idea: la nostra fine. L’ho guardata in faccia la nostra fine, probabilmente deplorevole, che si prospetta fin d’ora nelle piccole cose della vita ordinaria, e le ho fatto posto nel mio senso della vita, senza che questo ne sia uscito sminuito. Non sono né amara né ribelle, ho trionfato sul mio abbattimento e ignoro la rassegnazione. Continuo a progredire di giorno in giorno, senza più tanti ostacoli come una volta, pur considerando la prospettiva della nostra eliminazione… Affermo spesso di aver saldato i miei conti con la vita, perché l’eventualità della morte si è integrata nella mia vita. Guardare in faccia la morte e accettarla come parte integrante della vita, significa allargare questa vita. Al contrario, sacrificare fin d’ora, anche solo un pezzetto di questa vita alla morte, perché si ha paura e ci si rifiuta di accettarla, è il modo migliore per non conservare altro che un povero pezzettino di vita mutilata, che meriterebbe a malapena il nome di vita. Questo può sembrare paradossale: escludendo la morte dalla propria vita non si vive in pienezza, e accogliendo la morte, al centro della propria vita, si allarga e si arricchisce la propria esistenza».

lunedì 9 aprile 2012

Il dramma pasquale



Anastasis
S. Salvatore in Chora
Gioia e Paura
Tutta la Pasqua è una festa, la più grande festa cristiana… e la liturgia ci invita alla gioia e ci testimonia questa gioia in un continuo esaltante “Alleluia!”.
È giusto che sia così, perché come ricordiamo durante la Veglia Pasquale, la luce di Cristo ha vinto le tenebre del Male. La Vita ha definitivamente prevalso sulla morte…

Tutta questa gioia, lo ribadisco, è legittima, giusta, santa… Ma… c’è un “ma” che forse ci sfugge: Come mai la Risurrezione di Cristo non riesce a incidere nella nostra vita come vorremmo? Eppure… quante Pasque abbiamo già festeggiato? Non è che forse in questa gioia e di questa gioia ci stia sfuggendo qualcosa?

Se leggiamo i Vangeli questa gioia che noi stiamo celebrando, non sembra contagiare immediatamente i discepoli e le discepole di Gesù! Se leggiamo i quattro racconti della risurrezione notiamo proprio questo: coloro che si recano al sepolcro, vivono un’esperienza “spaventosa”, che incute loro timore… i discepoli appaiono comunque ora pieni di stupore (che a differenza della meraviglia ha in sé un sentimento di paura, trasmessa da un’esperienza che supera e schiaccia chi la vive), ora disorientati, ora increduli…

Oppure – come nel vangelo di oggi (Gv 20,1-9)– c’è una totale assenza di manifestazione esplicita di gioia…
Cosa gli costava a Giovanni scrivere “videro e credettero e furono colmi di gioia”?... Invece no! C’è solo un freddo “videro e credettero”!

Non entro nei dettagli ma vi faccio solo notare un’altra incongruenza sempre in Giovanni: se Giovanni e Pietro “videro e credettero” perché mai nel brano che segue (Gv 20,11ss) Maria Maddalena deve annunciare la Risurrezione agli apostoli? Senza contare che lei come donna, per la cultura di allora, era una testimone inattendibile!
Forse, come il seguito del vangelo lascia intendere, perché sebbene credettero, il loro credere, come il nostro, era ancora incapace di farsi storia. Infatti l’evangelista annota, nel versetto immediatamente successivo al nostro brano, che i discepoli “se ne tornarono di nuovo a casa” (Gv 20,10). Ci chiediamo: Come se niente fosse? Così sembra stando all’evangelista. Infatti li ritroviamo più avanti intenti a pescare (Gv 21,3ss): erano ritornati alla vita di prima di conoscere Gesù!

Insomma la Chiesa in questi giorni ci vuole aiutare a credere nella Risurrezione di Cristo ma dobbiamo prendere coscienza che allora non si possono omettere certi versetti scomodi. Perché credere nella Risurrezione di Cristo, non vuol tanto dire credere in una dottrina (che non basta sembra dirci l’evangelista), ma vuol dire mettersi a fare tutto il faticoso cammino che gli apostoli hanno fatto. Passando attraverso la loro “paura pasquale”!

Ma allora per smascherare la nostra incredulità (che si traduce nella sterilità delle nostre Pasque) dobbiamo forse prendere coscienza della nostra paura della Risurrezione come ci rivelano in un modo o nell’altro tutti gli evangelisti.
E questo è continuamente sottolineato nei vangeli nel fatto che sia l’angelo, sia Gesù nelle sue apparizioni, devono continuamente calmare gli animi: “non abbiate paura”; “la pace sia con voi”, “non temete”…

Ora ci chiediamo, questa “paura” è un genere letterario per dire che siamo di fronte a una manifestazione divina? o è un espediente con cui indirettamente si vuol sottolineare che Gesù era veramente morto?...
Certo ci può stare anche questo, è certamente anche un genere letterario ma se è solo questo, tutto si riduce a una specie di finzione teologico-letteraria…

E allora siamo tenuti a pensare che gli apostoli vogliono obbligarci a capire come la Risurrezione di Gesù Cristo, la Pasqua che stiamo festeggiando, sia anche un fatto realmente sconvolgente, al punto che umanamente non si può non averne paura! Almeno all’inizio e molto prima di suscitare gioia!
Ripeto umanamente! È utile osservare come Matteo mette insieme appunto “timore e gioia grande” (Mt 28,8)… oltre a sottolineare che le guardie che custodivano il sepolcro e di cui avevano sigillato (!) la roccia, furono prese da un tale spavento da rimanere “come morte” (Mt 28,4). Uno spavento il loro che però non arriva a maturare in gioia! Anche questo è possibile davanti alla Risurrezione.

Mi sembra quindi che emerga con forza questo insegnamento a noi “lettori” già credenti ma non ancora posseduti da una vera gioia. E che come Giovanni e Pietro rischiamo di ritornare a casa alle proprie quotidiane occupazioni senza che questa Pasqua abbia inciso nella nostra quotidianità.
Per poter fare veramente esperienza di una gioia pasquale che ci cambi la vita, dobbiamo quindi prendere coscienza di questa paura anch’essa pasquale dei discepoli.
Insomma è vero che nella Veglia Pasquale abbiamo gioito il passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Ma dobbiamo prendere coscienza che a ciascuno di noi, non fa solo paura il “buio” ma anche la luce, soprattutto se intensa… Non ci fa solo paura la morte, ma anche la vita, soprattutto un certo tipo di vita…

Davanti a racconti di cronaca in cui apprendiamo che una persona che è creduta morta ritorna in vita, ci viene spesso descritta la gioia dei familiari nell’apprendere quello che i giornali non esitano spesso a definire “miracolo”… E questa gioia è testimoniata anche nei vangeli per i miracoli di Gesù! E in fin dei conti scorrendo i vangeli osserviamo che per i discepoli non è il primo “ritorno dai morti” a cui avevano assistito… Gesù aveva strappato dalla morte altre persone: Lazzaro, la fanciulla anoressica…

Ora perché invece nei racconti della Risurrezione, quando proprio ci aspetteremmo solo la gioia dei discepoli di sapere Gesù vivo, essi hanno paura? Dove sta qui la differenza?
E in cosa consiste propriamente questa paura? Cosa c’è di veramente nuovo in questa Risurrezione – quella di Gesù dico – da incutere immediatamente paura? Al punto che in un certo senso i discepoli la fuggono (Mc 16,5-8), proprio come sono fuggiti dalla sua morte?

Eppure essere cristiani vuol dire essere testimoni del Risorto. La storia ci insegna che non è necessario essere cristiani per fare del bene, anche eroicamente. Per amare fino al dono della vita, con la grazia dello Spirito ogni uomo di buona volontà può farlo, ma solo i cristiani possono essere testimoni della Risurrezione di Gesù.

Ma questo concretamente cosa vuol dire?
Proviamo allora anche noi a chinarci e ad entrare nel sepolcro.

La pietra del sepolcro
Il modo con cui una civiltà elabora una cultura sulla morte e sui morti (da imbalsamare, da tumulare, da bruciare…), dice anche la propria visione del mondo, dell’uomo e di Dio.

Vi siete mai chiesti per quale ragione gli ebrei seppellivano i morti nella roccia? Scavare la roccia non è facile come scavare la terra. Perché non li seppellivano nel suolo? Perché complicarsi la vita a scavare nella viva roccia? E in più scolpire un enorme masso di pietra circolare che viene fatto rotolare all’entrata del sepolcro?
Evidentemente questo obbediva a una ben determinata visione del mondo.
Anche per gli ebrei il mondo dei vivi era radicalmente separato dal mondo dei morti. E andavano tenuti separati! Cosa di meglio di una caverna artificiale scavata nella dura roccia e con un masso inamovibile che ne impedisce l’apertura col rischio di comunicazione tra i due mondi? Cosa sarebbe accaduto se il mondo dei morti avesse invaso quello dei vivi? Certi film dell’horror riprendono questa paura ancestrale…

Per gli ebrei, Dio stesso, il mondo di Dio, il Dio che ha parlato ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, ai profeti… non ha niente a che fare con questo mondo dei morti! Dio è il vivente… che c’entra con i morti? Quindi per l’ebreo il mondo di Dio era incomunicabile con questo Sheol ( così gli ebrei chiamavano il mondo dei morti). Era un mondo immaginato, non molto diversamente dal nostro inferno, come un luogo di oscurità, di polvere, di una vita che però non era vera vita.
I morti non lodano il Signore ripetono i salmi e Giobbe (cfr anche Isaia 38,18ss)! Eppure questo era il destino dell’umanità e prima o poi ciascuno sarebbe entrato a farvi parte.
Per questo la fede nella risurrezione dei farisei non cambiava le carte in gioco: perché era una risurrezione non molto diversa dalla maledizione di continue reincarnazioni delle religioni orientali.

Solo la Risurrezione di Gesù cambia radicalmente la visione delle cose. Ed è proprio questo che testimoniano i racconti evangelici con pochi ma significativi indizi che sorprendono i discepoli.
Ecco la sorpresa o meglio le sorprese: Il masso che teneva ben separati i due mondi era stato rotolato via. I due mondi comunicano, diventano un mondo solo! Non esiste più il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Potete ben immaginare ora la paura? E come la fantasia galoppasse…
Ma ecco la seconda sorpresa: il mondo dei morti è vuoto! È un mondo svuotato dal Cristo… Lo Sheol, l’Ade, gli Inferi, non sono più il destino dell’umanità…
In Cristo Dio ha inaugurato un nuovo mondo, il mondo di Dio. Dove l’uomo può fare esperienza non della “vita eterna” (che nell’immaginario comune noi concepiamo come una vita “da morto”), ma della vita dell’Eterno. La vita dell’Eterno non è più appannaggio di coloro che vivono nell’aldilà ma offerta a ogni uomo, in qualunque inferno o mondo si trovi.
Da qui la grande gioia di cui parla Matteo e che pian piano fa capolino anche nel vangelo di Giovanni.

Il regno di Dio
Annunciare il Cristo risorto allora vuol dire uscire da questo schema dualista fatto di aldilà e aldiquà, perché non c’è più l’aldilà o l’aldiquà, ma ce solo l’essere in Dio. Un mondo che siamo chiamati a riscoprire pian piano e che tutti ci accomuna vivi e morti. Dove possiamo ben capire, non ha più importanza essere vivi o morti, ma ciò che conta essere “in Dio”.

Significativa a questo proposito è proprio la seconda lettura tratta dalla lettera ai Colossesi (3,1-4) di san Paolo e che fa propria questa nuova visione che facciamo così fatica a fare nostra:

Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.

Siete risorti con Cristo: Paolo sta parlando ai vivi, dei vivi: dunque noi non abbiamo più bisogno di essere morti per risorgere (mentre noi pensiamo alla risurrezione come un avvenimento post-mortem). Certo anche i morti risorgono in Cristo, ma questo non vuol dire che non risorgano anche i vivi.
Cristo seduto alla destra di Dio: non nell’aldilà, in un altro mondo quello dei morti, ma nel modo di essere di Dio.
Voi infatti siete morti: sta parlando ai vivi e li chiama “morti”. Invita a superare la visione dei due regni: esiste un solo mondo, vivi o morti che siamo, il mondo di Dio (vita … in Dio)!
Sarà manifestato… apparirete: tutto questo al compimento della storia sarà manifesto e verrà rivelato il senso della storia di ciascuno. Ecco perché ora “la vita in Dio” è nascosta. La prospettiva è storica, sebbene nel suo significato escatologico e trascendente ma esclude radicalmente, smontandola, la prospettiva “pagana” dei mondi separati. C’è una sola separazione: vivere (da vivi o da morti) in Dio o “vivere” (da vivi o da morti) non in Dio.
Il passaggio successivo sarà che morti non sono i morti ma coloro che non vivono in Dio anche se vivi, e vivi sono non i vivi ma coloro che vivono in Dio anche se defunti.

Compreso questo, possiamo verificare concretamente come nella nostra visione delle cose, noi siamo ancora troppo prigionieri del vecchio schema, per cui Cristo è assente da questo mondo, lo concepiamo come vivente altrove, in un altro mondo, in un aldilà del regno dei morti, sebbene nella gloria del Paradiso… E allora che Pasqua è? Che Pasqua festeggiamo? Con questa nostra visione delle cose, noi la vanifichiamo!
Dobbiamo invece cominciare a riscoprire – perché la nostra gioia sia piena – questa novità della Pasqua, che non è semplicemente la storia di un morto che cammina… ma la possibilità data ad ogni uomo di vivere già ora – vivo o defunto che sia – nel “ tempo del mondo di Dio”.

Se questo è vero allora si può ben capire quanto sia legata ai vecchi schemi tutta la nostra paura di morire, di far parte del regno dei morti. Quanto sia pagano tutto il nostro affannarci per ritardarne il momento. Ma se ciò che conta è essere “nel regno di Dio”, essere in quello dei vivi o dei morti non importa. Ed è proprio questo l’“ultimo” capovolgimento della Pasqua per noi che cerchiamo disperatamente di fuggire a una morte che si fa ogni giorno di più inevitabile.
Nella Risurrezione di Gesù è sancita definitivamente una verità che fa fatica ad entrarci nel cuore e nella mente perché capovolge la nostra prospettiva. Se c’è una vita riuscita è proprio la vita di Gesù, una vita che noi non seguiamo perché nel profondo del nostro cuore, siamo convinti (in un certo senso a ragione!) che se la mettessimo in pratica sarebbe – per quanto eroica – storicamente fallimentare.
Ebbene la Pasqua è la proclamazione di questa verità che ci fa paura: Tutto il successo che noi cerchiamo di avere nel nostro concreto vivere è dichiarato, lui sì, “definitivamente morto”. E ciò che “vive e dà vita” è quella vita e quella morte, sempre da riscoprire e ricomprendere, che Gesù ha vissuto.

I nostri maldestri tentativi di ridurre il dramma della Risurrezione dimenticano quindi che se Gesù non fosse risorto (perché “ridurre” è di fatto “negare”), avremmo forse pianto la morte ingiusta di un uomo eccezionale, avremmo forse anche cercato di custodirne gli insegnamenti e i valori… ma come tutti, avremmo continuato ad avere come destino la ricerca di un successo mondano che dopo aver fatto strage di ogni uomo o donna considerati rivali, si sarebbe comunque concluso nel “regno dei morti”.

Ora invece “il Signore è Risorto”, il regno dei morti non ci avrà perché ciò che ci irrompe semmai è il regno di Dio.

venerdì 8 aprile 2011

V Domenica di Quaresima: L’amore più forte della morte

Anche questa quinta domenica di Quaresima ci propone un brano di vangelo assai lungo e assai impegnativo: la risurrezione di Lazzaro. Anche questa domenica allora, preferisco non dilungarmi troppo e lasciare che a parlare sia la Parola. Accenno solo all’elemento che mi ha colpito di più… Il testo racconta di tutta la vicenda che riguarda la morte di un amico di Gesù, Lazzaro… una vicenda che – attraverso la notizia che raggiunge Gesù, il suo cammino per raggiungere Betania, i suoi dialoghi con i discepoli e con le sorelle Marta e Maria – arriva fino al miracolo della risurrezione…


Di fronte ad un episodio del genere, mi è venuto da pensare: “Io avrei subito fatto un’intervista a Lazzaro!”. Avrei voluto infatti sapere da lui cosa ha voluto dire morire e restare morto… Cosa ha sentito, cosa ha provato, cosa ha visto… sempre ammesso che qualcosa abbia sentito, provato e visto… E invece nel testo Lazzaro non dice niente! Niente! Né qui, né più avanti, quando Gesù tornerà in questa casa poco prima della sua morte.

A nessuno viene in mente di chiedergli niente! Com’è possibile??!!?? Passiamo tutta la vita preoccupati (angosciati?) dalla prospettiva che prima o poi tutti (tutti!) muoiono (anche i nostri cari, anche noi)… e quando c’è lì uno che è tornato indietro dal regno dei morti, non gli chiedono niente… Strano! Troppo strano! Ci deve essere una spiegazione…
E io credo sia questa: ancora una volta, al centro della scena c’è Gesù, non Lazzaro; c’è la sua Verità, non le nostre paure.

Come scrive un biblista – infatti – in questo testo «Alla base vi è senza dubbio un’antica tradizione su un miracolo di risurrezione compiuto da Gesù, nettamente riconoscibile anche entro gli sviluppi teologici del racconto giovanneo. Nel quale tuttavia alcuni particolari svolgono un’importante funzione interpretativa del “segno” operato da Gesù. […] Come sempre, Giovanni è fedele alla concretezza dei ricordi, anche se la sua massima aspirazione è quella di interpretarli per un’efficace educazione alla fede dei suoi lettori» [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 219]. In gioco, allora, vi è nuovamente l’identità di Gesù. Esattamente come nel brano del cieco nato, che non a caso, fa da pendant con questo («Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» / «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio»); anche qui infatti troviamo una confessione di fede su Gesù da parte, stavolta di Marta, accompagnato ad un dire qualcosa di sé da parte di Gesù stesso: «Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”. Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”».

«L’atto di fede di Marta riprende tutti quelli che l’hanno preceduto: quello di Natanaele (1,49: “il Figlio di Dio, il Re d’Israele”), dei samaritani (4,29.41: “Il Messia… il Salvatore del mondo”), di Pietro (6,69: “Il Santo di Dio”), del cieco guarito (9,35-38: “Il Figlio dell’uomo”)» [Ivi, 228] e ci riporta al centro del testo: chi è Gesù? È colui che vince la morte!

Questo è quello che deve catturare la nostra attenzione. Questo è quello che cattura l’attenzione degli astanti. Questo è quello che Giovanni vuole sottolineare nel suo vangelo. Noi invece ce ne dimentichiamo perché lo diamo per scontato… talmente scontato che – se fossimo stati giornalisti – avremmo intervistato Lazzaro e non Gesù… talmente scontato che quasi non gli diamo più peso… forse anche perché il «… se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» di Marta e Maria «vale per tutti i morti, tanto più per quelli che non hanno neanche uno che li piange e che prega per loro! È un lamento che si può rivolgere solo a Dio. È il lamento che fonda ogni religione e la rende indistruttibile, come la morte che lo genera. Tiene viva la religione, ma ne è anche è la spina mortale, che la rende debole, sostanzialmente inaffidabile, perché non è nei poteri di Dio di impedire che gli uomini muoiano... E infatti continuano a morire, nonostante questa implorazione salga a Dio milioni di volte al giorno. E gli uomini ne concludono sempre più che… Dio è inaffidabile! Ancora una volta però il volto di Dio rivelato da Gesù (il volto di suo Padre, che solo lui conosce… e quelli a cui vuole rivelarlo!) non assomiglia per niente al volto del Dio che ci hanno trasmesso e pure rimane così difficilmente sradicabile dal nostro cuore» [Giuliano]. Infatti… In che modo Gesù è tutto questo?

«Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro», «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Guarda come lo amava!”. Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”. Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra».

«È buona cosa tener ben ferme queste tre coordinate dell’animo di Gesù: pianto, fremito interiore, turbamento… Non si tratta solo di arricchire la conoscenza profonda del Gesù storico, ma soprattutto di prendere contatto con quella veemenza vitale che si agita in Lui, da cui scaturirà irresistibile il prodigio» [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 234]. È cioè perché ha questa empatia fortissima col dolore dell’uomo… (e delle donne, in particolare con Maria… la sua Maria – come si vedrà in Gv 12 e in Gv 20: Mentre infatti «Marta proclama di credere in Gesù Signore della vita (v. 22); Maria col suo atteggiamento prepara il gesto sovrumano di Gesù: col suo pianto provoca il pianto di Gesù (vv. 33-34), con le sue parole di amorevole protesta (v. 32: le stesse della sorella! [«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!»]) pone la premessa per il miracolo di risurrezione» » [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 230])… è cioè perché ha questa empatia fortissima col dolore dell’uomo che Gesù può dargli la vita (in entrambi i sensi che può avere quest’espressione: non a caso siamo nell’anticamera del racconto della Passione!).

Ecco perché il volto di Dio rivelato da Gesù non è più quello inaffidabile della religione, ma quello affidabile della fede: «Gesù si oppone ad una specie di rassegnazione omertosa alle situazioni di malattia, di oppressione e schiavitù sociali o religiose o economiche… Non accetta l’acquiescenza all’insensatezza della morte, che anestetizza l’istintiva protesta elaborando il lutto attraverso razionalizzazioni e riti, ma che di fatto corrode la fiducia nella vita sbarrando all’amore il suo futuro. L’amore che cerca una strada per salvare a tutti i costi la vita non deve essere deviato nel mondo irreale dei sogni e delle ombre. […] La compagnia, la solidarietà, la compassione d’amore e d’amicizia sono il dono più grande che ci è fatto sulla terra, la spiaggia estrema della speranza. Perché hanno dentro appunto la pretesa mite e struggente della continuità (che i filosofi chiamano immortalità), altrettanto inestirpabile dentro di noi quanto la certezza della morte» [Giuliano]. Per questo, muore, amando i suoi fino alla fine! Non tradendo mai cioè la fede in quella continuità per cui l’amore è più forte della morte! E per questo Dio lo risusciterà… Perché in quell’amore lì, si riconoscerà in maniera definitiva. Ma che in quell’amore lì, Dio – suo Padre – si sarebbe riconosciuto, Gesù lo sapeva da sempre, perché sapeva che così era il Padre suo. Ecco perché può dire: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno». «Questa pretesa sbalorditiva è il cuore della vita e del messaggio di Gesù! La resurrezione di Lazzaro è solo l’occasione per la manifestazione del vero mistero di Gesù. Infatti quella di Lazzaro non è propriamente una risurrezione ma la rianimazione di un cadavere e Lazzaro non entra in un nuovo livello di vita (“eterna”, cioè non più mortale), ma morirà ancora! "La risurrezione della carne", che professiamo nel Credo, è " la vita eterna". Questo è il destino che ora Cristo restituisce all'uomo: non una rivivificazione (o una reincarnazione!), ma una pienezza di vita, la vita stessa di Dio! “Chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo?” Tale rimane per sempre la domanda che assilla il cristiano e la chiesa dentro la storia di questo mondo, e sulla fede in “questo!” si decide e si qualifica la sua vita e la sua morte. Infatti è la fede in Cristo che riscatta dalla morte, ieri come oggi. Gesù è risuscitato per essere "il primogenito dei risorti", non un caso unico. Ha fondato con la sua morte una nuova solidarietà creaturale, un’appartenenza eterna che non sarà mai più insidiata dalla morte: […] "quel medesimo Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11)» [Giuliano].
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