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martedì 8 settembre 2015

XXIV Domenica del Tempo ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 50,5-9a)

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

 

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Giac 2,14-18)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 8,27-35)

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

 

In questa Ventiquattresima Domenica del Tempo Ordinario la Chiesa ci propone – come brano di vangelo – il testo che sta al centro dello scritto di Marco.

Il vangelo di Marco, infatti, proprio all’inizio (cap. 1, v. 1) diceva: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio». Il che è curioso, se si pensa che i biblisti ci hanno insegnato che questo evangelista scrive per rispondere alla domanda “Chi è Gesù?”. È dunque curioso che inizi così, perché già nella sua prima riga sembra dare la risposta: è il Cristo, il Figlio di Dio.

Ma… Cosa vuol dire essere il Cristo, il Figlio di Dio? Ecco tutto il resto del vangelo: come se Marco dicesse, la riposta te l’ho data, ma adesso devi riempirla di senso.

Non a caso le “parole chiave” Cristo e Figlio di Dio ritornano nei momenti decisivi e vanno così a segnare la struttura del vangelo: Cristo si ripresenta a metà del vangelo (alla fine del primo tempo, per parlare in gergo cinematografico) e Figlio di Dio alla fine del secondo tempo e del film (Mc 15,39 «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!»).

Solo allora potremo davvero rispondere sensatamente alla domanda “Chi è Gesù?”.

Il brano di oggi corrisponde a quello in cui è contenuta la prima parola chiave: Mc 8,29 «Tu sei il Cristo».

Ci troviamo dunque esattamente al centro del vangelo di Marco, dove ricorre il famoso testo della confessione di fede di Pietro, con tutto quanto segue: il primo annuncio di Gesù della sua passione, il rimprovero di Pietro, il noto “Vade retro Satana” e le parole di Gesù sul discepolato: «Se qualcuno vuol venire dietro a me…».

Questo testo è importantissimo per la fede cristiana perché in esso è strutturato l’itinerario della fede:

-       il primo passo è rispondere alla domanda – rivolta dal Signore a ciascuno di noi “Chi dite che io sia?”;

-       il secondo, è decidere di seguire il Signore («Se qualcuno vuol venire dietro a me»);

-       il terzo, è rinnegare se stessi;

-       e l’ultimo è prendere la propria croce.

Si tratta di un itinerario che in qualche modo scandisce il progredire della vita cristiana, ma che, contemporaneamente, è sempre inesauribile… Ci si ritrova – nelle varie fasi della vita – a ripercorrerlo sempre daccapo, quasi come una spirale che ritorna sempre sulle stesse questioni, ma ogni volta a profondità diverse.

Ma… andando un po’ più a fondo: Cosa vogliono dire queste espressioni? Proviamo a guardarle più da vicino…

mercoledì 17 giugno 2015

XII Domenica del tempo ordinario


Dal libro di Giobbe (Gb 38,1.8-11)

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 5,14-17)

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 4,35-41)

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

 

Questo brano di vangelo, difficile da spiegare nel suo senso letterale, spesso è stato interpretato metaforicamente: per cui la barca sarebbe la Chiesa, scossa dal vento e dal mare in tempesta (un mare che rappresenta il male) e che si spaventa. Il Signore – fortunatamente –, seppur inizialmente dorma e alla fine concluda con una sgridata, esaudisce il desiderio dei discepoli di “tirarli fuori dai pasticci”, misericordioso nei confronti della loro debolezza.

A partire da questa lettura poi spesso si evincono tutta una serie di considerazioni sulla Chiesa (che poverina – in questi tempi – pare proprio scossa dal vento e dal mare tempestoso), sul Signore (che pare dormire, ma c’è e quando la situazione si fa grama – tac – arriva infallibilmente), sulla fede (dato che crediamo in un Dio apparentemente dormiente, ma in realtà infallibile, non bisogna temere, ma avere fede).

Io credo che questa lettura non riesca più a parlare al nostro cuore.

Anche perché l’intento dell’evangelista Marco non mi pare sia tanto il destino della Chiesa e tutte le considerazioni dei parroci in merito, quanto piuttosto il tratteggiare una situazione esistenziale che è propria di ciascun uomo e che è ben riassunta nelle due domandine messe in bocca a Gesù alla fine dell’episodio: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

Che la vita sia una tempesta e che il Signore dorma (cioè appaia lontano, assente, ecc…) è un dato di fatto: questa è la base di partenza di chiunque si ponga a guardare alla storia (umana, ecclesiale, personale) senza troppi ghirigori.

Ma il problema del brano non è questo: questa è la condizione di partenza. È una situazione data.

Il centro del brano, e quindi dell’interesse dell’evangelista, è piuttosto quanto segue: cioè il fatto che in questa situazione data, in questa condizione che è la vita (non una fase brutta della vita, o un periodaccio, ma tutta la vita), l’uomo – anzi il discepolo! – si ponga come colui che dice: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

Il problema cioè è l’immediata associazione tra “vita” (sempre tempestosa) e “disinteresse di Gesù”: la questione cioè è esattamente la stessa descritta in Gen 3 nel racconto del peccato originale. Anzi, in questo brano è rinarrato il peccato originale (qui non dell’uomo in generale, ma del discepolo): la messa in discussione del volto benevolo di Dio a partire dalla tempestosità della vita. Tant’è che, come dicevamo, il brano si conclude con le domande: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

Le due domande non sono casuali, ma – ovviamente – la seconda implica la risposta alla prima: avete paura perché non vi fidate di me! Ecco la messa in discussione del suo volto buono. Non ci si fida di chi non si conosce o di chi si teme abbia una doppia faccia.

Il problema infatti è proprio questo: il discepolo dovrebbe essere colui che alla luce della sua relazione di fiducia con Dio (fede), con il Dio di Gesù, che conosce e del cui volto buono, proprio perché lo conosce, non può dubitare, non ha più paura.

Sarebbe interessante ripercorrere le nostre paure, analizzarle, cercarne la fonte e provare a capire in che senso la fiducia – fondata sulla conoscenza – nel volto solo buono di Dio possa spegnerle.

Perché ovviamente non tutti i sensi in cui sciogliamo le nostre paure con la fede sono corrette (cioè evangelicamente corrette: per esempio se ho paura di essere aggredita, non è che la fede mi fa passare la paura di andarmene in qualche postaccio a provocare dei tipacci… perché tanto poi ci pensa il mio dio supereroe).

È per questo che bisogna stare attenti col vangelo: perché si rischia di usare le sue stesse parole per fargli dire qualcosa di diverso da quello che era sua intenzione (non a caso il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che Parola di Dio non è quello che capisco io, o chi per me, ma l’intenzione dell’autore).

E allora io credo che – indubbiamente – un altro punto di partenza per la tavola rotonda che già invocavo (parlando della messa) che ci permetterebbe pian piano di andare a sondare i contenuti della nostra fede cristiana, potrebbero proprio essere queste due domande:
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

martedì 24 giugno 2014

Santi Pietro e Paolo


Dagli Atti degli Apostoli (At 12,1-11)

In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, fece arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Àzzimi. Lo fece catturare e lo gettò in carcere, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua.

Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere.

Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione.

Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui.

Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 4,6-8.17-18)

Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.

Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.

Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.

Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 16,13-19)

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».

Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

 

In questa Domenica si celebra la Solennità dei Santi Pietro e Paolo.

È una festa che solitamente si celebra nel giorno della settimana in cui cade – facendone memoria la domenica solo nelle Parrocchie che hanno uno di questi santi (o entrambi) come patroni.

È l’occasione per me per andare con la memoria alla mia parrocchia di provenienza, quella della zona nord di Treviglio, dedicata a S. Pietro ap., che mi ha formato come donna e come cristiana.

È soprattutto per questo che nella mia riflessione vorrei concentrarmi su Pietro, uomo semplice (pescatore di Galilea, che – pare – non sapesse né leggere né scrivere) e contemporaneamente contorto (guida di tutti gli altri e rinnegatore di Gesù)… come forse un po’ tutti noi.

Ricordo che diversi anni fa, qualcuno mi disse: a me piace la gente dalla fede intonsa, non come quella di Tommaso o Pietro che hanno dubitato e rinnegato… perché se uno ci crede… ci crede…

Mi avevano stupito quelle parole – allora – e mi si erano incastonate – come a volte accade – in quegli spazietti della nostra testa che fanno un po’ da sala d’aspetto del dentista… in fila, in attesa del loro turno, ma pervicaci nel non andarsene fino a che non siano state esaminate.

Ed ecco che giorno per giorno tornavano a darmi da pensare…

La sensazione immediata era di nervosismo verso una persona che mi smontava un mito: san Pietro, il patrono della mia chiesa… come potevano dirmi che non aveva una fede intonsa?

Ma poi – scemata la reazione istintiva – tante domande: ma cosa avrà inteso con “fede intonsa”? Esiste una “fede intonsa”?

E pian piano si è fatta strada questa riflessione: ogni fede “intonsa” è falsa…

… perché salta la storia, cioè la temporalità e la carnalità, che sono i due ingredienti imprescindibili della nostra vita.

Così imprescindibili che Dio – quando ha voluto farsi conoscere definitivamente da noi – li ha assunti: si è fatto come noi, temporale e carnale.

La “temporalità” non vuol dire solo che il tempo passa, che si cresce, si matura, si invecchia e poi si muore… certo, anche questo: ma soprattutto vuol dire che per capire, per imparare, per abituarsi, per decidere, per valutare, l’uomo ha bisogno di tempo: un tempo in cui le sensazioni, le emozioni, i valori, le priorità, gli egoismi, gli slanci di gratuità sono tutti mischiati insieme come in un flusso – lento nell’insieme – ma con le varie correnti interne che vanno a velocità diverse – alcune velocissime, alcune al rallentatore.

Ecco perché – se non fosse troppo abusata – sarebbe proprio giusto ricordare la pertinenza della frase “ci vuole una vita…”…

… per imparare ad amare, ad esempio…

Cioè a far emergere da quel flusso una direzione che coincida con quella indicata da Gesù: dare la vita per…

Così come “carnalità” non vuol solo dire che siamo tentati da passioni erotiche o egoistiche… ma vuol dire che la nostra vita è un impasto di libertà (un amico diceva il 2%) e biologia, chimica, fisica…

Un impasto! Cioè non si può pensare che la nostra libertà sia separata dal restate 98%, ma che è la capacità – che solo l’uomo su questa terra ha – di indirizzare quel 98% verso qualcosa di diverso… che scegliamo noi!

Come dire: scegliamo chi essere, scegliamo che carne essere, cosa farne della nostra carne – che è la cosa più bella che abbiamo, perché senza di lei semplicemente non ci siamo, non esistiamo (tant’è che la fede cristiana proclama di credere nella risurrezione della carne e non dalla carne, come qualcuno – sbagliando – recita a messa e vive nella vita).

Ed è così che Pietro, che nella lettura di oggi dice una cosa strepitosa («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»), tanto che Gesù lo loda e lo istituisce guida della Chiesa («Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»), è poi anche quello che lo rinnega e poi anche quello che prende per mano davvero la prima Chiesa e poi anche quello che non capisce l’apertura di Paolo verso i non ebrei, ma poi però – dopo una gran discussione (raccontata in At 15) – gli dà retta e poi va a finire sulla croce…

Davvero Pietro è da prendere da esempio nella sua fede non intonsa, non falsa, ma tanto storica e perciò vera.

Che vuol dire smetterla…

… di credere di essere cattivi credenti perché non abbiamo fedi indefettibili, pure e sempre sorridenti…

O … di far la fine di chi smette di credere perché pensa di non essere all’altezza…

Ma finalmente convincersi che essere veri cristiani significa essere veri umani…

… ricordando che se ci vien facile dire che chi ammazza, violenta, percuote è disumano…

… forse lo è molto di più convincersi che chi ammazza, violenta, percuote non è uomo.

giovedì 21 febbraio 2013

Il pastore e il lupo

Lo Spirito di Cristo insegna a vedere oltre la maschera

Riporto integralmente qui quanto pubblicato nel sito “100 passi”.
Il post parla della vicenda sotto certi aspetti surreale di una senatrice del Pdl che scrive ai parroci non solo per avere il voto, ma per chiedere sostegno politico, riducendo di fatto le parrocchie a una succursale politica del suo partito!
Alla lettera della senatrice ammiccante presunti “valori non negoziabili” di cui si sentirebbe lei e il suo partito novelli crociati, segue la risposta franca ma cortesissima di don Gianfranco Formenton che da a lei (e ai cattolici che non l’avessero ancora capito) qualche lezione anche di sani principi morali sui cosiddetti “valori non negoziabili” che non possono non comprendere la dottrina sociale della Chiesa! Mentre – aggiungo io – la miopia pastorale non comprende che da questi dipendono le possibilità di una difesa non ipocrita degli altri: non è un caso, sottolinea anche don Gianfranco, che nei Vangeli proprio quelli sociali hanno l’esclusiva preoccupazione di Gesù e degli Apostoli.
(NB: le sottolineature sono mie)

LA LETTERA DELLA SENATRICE
Perugia, 8 febbraio 2013

Gentile Parroco,
mi sono decisa a scrivere questa lettera ai pastori del popolo cristiano dell'Umbria perché, dopo cinque anni trascorsi in Senato, so con certezza che nei primi mesi della prossima legislatura dovranno essere affrontati in Parlamento parecchi argomenti che riguardano temi etici importanti e delicatissimi. Mi riferisco, tra le altre, alle disposizioni sul fine vita (chi non ricorda il caso Englaro), alla legge sul matrimonio per le coppie omosessuali, all'adozione di bambini nelle stesse coppie omosessuali, alle problematiche sull'uso degli embrioni, all'apertura all'aborto eugenetico (che, di fatto, si va già diffondendo).

In Parlamento, lo scorso anno, ho costituito, assieme ad altri colleghi, l'Associazione parlamentare per la Vita. Una Associazione che è stata un baluardo contro ogni attacco volto a modificare in senso negativo la nostra legislazione. Malgrado ciò recenti orientamenti dei giudici hanno intaccato lo stesso dettato costituzionale in tema di famiglia, di adozioni e di fine vita.
Immagino che sulla politica economica del mio partito non tutto possa essere pienamente condivisibile e che, magari, alcuni preferiscano soluzioni diverse da quelle che abbiamo proposto o che abbiamo in programma di fare. Sui temi etici però, a differenza di altri partiti, il PdL è stato sempre unito e coerente, perché composto da molti cattolici e da altri che si definiscono laici adulti, la cui formazione culturale e politica è in ogni caso improntata al rispetto di tutti i valori non negoziabili. Se di politica economica si può discutere (ma io ho sempre lottato per orientare al bene comune l'azione dello Stato), su queste tematiche non ci sarà possibilità di mediazione. Mediare significherebbe comunque accettare che, prima o poi, si compia un'escalation che ha come traguardo la modificazione dei valori di fondo della nostra società, da ultima, per usare la denuncia dei vescovi spagnoli, la separazione della sessualità dalla persona: non più maschio e femmina, ma il sesso sarebbe un dato anatomico senza rilevanza antropologica.
È necessario che nel futuro Parlamento ci sia un numero di persone sufficienti a non far passare leggi contro la famiglia, l'uomo e la sua vita. Io mi sono impegnata e mi impegnerò in questo senso. Per questo chiedo anche il Suo sostegno e ringrazio per tutto quello che riterrà di fare.
Devotamente saluto,
Ada Urbani
candidata PdL al senato
www.adaurbani.it

LA RISPOSTA DI DON GIANFRANCO FORMENTON
Spoleto, 12 febbraio 2013

Gentile Senatrice,
ho ricevuto la sua lettera ai pastori del popolo cristiano dell'Umbria e ho deciso di risponderle in quanto pastore di una parte di questo popolo al quale recentemente il Card. Bagnasco ha raccomandato, dopo alcune eclatanti ed astrali promesse elettorali, di non farsi abbindolare.

Vedo che nella sua lettera lei parla in gran parte dei cosiddetti temi etici che lei riferisce unicamente ai luoghi comuni che tutti i politici in cerca di voti e consensi toccano quando si rivolgono ai cattolici: il fine vita, le unioni omosessuali, gli embrioni, l'aborto.

La ringrazio anche per la citazione dei vescovi spagnoli e per il suo impegno per la formazione culturale e politica improntata al rispetto di tutti i valori non negoziabili.

Ma rivolgendosi ai pastori del popolo cristiano lei dovrebbe ricordare che tra i valori non negoziabili nella vita, nella vita cristiana e soprattutto in politica entrano tutta una serie di comportamenti di vita, di etica pubblica e di testimonianza sui quali non mi sembra che il partito di cui lei fa parte né gli alleati che si è scelto siano pienamente consapevoli.

Sarebbe bello stendere un velo pietoso su tutto ciò che riguarda il capo del suo partito, sul quale non credo ci siano parole sufficienti per stigmatizzare i comportamenti, le esternazioni, le attitudini pruriginose, le cafonerie, le volgarità verbali che costituiscono tutto il panorama di disvalori che tutti i pastori del popolo cristiano cercano di indicare come immorali agli adulti cristiani e dai quali cercano di preservare le nuove generazioni.

Sarebbe bello ma i pastori non possono farlo perché lo spettacolo indecoroso del suo capo è stato anche una vera e propria modificazione dei valori di fondo della nostra società (come lei dice) operata anche grazie allo strapotere mediatico che ha realizzato una vera e propria rivoluzione (questa sì che gli è riuscita) secondo la quale oramai il relativismo morale, tanto condannato dalla Chiesa, è diventato realtà. Concordo con lei, su questo mediare significherebbe accettare.

Un'idea di vita irreale ha devastato le coscienze e i comportamenti dei nostri giovani che hanno smesso di sognare sogni nobili e si sono adagiati sugli sculettamenti delle veline, sui discorsi vacui nei pomeriggi televisivi, sui giochi idioti del fine pomeriggio e su una visione rampante e furbesca della politica fatta di igieniste dentali, di figli di boss nordisti, di pregiudicati che dobbiamo chiamare onorevoli.

Oltre a questo lei siederà nel Senato della Repubblica insieme a tutta una serie di personaggi che coltivano ideologie razziste, populiste, fasciste che sono assolutamente anti-cristiane, anti-evangeliche, anti-umane. Mi consenta di dirle francamente che il Vangelo che i pastori annunciano al popolo cristiano non ha nulla a che vedere con ideologie che contrappongono gli uomini in base alle razze, alle etnie, alle latitudini, ai soldi e, mi creda, mentre nel Vangelo non c'è una sola parola sulle unioni omosessuali, sul fine vita e sull'aborto: sulle discriminazioni, invece, sul rifiuto della violenza e su una visione degli altri come fratelli e non come nemici ci sono monumenti innalzati alla tolleranza, alla nonviolenza, all'accoglienza dello straniero, al rifiuto delle logiche della furbizia e del potere.

Mi dispiace, gentile senatrice, ma non riterrò di fare qualcosa né per lei, né per il suo partito, né per i vostri alleati, anzi. Se qualcosa farò anche in queste elezioni questo non sarà certo di suggerire alle pecorelle del mio gregge di votare per quelli che mi scrivono lettere esibendo presunte credenziali di cattolicità.

Mi sforzerò, come raccomanda il cardinale, di mettere in guardia tutti dal farsi abbindolare da certi ex-leoni diventati candidi agnelli. Se le posso dare un consiglio, desista da questa vecchia pratica democristiana di scrivere ai preti solo in campagna elettorale, e consigli il suo capo di seguire l'esempio fulgido del Papa. Sarebbe una vera opera di misericordia nei confronti del nostro popolo.
don Gianfranco Formenton

lunedì 7 gennaio 2013

La verità è in cammino: seguila!


Ecco un brano evangelico (Mt 2,1-12) che mette a nudo la mia ignoranza della cultura ebraica… non parlo tanto di quella biblica che già è notevole, ma proprio della cultura ebraica in quanto tale soprattutto dei tempi in cui gli apostoli scrivono.

Intanto dalle letture che la liturgia ci offre, si evince quel grande capovolgimento di mentalità che appare nel Nuovo Testamento. In Isaia (prima lettura: Is 60,1-6), che parla agli ebrei esiliati in Babilonia, viene fatto rivivere il “sogno” della Gerusalemme lontana… una Gerusalemme che rinasce dalle sue ceneri e che accogliendo i deportati dalla cattività babilonese diventa il luogo dove tutta l’umanità trova il suo centro… Paolo (seconda lettura: Ef 3,2-3a.5-6) rivela che questo centro, questa Gerusalemme non è un luogo geografico, anzi non è proprio un luogo, ma un cuore, una carne, un volto, insomma una persona concreta: Gesù Cristo immagine trasparente di Dio Padre. Lui è la vera Gerusalemme ove ogni popolo senza sentirsi umiliato, senza dover rinunciare alla propria specificità (ri)scoprirà se stesso come “luogo” abitato da Dio perché da sempre da lui amato.

Ma cosa c’entra allora la stella? E i maghi (e non pudicamente magi e che comunque non hanno niente a che vedere coi ciarlatani di oggi)? È qui che si rivela la vergogna di non conoscere come si dovrebbe la cultura in cui sono immersi gli apostoli e quindi gli scritti del Nuovo Testamento…
Tutto inizia – come sempre per un pio giudeo – da uno scritto biblico… Ebbene nel libro dei Numeri ad un certo punto Balak re di Moab nemico di Israele fa chiamare il “mago” Balaam e gli chiede di maledire Israele… E questi non solo non lo maledice ma lo benedice con queste parole (Nm 24,15ss):

«Oracolo di Balaam, figlio di Beor,
oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante,
oracolo di chi ode le parole di Dio
e conosce la scienza dell’Altissimo,
di chi vede la visione dell’Onnipotente,
cade e gli è tolto il velo dagli occhi.
Io lo vedo, ma non ora,
io lo contemplo, ma non da vicino:
una stella spunta da Giacobbe
e uno scettro sorge da Israele
…»
 
È proprio a partire da qui che tutto Israele si è messo a cercare “la stella che spunta da Giacobbe (un altro modo di chiamare Israele: cfr Gen 32,28) e che regnerà e dominerà (scettro) su tutti i popoli… Da qui l’idea di un Messia condottiero, politico e militare… Idea che come sappiamo Gesù cercherà di scardinare senza riuscirci (lo faranno fuori anche per questo!)… Ed ecco spiegata anche la domanda dei Maghi e la motivazione della condanna di Gesù posta sulla croce: «Dov’è colui che è nato, “re di Giudei”?».

Ogni tanto quindi nel corso della storia, anche ai tempi degli apostoli, c’era un rabbino che indicava in questo o quel personaggio il “condottiero”, la “stella da seguire”, il Messia liberatore tanto atteso… Puntualmente le aspettative andavano deluse e il sogno si rivelava un incubo invaso dalla repressione militare…
Immaginate ora lo sconcerto, non solo dei giudei ma anche dei cristiani che provenivano da quella fede, di una Gerusalemme rasa al suolo col suo tempio (circa 50 d.C.): Chi dobbiamo attendere? Sorgerà mai una stella che ci porterà luce liberandoci dalle tenebre delle legioni (e fedi) pagane?

Ed ecco che a questo livello si inserisce il brano del Vangelo di oggi, che lungi da essere una fiaba per bambini (cosa di per sé legittima se vogliamo parlare a bambini col linguaggio che i bambini possano accogliere, lo è molto meno quando lo usiamo per parlare agli adulti), è un racconto fortemente polemico e a tratti persino implacabile nel suo giudizio tranciante e iperbolico (cfr lo sproporzionato “tutta Gerusalemme”)…
Che ci sta dicendo Matteo? Ora che abbiamo in parte ricostruito il suo background culturale possiamo provare a darne una spiegazione più plausibile e aderente al testo senza quelle infiorettature romantiche che il folclore vi ha sedimentato…
Matteo era un ebreo convertito al cristianesimo dal giudaismo… parla (scrivendo) a cristiani come lui convertiti dal giudaismo, cresciuti nel “sogno” della Gerusalemme come luogo di ritrovo di popoli e culture definitivamente convertite al Dio dell’ebraismo… e scioccati dal crollo del sogno con la distruzione definitiva del tempio e quindi della possibilità di un “risorgimento” gerosolimitano…
Matteo non ripropone l’antico sogno come farebbe qualunque tradizionalista, non ritorna ad un passato idealizzato, Matteo – in sintonia con gli altri apostoli – mostra che ben altra è la Gerusalemme che Dio ha costruito per tutti i popoli!
Anzi polemizza con “tutta” la Gerusalemme storica (e quindi indirettamente anche con la tradizione profetica anteriore!), che pur conoscendola ha rifiutato (Gv 1,9-11) “la luce che sorge dall’alto” (Lc 1,78) e che illuminerà le genti (Lc 2,32) e i semplici che vorranno accoglierla (Lc 2,9ss)!

Ed è proprio questo che fa emergere tra le righe una fondamentale attualizzazione per noi occidentali malati di esistenzialismo: la verità non è frutto della mia/tua/nostra ricerca… la verità, la luce, la stella, è “data” e ci “precede”. Io devo solo aprirmi ad accoglierla nel nuovo che arriva. E accoglierla vuol dire – come fanno i Maghi – lasciarmi mettere in moto da lei prendendo lei come guida e in suo nome accettare di percorrere strade inesplorate, lasciandomi scomodare verso l’incognito. L’ignoto fisico, spaziale, temporale, ma anche culturale e religioso e politico… Chi non si apre all’ignoto, si chiude in una tomba! L’avevano capito persino i greci e decantato Omero.

Questa è la fede! Che non è un insieme di verità da imparare a memoria, ma una storia da vivere, un terreno continuamente da esplorare che si rivela ogni volta nuovo e mai definitivamente acquisito (e i dogmi non sono tanto dei “punti fermi”, quanto piuttosto linee dinamiche, verità da esplorare). E non nel senso che posso perdere la fede, questo banalmente va da sé, ma qui si vuole sottolineare che la fede è cammino di fede in fede. E ogni volta è “altra” (è così che resta se stessa!) perché l’oggetto della fede, del cammino è q/Qualcuno che è sempre A/altro (da me/noi, dal mio/nostro pensare e amare, dalla mia/nostra storia di fede passata). E infatti anche in questo Matteo sottolinea polemicamente che Erode e la sua Coorte non si muovono!… pur conoscendo le Scritture, pur sapendo che la stella da cercare non andava cercata in cielo ma nella storia concreta di Israele, restano turbati e cominciano a tramare… L’incredulità è sempre figlia della paura della novità, perché il nuovo rompe sempre gli schemi, anche teologici e seguire il nuovo domanda sempre di perdere qualcosa (cfr Mt 19,16-22 e paralleli) (e pur di non perderci, ci si perde in ridicole e fuorvianti ricerche astronomiche che fondino l’attendibilità storica del racconto!).

Anzi Matteo calca veramente la mano quando fa capire che proprio in Gerusalemme (sede del tempio e di ogni istituzione sacra e civile in Israele), i Maghi perdono di vista “la stella” (e infatti devono chiedere, come cercando a tastoni – cfr Atti 17,27 – rischiando di finire tra le grinfie dei nemici della Luce)! E la “ritroveranno” solo quando usciranno da Gerusalemme, “sopra il luogo dove si trovava il bambino” perché la stella “li precedeva”. E solo fuori Gerusalemme provarono “una gioia grandissima” nel ritrovarla.

Non so se noi oggi riusciamo a percepire la violenza “blasfema” che questo scritto evocava nelle orecchie, nelle menti e nei cuori dei suoi interlocutori! E il suo linguaggio poetico mi sembra ne accentui ancora ulteriormente l’impatto. Quasi che il contrasto tra la pacata dolcezza quasi fiabesca del racconto (un bambino-Re) accentui ancor di più l’assurdo agitarsi tenebroso di “tutta Gerusalemme” che lo ripudia.
E infatti la drammaticità del racconto che si coglie tra le righe del linguaggio “infantile”, sfocerà nella tragedia della strage degli innocenti…

Il nostro vero peccato a ben pensare sta tutto qui: nell’avere depotenziato il Vangelo al punto da averne svuotato la portata di stravolgimento culturale e religioso! L’abbiamo reso “politicamente corretto” e forse è per questo che non riesce più a smuoverci dal nostro torpore…

Un’ultima osservazione la dedico solo ai doni dei Maghi, riportandola nel contesto all’intenzionalità dell’autore.
Tutta la bibbia rappresenta Israele secondo tre coordinate fondamentali:
1) A Israele tutto, prima che ai suoi re, spetta la dignità regale; 2) Israele tutto è un popolo di sacerdoti; e 3) Israele nel suo insieme è la sposa del Signore.

Se per l’oro e l’incenso il riferimento è immediato, più difficile è coglierlo nella mirra. Ebbene la mirra è proprio il profumo dell’amore, della sposa che lo celebra l’amore dell’amato in quel bellissimo poema dell’amore umano (e quindi divino) che è il Cantico dei Cantici (la mirra è citata 14 volte in tutto l’AT e ben 8 volte qui in: 1,13; 3,6; 4,6; 4,14; 5,1; 5,5; 5,13).

Con questi tre doni offerti dai Maghi, ancora polemicamente, Matteo – giudeo convertito e quindi ancor più autorevole – vuole mostrare come queste prerogative non sono più del solo Israele ma ora appartengono ad ogni popolo, ad ogni uomo e donna che si lascia guidare dalla luce di questa stella che è il Cristo.

Adesso tutti costoro appartengono al regno del Signore. Tutti costoro costituiscono un popolo sacerdotale e tutti costoro profumano del profumo d’amore dello Sposo.
Adesso, in questo bambino “invisibile” agli intrighi e all’agitarsi del potere politico, religioso, economico, militare… e della folla (“tutta Gerusalemme”!), l’umanità intera può scoprirsi sposa amata dal Signore.
Ecco perché al rivedere la stella, al vedere il bambino, furono i Maghi, siamo noi, invasi da una immensa incommensurabile pe
rmanente gioia…

venerdì 14 settembre 2012

XXIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 50,5-9a)

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Giac 2,14-18)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 8,27-35)

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

In questa Ventiquattresima Domenica del Tempo Ordinario la Chiesa ci propone – come brano di vangelo – il testo che sta al centro dello scritto di Marco. Esso infatti è composto in tutto da 16 capitoli e strutturato in due grosse parti:

I-                                                                                                                        dal cap. 1 al cap. 8, la prima parte (individuabile attraverso la ripresa del titolo “Cristo”: Mc 1,1 «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» e Mc 8,29 «Tu sei il Cristo»);

II-                                                                                                                      dal cap. 8 al cap. 16, la seconda (con la ripresa dell’altro titolo cristologico, “Figlio di Dio”: Mc 1,1 «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» e Mc 15,39 «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!»).

Ci troviamo dunque esattamente al centro del vangelo di Marco, dove ricorre il famoso testo della confessione di fede di Pietro, con tutto quanto segue: il primo annuncio di Gesù della sua passione, il rimprovero di Pietro, il noto “Vade retro Satana” e le parole di Gesù sul discepolato: «Se qualcuno vuol venire dietro a me…».

Proprio perché siamo di fronte ad un testo così conosciuto, il rischio maggiore è quello di farcelo scivolare addosso, come se ormai non avesse più la forza di interpellarci.

Vorrei allora provare oggi a darne una lettura che ci chiami in causa in prima persona… Perché, al di là del fatto narrato in queste righe (e della dinamica storica delle libertà che lì si sono mosse: Pietro, Gesù, i discepoli, la gente…), mi pare di poter intravvedere nel testo, quasi una sorta di strutturazione che delinea l’itinerario della fede, dove:

-          il primo passo è rispondere alla domanda – rivolta dal Signore a ciascuno di noi “Chi dite che io sia?”;

-          il secondo, è decidere di seguire il Signore («Se qualcuno vuol venire dietro a me»);

-          il terzo, è rinnegare se stessi;

-          e l’ultimo è prendere la propria croce.

Si tratta di un itinerario che in qualche modo scandisce il progredire della vita cristiana, ma che, contemporaneamente, è sempre inesauribile… Ci si ritrova – nelle varie fasi della vita – a ripercorrerlo sempre daccapo, quasi come una spirale che ritorna sempre sulle stesse questioni, ma ogni volta a profondità diverse.

Ma… andando un po’ più a fondo: Cosa vogliono dire queste espressioni? Proviamo a guardarle più da vicino…

 

Innanzitutto rispondere alla domanda “Chi dite che io sia?”: è il punto di partenza per ogni relazione col Signore (ed anche tra di noi…): pronunciarsi su di Lui, sbilanciarsi in una nominazione, nel dargli un nome, nel chiamarlo per nome. La domanda allora diventa radicale: Cosa dico del Signore? Cosa posso/so dire di Lui? Chi è per me, concretamente nella mia vita?

E… Le risposte che dò, sono in consonanza col vangelo?

Entra in gioco in questo primo passo della fede la questione del conoscere! Solo quando conosco qualcosa o qualcuno posso pronunciarmi con autenticità su di esso, su di lui. L’uomo infatti funziona così: a fronte di un altro (una cosa, una situazione, un’altra persona, Dio…) in cui si imbatte, è chiamato – senza via di scampo – a pronunciarsi, a prendere posizione (magari anche solo fra sé e sé). Sempre la nostra soggettività è chiamata in causa, sempre noi ci determiniamo a fronte di ciò che incontriamo, di ciò che ci capita, anche quando decidiamo di non decidere, perché decidere di non decidere è comunque un decidere…

In questo senso la conoscenza diventa una delle funzioni più significative dell’essere uomo (vitali!), perché è solo attraverso la conoscenza che il mio prender posizione può essere giustificato, può trovare un orientamento, un senso, una progettualità e non scadere in una volubilità sciocca.

Questo – che vale per ogni ambito e situazione della nostra vita – è tanto più vero quando si ha a che fare con le relazioni… e con la relazione con Dio in particolare. Il primo passo dell’itinerario della fede è dunque impegnarsi in una conoscenza (fatta soprattutto di immersione nella sua Parola e nell’apprendimento di quell’attitudine speciale che è il leggere la storia a partire da quello sguardo lì…) che permetta a ciascuno di rispondere con spessore alla domanda “Chi dite che io sia?”, onorando il compito di dare una risposta per la quale ne va di me e non che resti estrinseca a ciò che sono, foss’anche una risposta atea.

 

Il secondo passo è quello cui facevamo già cenno, decidere di seguire il Signore: a fronte di un impegnarsi (cioè di un impegnare se stessi) nella conoscenza del Signore, arriva il momento in cui prendere posizione, in cui sbilanciarsi in una scelta, in cui determinare se stessi: “Questo è uno che vale la pena di seguire” oppure “Questo è uno che non vale la pena di seguire”. Fin qui devono arrivare tutti: gli atei seri, sono quelli che arrivano fino a questo punto dell’itinerario di fede (anche se “ateo” e “itinerario di fede” sembrano parole che non vanno bene insieme). Ma più che gli atei a me preoccupano i credenti… quelli come me, perché mi chiedo: Quanto il nostro – spesso ostentato – rispondere che abbiamo deciso di seguire il Signore è frutto di una conoscenza vera di Lui? Quanto è una scelta consapevole e decisiva per il mio strutturare me stesso?

A volte – nell’itinerario di fede – son più seri gli atei…

 

Ma cosa vuol dire questo “seguire il Signore” per cui – ad un certo punto (e poi chissà quante altre volte nella vita) – ci siamo decisi? Risponde il vangelo di oggi: vuol dire rinnegare se stessi.

Qui entriamo nelle due parti dell’itinerario della fede (il terzo e il quarto passo) più travisati nella storia della Chiesa… e allora bisogna farsi attenti… Perché, mentre i primi due, sono i più disattesi, questi due sono i più fraintesi (che forse è peggio…).

Dico questo perché intorno a questo “Rinnegare se stessi” si è alimentata lungo i secoli tutta una certa spiritualità mortificante, castrante, inibente che vedeva nei sorrisi, nelle feste, nelle coccole qualcosa di pericoloso, perché peccaminoso… dimenticando che, invece, la vita di Gesù si è strutturata proprio su queste tre coordinate! Ne è risultata una visione in cui al centro stava il peccato (e non l’amore di Dio in Gesù)… un peccato da evitare (per evitare l’inferno e meritarsi il paradiso), che ha soffocato la vitalità di un sacco di persone e di culture. Non mi dilungo, tanto fino a pochi decenni fa erano ancora ben visibili i tratti di questo sedicente cristianesimo (e sacche residue se ne possono trovare ancora tutt’oggi!)… Mi limito solo a dire che rinnegare se stessi in questa ottica, voleva dire mortificare tutto ciò che aveva a che fare coi “piaceri della vita” (il cibo e il sesso in particolare) e con la titolarità della propria coscienza (accompagna, infatti, questa spiritualità mortificante, un’insistenza marcata sull’autoritarismo).

Rinnegare se stessi, invece, nella logica del discorso che Gesù fa in questo passo del vangelo di Marco, vuol dire invitare chi lo vuol seguire a fare i conti con il “salto evolutivo” che l’essere uomini su questa terra comporta. L’uomo infatti sboccia sul vecchio tronco della materialità e dell’istintività, caratterizzate dai sacrosanti (perché altrimenti non ci saremmo!!) spirito di conservazione e istinto di sopravvivenza. L’uomo ha dentro questa matrice qua! Ma quando il mondo, con l’apparire dell’umano, fa il salto verso lo psichico e poi verso lo spirituale, non può non avere uno sconvolgimento… perché ha dato alla luce la libertà: ora non è più vero che tutto al suo interno si muove secondo leggi naturali pre-scritte; ora è comparso qualcuno che – se vuole – può fare diverso.

È di fronte a questo che Gesù mette i suoi: andare dietro a Lui vuol dire farsi carico di questa possibilità di fare diverso… diverso da come suggerisce lo spirito di conservazione, diverso da come suggerisce l’istinto di sopravvivenza, diverso da come suggerisce la convenienza… Egli infatti chiede di orientare tutte le decisioni secondo un altro criterio, quello dell’amore per l’altro uomo, questo a costo di se stessi, con la fatica di arginare lo straripante io che ci abita e che ha sempre paura di morire e per questo vuole imporsi, salvarsi, avere la meglio… Gesù invece annuncia la possibilità di fare diverso, di convertire questo io dalla paura che lo fa diventare rivale degli altri e aggressivo, possessivo, egocentrico… alla serenità di chi non deve più temere la morte, perché essa – per amore e dall’amore – è stata vinta.

 

Prendendo la propria croce… L’ultimo passo… anch’esso bisognoso di un chiarimento…

Cosa si è infatti pensato con questo “prendere la propria croce”? Che se sei cristiano (ma anche no, visto che – senza accorgercene – spesso suggeriamo questo atteggiamento anche agli altri…) devi accogliere il male che ti capita nella vita con seraficità: per esempio, se ti viene il tumore, cosa vuoi farci? È la tua croce… Portatela… E via di questo passo…

Attraversando i dolori e i patimenti umani, come elefanti in una cristalleria, noi che dovremmo essere gli esperti di umanità, ci ritroviamo a dire delle mostruosità tali, che se ce ne rendessimo conto ci chiuderemmo in cantina dalla vergogna, senza verso di farci uscire!

Prendere la propria croce è un’altra cosa… non è una disgrazia da accettare, ma è la consapevolezza che seguire il Signore, vuol dire seguire uno che è morto in croce, cioè uno che ha fatto (Lui per davvero!) dell’amore per l’altro uomo l’unico criterio delle sue scelte e questo l’ha portato a morire nudo sul patibolo! Nella sua storia si è visibilizzato che chi sceglie l’amore come criterio non può che finir male, perché l’amore è per definizione dis-armato, dunque feribile… E allora il Signore te lo dice all’inizio: “guarda che se mi segui finisci là”, per evitare che gli vai dietro così, mosso magari da un po’ di entusiasmo… e per farti capire che c’è in gioco qualcosa di serio… la vita.

Prendere la propria croce vuol dire allora decidere di seguire il Signore con la consapevolezza e la determinazione che questo ci porterà… alla croce (che quindi non è il tumore, ma tutte quelle conseguenze che il seguirlo comporta, in termini di conservazione, sopravvivenza, convenienza, ecc…). Perché Lui dice che questa è la Vita vera…

domenica 2 settembre 2012

L'ultima intervista

Il rito della lavanda dei piedi in Duomo

Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l'8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

Come vede lei la situazione della Chiesa? «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione».

Chi può aiutare la Chiesa oggi? «Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa? «Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L'atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»

Lei cosa fa personalmente? «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

Georg Sporschill SJ, Federica Radice Fossati Confalonieri

lunedì 16 aprile 2012

Il dito in ciò che fa paura. Ovverossia quando la Croce si fa Pace.


Ecco un Vangelo (Gv 20,19-31) che i secolari strati di precomprensione ideologica ci hanno impedito di gustare in tutta la sua freschezza originaria. Erasmo da Rotterdam ha scritto l’“Elogio della follia” forse sarebbe bene che qualcuno pensi a scrivere l’“Elogio della polemica”. Davanti al testo biblico, la lettura “passiva” ci impedisce di coglierne il significato autentico. Col testo biblico bisogna litigarci, contestandone spesso le affermazioni, rifiutando un lettura secondo i luoghi comuni. E spesso non credere al significato immediato che cogliamo alla prima lettura. In una parola “polemizzare”. Chi non polemizza vuol dire che non ha cervello da usare, idee da mostrare, verità da comunicare, vita da donare…

Per questo pretendiamo di chinarci sul testo… torturandolo!
E così leggiamo proprio all’inizio qualcosa che non quadra: “…mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei…”. Immediatamente pensiamo che i giudei dessero la caccia agli apostoli… e gli apostoli per paura si fossero barricati in casa! Sbagliato!

Intanto notare il lapsus: ho scritto apostoli… quando il testo invece usa un termine discepoli, che indica una platea più ampia dei Dodici, oramai Undici! Tutto il doppio racconto quindi non parla del gruppo ristretto degli apostoli ma di tutta la comunità credente. E infatti non solo agli apostoli ma a tutta la comunità credente si rivolgerà nel prosieguo Gesù stesso! Ci ritorneremo.
Poi la storia dei giudei che cercano i discepoli non è credibile! Da quando in qua i giudei davano la caccia ai discepoli di Gesù? In tutti i vangeli non ce traccia alcuna. E cominciano ora che hanno – mi si perdoni l’espressione –tagliato la testa al gruppo? Suvvia! A loro interessava solo Gesù. La paura degli apostoli quindi era infondata. Immaginaria. Sostanzialmente irrazionale, quindi stupida! Ma quel che è scritto è scritto e il testo non si può cancellare a nostro piacimento. Allora la domanda si approfondisce: quale senso dare all’affermazione dell’evangelista? Non certo quello immediato perché privo di logica. Certo la paura spesso è irrazionale… ma se l’annotazione ci volesse dare un indizio di ciò che la comunità dei discepoli e discepole stava vivendo? La risposta che dobbiamo cercare deve anche accordarsi col resto del racconto, che segue e che precede… Vediamo.

Un discepolo, e che discepolo, uno dei Dodici, aveva consegnato Gesù. Gli altri lo avevano abbandonato (tranne le donne!)… spergiurato di non conoscerlo… Immagino allora questi discepoli che si accusano l’un l’altro di avere tradito il Maestro. Di essere in fin dei conti la causa della sua morte. E che morte, da schiavo! Immagino il loro sguardo impaurito nel guardarsi reciprocamente: tra di loro c’era un nemico e non lo sapevano! E forse altri come Giuda potevano trovarsi in mezzo a loro? Una domanda sola li attanagliava: tra i discepoli c’erano degli “infiltrati”? Ecco di quali “giudei” avevano paura, non di quelli fuori, ma di quelli dentro al gruppo. Ancor più stupido allora era chiudersi dentro… ma si sa la paura è cattiva consigliera! E se anche non avevano paura degli altri discepoli, c’erano sufficienti ragioni per non fidarsi nemmeno più di se stessi: se la paura aveva addirittura spinto Pietro a tradire il Signore… cosa non avrebbe fatto contro gli altri discepoli? Come lo stesso Pietro, poteva fidarsi di Pietro? Aveva giurato fedeltà e si era ritrovato a spergiurare tradimento!
Questa paura era così forte che il “vedere e credere” di Giovanni e Pietro al mattino non era stato sufficiente a sciogliere quella morsa che li attanagliava alla bocca dello stomaco. La testimonianza di Maria Maddalena non era stata di maggior aiuto a sciogliere il cuore. E in questo stato arrivano a sera. Come sempre in Giovanni, il buio di fuori, mostrava un buio ancor più fitto dei cuori. Il buio ancestrale (cfr Gn 1,2) della paura.
E mentre sono riuniti, uniti come potrebbero esserlo due che si accapigliano, “venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”. Gesù arriva, sta, in mezzo, e dice. L’evangelista non dice “appare”, perché è un arrivare, un stare, un stare in mezzo e un dire, che appartiene all’ordine della fede. Mai in tutto il vangelo (e nella bibbia) c’è qualcosa che esula dalla fede. Lo stesso Gesù vive nella fede il suo rapporto col Padre. Non diversamente i suoi discepoli di ieri e di oggi. Anche la resurrezione non sfugge alla stessa logica. Se vedono, “vedono” solo nella fede. Quella dei discepoli è e sarà sempre una esperienza di fede, non tangibile e dimostrabile. Gesù è presente in mezzo ai suoi… la morte non lo ha separato da loro. Per questo “sta”. E non a fianco, ma “in mezzo” come ponte che li unisce dentro ogni conflitto, divergenza, sospetto… E dice, cioè dona facendola, l’unica cosa che quel gruppo (ogni gruppo) ha veramente bisogno: la Pace! Il dissolvimento di ogni paura non basta, perché sotto forme diverse ritornerebbe. Occorre di più, occorre la Pace (cfr Gn 1,3). E come fa a donarla? Mostra i segni che i discepoli – indirettamente, ma non meno responsabilmente – gli hanno inflitto! Forse temevano che Gesù tornasse per vendicarsi? Se anche l’avessero pensato, con questo gesto Gesù dissolve ogni dubbio. E ogni paura. E finalmente i discepoli gioiscono nella pace.

Curioso questo presentarsi di Gesù. Ma forse è vero, che noi siamo le nostre ferite. Accolte senza rancore. Mostrate in perdono. Normalmente noi le nascondiamo, perché ce ne vergogniamo. E viviamo nel rancore di chi ce le ha inflitte. Gesù invece per sempre se ne vanterà, per sempre sarà riconosciuto come “Il Crocifisso”, per queste è venuto. Anche i discepoli col tempo impareranno a vantarsene (Atti 5,41; 2Cor 11,30; 1Cor 1,23). Forse sbagliamo a passare il tempo a rimarginare le nostre ferite. Forse anche le nostre, saranno per l’eternità i segni della nostra identità (cfr 2Cor 11,25-28; ). Tutto sta allora, sebbene inflitteci dagli altri (o dalla nostra immaturità), di accoglierle come nostre. Come il nostro modo di fare giustizia rompendo la catena del disprezzo. Allora sebbene non rimarginate, non ci abbrutiranno più, ma saranno occasione di un di più di umanizzazione diventando ciò che ci abbelliscono. Per noi e per gli altri.

E allora Gesù può dare di nuovo la Pace: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Se accogliere le ferite (le Sue e le nostre), sono il primo passo della pace, il secondo è “spalancare le porte” che avevamo sbarrato! Già altre volte i discepoli erano stati inviati in missione (cfr Mt 10,15; Lc 9.1ss; 10,1ss). Non è qui che il Signore “dà il mandato” anche se così appare nella struttura del vangelo di Giovanni. Semmai ora c’è bisogno di ribadirlo (come in Mt 28,19s; cfr anche Mc 16,20 e Lc 24,47), perché la paura glielo aveva fatto dimenticare. Non sono stati chiamati a seguire Gesù per stare al chiuso. Il mondo ha bisogno di pace. E non è lasciandoci vincere dalle sue paure che potremo donarla. Dei discepoli che hanno paura del “mondo”, sono già stati vinti dal “mondo”. La paura non appartiene al cristiano, appartiene a coloro che sono sotto il potere di satana (Eb 2,15 )! Ecco chi è satana, è la paura che ci abita. Ma c’è chi ha vinto satana: “Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo»”. Lo Spirito del Risorto è Colui che ha vinto ogni paura. Anche di Dio! perché ce lo ha mostrato Padre misericordioso. Figuriamoci del resto!

Il cristiano è colui che non ho paura di Dio, perché Dio è suo amico; non ha paura del diavolo, perché Dio l’ha sconfitto; non ha paura del peccato perché in Cristo è stato perdonato; non ha paura della morte perché ora non può che dargli la vita; non ha paura di niente, perché niente può essergli tolto. (cfr Rm 8,31ss)

Finché vive nel perdono, accolto e donato, la paura non lo possederà: “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Ecco qui un’altra bella espressione che per secoli abbiamo travisato. Qui Gesù non sta dando nessun potere ai preti. Il sacramento della confessione qui non c’entra niente. Infatti si rivolge a tutti i discepoli, uomini e donne, e non a una categoria ben precisa. D’altronde a pensarci bene che me ne faccio del perdono di Dio o del sacerdote, se quando torno a casa, le persone che amo, con cui vivo, con cui lavoro, sono incapaci di perdonarmi? È del loro perdono che ho bisogno! Vero sacramento di quello di Dio (Mt 5,23ss). Abbiamo relegato il perdono negli angoli bui delle nostre chiese, e abbiamo dimenticato che se quel sacramento esiste il suo scopo è trasformare tutta la nostra vita in una continua riconciliazione.
Per questo l’evangelista ci avverte della responsabilità che i cristiani hanno nel “vanificare” storicamente la passione di Cristo. Gesù sta dicendo: aprite quella benedetta porta, andate ad annunciare al mondo la pace della riconciliazione degli uomini tra di loro e con Dio. Se questo non accadrà (non saranno perdonati), questa sarà la vostra responsabilità perché non siete stati capaci di perdonare (a coloro a cui non perdonerete). Può un discepolo non perdonare quando il Cristo nel mostrare le sue ferite e nel dono dello Spirito di Dio, rivela il perdono senza limiti del Padre? Assolutamente no! Se non perdona è perché si lascia vincere dalla paura (del mondo). In tal modo cesserà di essere testimone della gioia pasquale. Se il mondo non ha pace – e il mondo in quanto “mondo” non può darsi pace – è perché i cristiani non si lasciano guidare dalla gioia pasquale. Una chiesa che passa il tempo a stilare nuovi elenchi di peccati è una chiesa che rinuncia ad annunciare nuovi modi di accoglienza e perdono. È una chiesa non più pasquale.
Se c’è un “peccato contro lo Spirito Santo” (cfr Mc 3,28s) che non può essere perdonato è proprio questo: colui che non perdona, non può essere perdonato. Lo proclamiamo anche nel “Padre Nostro”. La chiesa riceve lo Spirito per donarlo, se non lo dona per paura, tradisce la propria missione!
Insomma la pace nel mondo dipende dalla nostra capacità di perdonare, e se il mondo non troverà pace è e sarà colpa di coloro che non sanno comunicarla perdonando sempre e comunque. Credere nella Risurrezione è creare sempre e comunque cammini di riconciliazione.

Ma Tommaso non c’era… simpatico questo Tommaso. Intanto subito una qualità: lui non aveva paura! E lo dimostra anche con le sue pretese. Ovvio che se i discepoli erano rinchiusi per paura e Tommaso non c’era, Tommaso era “fuori”. In mezzo a quei giudei che gli altri temevano. Una fatto in più che giustifica quanto dicevamo sopra: la paura degli altri discepoli era immaginaria. Tommaso infatti va e viene. Passa una settimana a discutere (gli dicevano). Ma la fede non si trasmette con ragionate parole, ma mostrando il cuore cambiato dalla gioia della pace. Ed è quella che Tommaso doveva cercare di vedere negli altri discepoli: le paure che si erano trasformate in gioia. Ammesso che perdurasse! Perché stranamente otto giorni dopo, ancora le porte erano chiuse… Forse i dubbi di Tommaso rendevano meno salda la gioia degli altri? Possibile! Nessuna nostra certezza è così insensata da essere priva di dubbi, se poi qualcuno ce li mostra, allora le nostre certezze sono incapaci di testimoniare gioia, ma solo ostinate convinzioni. Che non convincono nessuno. E allora anche qui come prima, all’apoteosi del diverbio, quando sembra di non poterne venire a capo, col rischio di perdere altri discepoli e sfaldare ulteriormente la già indebolita comunità, Gesù si presenta “in mezzo”. E tutta la comunità credente, nelle mani di Tommaso, può finalmente infilare le dita nelle piaghe che facevano tanto paura e che ora invece donano la pace della fede nel perdono.

Il grido di Tommaso deve diventare il nostro grido, se solo osassimo fare altrettanto! Eh sì! Perché anche questo episodio mi sembra sia stato travisato non poco. Intanto senza vedere non si può credere (cfr Gv 20,8)… i segni del quarto vangelo sono tutti lì a ricordarcelo. E non bastano! Il problema allora non è tanto cosa vedere, ma soprattutto come guardare!
E allora mi sembra che tutto il racconto sia una pedagogia alla fede. Si illude di poter credere colui che pensa di poterlo fare senza guardare le “piaghe” del Signore. Si illude di poter credere colui che passa oltre le piaghe del fratello (Lc 10,33ss). Si illude di arrivare alla fede colui che non infila le dita e le mani nelle ferite della storia. Guardare non basta: è bastato poco per spazzare via la gioia che i discepoli avevano sperimentato (la porta era ancora chiusa!). Occorre infilare le dita, tendere la mano sulle ferite. Solo quel gesto ci fa capire il senso della sofferenza che abbiamo inflitto all’altro ed è stata inflitta a noi. E chiedere e offrire il perdono. Non abbiamo bisogno di uscire dalla storia per credere (Perché mi hai veduto, tu hai creduto… beati quelli che non [mi] hanno visto…). Per fare esperienza della gioia pasquale (beati) è necessario chinarsi sulle piaghe con cui Gesù si è identificato: beati quelli che non hanno preteso di vedermi per credermi presente in mezzo a loro nelle piaghe del fratello ferito! Beato colui che non si scandalizza della fragilità di una comunità (credente o non credente) per scoprire la mia presenza in mezzo alle ferite di questa stessa comunità.

L’itinerario della fede comincia dalla capacità (ricevuta!) di vedere attraverso le ferite del fratello, le ferite stesse del Dio di Gesù Cristo. Che mi liberano.
Colui che passa il tempo a recriminare contro le ingiustizie del mondo, dimentica che Dio ha mandato proprio lui per rimuoverle. In attesa che lui si decida a scegliere l’impotenza del proprio agire (questa è la Croce!), Dio ha scelto di condividere l’avventura della vittima (anche per questo Gesù mostra le piaghe: solo quelle sono vincenti!). Per salvare anche il carnefice. Se si vuole che Dio per noi risorga (Mio Signore e mio Dio!), lo si liberi dalla morte liberando il fratello da ciò che lo uccide…
Questa esperienza è l’unico modo di conoscere il Risorto.

domenica 31 luglio 2011

Oltre la rassegna(a)zione: ascoltare la Parola per vivere da liberi



Abbiamo davanti agli occhi, la fatica quotidiana per riuscire ad arrivare alla fine del mese. Conosco gente che oramai per vivere, per riuscire a mantenere il suo tenore di vita (quello cioè che il “sistema” gli impone come dignitoso per sé e “solo per sé”), si sente “obbligata” a fare tre lavori. Uno ufficiale, l’altro di frodo quando capita, il terzo in permanenza, anche al bar, come venditore occasionale di cose tanto inutili quanto credute indispensabili.

Forse oggi riusciamo a capire meglio il grido di ben 2500 anni fa, di Isaia e ribadito da Gesù e dai cristiani di ogni tempo: solo un mondo fondato su una autentica giustizia (quella del Padre) rende possibile un equo sostentamento materiale e quindi un’autentica “adorazione”.

Abbiamo creduto che per poter vivere la vita concreta di ogni giorno, le sue leggi e le sue regole, dovessimo ignorare quelle evangeliche, come se queste appartenessero a un mondo ideale (e irreale) proprio di “persone speciali”, come i religiosi o i santi e che non potevano essere vissute da “uomini umani” (Pasolini). Ci rendiamo conto oggi più che mai, che invece quando l’ideale evangelico è ignorato, diventa vano ogni tentativo di attuare ciò che è umano. A furia di ignorare il Vangelo “perché impossibile da vivere in questo mondo”, ci stiamo rendendo conto che le leggi di questo mondo (anche la semplice buona educazione!) sono impossibili da vivere senza il Vangelo.

Un’economia (con tutto quello che la compone, formule finanziarie comprese) crea veramente profitto solo quando al proprio interno sono compresi i principi fondamentali del Vangelo. Solo la gratuità della charis rende possibile il profitto! Altrimenti quello che si produce non può che essere continua perdita anche per i pochi che si illudono di arricchirsi solo perché possiedono più degli altri.

C’è un nesso inscindibile tra economia e fede e spiritualità… Tra libertà religiosa e libertà economica: senza questa non c’è quella. Mosè, Isaia, Gesù, Paolo e i primi cristiani, Francesco e Gandhi… l’avevano capito! Cosa aspettano i cristiani se non a testimoniarlo almeno a riconoscerlo?

La vera fede è solo quella capace di costruire una nuova economia dove ciascuno possa uscire da un vano agitarsi (nei vari Egitto, Babilonia… e Pomigliano… sparsi nella storia) per poter finalmente trovare l’autentico frutto del proprio lavoro: Qui non ci sono luoghi da citare… né serve che ci siano delle “città di Dio” perché è il pianeta intero ad essere chiamato a risorgere e non una sua parte!

Come?
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.  Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene.

Il primo movimento è la compassione… quella di Dio che si manifesta concreta in Gesù Cristo, non quella effimera di una smemorata emozione che dura il tempo di un Tg o di una “pacca sulle spalle”.

Il secondo movimento è non aspettare di avere a sufficienza per cominciare a dare, spezzando la logica (dis)umana di un’economia individualista (vadano a comprarsi da mangiare), per condividere il niente che abbiamo. Per poter cominciare a condividere finalmente il necessario e non il superfluo. Ché, se superfluo, non serve (a) nessuno!

Il terzo movimento è uscire dalle dinamiche sacralizzanti che riducono il brano evangelico (nella quasi totalità dei commenti) a una prefigurazione e preparazione dell’istituzione dell'Eucaristia. Semmai – come il racconto dell’Ultima Cena di Giovanni intende – è il contrario: è l’Eucaristia – e quindi la Croce – ad essere prefigurazione e preparazione e costruzione di un’azione divina nella storica che cambi il modo e il mondo delle nostre relazioni economiche (notare che non ho scritto “ancheeconomiche”: perché persino l’amicizia si fonda su una dimensione esistenziale che permetta una relazione economica gratuita. Infatti le amicizie economicamente interessate non sono amicizie! Da ciò si può capire come la dimensione economica – come quella politica e religiosa – è una dimensione trascendentale che comprende tutto l’uomo e il suo agire).

Solo così “celebrare l’Eucaristia” non si riduce a una messinscena, vuota di incontri (nonostante lo sforzo di renderle solenniin un teatrale e spesso roboante quanto infecondo liturgismo), ma diventa un autentico celebrare la Vita Nuovache si è instaurata non solo nel nostro cuore ma anche nelle nostre tasche anche loro aperte come vasi comunicanti. E le nostre celebrazioni diventeranno allora il luogo dove si realizza e si manifesta al mondo intero la gioia evangelica di una solidarietà rinnovata che la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada e le vecchie e nuove ideologie xenofobe e “identitarie”, non potranno far altro che rinforzare, rinsaldare e rivitalizzare.

In questa chiave, tanto per restare ancorati alla nostra storia, non basta più, come ai tempi di Zaccheo, restituire quando si è legalmente rubato costruendo sull’ingiustizia la propria fortuna… E se si vuole anche dissolvere ogni dubbio sull’ennesima machiavellica furbizia, occorre cominciare a pensare e a costruire una economia che al suo interno abbia come profitto la capitalizzazione di ogni giustizia. Un astuto servitore del dio Mammona come GeorgeSoros se vuole fare ammenda veramente di aver usato la finanza come legale arma di distruzione di massa a proprio vantaggio, dovrebbe cominciare da qui. Questo sarebbe veramente restituire la dignità a chi è stata tolta… E ciascuno di noi, per niente estranei all’attuale catastrofe economica mondiale (con l’ingiustizia globale che ne consegue) per la parte che gli compete (più di quanto si pensi!), dovrebbe fare altrettanto. Cominciando, ad esempio, a istituire nelle nostre parrocchie una solidarietà economica che manifesti concretamente la comunione di fede tra di noi. E non passare il tempo a rompere questa comunione con giudizi sprezzanti sulla “non voglia di sacrifici” degli altri…

Se la fede nell’Eucaristia non arriva fin qui essa è mera alienante idolatria. Sì! anche l’adorazione eucaristica può essere idolatrica, perché nessuno si illuda, non basta che l’Eucaristia sia vera, per rendere vera ogni nostra sincera modalità di officiarla!
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