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lunedì 7 gennaio 2013

La verità è in cammino: seguila!


Ecco un brano evangelico (Mt 2,1-12) che mette a nudo la mia ignoranza della cultura ebraica… non parlo tanto di quella biblica che già è notevole, ma proprio della cultura ebraica in quanto tale soprattutto dei tempi in cui gli apostoli scrivono.

Intanto dalle letture che la liturgia ci offre, si evince quel grande capovolgimento di mentalità che appare nel Nuovo Testamento. In Isaia (prima lettura: Is 60,1-6), che parla agli ebrei esiliati in Babilonia, viene fatto rivivere il “sogno” della Gerusalemme lontana… una Gerusalemme che rinasce dalle sue ceneri e che accogliendo i deportati dalla cattività babilonese diventa il luogo dove tutta l’umanità trova il suo centro… Paolo (seconda lettura: Ef 3,2-3a.5-6) rivela che questo centro, questa Gerusalemme non è un luogo geografico, anzi non è proprio un luogo, ma un cuore, una carne, un volto, insomma una persona concreta: Gesù Cristo immagine trasparente di Dio Padre. Lui è la vera Gerusalemme ove ogni popolo senza sentirsi umiliato, senza dover rinunciare alla propria specificità (ri)scoprirà se stesso come “luogo” abitato da Dio perché da sempre da lui amato.

Ma cosa c’entra allora la stella? E i maghi (e non pudicamente magi e che comunque non hanno niente a che vedere coi ciarlatani di oggi)? È qui che si rivela la vergogna di non conoscere come si dovrebbe la cultura in cui sono immersi gli apostoli e quindi gli scritti del Nuovo Testamento…
Tutto inizia – come sempre per un pio giudeo – da uno scritto biblico… Ebbene nel libro dei Numeri ad un certo punto Balak re di Moab nemico di Israele fa chiamare il “mago” Balaam e gli chiede di maledire Israele… E questi non solo non lo maledice ma lo benedice con queste parole (Nm 24,15ss):

«Oracolo di Balaam, figlio di Beor,
oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante,
oracolo di chi ode le parole di Dio
e conosce la scienza dell’Altissimo,
di chi vede la visione dell’Onnipotente,
cade e gli è tolto il velo dagli occhi.
Io lo vedo, ma non ora,
io lo contemplo, ma non da vicino:
una stella spunta da Giacobbe
e uno scettro sorge da Israele
…»
 
È proprio a partire da qui che tutto Israele si è messo a cercare “la stella che spunta da Giacobbe (un altro modo di chiamare Israele: cfr Gen 32,28) e che regnerà e dominerà (scettro) su tutti i popoli… Da qui l’idea di un Messia condottiero, politico e militare… Idea che come sappiamo Gesù cercherà di scardinare senza riuscirci (lo faranno fuori anche per questo!)… Ed ecco spiegata anche la domanda dei Maghi e la motivazione della condanna di Gesù posta sulla croce: «Dov’è colui che è nato, “re di Giudei”?».

Ogni tanto quindi nel corso della storia, anche ai tempi degli apostoli, c’era un rabbino che indicava in questo o quel personaggio il “condottiero”, la “stella da seguire”, il Messia liberatore tanto atteso… Puntualmente le aspettative andavano deluse e il sogno si rivelava un incubo invaso dalla repressione militare…
Immaginate ora lo sconcerto, non solo dei giudei ma anche dei cristiani che provenivano da quella fede, di una Gerusalemme rasa al suolo col suo tempio (circa 50 d.C.): Chi dobbiamo attendere? Sorgerà mai una stella che ci porterà luce liberandoci dalle tenebre delle legioni (e fedi) pagane?

Ed ecco che a questo livello si inserisce il brano del Vangelo di oggi, che lungi da essere una fiaba per bambini (cosa di per sé legittima se vogliamo parlare a bambini col linguaggio che i bambini possano accogliere, lo è molto meno quando lo usiamo per parlare agli adulti), è un racconto fortemente polemico e a tratti persino implacabile nel suo giudizio tranciante e iperbolico (cfr lo sproporzionato “tutta Gerusalemme”)…
Che ci sta dicendo Matteo? Ora che abbiamo in parte ricostruito il suo background culturale possiamo provare a darne una spiegazione più plausibile e aderente al testo senza quelle infiorettature romantiche che il folclore vi ha sedimentato…
Matteo era un ebreo convertito al cristianesimo dal giudaismo… parla (scrivendo) a cristiani come lui convertiti dal giudaismo, cresciuti nel “sogno” della Gerusalemme come luogo di ritrovo di popoli e culture definitivamente convertite al Dio dell’ebraismo… e scioccati dal crollo del sogno con la distruzione definitiva del tempio e quindi della possibilità di un “risorgimento” gerosolimitano…
Matteo non ripropone l’antico sogno come farebbe qualunque tradizionalista, non ritorna ad un passato idealizzato, Matteo – in sintonia con gli altri apostoli – mostra che ben altra è la Gerusalemme che Dio ha costruito per tutti i popoli!
Anzi polemizza con “tutta” la Gerusalemme storica (e quindi indirettamente anche con la tradizione profetica anteriore!), che pur conoscendola ha rifiutato (Gv 1,9-11) “la luce che sorge dall’alto” (Lc 1,78) e che illuminerà le genti (Lc 2,32) e i semplici che vorranno accoglierla (Lc 2,9ss)!

Ed è proprio questo che fa emergere tra le righe una fondamentale attualizzazione per noi occidentali malati di esistenzialismo: la verità non è frutto della mia/tua/nostra ricerca… la verità, la luce, la stella, è “data” e ci “precede”. Io devo solo aprirmi ad accoglierla nel nuovo che arriva. E accoglierla vuol dire – come fanno i Maghi – lasciarmi mettere in moto da lei prendendo lei come guida e in suo nome accettare di percorrere strade inesplorate, lasciandomi scomodare verso l’incognito. L’ignoto fisico, spaziale, temporale, ma anche culturale e religioso e politico… Chi non si apre all’ignoto, si chiude in una tomba! L’avevano capito persino i greci e decantato Omero.

Questa è la fede! Che non è un insieme di verità da imparare a memoria, ma una storia da vivere, un terreno continuamente da esplorare che si rivela ogni volta nuovo e mai definitivamente acquisito (e i dogmi non sono tanto dei “punti fermi”, quanto piuttosto linee dinamiche, verità da esplorare). E non nel senso che posso perdere la fede, questo banalmente va da sé, ma qui si vuole sottolineare che la fede è cammino di fede in fede. E ogni volta è “altra” (è così che resta se stessa!) perché l’oggetto della fede, del cammino è q/Qualcuno che è sempre A/altro (da me/noi, dal mio/nostro pensare e amare, dalla mia/nostra storia di fede passata). E infatti anche in questo Matteo sottolinea polemicamente che Erode e la sua Coorte non si muovono!… pur conoscendo le Scritture, pur sapendo che la stella da cercare non andava cercata in cielo ma nella storia concreta di Israele, restano turbati e cominciano a tramare… L’incredulità è sempre figlia della paura della novità, perché il nuovo rompe sempre gli schemi, anche teologici e seguire il nuovo domanda sempre di perdere qualcosa (cfr Mt 19,16-22 e paralleli) (e pur di non perderci, ci si perde in ridicole e fuorvianti ricerche astronomiche che fondino l’attendibilità storica del racconto!).

Anzi Matteo calca veramente la mano quando fa capire che proprio in Gerusalemme (sede del tempio e di ogni istituzione sacra e civile in Israele), i Maghi perdono di vista “la stella” (e infatti devono chiedere, come cercando a tastoni – cfr Atti 17,27 – rischiando di finire tra le grinfie dei nemici della Luce)! E la “ritroveranno” solo quando usciranno da Gerusalemme, “sopra il luogo dove si trovava il bambino” perché la stella “li precedeva”. E solo fuori Gerusalemme provarono “una gioia grandissima” nel ritrovarla.

Non so se noi oggi riusciamo a percepire la violenza “blasfema” che questo scritto evocava nelle orecchie, nelle menti e nei cuori dei suoi interlocutori! E il suo linguaggio poetico mi sembra ne accentui ancora ulteriormente l’impatto. Quasi che il contrasto tra la pacata dolcezza quasi fiabesca del racconto (un bambino-Re) accentui ancor di più l’assurdo agitarsi tenebroso di “tutta Gerusalemme” che lo ripudia.
E infatti la drammaticità del racconto che si coglie tra le righe del linguaggio “infantile”, sfocerà nella tragedia della strage degli innocenti…

Il nostro vero peccato a ben pensare sta tutto qui: nell’avere depotenziato il Vangelo al punto da averne svuotato la portata di stravolgimento culturale e religioso! L’abbiamo reso “politicamente corretto” e forse è per questo che non riesce più a smuoverci dal nostro torpore…

Un’ultima osservazione la dedico solo ai doni dei Maghi, riportandola nel contesto all’intenzionalità dell’autore.
Tutta la bibbia rappresenta Israele secondo tre coordinate fondamentali:
1) A Israele tutto, prima che ai suoi re, spetta la dignità regale; 2) Israele tutto è un popolo di sacerdoti; e 3) Israele nel suo insieme è la sposa del Signore.

Se per l’oro e l’incenso il riferimento è immediato, più difficile è coglierlo nella mirra. Ebbene la mirra è proprio il profumo dell’amore, della sposa che lo celebra l’amore dell’amato in quel bellissimo poema dell’amore umano (e quindi divino) che è il Cantico dei Cantici (la mirra è citata 14 volte in tutto l’AT e ben 8 volte qui in: 1,13; 3,6; 4,6; 4,14; 5,1; 5,5; 5,13).

Con questi tre doni offerti dai Maghi, ancora polemicamente, Matteo – giudeo convertito e quindi ancor più autorevole – vuole mostrare come queste prerogative non sono più del solo Israele ma ora appartengono ad ogni popolo, ad ogni uomo e donna che si lascia guidare dalla luce di questa stella che è il Cristo.

Adesso tutti costoro appartengono al regno del Signore. Tutti costoro costituiscono un popolo sacerdotale e tutti costoro profumano del profumo d’amore dello Sposo.
Adesso, in questo bambino “invisibile” agli intrighi e all’agitarsi del potere politico, religioso, economico, militare… e della folla (“tutta Gerusalemme”!), l’umanità intera può scoprirsi sposa amata dal Signore.
Ecco perché al rivedere la stella, al vedere il bambino, furono i Maghi, siamo noi, invasi da una immensa incommensurabile pe
rmanente gioia…

giovedì 19 febbraio 2009

Il perdono dei peccati sulla terra: i paralitici camminano!

paralitico, Gesù, guarigione, peccato
…faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia!
L’uomo, anche il più santo, ha assunto dalla carne con cui è intessuto, una specie di perverso istinto (la “legge della carne” che contamina anche il piano morale) di sopraffare e “mangiare” il più debole, quasi non si possa sopravvivere senza prevaricare su qualcuno, o desiderare di farlo. Questo istinto congenito convive con le migliori intenzioni… Anche il discepolo convertito è tuttora preso nel dramma tra la paura di perdersi e la scoperta evangelica che il dono della vita, come insegna Gesù, è la strada migliore per salvare la vita stessa. E allora è lacerato in questo dilemma interiore e rischia di consumarsi dibattendosi dolorosamente tra il “sì” e il “no”, come dice Paolo: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto” (Rom 7,15). Incapace di imitare la fede totale e duratura che ha sostenuto la vita di Gesù, nel quale invece “tutte le promesse di Dio sono «sì»”. Dio è stanco che ci siamo stancati di lui…, proclama il profeta. Ma questo intenso dispiacere in lui non genera il rifiuto di noi, anzi provoca una voglia ancor più grande di perdono e di proposta di rapporto nuovo. Gli antichi testi profetici hanno plasmato l’animo di Gesù e la sua concezione di Dio – Padre! La gente capisce che il suo atteggiamento verso il male (morale, come peccato, ma anche fisico e psichico – esistenziale!) è completamente diverso da quello che insegnano i loro maestri. Pur tenendone conto, Gesù non guarda tanto alla trasgressione della legge divina, che effettivamente è perdonabile solo da Do – ma guarda al malessere interione della gente che incontra, lo soffre dentro di sé (è preso da compassione nelle viscere!), perché è un male che blocca la vita come esperienza e processo di amore, di comunione con gli altri, di stima umile di sé (perché amati!), di speranza in un futuro… sostenuta dalla fede che spera in un Dio che ti dice: “Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati”.
Il vangelo che Gesù vive, prima ancora di annunciarlo, è la notizia sorprendente che Dio non è né la legge né la coscienza, è più grande di ogni legge e del nostro stesso cuore e dei suoi scrupoli e rimorsi… Anche se da soli non riusciamo ad uscirne e bisogna che uno che ci ama ce lo dica! Incontrandoci paralizzati dalle catene interiori che neppure noi conosciamo del tutto, prima ancora che apriamo bocca per implorarlo, Gesù dice: figliolo, sono rimessi a te i peccati! Non dice: io ti rimetto, perché è vero che solo Dio può farlo, ma Dio esercita questa sua prerogativa divina nel Figlio dell’uomo sulla terra. Il giaciglio (nominato quattro volte) in cui è steso il paralitico è la legge, che è necessaria per contenerlo, ma nello stesso tempo lo tiene legato a sé, senza riuscire a guarirlo, perché effettivamente la legge non può perdonare. Così gli uomini, fratelli e sorelle, sono la necessaria mediazione per “calarlo” davanti a Gesù, ma non sono loro che lo salvano!

…amare l’uomo scrutandolo fino in fondo…
Gesù, infatti, non rimprovera ai suoi interlocutori di ritenere che solo Dio perdona i peccati, ma contrasta la loro rigida mentalità di preclusione del perdono divino, qui, sulla terra, senza il quale siamo condannati alla falsità e all’ipocrisia. Conoscere il cuore dell’uomo, le sue caverne interiori, le sue ferite sanguinanti, è possibile solo al Padre che ci ha creati e, mantenendoci in vita con il suo amore misericordioso, penetra e abita nelle pieghe più intime del nostro essere, contenendo il nostro male dentro di sé … Il perdono dei peccati non è tanto un problema del peccatore, che ci è immerso come in un pozzo da cui non ha forza e strumenti per uscirne da solo, ma di Gesù che si pone di fronte a lui… Proprio davanti al peccatore, più che mai, Egli manifesta “il suo potere” interiore, cioè la libertà e l’amore, l’ineguagliabile maturità umana di non esserne a sua volta schiavo del peccato – e quindi in atteggiamento di paura, aggressività, condanna verso di sé e verso gli altri! Mentre Lui è, dentro di sé, “signore” del peccato, non ha paura della morte, non si lascia vincere dal panico della solitudine e della sofferenza, non perde dignità e non tradisce mai il fratello o sorella… non ha complessi di colpa che lo impaniano nel passato, ma solo un’immensa compassione misericordiosa – quella stessa di Dio, suo e nostro Padre che si espande come forza risanante attorno a lui… Non – come si dice con un pericoloso cortocircuito – perché ha pagato al Padre il dovuto prezzo del peccato degli uomini, attraverso la passione e la croce! Piuttosto si è scontrato con la coalizione delle forze del male (come ricorda subito Marco : 3,6) determinate a bloccarlo e distruggere la sua umile amorevole “signoria” sul peccato e sulla sua causa che è la paura della morte. A Dio non lo obbligava il prezzo da pagare alla Sua offesa. È il Padre stesso che genera incessantemente nel Figlio l’irriducibile passione di amare tanto il mondo da mandare il proprio figlio, non a giudicare, ma a salvare gli uomini.

…io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso.
Questa sorgente di amore e benevolenza inarrestabile che sgorga dal cuore del Padre nel Figlio, proprio perché è gratuita e gioisce di coinvolgere tutti in sé, al di là di ogni legame o restrizione contrattuale o di ricompensa o di castigo, è l’identità stessa di Dio! Non c’è una formula o un potere magico… È “l’amore dell’amore” che cancella i peccati, l’incontenibile desiderio che l’amore si diffonda e faccia “vivere” tutti e tutto… Gesù né è impregnato appunto perché è senza peccato, cioè senza freni o impedimenti o ostacoli che impediscano dentro di lui di assorbirlo pienamente, al punto che “in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Da qui scaturisce la misericordia sconfinata per i peccatori e gli sventurati della società… perché sono un vuoto di amore, e gli stanno a cuore più di quanto loro amino sé stessi. È consapevole di cosa è capace il cuore dell’uomo (e lo patirà amaramente!), ma è anche in grado di percepire il reale desiderio di bene di chi ha peccato e vorrebbe riconciliarsi e tornare a vivere. È questo il mistero che gli scribi, legati al valore giuridico della legge, non riescono a capire. Gesù compie il miracolo perché anch'essi sappiano che “il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati”. E il paralitico è completamente guarito. Qui, per la prima ed unica volta, Gesù dichiara apertamente il motivo vero del suo miracolo: è il segno che indica il suo potere divino, che riguarda proprio il perdono. Dio è amore, e l’amore per l’uomo è anzitutto perdono risanante o preveniente! Come dice Giovanni: In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. (1Gv 3,19).

La radice profonda del problema del peccato.
L’uomo religioso (come era normale nel mondo antico) o l’uomo ateo (come oggi è culturalmente diffuso) sono imparentati tra loro da una tenacissima radice comune: la falsa immagine di Dio! Accettata e strumentalizzata nel primo o rifiutata e combattuta nel secondo, è sempre idolatria, che vuol dire appunto adorare l’immagine. L’uomo, secondo la Bibbia, non ha dentro di se la causa di se stesso, ma raggiunge la sua pienezza nell’esser relativo ad altro da sé… è fatto ad immagine di un altro. Impara dalla mamma o da chi lo accudisce, poi dai rapporti di amicizia e di coppia, se ha la grazia di sperimentarli… a maturare sempre più la scoperta che il suo riferimento definitivo, intimo a tutti i suoi riferimenti che lo fanno crescere sulla terra, è l’Altro! La sua avventura umana è uscire da sé! Se non gli nasce dentro questa capacità interiore (consapevole o meno) l’uomo si consuma nella rincorsa continua di immagini fallaci, fondate sull’affermazione insaziabile di sé, che lo ingannano e lo conducono all’angoscia, perché non raggiungono mai il bersaglio. Allora si consuma nei sensi di colpa (che sono provocati dalla lesione della immagine di sé!) e non dal senso del peccato (che è il rifiuto o la paura dell’amore che chiama fuori di sé). Ma l’immagine di Dio, come si è manifestata nella storia, non è “l’onnipotenza”, che l’uomo “religioso” ricerca in Dio o che l’ “ateo” ricerca in sé … ma è Gesù, e questo crocifisso! Per aver insegnato agli uomini che Dio è “amore impotente”, cioè storicamente inabile alla potenza e alla violenza, ma capace solo di perdono e benevolenza! Un amore che si manifesta donando a tutti perdono e misericordia e insegnando agli uomini a fare altrettanto, già qui sulla terra! ingenuità o bestemmia? Così pensano i realisti, sia religiosi che atei! … comunque, un passo duro, per chi non ha provato un troppo di amore!

venerdì 18 aprile 2008

Io sono la via, la verità e la vita

Man mano che ci allontaniamo dalla celebrazione della Pasqua, anche la liturgia, che pure si mantiene ancora nel “tempo pasquale” dedicato appunto all’approfondimento dell’evento di risurrezione, anche la liturgia – dicevo - ci incanala verso un ritorno all’ordinarietà, alla quotidianità… alle domande del giorno dopo, di quando la vita continua e va portata avanti…
Ecco che allora sorgono i problemi: «Signore, non sappiamo dove vai»; non siamo neanche sicuri di aver capito bene chi sei («Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto?»); non sappiamo nemmeno che via intraprendere («come possiamo conoscere la via?»)…
È la sensazione dello spaesamento data dal ritrovarsi tra le mani la propria vita… dal non sapere che fare, da dove cominciare, a chi dare retta… dal non conoscere quanti anni avremo a disposizione, cosa farne, in vista di che cosa, se con un senso, se per qualcuno…
Sono le domande che affollano anche le nostre giornate: che senso ha tutto questo? Ha un senso? Perché faticare, soffrire, amare, se poi si muore? Se tutto è destinato a finire nella tomba? Perché ci sono? Chi avrà mai ragione dato che han già detto tutto e il contrario di tutto in questo mondo?
E anche a noi scappa detto, come a Filippo, che va guardato sentendolo proprio uno di noi: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Dacci cioè qualche risposta chiara, qualche visione illuminante, qualche criterio inconfutabile per avere un’intelligenza della realtà… altrimenti davvero… è un brancolare nel buio, è un vagare senza meta, è un tracciare un percorso nell’aria, senza senso e senza scia.
Che dire dunque a Filippo? Immediatamente che i suoi stessi pensieri, oltre a una forte immedesimazione coi nostri, ci rimandano anche un’altra sensazione: per certi aspetti cioè ci pare strano e anche forse poco confortante il fatto che ancora oggi noi, dopo 2000 anni dal momento in cui i primi cristiani hanno affrontato questi problemi, siamo ancora qui a riproporceli… E addirittura forse per un altro verso sembra ancora più strano il fatto che essi stessi se li siano posti… proprio loro che avevano vissuto con Lui, che erano stati i discepoli di prima mano, quelli che avevano sentito con le loro orecchie e visto coi loro occhi…
Ma… a bene guardare… forse, così strano poi non è…
Se ci pensiamo bene infatti siamo di fronte a quella che è la struttura antropologica di sempre, dell’uomo di sempre: figlio e padre dell’umanità, ma singolo, unico, irripetibile. E per questo erede e promotore della vita, della storia, delle risposte, delle domande, delle scoperte, dei fallimenti degli altri… ma impegnato personalissimamente nella sua vita, nella sua storia, nelle sue risposte, nelle sue domande, nelle sue scoperte, nei suoi fallimenti…
Ecco la struttura umana fondamentale: o la via diventa la mia via, o la verità diventa la mia verità, o la vita diventa la mia vita… o per me non è via, verità, vita.
Ed ecco perché è sconvolgente e insieme affascinantissima la proposta di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita».
Sconvolgente perché mai si era sentito che la verità era una persona e non un mistero, una legge, un codice etico, un sistema metafisico… Mai si era sentito che la via da percorrere era una relazione da attuare con una libertà storica. E di certo mai si era sentito che la Vita era un intrecciarsi con la soggettività singolare di Dio, fatto uomo…
Ma oltre che sconvolgente, inaudita ed esplosiva rispetto ad ogni schema interpretativo umano, quella di Gesù via, verità e vita è anche una proposta affascinantissima, perché di fatto è l’unica che risponde alla nostra sostanziale struttura antropologica.
Essa – dicevo – consiste proprio nell’essere figli e padri della storia dell’umanità eppure non sentirsi esauriti in essa: noi non siamo solo il prodotto dei nostri genitori, della società in cui siamo nati e cresciuti, dell’ambiente che ci ha coltivati; e non siamo neanche riducibili all’eredità che lasceremo, ai nostri successi, ai nostri fallimenti, ai nostri soldi, alle nostre carriere, ai nostri matrimoni riusciti o falliti, alle nostre vite realizzate o meno…
C’è un oltre tutto questo! C’è un noi stessi, la nostra identità più intima, che non si può circoscrivere in nessuno schema, che non si può classificare, standardizzare o irreggimentare… è quel nucleo di noi stessi che non coincide con nessuna delle nostre determinazioni: né coi nostri nomi, né con i nostri titoli, né con le nostre mansioni, né con le nostre conquiste o coi nostri sbagli…
Ed è lì, in quel nucleo centrale di noi stessi, quello che Etty chiamerebbe il pezzetto di Dio in noi, è lì che ci intercetta la proposta cristica.
E proprio perché è l’unica che arriva lì è anche l’unica che risponde davvero alla nostra struttura antropologica, che è la libertà singolare.
Riesce a intercettarci lì infatti, nell’unico “luogo” di noi stessi dove siamo noi stessi, perché non è qualcosa di universale che mortifica il particolare, qualcosa di vero per tutti e che dunque non è per me: non è un insieme di regole, non è un itinerario spirituale, non è un codice moralistico, non è un impianto cultuale, non è un sistema filosofico, non è un annullamento nel tutto… è una persona! È la relazione con una persona!
Una relazione personalissima, come non ce n’è un’altra, né mai c’è stata, n’è mai ci sarà, perché sebbene non l’unico, per Lui sono unico!
Ecco allora la risposta a Filippo, a Tommaso e a ogni uomo che si avventura nelle profondità della Vita, non rimando alla superficialità del si vive: avventurar la vita è acconsentire a una relazione che mi ridà la mia vera identità, che è quella di figlio amato e fratello amante. Un’identità che non è un copiare quella del Figlio, ma intrecciandosi ad essa, costruire la mia, tanto da compiere cose «più grandi di queste».

domenica 3 giugno 2007

di Pasqua in Pasqua

Proprio perché, come scrivevamo, il senso del nostro agire (umano-cristiano-missionario), è dato dall’orientamento del nostro camminare nella nostra storia concreta, sia come singoli che come collettività, diventa vitale la domanda sull’origine del viaggio stesso. Affinché il nostro camminare non sia un “girovagare senza meta” o un “girare su se stessi” ma tragga dallo stesso avanzare la forza per sostenere la “fatica del viaggio”.
Come una barca in mezzo al mare, sbattuta dalle acque e senza una striscia di terra all’orizzonte che possa farne intravedere l’arrivo, occorre “fare il punto” della fede, sulla mappa della storia, per vedere a che punto siamo del tragitto e se, sballottati dal vento e dalla tempesta dei problemi della nostra vita, non ci siamo involontariamente allontanati dalla meta, come “smarriti nei pensieri dei nostri cuori” appesantiti dal quotidiano tran-tran dell’esistenza.
La meta non dobbiamo inventarcela, dobbiamo solo tracciare la rotta, nel mare senza strade e pieno di pericoli della vita, della “mia vita concreta”. Altri ci hanno preceduti, alcuni hanno fatto da “apripista” e taluni si sono accodati, molti sono già arrivati, altri ci seguono, altri ancora stanno partendo… Altri, forse i più, vorrebbero partire, ma timorosi, stanno a guardare se noi non… affondiamo!
L’unica nostra preoccupazione, per ora, deve essere però quella di vedere se siamo nella “direzione” giusta, se siamo ancora “in rotta”!
Per questo resta importante fissare lo sguardo là dove il viaggio è iniziato, per noi, per tutti, e cercare di vedere quale itinerario è stato percorso e perché, da coloro che ci hanno preceduti nel viaggio della fede e hanno “saputo” arrivare a destinazione.
E iniziamo allora là dove questo cammino ha cominciato nella storia dell’umanità.
Dove? A mio modesto avviso la “storia” ha inizio esattamente “qui”:

Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l'Hittita,l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora và! Io ti mando dal faraone. Fà uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!».
Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall'Egitto gli Israeliti?». Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte».
Mosè disse a Dio: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono/sarò!». Poi disse:«Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi». Dio aggiunse a Mosè:«Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.
Và! Riunisci gli anziani d'Israele e dì loro: Il Signore, Dio dei vostri padri, mi è apparso, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, dicendo: Sono venuto a vedere voi e ciò che vien fatto a voi in Egitto. E ho detto: Vi farò uscire dalla umiliazione dell'Egitto verso il paese del Cananeo,dell'Hittita, dell'Amorreo, del Perizzita, dell'Eveo e del Gebuseo, verso un paese dove scorre latte e miele.
Essi ascolteranno la tua voce e tu e gli anziani d'Israele andrete dal re di Egitto e gli riferirete: Il Signore, Dio degli Ebrei, si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto a tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore, nostro Dio. Io so che il re d'Egitto non vi permetterà di partire, se non con l'intervento di una mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l'Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo egli vi lascerà andare.
Farò sì che questo popolo trovi grazia agli occhi degli Egiziani: quando partirete, non ve ne andrete a mani vuote. Ogni donna domanderà alla sua vicina e all'inquilina della sua casa oggetti di argento e oggetti d'oro e vesti; ne caricherete i vostri figli e le vostre figlie e spoglierete l'Egitto»

Avrei dovuto scrivere tutto il libro dell’Esodo, alla cui lettura integrale rimando, ma non potendo, ho voluto qui riportare per esteso almeno il brano che è capitale per comprendere il cammino che intendiamo intraprendere perché vi è descritta l’esperienza primordiale e fondante di ogni esperienza di Dio, di ogni vocazione.
Siamo qui al capitolo 3° del libro dell’Esodo dove, nelle varie versioni della Bibbia, si dice che qui si tratta della vocazione di Mosé, ma stiamo attenti a non lasciarci ingannare, qui più che la vocazione di Mosé c’è la descrizione, passatemi il termine, della “Vocazione di Dio” e in quella di Dio, quella di Mosé e del popolo di Israele, di Gesù e dei suoi discepoli… Della nostra e quella di ogni uomo e donna.
Israele stesso ne è come positivamente “ossessionato”… E noi con lui… Bisognerebbe ritagliare il brano e incollarlo su un cartoncino per farne come un “segnalibro” tra le pagine della Bibbia per averlo continuamente sott’occhio ogni volta che leggiamo un qualunque altro brano. Non c’è infatti praticamente un solo passo della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, che in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente non vi faccia in qualche modo riferimento…
Tutta la storia di Israele, la predicazione dei profeti, la sua preghiera e il suo culto, le immagini e i simboli della Bibbia stessa (fuoco, acqua, vento…), hanno la preoccupazione di “dilatare” nella storia questo avvenimento di liberazione e di attualizzarlo rendendolo “visibile” facendone continuamente memoria. Così che, in un continuo rinvio circolare, (ri)attualizzandolo, ne (ri)comprende sempre meglio la infinita ricchezza della sua manifestazione.
Gesù stesso vi farà continuamente riferimento prima e dopo la resurrezione: in quanto ne è “l’ispiratore” (Gesù è Dio in quanto Figlio del Padre) e colui che lo porta a compimento realizzando definitivamente nella propria umanità ciò che in Mosé il Padre ha iniziato nella storia dell’umanità. E, in quanto “corpo di Cristo”, la Chiesa stessa (e la sua missione), non può esistere e capirsi se non in questa stessa dinamica. Il cristiano cioè, non può comprendere la propria missione e identità se non a partire, a imitazione di Gesù Cristo, dalla figura di Mosé e dalla storia di liberazione che ne segue(vedi nota), diventandone “vivente epifania”.


La Pasqua come avvenimento di liberazione e inaugurazione di una vita nuova, è, e resta, nella sua continuità e nella sua diversa compiutezza, l’avvenimento fondante sia per il cristiano che per l’ebreo. E a questa vita nuova, nella assunzione responsabile della libertà, rimanda tutta l’azione di Dio nella storia come descritta dalla tradizione biblica. E nuove, nel suo rinnovato significato, appaiono anche le “parole” ivi contenute.
Ad esempio, ma è solo veramente un piccolissimo esempio, parole “positive” come: libertà, figlio, amico, salvezza, riscatto, redenzione, guarigione, dono, grazia, amore, promessa, terra, popolo, Alleanza, fede, speranza, carità, avvocato, testimonianza, perdono, cuore, coscienza, anima, s/Spirito, Signore, dono, ascesi, vita, creazione, “Legge”, “comandamenti”… E naturalmente il loro contrario “negativo” come: schiavitù, servo, dannazione, malattia, odio, vendetta, peccato, fallimento, infedeltà, disperazione, morte… non possono essere comprese in modo adeguato nel loro autentico senso biblico se non all’interno della prospettiva inaugurata da questo avvenimento di liberazione ivi descritto. E questo è vero sia per l’Antico che per il Nuovo Testamento. Sia nell’esperienza credente del popolo di ebraico che nell’esperienza credente del popolo cristiano.
Infatti essa non fa altro che rimandare, come declinazioni storiche in un crescendo di attuazione e rivelazione, a quest’avvenimento fondamentale in cui Dio si manifesta come Liberatore e quindi conseguentemente nell’agire come tale, Creatore del suo popolo e per questo Signore della storia. Ed è da qui che deve “partire” ogni autentica vocazione missionaria…
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nota: Ricordo qui un solo esempio per il prima: l’episodio della Trasfigurazione (Lc 9,30; Mc 9,4; Mt 17,3) e per il dopo: l’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,27).

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