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mercoledì 15 aprile 2015

III Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 3,13-15.17-19)

In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 2,1-5)

Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,35-48)

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

 

Ancora un testo che ci parla di un’apparizione del risorto.

Tornano i temi classici legati a questi discorsi: il saluto di Gesù «Pace a voi!»; la reazione di paura, stupore e non riconoscimento da parte dei suoi (che “serve” agli evangelisti per farci sapere che Gesù risorto non era semplicemente tornato in vita come Lazzaro, ma era entrato in una condizione nuova, che lo rendeva quasi irriconoscibile); il farsi riconoscere di Gesù attraverso i segni della passione e attraverso parole e gesti in continuità con quelli che aveva usato da vivo (continuità che gli evangelisti mostrano per farci capire che colui che i discepoli incontrano, seppur in una condizione nuova, è sempre lo stesso Gesù).

Proprio su questa continuità si concentra in particolare questo racconto di apparizione. Infatti l’evangelista Luca fa dire a Gesù: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».

È Gesù stesso, dunque, in questo brano a porre quasi un ponte tra ciò che diceva da vivo e ciò che gli è poi effettivamente capitato e che lo fa essere ora lì presente, risorto, davanti a loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

È su questa frase conclusiva che vorrei oggi soffermarmi un po’. Perché, mentre il v. 46 («Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno») non aggiunge nulla di nuovo al mistero della Pasqua, i versetti seguenti, se letti con attenzione, nascondono qualche sorpresa.

Innanzitutto il v. 47: «e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme». La sorpresa riguarda proprio il fatto che, mentre noi siamo abituati a dire che la vita di Gesù si conclude con la sua passione-morte-risurrezione, qui c’è qualcosa di più. Cioè fa parte dell’evento di rivelazione di Dio, in Gesù, non solo la parabola storica della vita di Gesù, ma anche l’annuncio che di essa viene fatto dai suoi.

Non a caso il v. 48 dice: «Di questo voi siete testimoni». Voi siete testimoni non solo del fatto che Gesù ha patito ed è risorto il terzo giorno, ma che nel suo nome ciò che va predicato a tutti i popoli è la conversione e il perdono dei peccati.

Gli apostoli sono “apostoli” (= inviati) per questo: sono “mandati” ad annunciare a tutto il mondo la vita, la morte, la risurrezione di Gesù e la conversione e il perdono dei peccati.

Attenzione: non ad annunciare la vita-morte-risurrezione di Gesù, poi a minacciare per la conversione, e infine – per i convertiti – tornare ad annunciare il perdono dei peccati.

Ma ad annunciare la vita-morte-risurrezione di Gesù, la conversione e il perdono dei peccati.

domenica 17 marzo 2013

La novità sempre nuova!

Una Giustizia Nuova

Per un approfondimento “esegetico” del brano rimando al post precedente.
Qui segue lo schema dell’omelia.

Per prima cosa le letture di questa V domenica di quaresima ci insegnano che esiste una NOVITÀ:
Dice infatti la prima lettura tratta dal libro di Isaia: nel passato il Signore che ha fatto cose grandi (“aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli”) ma ciò che ci prepara è infinitamente più grande al punto che per quanto grande fu il passato non vale più nemmeno la pena di ricordarlo! «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa».

Una novità così grande, così al di fuori della nostra esperienza, che possiamo sempre dire di NON conoscerla.

E qual è questa novità?
Ce lo dice san Paolo nella Lettera ai Filippesi: La Giustizia apportata da Gesù! Paolo parla infatti di “nuova giustizia”! Ecco la NOVITÀ: Quella che ci offre Gesù! Non quella che viene da altro da lui, per quanto sublime: filosofia, legge, comandamenti, religione, morale… La “nostra” giustizia è nuova solo se viene dalla nuova giustizia di Dio rivelata in Gesù Cristo! Per questo, ribadendo lo stesso concetto della prima lettura, san Paolo afferma che tutto, ma proprio tutto ciò che ho conosciuto fin d’ora, è “spazzatura” a confronto di questa novità! Spazzatura eh, e guai a riciclarla!

Quindi NOVITÀ che non cessa mai di essere NOVITÀ, è questa GIUSTIZIA NUOVA!

E in cosa consiste questa giustizia nuova? Ce lo dice il Vangelo con l’episodio dell’adultera:
Ci sono tre personaggi: gli accusatori di un’adultera, l’adultera e Gesù!
Gli accusatori accusano: nessuna comunione anche quando se ne vanno! Non vanno dalla donna a dire «abbiamo sbagliato scusaci!»: Il male è ciò che non crea comunione che sia ARMATO o INDIFFERENTE, sempre assassino è! Al centro la donna, muta, silenziosa, come un agnello condotto al macello! Poi Gesù che prende le difese della donna, e crea vera comunione con lei e, attenti!, la porta a parola! Umanizza!

Per il Vangelo sempre anche quando gli altri se ne vanno la donna resta “in mezzo”! Questo a mio parere sta a sottolineare ciò che è centrale nella GIUSTIZIA NUOVA, nella NUOVA LIBERTÀ: la vera giustizia è quella che è capace di compromettersi per portare a parola a chi voce non ha! (normalmente si dice il contrario in una forma di paternalismo farisaico: dare voce a chi non ha voce!). La GIUSTIZIA NUOVA è una giustizia che si mette sempre e comunque dalla parte della storia fallita di ogni uomo e donna!

Quindi riassumendo l’insegnamento: Siamo davanti a una NOVITÀ che mai possiamo dire di conoscere appieno, e questa NOVITÀ è una GIUSTIZIA NUOVA che è tale perché è SEMPRE DALLA PARTE DI CHI HA SBAGLIATO! Comunque!

Conseguenze:
“Santo” traduce l’ebraico qadosh “separato”: Nel racconto dell’adultera, c’è il rifiuto della santità come separazione: nasce quindi un nuovo modello di santità come commistione!
Nel racconto dell’adultera, Dio non appare più “santo” perché separato, ma “santo” perché si sporca, si immischia con la storia umana: contrariamente a Pilato che se le lava, Dio ama sporcarsi le mani (mi piace pensare a questo significato delle dita nella sabbia di Gesù che rimandano alle mani nel fango di Yhwh nella creazione di Adam il Terrestre)! Così deve fare la chiesa e il cristiano: questo è il vero significato del perdono e quindi dell’amore! (Non si salva il fratello stando fuori dalla storia, nel proprio benessere!).

E allora una Chiesa, un cristiano, un ordine religioso che non scambia e si contamina assumendo su di sé i drammi della vita dell’altro, e che invece si aggrappa alla propria sacrale purezza, cessa di essere “sacramento di liberazione” (cf Vat II). La paura di contaminarsi per timore di perdere la propria identità sacrale fino a “separarsi” dal mondo, dai laici, dagli altri, fa del cristiano, del religioso, della chiesa, la versione moderna del fariseismo!
Ecco perché la Chiesa non può non uscire da se stessa e sporcarsi mani e piedi facendosi missionaria!

Per caso in rete, cercando chi fosse J.M. Bergoglio appena eletto vescovo di Roma, ho trovato questa sua espressione sul tema dell’evangelizzazione, che mi sembra si adatti bene a quanto stiamo dicendo: «Tutta l’attività ordinaria della Chiesa è impostata in vista della missione. Questo implica [che]si deve uscire da se stessi… È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima».

martedì 17 aprile 2012

III Domenica di Pasqua

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Terza Domenica di Pasqua, sono tutte molto pregnanti e ciascuna di esse meriterebbe una contestualizzazione ed un approfondimento specifici.

Ma, dato che – come sanno le persone che si aggirano più da vicino nei pressi dell’anima mia – questi sono giorni segnati da un po’ di fisiologica stanchezza, preferisco rinunciare all’impresa e concentrarmi su un unico aspetto, quello cioè per cui in tutte e tre le letture si fa esplicito riferimento al campo semantico del peccato e del perdono:

o   La prima lettura, infatti, – tratta dagli Atti degli Apostoli – riportando il discorso in cui Pietro, dopo la guarigione dello storpio al Tempio, rinarra i fatti della morte e risurrezione di Gesù, contiene al v. 19 quest’affermazione: «Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

o   La seconda – tratta dalla Prima Lettera di San Giovanni apostolo – dice: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo».

  • Infine, il Vangelo di Luca, dopo la narrazione apologetico-didattica della risurrezione «agli Undici e a quelli che erano con loro» (apologetica, perché è un testo costruito con l’evidente intenzione di dire “La Risurrezione è reale!” – «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho», «Disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro»;

didattica, perché istruisce sull’identità tra il Risorto e il Crocifisso – «Guardate le mie manie e i miei piedi: sono proprio io!» – e contemporaneamente sul fatto che però Egli non è semplicemente tornato in vita come Lazzaro, ma ha avuto accesso ad una condizione/Vita nuova, in cui la morte è vinta – «credevano di vedere un fantasma»)… Dopo tutto questo, il brano si conclude con l’affermazione di Gesù: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni», dove ancora una volta ritorna esplicitamente il campo semantico del peccato e del perdono.



Dunque… il peccato; il perdono; la conversione; il cambiare vita; il cancellare i peccati; l’avere come avvocato presso il Padre, Gesù in persona; Lui, che è la vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo… l’annuncio di tutto questo…

Un ambito semantico vasto… di cui – onestamente – mi spaventa un po’ parlare… perché – mi pare – uno dei più facilmente fraintendibili e effettivamente fraintesi nella storia e nella vita della Chiesa, che troppo spesso, faticando a convincere sulla bellezza del bene, ha preferito orientare la sua predicazione sulla paura del male; quasi a dire: “certo il male è più bello, questo lo sappiamo tutti, però va evitato, perché può avere conseguenze spiacevoli, soprattutto nell’aldilà”. Ne è nata così una religiosità fondata sullo spavento, che ha distorto il volto di Dio e che ha introiettato nelle nostre coscienze la logica del “meritarsi il paradiso” e quindi di pensare e pensarsi, agire e rinunciare in base alla bilancia che ci troveremo davanti (???) quando moriremo.

Nelle nuove generazioni questa mentalità sembra diradarsi – il loro dramma non è non andare all’inferno, ma il dubbio sistematico sull’esistenza di Dio e dunque sul nulla in cui finiremmo, morendo –, eppure anche loro mantengono un’inquietudine sulla “peccaminosità”, così come culturalmente per secoli è stata intesa; magari abbracciandola, sfidandola, sfidandoci, ma rivelando di non avere poi un presupposto molto diverso dal nostro…

La questione allora si fa radicale, va ripensata in radice… per questo è sempre un po’ faticoso parlarne… perché non si tratta dei peccati, da evitare o da confessare, perché saranno da mettere là sul bilancino… ma si tratta dell’avere a che fare col problema serissimo del male che faccio, passando in questa storia; della dinamica di morte che eredito, ma anche rilancio attraversando questo mondo. Il problema è la messa in discussione della mia identità (e quindi delle mie relazioni) che il male che faccio attua: “Chi sono io per aver fatto questo?” – “Se ho fatto questo, chi sono io?”.

Io credo che attaccare il problema da questo versante (l’unico che a me pare autentico e per il quale valga la pena fare la scalata) aiuti molto anche a collocare come si sia posto Gesù nella sua vita di fronte a questo problema e a comprendere i passi neotestamentari che ci attestano questa sua collocazione.

Anche qui… Il discorso è molto vasto, ma dato che i vari aspetti che lo compongono sono tutti intersecati l’uno all’altro, lascio a voi la fatica di pensarci su e rivedere il quadro d’insieme; io suggerisco solo un punto di osservazione: Chi è Gesù, nella storia, di fronte al problema del male che io faccio e della mia identità alla luce del male commesso? Egli è – citando il Salmo 42,6 – «salvezza del mio volto e mio Dio». È cioè colui che custodisce la mia identità, anche quando io stessa la perdo, quando io stessa la comprometto e non la riconosco più per il male che ho fatto.

Ecco cosa vuol dire che Gesù ha cancellato i nostri peccati: che – morendo così, cioè fedele fino alla morte alla vera identità di se stesso e del Padre suo – si è attestato per sempre come colui che custodisce il vero volto di ciascuno, cosicché quando – di fronte al male che faccio – mi dico “Io non sono quella donna”, Egli mi garantisce sempre e per sempre la possibilità di ri-accedere all’autenticità di me… che non è “sono un cacca” o “una puttana” o “una traditrice”, ecc… ecc… ecc… (come giustamente ciascuno di noi concluderebbe guardando al male che fa), ma sentirsi dire “Sei mia figlia”.

Allora… capite quanto è importante (ed è già la seconda domenica di fila che la Chiesa ce lo ripropone dei testi della Liturgia della Parola) il mandato di Gesù «predicate a tutti i popoli il perdono dei peccati»?

È il mandato a tutti i suoi discepoli e le sue discepole (non solo gli Undici, ma anche «quelli che erano con loro») a essere – almeno un pochino – custodi dell’autentica identità di figli di ciascun uomo. E – come abbiamo sperimentato per primi noi sulla nostra pelle – non si è convincenti in questo, se non intrecciando davvero le nostre storie con le loro, legando i destini, mischiandosi col loro impasto di sudore e sangue e lacrime e paura.

[Allora mi piace concludere, ricordando Giuliano, di cui proprio stanotte ricorrerà il secondo anniversario della morte, perché lui è proprio stato uno di questi appassionati custodi dell’identità umana e filiale di ciascuna persona che ha incontrato. Ma lo faccio in piccolo, perché a lui non piacevano questo cose, perché – diceva – “Sono timido!”]





domenica 11 settembre 2011

Il perdono possibile


Perdonare settanta volte sette, è la risposta di Dio antitetica ed esponenziale (sette di Caino e settanta di Lamech moltiplicate tra loro!) alla voglia di vendetta dell’uomo.
Ma come è possibile perdonare “oltre” il “sempre” (sette!)?
Occorre forse dapprima studiare le dinamiche del nostro odio…
Aveva ragione quel professore di esegesi nel dire che la bibbia, se la si vuole veramente comprendere, “va guardata”. Solo guardando con gli occhi il testo si possono scoprire cose che nell’ascolto facilmente sfuggirebbero.
Come quel vuoto, incredibile, assurdo tra la fine del versetto 27 (gli condonò il debito) e l’inizio del 28 (Appena uscito). Un capitolo che non c’è e che invece avrebbe dovuto esserci… Uno spazio, un vuoto immenso che dice tutta la differenza, ad esempio, tra la parabola del figliol prodigo e questa. Tra la gioiosa baraonda di una festa in un abbraccio ritrovato e l’assordante silenzio di un cambio di scena vissuto come una fuga da uno scampato pericolo. Neanche un “grazie!” neanche una stretta di mano… l’importante era “farla franca”.

Però c’erano le premesse che qualcosa in quel dialogo non andava, anzi che dialogo proprio non era. Gesù mentre racconta sottolinea come “costui non era in grado di restituire” il debito iperbolico, eppure si ostina a chiedere (letteralmente) “magnanimità” (macrothimia) con lui (sic! Come dire “non fare come con gli altri”?) “…e ti restituirò ogni cosa”!

Mente sapendo di mentire! Forse mentiva anche a se stesso: l’orgia del denaro si sa, è per sua natura alienante, perché rende ubriachi nella menzogna di un mondo che non c’è. Comunque sia, non gliene fregava niente di riconciliarsi, a lui bastava salvarsi. Certo non si aspettava che gli rimettesse il debito, gli bastava che fosse dilazionato. Fino alla prossima volta, poi si vedrà, qualcosa si escogiterà… Così esce dall’incontro convinto d’aver fregato il creditore! “Che fesso!” si sarà detto… Il suo cinismo (microthimia?) è già tutto qui. Con un rancore in più verso quella “carogna di re” (si rodeva dentro) che – dal suo punto di vista – l’aveva costretto a umiliarsi… gettarsi per terra, supplicare, come fosse un pezzente…
Al che mi veniva da pensare alla povera moglie e ai poveri figli… Chissà che inferno di vita con un uomo così. Forse avrebbero preferito essere schiavi di un re magnanimo piuttosto che familiari di uno del genere…
Quello che segue è semplice conseguenza di quanto descritto: Inevitabile che sul primo che trova sulla soglia (letteralmente: uscendo) scarica tutto il suo rancore.

Non potrebbe esserci ricostruzione più plastica del vero problema che ci assilla: Noi non crediamo veramente di essere stati perdonati! In fondo siamo vittime dell’idea di Dio che ci siamo fatti! Con quel che ne consegue. Così gli attribuiamo una giustizia che è semplicemente la proiezione della nostra idea di giustizia. L’inferno forse è proprio questo.

Come uscirne?
Se ricordo bene, è il Concilio di Trento che afferma che nessuno, senza una grazia speciale, può essere certo di essere salvato! Certo se uno pensa che la salvezza non sia “una grazie speciale”… Ma dico io, come si fa a vivere con la paura di non essere perdonati! Solo quelli di radioMaria possono predicarlo, consegnando se stessi e chi li alscolta, alla dannazione di quella paura da cui non credono di essere stati liberati… Ma non sono i soli, e non vengono dal nulla! C’è una malsana tradizione in proposito… E alcuni vi hanno fondato pure la propria spiritualità!
Sono secoli che la chiesa orientale e occidentale considera preziosa – e la propone pure come modello! – la cosiddetta “preghiera di Gesù” detta anche “preghiera del cuore” o “preghiera esicasta”, in cui si ottiene la quiete (esychia) interiore ripetendo continuamente le parole “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!”… che è come dire ripetere all’infinito il gesto di questo servo cinico… Avete contato quante volte domandiamo “pietà” al Signore durante la messa? Ma non è “eucaristia”? cioè ringraziamento? E quando lo manifestiamo? Persino la comunione la facciamo come se stessimo ingoiando un tizzone ardente! Eppure è un “ringraziamento di una salvezza che si compie”. È – dovrebbe essere – il capitolo che manca alla parabola… della nostra vita.

Che ci sia gente che è diventata e diventa santa con questa pseudo-spiritualità, lo si deve all’infinita magnanimità di Dio, non certo alla preghiera o al “metodo” usato. Avrebbero potuto diventarlo con qualunque altro mantra! Ma ve la immaginate una persona che passa tutto il tempo a chiedervi scusa per quello che ha fatto o peggio sta facendo? O ci crede al perdono o smetta di fare quello che sta facendo, altrimenti vada al diavolo! Tediamo pure Dio, citando – come fa satana nel deserto – la sua stessa Parola!

Molto più fine la polacca suor Faustina che dice che la più grande offesa fatta al Signore è dubitare della sua misericordia, cioè del suo costante perdono! E allora uno non passa il tempo a chiedere perdono a Dio e al fratello, ma cerca di vivere con Dio e il fratello del perdono avvenuto! Cioè passa dal perdono alla riconciliazione! Dal “lutto” alla “festa”! Dalla morte alla vita, come dice appunto il padre della parabola al figlio maggiore che non vuol festeggiare (evidentemente ascoltava radioMaria)… E questo non può non generare “rapporti nuovi”: come constatano, con tristezza, gli altri servi… La giustizia nasce sempre dalla pienezza di un perdono sperimentato, accolto, creduto, testimoniato…

E così arriviamo al cuore stesso dell’avvenimento cristiano: il cristiano è colui che si sa salvato, non ha bisogno di rivelazioni particolari per saperlo, perché si sa perdonato! Questa è la condizione “normale” del cristiano! E vive di questo e in questo perdono! Questo è il cuore della fede! Cioè di ogni avvenimento della vita che prende origine dal perdono pasquale di Cristo! Questo è quello che ci ricordano e comunicano tutti i sacramenti (memoriali). E ci ricordano continuamente gli apostoli. Per questo apparteniamo – persino nella morte – alla gioia (Paolo, nella seconda lettura) e non alla paura. Questa appartiene al passato, al futuro del presente appartiene la consapevolezza della vittoria donata. Come sa ogni buon sportivo e tifoso! Ecco perché il perdono ricevuto non può non manifestarsi nella gioiosa responsabilità di manifestare l’avvenuta riconciliazione: è il perdono da noi offerto sempre e a tutti che ci fa sacramento vivente di questo perdono ricevuto: c’è forse altro da testimoniare? Altrimenti ha ragione l’apostolo Giacomo… sono solo parole e la rimessa del debito, non può che trasformarsi in strumento ulteriore di oppressione (Lo prese per il collo e lo soffocava).

Il fallimento delle nostre confessioni, in fondo sta tutto qui: andiamo per scaricare il nostro senso di colpa, consolandoci delle parole e dei gesti benedicenti del sacerdote (a questo livello inutili), non per riconciliarci con Dio e con i fratelli, unico modo per eliminare il peso che ci opprime. Abbiamo trasformato il sacramento della penitenza come il luogo luttuoso dove Dio ci perdona e non come il “luogo di festa” in cui noi prendiamo coscienza del suo perdono che ci precede. Il sacramento della penitenza non è il luogo dove noi “ci gettiamo a terra” supplicando una dilazione dalla meritata punizione (sperando di scamparla poi al momento della morte e del giudizio finale!), ma il luogo nuziale dove noi, riconosciutici perdonati prima ancora di pentircene, vogliamo ristabilire un rapporto nuovo con la vita e il suo autore. Solo incamminandoci in questa via, possiamo uscirne veramente rinnovati nel cuore: magnanimi e non meschini.

E scopriremmo infine che se c’è una “verità” nella vendetta (costringere l’altro a cambiare, riparare il torto subito, togliere il male che ci opprime, ridare vita a una morte subita, “fargliela pagare”…) solo la forza del perdono così vissuto è in grado di ottenerla. Ma questa è l’affascinante scoperta di ogni drammatico giorno…

giovedì 8 settembre 2011

XXIV Domenica del Tempo Ordinario: Il perdono

Come preannunciato domenica scorsa, in questa ventiquattresima settimana del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone la seconda parte della seconda parte (scusate il gioco di parole) del Discorso ecclesiale di Matteo, quello coincidente cioè col capitolo 18 del suo vangelo.

L’argomento centrale, come si evince immediatamente dalla domanda di Pietro del versetto 21 («Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?»), è quello del perdono… affrontato quasi per intero attraverso la parabola del cosiddetto “servo spietato”…

Dico «cosiddetto servo spietato», perché in realtà a me è sempre stato super simpatico… forse perché mi assomiglia un po’ (come potrebbero testimoniare quelli che vivono con me, descrivendo quasi plasticamente le durezze del mio cuore)… perciò definire lui spietato per me è come tirarmi la zappa sui piedi… ecco perché preferisco definirlo il “cosiddetto servo spietato”…

Perché mi sta simpatico? Beh innanzitutto per il motivo per cui dovrebbe star simpatico a tutti… cioè il fatto che – come direbbero a Bergamo – l’è ‘n pör marter (= è un povero martire). Anzi, la parabola stessa, nella sua prima parte, è costruita perché il lettore si schieri dalla parte di questo servo: «Fu presentato al re un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”». Insomma, una situazione così disastrosa, che chiunque si muove a pietà… Certo ha dei debiti, ma, se è addirittura nella situazione che gli portan via moglie e figli, non può non suscitare compassione! E difatti anche il suo creditore, cede: «Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito».

A me – però – continua a star simpatico anche dopo… quando invece tutti lo dileggiano e anzi va a finir male, quando cioè incontra un altro servo, che gli doveva dei soldi, e non vuole aver compassione di lui… e addirittura lo fa mettere in galera…

A me continua a star simpatico perché ho sempre pensato: “Ma hai presente che spavento questo s’è appena preso!?!? Per forza poi cerca di racimolare tutti gli spiccioli che ha in giro come creditore e di non risultare più insolvente! Perché – ok che stavolta gli è andata bene con questo padrone – ma queste son fortune che non si ripetono…”.

Ed ecco la questione: troppo facilmente, invece, a questo punto della parabola la nostra simpatia per questo servo slitta sull’altro e si trasforma in antipatia… troppo facilmente diamo ragione al padrone – che cambia idea! – e difendiamo le sue scelte (probabilmente perché troppo facilmente lo identifichiamo con Dio e dunque ci sentiamo di ergerci a suoi baluardi…).

Perché mi veniva da chiedermi: se Gesù ha appena risposto a Pietro che non bisogna perdonare 7 volte, ma 70 volte 7 (cioè sempre, non 490, che seppur è un numero alto, si esaurirebbe in meno di un anno… dovendoci perdonare l’un l’altro di esistere almeno una volta al giorno, tanto siamo gli uni un problema per gli altri…), com’è possibile che adesso presenti il volto di un Dio che ti perdona una volta e poi – perché tu non fai come Lui – ci ripensa e ti punisce così terribilmente («Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto»)!?!

Forse c’è qualcosa di questa parabola che ci sta sfuggendo…


Riprendiamola perciò con ordine.

La prima scena – dicevamo – presenta il nostro pör marter che ci suscita simpatia: si tratta di un servo, con un debito grossissimo. Credo che provare a quantificarlo, possa aiutarci in maniera significativa per capire quanto invece finora c’è sfuggito… Il suo debito ammonta infatti a diecimila talenti… è «una somma straordinaria, impensabile; diecimila talenti: noi sappiamo che il reddito annuale del re Erode era di novecento talenti; un denaro d’argento era il compenso di una giornata di lavoro; dunque: un talento = diecimila giornate di lavoro; diecimila talenti = cento milioni di monete d’argento: somme fantastiche e leggendarie, soprattutto se si calcola che a quel tempo circolava molto meno denaro; è una cifra inimmaginabile in quel tempo» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, in G.Facchinetti-P.Pezzoli-P.Rota Scalabrini, Scuola della Parola, LIG, Bergamo 1999, 142]. Facendo un paragone coi nostri giorni sarebbe come 5 miliardi di euro…

Quell’altro servo invece gli deve l’equivalente di 5000 euro… Queste sono le proporzioni…

Ora, l’intrigo della parabola non è quello per cui noi siamo giudici esterni alla scena… né è quello per cui la nostra identificazione dev’essere fatta col secondo servo o col padrone… La simpatia iniziale per il primo servo è il segnale che quello lì siamo noi! La finzione della parabola ci porta lì: ecco perché la simpatia (cioè patire con lui / avere il suo punto di vista) non deve cambiare a metà della storia… Il punto è che noi siamo quel primo servo!

Ora conosciamo anche le proporzioni dei debiti… Noi siamo quelli che devono 5 miliardi di euro! Allora non dobbiamo fare l’errore di slittare subito sull’insegnamento morale (Cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo comportarci? Perdonare), ma fermarci un attimo sul punto zero: questa parabola rivela la nostra identità. Io sono quello che ha un debito grandissimo…

Se ci pensiamo… è vero… Se ci pensiamo soprattutto in relazione alla posizione che Dio in Gesù ha assunto nei nostri confronti: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

La posizione di Dio in Gesù nei nostri confronti è esattamente questa: Egli è Colui che ha dato la sua vita per noi, prima, anzi al di là di ogni nostro merito, anzi nonostante non lo meritassimo per niente, né mai saremmo in grado di meritarlo… Non a caso ciò che anche liturgicamente è diventato normativo («Fate questo in memoria di me») è esattamente la ripresentazione della donazione per noi della sua vita («Questo è il mio corpo / sangue offerti in sacrificio[1] per voi»).

Allora, forse, il nucleo centrale della parabola più che morale è teologico e – dunque – antropologico; cioè, più che tentare di rispondere alla domanda sul “dà farsi”, risponde a quella su “chi è Dio” e – dunque – “chi è l’uomo”…

Ecco perché l’identificazione tra Dio e il padrone va bene fino ad un certo punto… perché quando del padrone sentiamo dire «Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto», dovrebbero scattarci gli “anticorpi” e riconoscere quest’affermazione estranea al volto di Dio che Gesù ci ha rivelato. Quasi come un tranello dell’evangelista… La verifica finale per vedere se hai capito la parabola o no… Se non l’hai capita, vai avanti fino alla fine con l’identificazione padrone-Dio, se l’hai capita ti stoppi…

Ti stoppi e ti fermi sull’identità dell’uomo che esce da quel volto di Dio, che è quello che – a prescindere – ha deciso di dare la vita per te, di condonarti un debito spropositato, impensabile, inaccumulabile in una vita, fossi anche il più perfido dei perfidi…

Ecco, è a partire dal riconoscersi uomini così che si può procedere… Infatti «il perdono fraterno è [non causa del perdono divino, ma] piuttosto conseguenza del perdono di Dio, ne è risposta. […] Il contrasto fra i due quadri della parabola, infatti, non ha come scopo principale quello di far vedere la diversità del comportamento divino nei confronti di un uomo che sa perdonare e nei confronti di un uomo incapace di perdonare» [B.Maggioni, Il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 237], ma è quello di mostrare la giusta collocazione di ciascun uomo di fronte a Dio: ognuno di noi è l’immeritatamente perdonato.

Questa “ricollocazione” – ed ecco la seconda parte della parabola – dovrebbe aprire anche a nuove relazioni fra gli uomini, fra “immeritatamente perdonati”…

Ma – appunto – o si è guadagnato il “punto zero” della ricollocazione di ciascuno di fronte al Signore, o ogni discorso sui rapporti coi fratelli risulterà infondato, opprimente, moralistico, incatenante, ingiusto.

Si parla infatti un po’ troppo superficialmente e con inescusabile nonchalance di “perdono” (come nei casi estremi di quando gli intervistatori dei TG vanno a chiedere alla mamma o al papà di qualche ragazzo/a appena morta se perdonano gli assassini… o come nei casi – meno estremi, ma non meno drammatici – in cui senza fare i conti con la storicità della nostra carne, dei nostri sentimenti, dei nostri passettini interiori, ci imponiamo di perdonare / amare qualcuno)…

Il perdono è invece una cosa seria, che ha a che vedere con il dolore, con la sofferenza, con le ferite nella carne dello spirito… Implica una rielaborazione viscerale, cioè letteralmente un riordinamento / ricollocazione delle viscere…

Di tutto questo la parabola non parla: in proposito è molto più esplicito il dramma di Gesù durante la sua passione, quando il suo dubbio è esattamente questo: “Ma io devo morire / dare la vita per questi qui che non hanno capito un tubo? Che mi amano così poco da avermi lasciato qui solo?” (che è la domanda della vita di ciascuno: “Ma io devo dare la vita per questi qui?!?!??”). La risposta definitiva di Dio in Gesù è stata “Sì”. E a sottolineare quanto forte sia il legame tra questa risposta (l’amore come risposta al non amore) e il perdono come determinazione definitiva di Dio, c’è la celebre frase che Luca mette in bocca a Gesù morente: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

«La parabola spiega invece il perché anche al cristiano sia ormai possibile perdonare» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, 142].



[1] Cfr. il senso che dà a questa parola F. Hadjdj in Farcela con la morte, Cittadella Editrice, Assisi 2009.

venerdì 29 ottobre 2010

XXXI Domenica del Tempo Ordinario: Prima la comunione, poi la conversione!

Le lettura che la Chiesa ci propone in questa trentunesima domenica del Tempo Ordinario, sono costellate di “elementi noti” per le nostre “orecchie cristiane” o, comunque, per le orecchie di coloro che sono cresciuti a bagnomaria in una cultura cattolica come la nostra: si parla infatti di peccati, peccatori, conversioni, perdono di Dio…


Ma – come sempre – l’emergere di “fattori conosciuti” porta in sé un grosso rischio… quello cioè di dar per scontata la Parola di Dio, perché – sostanzialmente – ci si ritiene già esperti in proposito… o comunque si ritiene che la “solfa” ecclesiale sul bene e sul male, sull’espiazione e sulla misericordia di Dio sia giunta fin troppo volte a invadere il nostro spazio uditivo, arrivando fin a farci dire “Ne abbiamo abbastanza, sappiamo già tutto!”.

Il punto è che questo “tutto” che pensiamo di sapere e che ci salta in mente istintivamente, quando certi termini ricorrono nei discorsi ecclesiali e – ahi noi l’identificazione! – nei testi biblici, è il risultato di un’operazione logica che associa le parole prima elencate (peccato – peccatore – conversione – perdono di Dio) più o meno in questo ordine: l’uomo pecca, ritrovandosi in uno stato (quello di peccatore) da cui deve uscire – se vuole salvare l’anima o per lo meno l’amicizia con Dio – e, per farlo, deve mettere in atto tutta una serie di cose (pentimento, espiazione, penitenza o, se già morto, le preghiere, le messe, le offerte dei familiari…)… a quel punto non resta che sperare nella misericordia di Dio… che lo faccia deliberare per il perdono.

Questa è la morale che ci hanno insegnato: non bisogna fare il male, perché altrimenti si incorre in una punizione (prima si pensava terrestre, poi – dato che a volte non sopraggiungeva – celeste, cioè l’inferno); se lo si fa, bisogna in tutti i modi porvi riparo al più presto, per evitare che possa capitare di morire in stato di peccato e dunque – appunto – incorrere nel castigo eterno. Da cui la necessità di tutta una serie di atti riparatori che ripristino la possibilità di tornare ad essere guardati da Dio non come dei peccatori da punire, ma come dei pentiti da accogliere con misericordia.

In tutto questo ragionare il ruolo dell’uomo è quello di non fare il male per evitare la punizione e quello di fare il bene per meritare un premio, in un’esistenza che non ha senso in sé, perché unico scopo di questo mondo sembra essere quello di fare da banco di prova per decidere del nostro futuro eterno: se fai il bravo vai in paradiso, se fai il cattivo vai all’inferno, se sei così così vai in purgatorio.

Anche a Dio però in questo quadro non si dà un gran posto… Di fatto, al di là di porre gli uomini nell’esistenza, il suo ruolo sembra solo quello di ratificare l’esito delle varie vite: dire se uno è bravo e meritevole del paradiso oppure no… Sembra addirittura che non sia poi proprio Lui a salvare gli uomini – perché questi, se si comportano bene, si salvano da soli, si meritano il paradiso!

Dentro a questa mentalità – presentata magari in maniera un po’ essenziale (cioè senza i fronzoli che tentano di attenuare i vari passaggi, per renderli meno ridicoli), ma indubbiamente ancora assai diffusa nel pensiero cristiano medio (cioè in quell’imprinting che abbiamo dentro tutti e ci sale alle labbra in maniera automatica) – noi crediamo di sapere il “tutto” della proposta evangelica sul peccato… e dunque evitiamo di tornare a prendere in mano i testi o li leggiamo distrattamente…

Solo che quando invece si decide di far la fatica di andare a rileggersi le letture, ci si accorge che ci son lì due o tre bordate inconciliabili col nostro pre-sapere, cioè con la nostra conoscenza previa della tematica in questione.
Innanzitutto il libro della Sapienza, che di Dio dice: «Hai compassione di tutti», «chiudi gli occhi sui peccati degli uomini», «sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita»… qualcosa di un po’ diverso dal volto di Dio che emergeva nel nostro modo solito di pensarLo in relazione al nostro peccato…

Ma ancora più sconvolgente il vangelo, dove – a ben guardare – è proprio descritta la storia di un peccatore (Zaccheo)… solo che i passaggi che compongono la sua vicenda (pur essendo i medesimi citati in precedenza), sono come assemblati in una maniera fantasiosamente diversa da quella che automaticamente a noi era venuta in mente…

Infatti, anche se il punto di partenza è il medesimo (c’è un uomo che ha peccato – ripetutamente, tra l’altro – e dunque si ritrova nella condizione del peccatore), già il secondo elemento varia… non c’è l’esigenza di uscire da questo stato e dunque di mettere in atto tutti gli escamotage che possano “lavare l’anima”… Zaccheo non sembra particolarmente preoccupato del suo essere peccatore… anzi, quando si presenta sulla scena evangelica è presentato più come un pacifico curioso che vuol vedere chi è questo Gesù che passa per la sua città, che un martoriato peccatore in cerca di espiazione… anzi… sappiamo che è un pubblicano solo grazie al commento dell’evangelista, non perché i suoi gesti o le sue parole o i suoi pensieri lo lascino percepire come un peccatore o quant’altro: «In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là».

Cambiando la prima delle associazioni in gioco nell’elaborazione di una logica che tenga insieme gli elementi della vicenda del peccatore, cambiano inevitabilmente a catena anche tutti gli altri… e di fatti il passo successivo non è la richiesta di perdono di Zaccheo a Gesù, ma il fatto che Gesù decida di incontrare Zaccheo: «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”». È a questo punto che il peccatore si converte e mette in atto tutta una serie di scelte che lo porteranno a cambiare il suo comportamento: «Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”».

Allora… riassumendo…

Il nostro pensiero automatico era: un uomo pecca e quindi diventa un peccatore – ciò lo porta a rischiare di incorrere nell’ira di Dio e nella sua punizione quindi deve convertirsi e fare tutto ciò che serve per espiare la sua colpa – a questo punto può sperare che Dio, nella sua misericordia, lo perdoni.

Mentre il vangelo dice: un uomo pecca e quindi diventa un peccatore – ciò lo porta ad essere cercato dal Signore («Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto») e questa offerta di comunione, accoglienza, benevolenza, scioglie l’interiorità del peccatore, che per questo si converte, contagiato da quel bene che ha ricevuto.

La prospettiva è un po’ diversa… il volto di Dio in gioco è un po’ diverso… ma anche il volto dell’uomo… Il punto è decidere a quale dare credito, sapendo però che non si tratta di una scelta nominalistica (scelgo che etichetta mettere sulla scatola della mia fede ma poi il contenuto è comunque sempre lo stesso), ma di una scelta da cui dipende il mio modo di stare al mondo, di guardare al mondo, di inserirmi in questa storia… da questa scelta infatti dipende come guardo/penso Dio, come guardo/penso me stesso, come guardo/penso gli altri e dunque quali scelte faccio, a quali emozioni decido di dar peso e a quali no, su cosa investo e spendo energie e passione e dedizione e su cosa invece no… sapendo che – come per Zaccheo – il termometro dell’adesione vera alla prospettiva di Gesù è «il cambiamento delle relazioni e la gioia del cuore! È il passaggio da un rapporto di oppressione, competizione, imbroglio reciproco… magari frenato da normative morali e legali, che custodiscono una più o meno sopportabile convivenza … ad un nuovo rapporto conviviale, sbilanciato nella benevolenza sia verso i poveri e i deboli, sia verso chiunque abbiamo fatto soffrire… Una trasformazione inondata di gioia, perché ciò che inconsapevolmente soffoca la gioia dentro il cuore di tutti gli Zacchei che noi siamo, è la sofferenza che il nostro comportamento provoca negli altri, l’indifferenza alla loro sorte, per insensibilità di cuore, o il raffinato disprezzo che nullifica le persone. Il giovane ricco, che non ha avuto il coraggio di condividere i suoi beni con i poveri, come Gesù gli suggeriva, se ne andò triste… non per i propri peccati, che non aveva!... (Quando ci convinceremo che non sono importanti, i peccati, per la salvezza?… anzi nel vangelo sono proprio i peccatori che si convertono a Gesù, provocando gioia perfino negli angeli del paradiso – più che i giusti!). Se ne andò triste, comunque, perché aveva rifiutato di condividere i suoi beni con i poveri. Forse lui non lo sa, ma è la loro sofferenza che lo contagia e gli incupisce il cuore. Ancora una volta non si tratta di doveri morali adempiuti o trasgrediti, si tratta di relazioni umane da liberare e trasformare in amore, perdono e accudimento reciproco… Questa è la salvezza che Gesù è venuto a portare. [E infatti] Zaccheo si è ammalato della malattia di Dio. Questa è la vera causa dello “scioglimento dei peccati”, praticata da questo Rabbi! Zaccheo si è ammalato di compassione, cioè di passione per la vita degli altri, a cominciare dai poveri e da quelli che ha impoverito lui! E’ diventato “amante della vita”, non dei soldi. Perché gli è rinato dentro il vero amore dei viventi. E allora i soldi e i beni sono solo dei mezzi per vivere e far meglio vivere la gente. I capi e i responsabili del popolo e del tempio disprezzavano il pubblicano, ma usufruivano del servizio. Questo Rabbi non lo disprezza per niente, anzi si è autoinvitato a casa sua, tra lo stupore scandalizzato della gente, ma gli ha riempito di gioia il cuore e tutta la casa. Gli ha tolto di dosso per sempre il disprezzo e gli ha cambiato la vita, con questa seconda “celebrazione penitenziale evangelica” che Gesù ha celebrato, con intenso compiacimento e tenerezza. (La prima è stata in casa di Simone il Fariseo (7,36ss), con la prostituta che, anche lei tra il disprezzo dei benpensanti, non ha altro di suo da dargli che profumo e baci, lacrime e carezze… Non a caso sono i due i prototipi di tutti i peccatori che hanno accolto la salvezza e ci precederanno in paradiso!)» [Giuliano].

Ma… se a Zaccheo per uscire da se stesso e dai suoi circoli mortiferi è bastato così poco, cioè che un altro lo guardasse e gli offrisse comunione... e se questa logica è vera anche nella nostra esistenza (quante volte infatti ci basta un altro che ci guarda con benevolenza per tirar su gli occhi dal nostro ombelico...), se, infine, abbiamo un Dio che di fronte al peccato dell’uomo si rivela come colui che «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto», perché invece quando i peccatori sono gli altri, noi (come chiesa e come singoli) riusciamo solo a tracciare i nostri confini escludenti?

Forse “gli altri” aspettano solo che li guardiamo e proponiamo loro comunione... come Gesù/Dio con Zaccheo/l’uomo…

domenica 26 aprile 2009

Come imparare a raccontare una storia: la storia della salvezza!


...Storia di Gesù
…i discepoli di Gesù, quelli che più da vicino ne avevano condivisa l’avventura del giovane maestro che percorreva i sentieri della Galilea, predicando il regno di Dio e operando prodigi di misericordia, sono saliti con lui a Gerusalemme nel momento cruciale della sua vita, ma quando i poteri del mondo si coalizzano contro di lui, lo abbandonano per paura di essere travolti nella sua passione e morte. Di fatto, in due giorni, fu tradito, giudicato, torturato, crocifisso. E tutto è finito... in una tomba, come ogni avventura umana! Nel loro cuore, sui ricordi struggenti di questa esperienza, una lapide: Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele… (Lc 24,21). Ma ecco l’evento nuovo, incredibile: “alcune donne delle nostre ci hanno sconvolti… : “abbiamo visto” il Signore! E, dopo le donne, tutti i discepoli, in diversi modi incontrano il “crocifisso risorto!” ¬ e sono chiamati ad esserne testimoni! Una testimonianza speciale: Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio (At 1,3). Insegna loro, dunque, a capire e a rivivere il compimento delle Scritture che in modo impensabile si è avverato in lui, nella breve storia della sua vita, morte e risurrezione: lui stesso apre loro la mente (Lc 24,45) e infiamma il cuore (24,32) coinvolgendoli totalmente in questa storia, perché imparino a viverla e raccontarla.
L’autotestimonianza di Gesù
Nessun altro ha capito la sua storia, la sua missione nel mondo, nonostante innumerevoli tentativi di prevenire e poi spiegare il Regno di Dio… che in definitiva era Lui stesso! A noi è arrivata la testimonianza di chi finalmente, condotto per mano da Lui stesso, e poi dallo Spirito che ha alitato su di loro, ha colto la quintessenza di tutta la Scrittura, contenuta in questi avvenimenti. Nella sua vita, morte e risurrezione si sono condensate tutte le Scritture e si è illuminato il loro senso. È arrivato alla tappa definitiva il lungo millenario cammino. Gesù l’aveva predetto varie volte, ma le sue parole erano apparse incomprensibili: bisogna che si compiano le cose scritte su di me! Adesso la premura pedagogica di Gesù ha una premessa: togliere anzitutto dai discepoli la paura e i dubbi (Luca li chiama i “ragionamenti che salgono dal cuore”, che covano in ogni credente, almanaccando tutte le ipotesi possibili per…non arrendersi all’evidenza troppo coinvolgente: è un fantasma, un’allucinazione, la proiezione del desiderio…!?). Ma l’evidenza è incontrovertibile: vedere, toccare, parlare, mangiare sono il marchio di garanzia della sua permanente corporeità, altrettanto “fisica” quanto “libera” dalle leggi pesanti della materia di quaggiù. Un diverso modo di essere pienamente corpo! Di più non ci è spiegato e non è necessario alla fede! Ma colui che guardano, toccano e vedono mangiare è di certo la stessa “persona”, lo stesso uomo, il loro maestro che avevano visto crocifisso e deposto nel sepolcro!
Pietro disse al popolo…: fratelli, il Dio di Abramo… !
…finalmente ha imparato gli è cambiato la mente e il cuore in questi quaranta giorni! La sua fede era morta o paralizzata dalla paura e dallo scoramento, ma adesso è rinata e consolidata: è divenuta fede “cristiana”! Proprio il rifiuto e il ribrezzo della passione e morte del Signore era il veleno del rinnegamento, che inquinava la fede precedente, pure sincera e lodata dal Signore. Una fede che, però, vedeva solo la gloria del Messia potente! Adesso parla di Gesù chiamandolo con la convinzione e tenerezza di un approccio nuovo: il “servo” Gesù! Adesso il veleno si è sciolto. Pietro ha visto e toccato nelle piaghe gloriose del suo maestro, servo e signore, che umiliazione ed esaltazione, lavare i piedi ed essere maestro, morire sul legno maledetto ed attrarre tutti a sé – insomma, che morte e risurrezione, sono inscindibili. E la loro unione, il passaggio dialettico dall’una all’altra è la Pasqua di salvezza, il seme che marcendo sotto terra diventa fecondo! Capirlo e lasciarsene coinvolgere, è il segreto della fede cristiana. È il nodo ineludibile, il fuoco centrale, la dinamica propulsiva della vita di Cristo, che proprio così porta a compimento quanto tutta la storia anela, nel suo gemito di attesa che tutto si compia. Le promesse sempre rimandate e le attese deluse, seminate nel cuore dell’uomo e in particolare nel cammino del popolo di Israele, attendevano di vedere, capire … e vivere!. E Pietro, adesso per primo davvero, impara la storia della salvezza. Ed ecco che racconta la storia di Gesù, perché è diventata inscindibilmente la sua propria storia, la storia del suo popolo, la storia dell’umanità che ritrova la speranza: “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe,… ha glorificato il suo servo Gesù, … Avete ucciso l'autore della vita, ma Dio l'ha risuscitato dai morti… e noi ne siamo testimoni…”. Questa è la storia che ci salva, coinvolgendoci!
raccontare la storia… fondare la chiesa
… adesso, mentre parla al popolo di Gerusalemme, è già in funzione in Pietro l’apertura di mente operata da Gesù (Lc 24,45), e già lo spinge il fuoco che gli ardeva in petto, che ha bruciato ogni paura e dubbio. Impara a parlare e a spiegare cosa è successo, perché ha trovato in Gesù morto e risorto la chiave, la luce, il senso della storia raccontata nelle Scritture. La realizzazione della Promessa antica. E insieme, in questo incontro con il crocifisso risorto, ha ritrovato “il dono del perdono totale” dal suo Signore rinnegato. Proprio perché, senza fargli pesare per niente il suo peccato, l’ha rinnovato nell’intimo, sradicandolo dai complessi di colpa e attraendolo in una dinamica di amore smisurato (mi ami tu di più…!?). Ecco perché può annunciare e coinvolgere tutti in questa storia. A partire dall’obiettivo centrale della missione di Gesù : il perdono dei peccati, sperimentato personalmente nella lacerazione del suo cuore troppo fragile! Dalla sua testimonianza viva, ove si mescola l’avventura personale e la missione istituzionale, nasce la comunità cristiana, nelle sue caratteristiche sorgive fondamentali:
  • la conversione e il perdono dei peccati” – Non è un’operazione di igiene spirituale asettica. È uno struggente rapporto di affidamento e di consegna al Signore, “che ha dato la sua vita per me”! È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo
  • Contemporaneamente, dallo stesso intenso rapporto, nasce il cambiamento di mente e l’inversione di rotta del senso della vita (metanoèsateepistrepsate di At 3,18) : nasce una comunità di ri/conoscenti, legati tra loro dallo stesso perdono e salvezza - in Cristo – dallo stesso vangelo!
  • Adesso il peccato, che è ancora in noi come fragilità e debolezza, non uccide il rapporto con Cristo, né tra di noi. Gesù, anzi, ce ne difende con tenerezza e sollecitudine, come avvocato presso il Padre… La fede però si realizza nella sempre rinnovata fedeltà personale e comunitaria ai “suoi” comandamenti (il nuovo statuto evangelico). Dunque, nella prassi faticosa e condivisa della vita, non tanto nella certezza di una dottrina o di una gnosi… ma nella ricerca comune di trovare le nuove strade di prassi e di annuncio dell’amore salvifico di Gesù al mondo.
  • La comunità cristiana è chiamata a cogliere la presenza nuova di Dio sulla sua strada in quel viandante che si fa riconoscere attraverso i segni fondamentali per la sua sopravvivenza, ma per vita del mondo: le Scritture, lette in chiave Cristologica e la frazione del pane (Lc 24, 1-33). La storia umana, spazio privilegiato dell'azione di Dio, è storia di salvezza che attraversa tutte le situazioni umane.
È Dio, infatti, che in Cristo dirige misteriosamente la storia; è lui che opera l'evangelizzazione e guida il cammino dei suoi. L'evangelista dei confini del mondo - da Adamo al regno, da Gerusalemme all’estremità della terra - è anche l'evangelista dei giorni feriali. La salvezza radicale dell'uomo è nel liberarsi incessantemente dal suo cuore di pietra, che sempre rinasce, e nel ricevere un cuore nuovo, il che comporta un dinamismo che liberi da ogni forma di schiavitù. Ma subito trova il suo impegno di riconoscenza e la sua pacificazione nel donare agli altri il perdono e la speranza che ha ricevuto! Raccontando la propria storia!

giovedì 19 febbraio 2009

Il perdono dei peccati sulla terra: i paralitici camminano!

paralitico, Gesù, guarigione, peccato
…faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia!
L’uomo, anche il più santo, ha assunto dalla carne con cui è intessuto, una specie di perverso istinto (la “legge della carne” che contamina anche il piano morale) di sopraffare e “mangiare” il più debole, quasi non si possa sopravvivere senza prevaricare su qualcuno, o desiderare di farlo. Questo istinto congenito convive con le migliori intenzioni… Anche il discepolo convertito è tuttora preso nel dramma tra la paura di perdersi e la scoperta evangelica che il dono della vita, come insegna Gesù, è la strada migliore per salvare la vita stessa. E allora è lacerato in questo dilemma interiore e rischia di consumarsi dibattendosi dolorosamente tra il “sì” e il “no”, come dice Paolo: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto” (Rom 7,15). Incapace di imitare la fede totale e duratura che ha sostenuto la vita di Gesù, nel quale invece “tutte le promesse di Dio sono «sì»”. Dio è stanco che ci siamo stancati di lui…, proclama il profeta. Ma questo intenso dispiacere in lui non genera il rifiuto di noi, anzi provoca una voglia ancor più grande di perdono e di proposta di rapporto nuovo. Gli antichi testi profetici hanno plasmato l’animo di Gesù e la sua concezione di Dio – Padre! La gente capisce che il suo atteggiamento verso il male (morale, come peccato, ma anche fisico e psichico – esistenziale!) è completamente diverso da quello che insegnano i loro maestri. Pur tenendone conto, Gesù non guarda tanto alla trasgressione della legge divina, che effettivamente è perdonabile solo da Do – ma guarda al malessere interione della gente che incontra, lo soffre dentro di sé (è preso da compassione nelle viscere!), perché è un male che blocca la vita come esperienza e processo di amore, di comunione con gli altri, di stima umile di sé (perché amati!), di speranza in un futuro… sostenuta dalla fede che spera in un Dio che ti dice: “Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati”.
Il vangelo che Gesù vive, prima ancora di annunciarlo, è la notizia sorprendente che Dio non è né la legge né la coscienza, è più grande di ogni legge e del nostro stesso cuore e dei suoi scrupoli e rimorsi… Anche se da soli non riusciamo ad uscirne e bisogna che uno che ci ama ce lo dica! Incontrandoci paralizzati dalle catene interiori che neppure noi conosciamo del tutto, prima ancora che apriamo bocca per implorarlo, Gesù dice: figliolo, sono rimessi a te i peccati! Non dice: io ti rimetto, perché è vero che solo Dio può farlo, ma Dio esercita questa sua prerogativa divina nel Figlio dell’uomo sulla terra. Il giaciglio (nominato quattro volte) in cui è steso il paralitico è la legge, che è necessaria per contenerlo, ma nello stesso tempo lo tiene legato a sé, senza riuscire a guarirlo, perché effettivamente la legge non può perdonare. Così gli uomini, fratelli e sorelle, sono la necessaria mediazione per “calarlo” davanti a Gesù, ma non sono loro che lo salvano!

…amare l’uomo scrutandolo fino in fondo…
Gesù, infatti, non rimprovera ai suoi interlocutori di ritenere che solo Dio perdona i peccati, ma contrasta la loro rigida mentalità di preclusione del perdono divino, qui, sulla terra, senza il quale siamo condannati alla falsità e all’ipocrisia. Conoscere il cuore dell’uomo, le sue caverne interiori, le sue ferite sanguinanti, è possibile solo al Padre che ci ha creati e, mantenendoci in vita con il suo amore misericordioso, penetra e abita nelle pieghe più intime del nostro essere, contenendo il nostro male dentro di sé … Il perdono dei peccati non è tanto un problema del peccatore, che ci è immerso come in un pozzo da cui non ha forza e strumenti per uscirne da solo, ma di Gesù che si pone di fronte a lui… Proprio davanti al peccatore, più che mai, Egli manifesta “il suo potere” interiore, cioè la libertà e l’amore, l’ineguagliabile maturità umana di non esserne a sua volta schiavo del peccato – e quindi in atteggiamento di paura, aggressività, condanna verso di sé e verso gli altri! Mentre Lui è, dentro di sé, “signore” del peccato, non ha paura della morte, non si lascia vincere dal panico della solitudine e della sofferenza, non perde dignità e non tradisce mai il fratello o sorella… non ha complessi di colpa che lo impaniano nel passato, ma solo un’immensa compassione misericordiosa – quella stessa di Dio, suo e nostro Padre che si espande come forza risanante attorno a lui… Non – come si dice con un pericoloso cortocircuito – perché ha pagato al Padre il dovuto prezzo del peccato degli uomini, attraverso la passione e la croce! Piuttosto si è scontrato con la coalizione delle forze del male (come ricorda subito Marco : 3,6) determinate a bloccarlo e distruggere la sua umile amorevole “signoria” sul peccato e sulla sua causa che è la paura della morte. A Dio non lo obbligava il prezzo da pagare alla Sua offesa. È il Padre stesso che genera incessantemente nel Figlio l’irriducibile passione di amare tanto il mondo da mandare il proprio figlio, non a giudicare, ma a salvare gli uomini.

…io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso.
Questa sorgente di amore e benevolenza inarrestabile che sgorga dal cuore del Padre nel Figlio, proprio perché è gratuita e gioisce di coinvolgere tutti in sé, al di là di ogni legame o restrizione contrattuale o di ricompensa o di castigo, è l’identità stessa di Dio! Non c’è una formula o un potere magico… È “l’amore dell’amore” che cancella i peccati, l’incontenibile desiderio che l’amore si diffonda e faccia “vivere” tutti e tutto… Gesù né è impregnato appunto perché è senza peccato, cioè senza freni o impedimenti o ostacoli che impediscano dentro di lui di assorbirlo pienamente, al punto che “in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Da qui scaturisce la misericordia sconfinata per i peccatori e gli sventurati della società… perché sono un vuoto di amore, e gli stanno a cuore più di quanto loro amino sé stessi. È consapevole di cosa è capace il cuore dell’uomo (e lo patirà amaramente!), ma è anche in grado di percepire il reale desiderio di bene di chi ha peccato e vorrebbe riconciliarsi e tornare a vivere. È questo il mistero che gli scribi, legati al valore giuridico della legge, non riescono a capire. Gesù compie il miracolo perché anch'essi sappiano che “il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati”. E il paralitico è completamente guarito. Qui, per la prima ed unica volta, Gesù dichiara apertamente il motivo vero del suo miracolo: è il segno che indica il suo potere divino, che riguarda proprio il perdono. Dio è amore, e l’amore per l’uomo è anzitutto perdono risanante o preveniente! Come dice Giovanni: In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. (1Gv 3,19).

La radice profonda del problema del peccato.
L’uomo religioso (come era normale nel mondo antico) o l’uomo ateo (come oggi è culturalmente diffuso) sono imparentati tra loro da una tenacissima radice comune: la falsa immagine di Dio! Accettata e strumentalizzata nel primo o rifiutata e combattuta nel secondo, è sempre idolatria, che vuol dire appunto adorare l’immagine. L’uomo, secondo la Bibbia, non ha dentro di se la causa di se stesso, ma raggiunge la sua pienezza nell’esser relativo ad altro da sé… è fatto ad immagine di un altro. Impara dalla mamma o da chi lo accudisce, poi dai rapporti di amicizia e di coppia, se ha la grazia di sperimentarli… a maturare sempre più la scoperta che il suo riferimento definitivo, intimo a tutti i suoi riferimenti che lo fanno crescere sulla terra, è l’Altro! La sua avventura umana è uscire da sé! Se non gli nasce dentro questa capacità interiore (consapevole o meno) l’uomo si consuma nella rincorsa continua di immagini fallaci, fondate sull’affermazione insaziabile di sé, che lo ingannano e lo conducono all’angoscia, perché non raggiungono mai il bersaglio. Allora si consuma nei sensi di colpa (che sono provocati dalla lesione della immagine di sé!) e non dal senso del peccato (che è il rifiuto o la paura dell’amore che chiama fuori di sé). Ma l’immagine di Dio, come si è manifestata nella storia, non è “l’onnipotenza”, che l’uomo “religioso” ricerca in Dio o che l’ “ateo” ricerca in sé … ma è Gesù, e questo crocifisso! Per aver insegnato agli uomini che Dio è “amore impotente”, cioè storicamente inabile alla potenza e alla violenza, ma capace solo di perdono e benevolenza! Un amore che si manifesta donando a tutti perdono e misericordia e insegnando agli uomini a fare altrettanto, già qui sulla terra! ingenuità o bestemmia? Così pensano i realisti, sia religiosi che atei! … comunque, un passo duro, per chi non ha provato un troppo di amore!

venerdì 13 febbraio 2009

Una singolare immagine del figliol prodigo



Un'altra opera d'arte che ci aiuta a riflettere. Con un deciso balzo all'indietro rispetto alla modernità di Ensor, questa volta andiamo in Germania, a vedere un'opera di Albrecht Durer (1471 - 1528)

Artista tedesco di grandissima qualità, vissuto a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, Durer ha segnato la storia dell'arte con le sue opere, che mettono in comunicazione le esperienze figurative nordiche e quelle italiane. Tuttavia, ciò che di quest'opera è notevole non è solo lo stile. Quello aiuta, certo: si tratta di un'immagine gradevole a vedersi, equilibrata nella composizione, e non si può non rimanere affascinati dalla perizia tecnica dell'artista (per inciso, questa dovrebbe essere la sua prima lastra a bulino a noi nota): tutto ciò che vediamo è realizzato incidendo una lastra di rame attraverso uno strumento tagliente, il bulino, appunto, e poi procedendo all'inchiostratura e alla stampa della lastra.
Ma ciò che la rende, a mio avviso, davvero significativa, è la scelta del soggetto. Durer sceglie di raffigurare la parabola del figliol prodigo, narrata dal vangelo di Luca al capitolo 15. Questo racconto è largamente rappresentato nella storia dell'arte, ma solitamente ciò su cui si concentrano gli artisti - da Rembrandt a Martini e De Chirico - è il momento conclusivo, con l'abbraccio del padre che riaccoglie in casa il figlio perduto. Durer, invece, ci mostra un altro momento. Per rievocarlo ci appoggiamo direttamente al testo evangelico:

Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali. Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava. Allora, rientrato in sé, disse: "Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi".

L'opera, dunque, ci mostra il momento del pentimento, della presa di coscienza; e, secondo me, è questo il momento centrale del racconto. Se avessimo un cuore pronto a riconoscere il vero volto di Dio, sapremmo infatti che lui è già alla finestra, ci attende...sempre, aspetta il nostro passo. Tutto ciò che noi dobbiamo fare è accorgerci di questo, mutare il nostro pensiero, in una parola convertirci. Mi sembra dunque una bellissima immagine che, in modo indiretto, ci parla di perdono e di come, forse, dobbiamo mutare le nostre idee "mercantili" su questo argomento.

mercoledì 11 febbraio 2009

A Sati e Beppino


Non so se leggerete mai queste mie parole,
volevo solo dirvi perché di proposito ho conservato il silenzio da sempre…

Per ascoltare le urla e le grida che giungevano dalla giungla cristiana,
Io, cristiano tra cristiani, cattolico tra cattolici, prete tra preti, uomo tra uomini,
Non riconoscevo più l’umanità che mi era stata data…

Ho pensato a voi, che difendevate fino all’ultimo con forza e silenzio la dignità oltraggiata di vostra figlia,
E allora ho sovrapposto il mio al vostro, per difendere nel silenzio, la dignità rifiutata dai miei figli e dalle mie figlie, dai miei fratelli e dalle mie sorelle, dalle mie madri e dai miei padri…

La menzogna, ad ogni livello, scientifico, giuridico, politico, religioso,
aveva oramai ridotto a maschera il volto che ho sempre amato e accolto,
La morte aveva invaso i cuori vivificati un tempo dalla Parola,
Così che la bestemmia si illudeva di farsi preghiera...
E la verità prendeva forma in menzogne sempre più sacre...
Mentre il disprezzo uccideva il Sacrificio…

Vi hanno rapinato di tutto,
Di vostra figlia: se la sentivano loro…
Del vostro dolore: se lo sentivano loro…
Della dignità: la conoscevano solo loro…

Persino della sconfitta della morte...
Ciascuno voleva farsela sua,
Come se potessero morire di ciò di cui voi morivate…
Hanno anche preteso mettersi al vostro posto,
Come se voi foste disposti a darlo,
Come se noi fossimo capaci di portarlo…

Se potete, perdonateci… per averlo solo ipotizzato…
Se potete, aiutateci… a ritrovare la forza del silenzio…
Se potete, pacificateci… con quel Dio, che voi avete servito e che noi abbiamo ucciso per servire il nostro dio...

...

Ora vi capisco…

Voi avete passato diciassette anni di agonia,
Per vostra figlia che nessuno riusciva ad amare,
Al punto da non volerla liberare…

Io, comincio ora, a vivere la mia agonia,
Per mia Madre che tutti dicono di amare,
Al punto da volerla imprigionare…

mercoledì 17 dicembre 2008

Allucinazioni di Vatican.va?

Cercavo un documento e mi sono imbattuto in questo: allucinante! ma tutto pubblicato sul sito del vaticano! leggete le parti in rosso! e i miei commenti in blu


MA L'ESAME DI COSCIENZA NON È ESAME SULLA CHIESA

cioè come dire che la chiesa non ha una coscienza?

Mary Ann Glendon

Alle persone interessate alla religione e alla vita pubblica non sarà certamente sfuggito un fenomeno. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a molte pubbliche dichiarazioni di postumo cordoglio relative a errori e sbagli commessi da rappresentanti ufficiali o membri della Chiesa cattolica in diversi momenti della sua storia. In un nuovo libro intitolato Quando il Papa chiede perdono, Luigi Accattoli ha contato ben novantaquattro casi in cui lo stesso Giovanni Paolo II ha riconosciuto gli errori e le colpe del mondo cristiano, riguardo, ad esempio, alle Crociate, all'Inquisizione, alla persecuzione degli ebrei, alle guerre di religione, al caso Galileo o al trattamento delle donne.

Questa attività penitenziale è legata a una lettera apostolica del 1994 - la Tertio Millennio Adveniente - in cui il Papa sostiene che il periodo che porta al terzo millennio dovrebbe essere considerato come un Nuovo Avvento per prepararci al quale dovremmo portare a termine un serio, approfondito esame di coscienza. Scrive il Papa: «Mentre il secondo millennio della cristianità volge a conclusione, è opportuno che la Chiesa divenga più consapevole dei peccati dei suoi figli, e riesamini tutte quelle occasioni nella storia in cui essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e dal suo Vangelo, e invece di offrire al mondo la testimonianza di vite ispirate ai valori della fede, hanno indugiato in modi di pensare e di agire che hanno rappresentato autentiche forme di controtestimonianza e di scandalo».

Le evocazioni da parte del Papa di questi sbagli, di questi errori storici, sono state importanti ed istruttive. Esse sono dirette, specifiche, circostanziate, volte a quella che egli talvolta definisce una "cura della memoria". Riflettono, in ogni caso, la saggezza e l'apertura spirituale caratteristiche dei suoi scritti e dei suoi discorsi.

Secondo alcune indiscrezioni, però, sembra che quando il Papa ha presentato al Collegio dei Cardinali questo suo programma per una pubblica espressione di scuse in vista del millennio, molti Cardinali abbiano espresso gravi riserve e manifestato una certa contrarietà. Fondate o meno che siano queste voci, il Papa ha in ogni caso anticipato le possibili critiche. Nella Tertio Millennio Adveniente, ha specificato che per quanto la Chiesa sia «Santa in virtù della sua incorporazione nel Cristo», necessita sempre di «essere purificata» e non deve «stancarsi mai di fare penitenza». Il Papa ricordava così ai lettori che «il riconoscimento delle debolezze del passato è un atto di onestà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede e ci prepara ad affrontare meglio le tentazioni e le sfide del presente».

Mi sembra difficile obiettare qualcosa a queste parole. Perché in effetti un simile tentativo di riconciliazione di antiche ferite e di risentimenti, e insieme di evangelizzazione delle donne e degli uomini del nostro tempo dovrebbe allarmarci o innervosirci? Personalmente, i miei disagi e le mie perplessità (confesso di averne) non hanno nulla a che fare con quanto ha detto il Papa, ma dipendono in tutto e per tutto dal modo in cui le revisioni e le espressioni di rincrescimento a cui egli ci invita possono essere manipolate da opinionisti ostili alla Chiesa, ovvero da persone per cui nessuna pubblica espressione di scusa è mai sufficiente e che pretenderebbero in realtà che i cattolici si scusassero del fatto stesso di esistere e di essere tali.

La mia ansia cresce se penso a che piega potrebbero prendere queste riletture del passato alla luce della attuale situazione della ricerca storica, di cui Gertrude Himmelfarb ha dato un quadro molto preciso e un po' agghiacciante. La storia è sempre un miscuglio di fatti e di miti. Gli storici però, attualmente, sembrano aver lasciato da parte la ricerca dei fatti privilegiando un atteggiamento molto libero e fantasioso di ricostruzione degli eventi. Troppi storici oggi sembrano praticare una disinvolta strategia di reinvenzione della storia al servizio delle cause più disparate e dei più diversi ordini del giorno. Come mi ha detto un anziano avvocato di Boston qualche tempo fa "stanno cominciando tempi duri per i morti".

Per quanto riguarda l'immagine popolare della Chiesa e del suo ruolo storico, credo che i cattolici, andando al cinema o guardando la televisione non possano non avere in ultima analisi l'impressione che la loro Chiesa occupi un posto di particolare rilievo in un ideale museo della vergogna, in un'ipotetica rassegna dei peggiori crimini della storia.

Inoltre bisogna considerare che, per la maggior parte del pubblico, queste espressioni ufficiali di scuse e di rincrescimento sono sempre filtrate dai nuovi media e dai mezzi di comunicazione di massa in generale. Così, ad esempio, per quanto il Papa specifichi sempre di parlare di peccati o di errori commessi da membri o da rappresentanti ufficiali della Chiesa e non della Chiesa in quanto tale, questa essenziale distinzione teologica viene quasi sempre dimenticata e perduta nelle trasmissioni televisive, alla radio o sui giornali. [e te' credo! esiste la chiesa senza membri? siamo all'ipostatizzazione della chiesa! puro concetto teologico: ma allora così di fatto se ne nega l'esistenza! Si sfregheranno le mani gli atei, ché dopo la negazione di Dio hanno possibilità di negare l'esistenza della chiesa...]

Talvolta, questa distinzione viene oscurata deliberatamente, come nell'articolo sul papato e l'Olocausto apparso sul New Yorker del 7 aprile 1997. L'autore del pezzo, James Carrol, prende le mosse da quello che a prima vista potrebbe apparire un apprezzamento del particolare rapporto di Giovanni Paolo II con il popolo ebreo. Carrol ricorda alcuni fatti , per altro noti: il coraggio dimostrato dal giovane Wojtyla nella Polonia occupata dai nazisti, la sua angoscia per l'Olocausto, lo stabilimento di relazioni diplomatiche con lo Stato di Israele, la storica visita alla sinagoga di Roma, la sua posizione favorevole sulla rinuncia a insediare un convento presso Auschwitz, l'amara ammissione che "molti cristiani" sono stati responsabili delle sofferenze del popolo ebreo.

Pur riconoscendo il comportamento esemplare e l'enorme popolarità di Giovanni Paolo II, Carrol sostiene però che il presente pontificato è comunque "contaminato". La sua "tragedia", secondo l'ex sacerdote Carrol, è che il Papa non si spinge sino a "mettere in discussione la Chiesa stessa". Carrol cita l'osservazione liquidatoria del teologo del dissenso Hans Kung sulle dichiarazioni di colpa di Wojtyla: «A questo Papa piace fare un certo genere di confessioni». Per Kung, apparentemente, nessuna confessione sarà sufficiente fino a che il Papa non sottoscriverà il bizzarro punto che Carrol attribuisce allo stesso Kung, e cioè che «non sarà più possibile parlare di responsabilità dei nazisti senza aggiungere che la Chiesa è stata corresponsabile». [e lo definisce bizzarro! a poco serve domandare scusa se poi di fatto non ci si ritiene responsabili e in questo caso in qualche modo corresponsabilit!] Carrol lamenta anche che Giovanni Paolo II non abbia condannato esplicitamente Pio XII, come lui stesso fa in un semplicistico e parziale resoconto del ruolo del papato durante l'Olocausto.

Così non solo non basta che il Papa abbia ammesso che "molti cristiani" hanno peccato contro gli ebrei, oche egli abbia detto che la Chiesa «riconosce sempre i suoi figli e le sue figlie colpevoli». Carrol addirittura rimprovera al Papa di aver menzionato gli atti di eroismo compiuti da singoli cattolici per difendere gli ebrei. Per quanto riguarda il New Yorker, il settimanale ha pubblicato questo attacco unilaterale senza chiedere a Carrol di articolare meglio le sue posizioni e consentendogli di attribuire sbrigativamente una colpa collettiva all'intero corpo mistico di Cristo. Possibile che al New Yorker nessuno abbia pensato che per ricostruire questa vicenda forse sarebbe stato meglio non reclutare un autore come Carrol, cioè uno dei tanti cecchini cattolici o ex cattolici specializzati nello sparare contro la Chiesa? Possibile che nessuno in sede editoriale abbia avanzato dubbi sul fatto che Carrol attinga in modo così diffuso agli argomenti di un teologo notoriamente malevolo e pieno di pregiudizi come Kung? Incredibile ma nel '97 si dicevano e scrivevano queste cose: altro che editto bulgaro!...

Per quanto riguarda la responsabilità istituzionale, mio marito, che è ebreo (e, credo, secondo a pochi in fatto di orgoglio etnico) osserva che sia Carrol sia Kung, nel cercare di accusare la Chiesa in quanto tale, fanno lo stesso errore mortale di chi rimprovera alla "Germania" la responsabilità dell'Olocausto, o ai "Giudei" la morte di Gesù. non ai tedeschi, non ai giudei, ma a quei giudei e a quei tedeschi e a quella chiesa, mi sembra il minimo che si possa fare altrimenti tutto è lecito perché di niente siamo responsabili: e lo stesso gli italiani di oggi che hanno votato/appoggiato/taciuto Berlusconi sono responsabili (ciascuno a suo livello e comunque corresponsabili!) dei disastri da lui prodotti! e persino quelli che pur parlando e agendo contro, ma che per divisioni interne, piccinerie varie gli permettono nella loro inconcludente azione di "regnare" indisturbato! Questa, come dice giustamente Edward Lev, è davvero la forma più pericolosa di bigotteria.

Il vero bersaglio di Carrol (e di Kung) sembra essere l'istituzione pontificia in quanto tale [forse..., ma non in quanto tale ma così "organizzata": impermeabile ancora oggi alle sollecitazioni della base ecclesiale! E alle provocazioni del vangelo!], e non a caso essi puntano l'indice contro la dottrina dell'infallibilità del Papa mi sembra che si stia spostando il problema per non affrontare il cuore del problema eppoi anche il dogma e pure questo dogma ha bisogno di essere sempre meglio compreso e definito!. Se, argomentano, ad aver sbagliato, ad aver peccato, sono stati "la Chiesa" e Pio XII, allora la dottrina dell'infallibilità non sta più in piedi. Ma certamente entrambi dovrebbero capirne abbastanza di teologia per sapere che la dottrina dell'infallibilità non riguarda mai eventuali errori o passi falsi sul piano storico e temporale e allora questo dovrebbe rendere il magistero più umile e meno pressante nell'imporre le sue direttive pratiche: forse questo è il vero problema anche oggi! Non si vuole ammettere di aver sbagliato ieri per non voler ammettere di star sbagliando (o di poter sbagliare) oggi!. Come ha scritto una volta in modo molto efficace e conciso la narratrice Flannery O'Connor: «Cristo non ha mai detto che la Chiesa sarebbe sempre stata esente da colpe e intelligente, ma solo che non avrebbe mai insegnato il falso. E questo non vuol dire che i singoli preti non possano sbagliare e insegnare a volte cose errate, ma che la Chiesa in quanto tale, esprimendosi attraverso la voce del Papa, questo non è cattolicesimo questo è papismo puro e crudo! non insegnerà mai cose false in materia di fede».

In ogni caso, sia che questo punto cruciale venga intenzionalmente oscurato o semplicemente frainteso, l'effetto è più o meno lo stesso. C'è il rischio che alcuni credenti possano cominciare a chiedersi: «Se la Chiesa ha errato in tante circostanze nel passato, come posso esser sicuro che il suo magistero attuale, che quello che insegna adesso sia davvero giusto?». Questo mi sembra un altro dei motivi per cui il riconoscimento pubblico degli errori del passato ha generato ansie e preoccupazioni in alcuni ambienti dentro la Chiesa. ecco il problema! che impedisce di accogliere le critiche e convertirsi!

Vorrei chiarire che la mia preoccupazione nei confronti di questi problemi non intacca in alcun modo il mio entusiasmo per l'idea del Nuovo Avvento. Ne mi spinge a pensare che la Chiesa dovrebbe adottare la politica di Henry Ford II, «mai chiedere scusa, mai spiegare». Penso però che sia necessario che i cattolici stiano molto in guardia, e cerchino nel prossimo futuro di contrastare nel modo migliore i fraintendimenti che questo aspetto della preparazione al Giubileo potrebbe generare.

Consideriamo, in questa prospettiva, le osservazioni e le scuse presenti nella Lettera apostolica alle donne scritta dal pontefice nel 1995. Qui, dopo aver deplorato i vari affronti portati alla dignità della donna nella storia, Giovanni Paolo II osserva: «Se c'è colpa obiettiva, soprattutto in determinati contesti storici, che sia imputabile a non pochi membri della Chiesa, di questo sono veramente spiacente». Il problema teologico va affrontato e non eluso: quei non pochi membri della Chiesa erano fuori dalla chiesa? erano chiesa? erano di fatto scomunicati senza saperlo? Oppure c'è nella chiesa storica come in ogni uomo il buono e il cattivo, parte da convertire e parte convertita: se l'immagine è quella del corpo (di Cristo) perché negare che a Cristo non fa problema l'unire a sé proprio i peccatori... la Chiesa corpo mistico malato di Cristo, continuamente guarito, perdonato, accudito e invitato a convertirsi!

Penso che sia giusto dire che un'apologia così garbata se è apologia, dove è il garbo? non abbia ricevuto attenzioni e ascolto altrettanti garbati da parte di certi circoli intellettuali abituati all'idea che la Chiesa sia un'istituzione sessista ma va?. Quando assunsi l'incarico di guidare la delegazione della Santa sede alla Conferenza internazionale sulle donne di Pechino, rimasi veramente sorpresa dal numero di persone che mi chiedevano come avessi potuto accettare di rappresentare un'istituzione che tratta le donne come cittadine di seconda classe ma guarda che scemi dire cose così assurde e infondate!!!. Un giorno, leggendo un editoriale del noto scrittore Garry Wills, mi sono vista persino dipingere come una sorta di Zio Tom donna (è il tipico eufemismo che si usa per indicare gli schiavi che collaboravano con i loro padroni).

Quando sento rivolgere alla Chiesa queste trite e ritrite accuse di sessismo chiedo sempre: ma rispetto a quali altre istituzioni? Capito? il problema non è rispetto al Vangelo! ma rispetto che so al regime di Teheran! Ancora una volta, Flannery O'Connor aveva colto il nocciolo della questione. In una lettera a un amico che aveva accusato la Chiesa di essere contraria alle donne, la O'Connor scrisse: «Non devi dire che la Chiesa si porta dietro questo peso morto; magari sarà vero per il reverendo tal dei tali o per molti reverendi, ecc. ecc. ma la Chiesa in sé può canonizzare una donna come un uomo e suppongo che nessun altra forza abbia mai fatto di più in tutta la storia umana per liberare le donne» Dipende liberare da cosa e come: bruciandole vive e canonizzandole morte: prima dopo e durante Giovanna d'Arco! eppoi, quale modello di donna è proposto nella canonizzazione?.

Quest'ultimo dato storico è così chiaro che il signor Wylls dovrebbe vergognarsi di sé stesso. Tutto sul sito ufficiale della santa chiesa cattolica apostolica romana! E senza che nessuno se ne vergogni neache chi ha dovuto battere il testo! Da ex seminarista dovrebbe certamente conoscere le conquiste controculturali della Chiesa delle origini appunto delle origini e poi?, e l'importanza che in esse hanno avuto le donne e la famiglia. Non gli è mai passato per la testa che Chiesa è riuscita a far accettare l'idea nuova dell'indissolubilità del matrimonio in società in cui agli uomini era sempre stato permesso di liberarsi arbitrariamente delle loro mogli? Da vedere poi quanto ha fatto e fa per impedire che le ammazzassero di botte: cfr l'omertà ecclesiale sui crimini familiari! Che ha incentivato nel Medioevo la nascita di forti comunità religiose femminili autogovernate? Purché segregate in clausura! e comunque con la bocca chiusa! Che per prima si è preoccupata dell'educazione delle donne in Paesi dove la maggior parte delle istituzioni secolari si disinteressavano completamente dello sviluppo intellettuale delle ragazze? Vero! ma per fare poi cosa di questa cultura? Chiunque abbia una pur minima conoscenza della storia non potrà negare che i progressi della Cristianità hanno rafforzato la posizione delle donne dice bene: la cristianità che è cosa diversa dall'istituzione ecclesiale!.

Negli ultimi anni - la cosa meriterebbe di essere conosciuta meglio - la Santa Sede si è imposta in diversi contesti internazionali come una delle forze mondiali che più si sono battute per la giustizia economica e mondiale delle donne. La chiesa è stata uno dei pochissimi attori internazionali a darsi da fare sia per il rispetto del ruolo delle donne nella famiglia sia per incentivare le aspirazioni delle donne a una piena partecipazione alla vita economica e sociale.

Ma nonostante tutto ciò le poliziotte del genere sembrano pensare di avere comunque una risposta definitiva e senza appello: la Chiesa è sessista perché rifiuta il sacerdozio femminile, perché non ordina le donne. Ma davvero questo rende la Chiesa un'istituzione anti-donne? Dunque si era partiti sul perdono... si arriva all'accusa, a capovolgere l'accusa... il problema non è il sacerdozio (anche) ma la visione della donna che può solo obbedire, se mai gli è data la possibilità di comandare... Se le redini del comando, sono sempre in mano agli uomini... è sessismo!... Allora o si da' accesso alla stanza dei bottoni anche alla donna... o meglio si rivede la stessa organizzazione ecclesiale in cui il comando diventa veramente un servizio, un ascolto, una corresponsabilità... tornando a bomba gli errori del passato sono nati proprio qui: una visione verticistica della magisterialità ha impedito un autentico ascolto di quelle istanze che in vari modi sollecitavano un cambiamento di direzione nell'atteggiamento ufficiale della chiesa davanti ai fatti cocreti della storia. Domanda: che peso ha avuto la lettera di Edith Stein contro il nazismo indirizzata a Pio XII? in apparenza nessuna...!

Non è questa la sede per una discussione dettagliata delle questioni della complementarietà e della chiamata universale alla santità in rapporto col rapporto dell'ordinazione errore di battuta! mi consola che almeno non hanno ritenuto importante perdere tempo a rileggere tali scemate!. Proviamo soltanto a chiederci una cosa: qual è la posizione delle donne nella Chiesa cattolica rispetto alla posizione delle donne in altre Chiese che ammettono il sacerdozio femminile? Stranamente, molti di coloro che sembrano essere ossessionati dalla questione dell'ordinazione si mostrano del tutto indifferenti alla vasta gamma di ruoli pastorali e ministeriali che una volta erano riservati esclusivamente ai preti e ora vengono svolti da donne. Come le teoriche del genere che non nascondono di preoccuparsi soprattutto della questione del potere anche costoro rimangono indifferenti di fronte a questo incremento di opportunità. L'unica cosa che li interessa sono le posizioni di leadership. Lasciamo da parte l'inadeguatezza di questa analogia, che equipara la Chiesa a istituzione politiche e economiche di tutt'altra natura e consideriamo il problema nei suoi termini essenziali. Chi amministra il secondo sistema di assistenza sanitaria su scala mondiale? Non è stato guidato in larga misura da dinamiche donne cattoliche (soprattutto da suore)? Chi si occupa del più grande sistema mondiale di istruzione privata primaria e secondaria? Non è stato amministrato soprattutto da donne cattoliche, laiche e religiose, nelle vesti di insegnanti, dirigenti, sovrintendenti? (Eppoi da dove viene questa idea che per essere un leader bisogna aver preso gli ordini? Sono certa che l'arcivescovo di Calcutta sia un ottimo amministratore, ma siete sicuri che Madre Teresa sia meno leader di lui? Allora perché non fare arcivescovo Madre Teresa?).

Per di più, Giovanni Paolo II sembra molto determinato a rafforzare e ad accelerare l'azione della Chiesa in questo senso. Ripetutamente, il pontefice ha invitato le donne "ad assumere nuove forme di leadership nel servizio" e ha sollecitato "tutte le istituzioni della Chiesa a dare il benvenuto a questo contributo delle donne". Mettendo concretamente in pratica queste dichiarazioni, il papa ha nominato molte donne, laiche e religiose, alla guida di un gran numero di comitati e di accademie pontificie. Due cose! quindi indirettamente si afferma che prima non era così, secondo che il problema c'era e c'è!

Non c'è dubbio che le diverse Chiese locali rispondano in modo a volte molto diverso alle esortazioni e all'esempio del Papa. Anche molti vescovi, in ogni caso, hanno deciso di dare a loro volta un esempio, chiamando un numero sempre più elevato di donne a incarichi e ruoli di prestigio. Non è ovvio che per quanto riguarda le donne anche nei gruppi religiosi si sono verificati sviluppi impressionanti e più importanti del sacerdozio femminile?

Questo non significa che la Chiesa cattolica abbia già conformato le sue strutture al principio per cui donne e uomini dovrebbero essere considerati partner uguali a tutti gli effetti nel mistero della redenzione. Non è ancora stato fatto abbastanza, e Giovanni Paolo II, come si evince dai suoi scritti, è il primo a farlo notare. Forse la Chiesa non è ancora all'altezza delle sue aspirazioni, ma credo che rispetto alle altre istituzioni essa possa andare comunque a testa alta, in virtù della sua lunga tradizione di rispetto per la dignità della donna e di impegno per la sua libertà.

Che giornalisti influenti come Garry Wills possano ignorare questi fatti mi porta di nuovo a riflettere sul problema generale posto dalla pubblica espressione della contrizione in un era di malafede e di manipolazione delle informazioni. Mi sembra che i laici cattolici abbiamo un'importante responsabilità nel cercare di afre in modo che queste pubbliche attività penitenziali vengano prese in modo giusto senza fraintendimenti, spesso infatti sono proprio i laici a trovarsi nella situazione migliore per capire quando sincere espressioni di cordoglio vengono sfruttate opportunisticamente da persone o gruppi anche troppo zelanti nell'aiutare la Chiesa a stracciarsi le vesti e fin troppo disposti a versare cenere e ancora cenere sul capo dei cattolici. Spesso il laicato avrà l'opportunità di reagire e testimoniare nel modo migliore.

Questo significa, per un verso, ricordare che quando noi peccatori chiediamo perdono ci rivolgiamo in primo luogo e soprattutto a Dio (come diciamo nell'atto di contrizione «ma soprattutto perché ho offeso Te, mio Dio»). Qualsiasi espressione di rincrescimento rispetto agli errori del passato non implica che ci si debba umiliare di fronte agli altri, e certamente non di fronte a gente che non è disposta da parte sua ad ammettere alcuno sbaglio. Molte ferite della memoria non saranno sanante finché non ci sarà un'espressione di perdono reciproco. Se perdonate/domandate perdono a coloro che vi perdonano/domandano perdono che merito ne avete? Così fanno anche i pagani! In tutta evidenza questa il vangelo non l'ha letto!

Testimoniare nel modo migliore la propria posizione significa sfidare coloro che, in buona o cattiva fede cercano di cancellare la fondamentale distinzione tra la Chiesa in quanto tale e i suoi figli che hanno peccato. Questa distinzione è la vera mostruosità teologica ed evangelica! Proprio il riconoscersi peccatori, salvati continuamente dalla Grazia, ci fa chiesa! Pensare che ad un certo punto non abbiamo più bisogno del perdono di Dio è il vero peccato originale che diventa permanente. Non voglio dire che la grazia non modifichi ontologicamente l'uomo, ma riconoscere che senza la grazia l'uomo e la chiesa ripiomberebbero nel peccato. Questo permanere della grazia è il perdono permanente di Dio all'uomo e alla Chiesa. D'altronde questa è già dottrina acquisita e ferma sulla creazione che senza il sostentamento di Dio ritornerebbe nel nulla... Analogamente bisogna pensare la Grazia!. Quando negli anni Cinquanta Flannery O' Connor si dovette misurare con gli antesignani dei Carrol e dei Kung dei nostri tempi, scrisse: «quello che voi sembrate pretendere è che la Chiesa realizzi il regno dei cieli sulla terra ora e adesso. Cristo è stato crocifisso sulla Terra e ogni giorno la Chiesa viene crocifissa da tutti noi e dai suoi membri in particolare, perché è una Chiesa di peccatori (...) La Chiesa si fonda su Pietro che rinnegò tre volte Cristo e non poteva camminare sulle acque. Voi pretendete che i successori di Pietro camminino sulle acque». Oh! bella che sofista, è riuscita a capovolgere la questione! La tematica iniziale qui è stata capovolta... Ma non si era partiti dal fatto che la chiesa era peccatrice, e l'autrice di questo articolo lo negava: gli uni dicevano, la chiesa non sa camminare sulle acque e l'autrice a dire, no! sono gli uomini che tradiscono, affondano, la chiesa è senza peccato (cioè sa camminare sulle acque)... Adesso accusa gli altri di pretendere esattamente quello che lei difendeva... Infatti, nessuno chiede che la chiesa impari a "camminare sulle acque", quello che si chiede è che ammetta di esserne per virtù propria incapace e di essere spesso "affondata" nelle fatiche storiche: insomma che la chiesa ammetta QUANDO NON HA SAPUTO TENERE FEDE AL PROPRIO MANDATO STORICO! Flannery O'Connor scriveva di teologia con molta levità, ma la sua non era una teologia leggera. Veramente è corretto e giusto, opportuno e adeguato, che noi confessiamo i nostri peccati e facciamo penitenza in questa nuova stagione di Avvento. Non dobbiamo mai stancarci di pentirci perché noi, e gli altri pellegrini della Chiesa, abbiamo un percorso da seguire: dobbiamo arrampicarci sulla scala di Giacobbe, dobbiamo cercare di realizzare l'uomo nuovo, dobbiamo sforzarci di essere ogni giorno che passa dei cristiani migliori. probabilmente il modo migliore per mostrare che stiamo davvero facendo dei passi avanti lungo questo percorso è semplicemente, come dice il Papa, "offrire testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede".

Ma per quanto riguarda i nostri pubblici atti di pentimento, ci sia concesso di vigilare, per impedire di essere offesi e sfruttati Sì, sì, questa non ha mai letto il vangelo!. Ci sia concesso di unirci ai nostri fratelli e alle nostre sorelle di altre confessioni per resistere a tutti coloro che somministrano il veleno della colpa collettiva mha! non collettive né semplicemente individuali ma colpe personali, dopotutto esistono responsabilità associative. ci sia concesso, anche, di fare in modo che le nostre espressioni di cordoglio non vengano usate da nessuno per denigrare il ruolo storico della Chiesa, la sua funzione eminentemente positiva di grande forza di pace e di giustizia come per esempio durante le crociate o recenti appelli cardinalizi alla guerra giusta!. Soprattutto ci sia concesso di ricordare ancora una volta che in ogni caso non stiamo chiedendo scusa per il fatto di essere cattolici. Non avremo mai bisogno di chiedere scusa per questo. Non dovremo farlo mai. Non lo faremo mai. Allucinante finale! fuori luogo e isterico! Mi chiedo se si sia mai pentita di aver scritto tali stupidate. Ecco comunque un discorso di cui dovremo prima o poi chiedere scusa...

tutto vero e tutto pubblicato qui: http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01071997_p-26_it.html

Per approfondire:

Ho affrontato il problema del perdono in altri post, clicca sull'etichetta perdono e selezionerai gli articoli che ne trattano...

Chi è Mary Ann Glendon? http://it.wikipedia.org/wiki/Mary_Ann_Glendon,
il suo volto: http://www.lifesitenews.com/ldn/images/2007c/Glendon.jpg

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