Le letture che la Chiesa ci propone per questa Terza Domenica di Pasqua, sono tutte molto pregnanti e ciascuna di esse meriterebbe una contestualizzazione ed un approfondimento specifici.
Ma, dato che – come sanno le persone che si aggirano più da vicino nei pressi dell’anima mia – questi sono giorni segnati da un po’ di fisiologica stanchezza, preferisco rinunciare all’impresa e concentrarmi su un unico aspetto, quello cioè per cui in tutte e tre le letture si fa esplicito riferimento al campo semantico del peccato e del perdono:
o La prima lettura, infatti, – tratta dagli Atti degli Apostoli – riportando il discorso in cui Pietro, dopo la guarigione dello storpio al Tempio, rinarra i fatti della morte e risurrezione di Gesù, contiene al v. 19 quest’affermazione: «Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
o La seconda – tratta dalla Prima Lettera di San Giovanni apostolo – dice: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo».
- Infine, il Vangelo di Luca, dopo la narrazione apologetico-didattica della risurrezione «agli Undici e a quelli che erano con loro» (apologetica, perché è un testo costruito con l’evidente intenzione di dire “La Risurrezione è reale!” – «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho», «Disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro»;
didattica, perché istruisce sull’identità tra il Risorto e il Crocifisso – «Guardate le mie manie e i miei piedi: sono proprio io!» – e contemporaneamente sul fatto che però Egli non è semplicemente tornato in vita come Lazzaro, ma ha avuto accesso ad una condizione/Vita nuova, in cui la morte è vinta – «credevano di vedere un fantasma»)… Dopo tutto questo, il brano si conclude con l’affermazione di Gesù: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni», dove ancora una volta ritorna esplicitamente il campo semantico del peccato e del perdono.
Dunque… il peccato; il perdono; la conversione; il cambiare vita; il cancellare i peccati; l’avere come avvocato presso il Padre, Gesù in persona; Lui, che è la vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo… l’annuncio di tutto questo…
Un ambito semantico vasto… di cui – onestamente – mi spaventa un po’ parlare… perché – mi pare – uno dei più facilmente fraintendibili e effettivamente fraintesi nella storia e nella vita della Chiesa, che troppo spesso, faticando a convincere sulla bellezza del bene, ha preferito orientare la sua predicazione sulla paura del male; quasi a dire: “certo il male è più bello, questo lo sappiamo tutti, però va evitato, perché può avere conseguenze spiacevoli, soprattutto nell’aldilà”. Ne è nata così una religiosità fondata sullo spavento, che ha distorto il volto di Dio e che ha introiettato nelle nostre coscienze la logica del “meritarsi il paradiso” e quindi di pensare e pensarsi, agire e rinunciare in base alla bilancia che ci troveremo davanti (???) quando moriremo.
Nelle nuove generazioni questa mentalità sembra diradarsi – il loro dramma non è non andare all’inferno, ma il dubbio sistematico sull’esistenza di Dio e dunque sul nulla in cui finiremmo, morendo –, eppure anche loro mantengono un’inquietudine sulla “peccaminosità”, così come culturalmente per secoli è stata intesa; magari abbracciandola, sfidandola, sfidandoci, ma rivelando di non avere poi un presupposto molto diverso dal nostro…
La questione allora si fa radicale, va ripensata in radice… per questo è sempre un po’ faticoso parlarne… perché non si tratta dei peccati, da evitare o da confessare, perché saranno da mettere là sul bilancino… ma si tratta dell’avere a che fare col problema serissimo del male che faccio, passando in questa storia; della dinamica di morte che eredito, ma anche rilancio attraversando questo mondo. Il problema è la messa in discussione della mia identità (e quindi delle mie relazioni) che il male che faccio attua: “Chi sono io per aver fatto questo?” – “Se ho fatto questo, chi sono io?”.
Io credo che attaccare il problema da questo versante (l’unico che a me pare autentico e per il quale valga la pena fare la scalata) aiuti molto anche a collocare come si sia posto Gesù nella sua vita di fronte a questo problema e a comprendere i passi neotestamentari che ci attestano questa sua collocazione.
Anche qui… Il discorso è molto vasto, ma dato che i vari aspetti che lo compongono sono tutti intersecati l’uno all’altro, lascio a voi la fatica di pensarci su e rivedere il quadro d’insieme; io suggerisco solo un punto di osservazione: Chi è Gesù, nella storia, di fronte al problema del male che io faccio e della mia identità alla luce del male commesso? Egli è – citando il Salmo 42,6 – «salvezza del mio volto e mio Dio». È cioè colui che custodisce la mia identità, anche quando io stessa la perdo, quando io stessa la comprometto e non la riconosco più per il male che ho fatto.
Ecco cosa vuol dire che Gesù ha cancellato i nostri peccati: che – morendo così, cioè fedele fino alla morte alla vera identità di se stesso e del Padre suo – si è attestato per sempre come colui che custodisce il vero volto di ciascuno, cosicché quando – di fronte al male che faccio – mi dico “Io non sono quella donna”, Egli mi garantisce sempre e per sempre la possibilità di ri-accedere all’autenticità di me… che non è “sono un cacca” o “una puttana” o “una traditrice”, ecc… ecc… ecc… (come giustamente ciascuno di noi concluderebbe guardando al male che fa), ma sentirsi dire “Sei mia figlia”.
Allora… capite quanto è importante (ed è già la seconda domenica di fila che la Chiesa ce lo ripropone dei testi della Liturgia della Parola) il mandato di Gesù «predicate a tutti i popoli il perdono dei peccati»?
È il mandato a tutti i suoi discepoli e le sue discepole (non solo gli Undici, ma anche «quelli che erano con loro») a essere – almeno un pochino – custodi dell’autentica identità di figli di ciascun uomo. E – come abbiamo sperimentato per primi noi sulla nostra pelle – non si è convincenti in questo, se non intrecciando davvero le nostre storie con le loro, legando i destini, mischiandosi col loro impasto di sudore e sangue e lacrime e paura.
[Allora mi piace concludere, ricordando Giuliano, di cui proprio stanotte ricorrerà il secondo anniversario della morte, perché lui è proprio stato uno di questi appassionati custodi dell’identità umana e filiale di ciascuna persona che ha incontrato. Ma lo faccio in piccolo, perché a lui non piacevano questo cose, perché – diceva – “Sono timido!”]
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