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martedì 5 marzo 2013

IV Domenica di Quaresima


Dal libro di Giosuè (Gs 5,9-12)

In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 5,17-21)

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-3.11-32)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa Quarta Domenica di Quaresima è uno dei miei preferiti… Certo, è molto noto e il rischio di affrontarlo in una maniera un po’ “facilona” è alto, eppure, se proviamo a lasciare per un attimo da parte le ovvietà sentite troppe volte, una cosa mi pare emerga con evidenza: questo testo – in maniera immediatamente limpida – mostra chi è Dio e chi è l’uomo, come è fatto l’uno e come è fatto l’Altro.

Vorrei oggi provare a leggerlo così, da questa prospettiva.

Chi è l’uomo?

È colui che – a prescindere dalla sua situazione esistenziale, morale, anagrafica, ecc… – fraintende l’identità di Dio.

L’uomo infatti, nella parabola, è rappresentato dai due figli:

-          il primo – quello più giovane, quello che se ne va – ha un’idea del volto di suo padre – che nella finzione letteraria rappresenta Dio – più o meno di questo tipo: mio padre è colui che mi consegna una vita opprimente, non libera. Qui da lui non mi è dato di vivere una vita vera, piena, appassionante. L’unica via d’uscita è andarsene, perché egli mi costringe dentro ad uno stile di vita limitante, oscurantista, bigotto.

-          il secondo – il maggiore, che resta – ha anch’egli un’immagine distorta di chi sia suo padre. Certo, resta, ma per paura. Paura del padre, paura delle conseguenze di una dipartita, paura di perdere l’eredità… La sensazione è quella di chi resta, patendo, ma sperando che un giorno – alla morte del padre – finalmente si potrà fare come dico io, sarò io il padrone e potrò disporre di tutto a mio piacimento.

Fuor di metafora, i due figli – che possono tanto indicare due modalità di essere uomo su questa terra, diciamo, due gruppi di persone (quelli che si sentono “ribelli” e quelli che si sentono “sudditi”), quanto due personalità che abitano il cuore di ciascuno (tutti ci sentiamo un po’ sudditi e un po’ ribelli) – sono due misconoscimenti speculari del volto di Dio: l’uomo – sembra dire la parabola – è colui che, o per un verso o per l’altro, fraintende il volto di Dio, proprio come narrava il mito di Genesi 3, che non a caso è archetipico per l’identità del cuore umano. L’uomo è colui che quando pensa Dio, gli si relaziona, abita la sua casa, lo pensa come qualcuno che in fin dei conti è un oppositore, uno che – solo essendoci – pone resistenza alla sua vita piena: una presenza ostile (“nemica”) di fronte alla quale o ci si ribella o si subisce, aspettando tempi migliori.

E invece – chi è Dio – secondo la parabola?

Per rispondere alla domanda, c’è poco da elucubrare arcani pensieri… si tratta di guardare l’agire di questo padre (come per tutti – infatti – anche per lui si capisce chi è guardando a come agisce, è infatti da come agiamo che mostriamo chi siamo). E il suo agire, come quello di tutti, è fatto di gesti e parole. Innanzitutto questo padre è colui che di fronte alla ribellione del primo figlio, non dice nulla, non gli fa discorsi retorici, non lo minaccia, non lo ammonisce. Semplicemente fa come il figlio gli chiede: «divise tra loro le sue sostanze».

Si potrebbero fare molte osservazioni su questo atteggiamento iniziale del padre, sulla concezione pedagogica che egli ha, o forse – più radicalmente – sul rispetto per l’identità di suo figlio che egli serba in cuore. E si potrebbe mettere in relazione l’atteggiamento di questo padre con il nostro, personale ed ecclesiale, di noi – a cui come dice Paolo – è «affidato il ministero della riconciliazione […] perché potessimo diventare giustizia di Dio»… ma sono pensieri che allungherebbero troppo questa riflessione… Basti solo porsi un paio di domande: “Che tipo di rapporto ha in testa Dio con me, se di fronte alla mia ribellione, fa come dico?”, “Avrei mai pensato ad un riconoscimento così alto della mia dignità di uomo?”, “E noi, che dignità riconosciamo agli altri uomini, che – a differenza di noi – hanno il coraggio di ribellarsi ad un volto di Dio che credono opprimente?”.

Ma torniamo a questo padre… Finora, nella parabola non ha detto nulla: ha solo diviso le sue sostanze (la sua vita) tra i figli, così come il più piccolo e scapestrato gli aveva chiesto. Quest’ultimo vive la sua avventura e sappiamo come va a finire. Ebbene, tornato a casa… «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa».

Stavolta il padre agisce e parla e ciò che dice – attraverso gesti e parole – ci mostra chi egli sia davvero: uno a cui continuiamo ad interessare noi; uno che nel suo cuore sa non dare peso (non rendere grevi, gravi!) a quelle nostre scelte che potevano impensierirlo, preoccuparlo, forse anche deluderlo e farlo soffrire, perché sa spostare tutto il peso del cuore verso il bene che prova per colui che è sempre rimasto suo figlio (anche prima che “ritornasse in sé”, prima che “si ravvedesse”, diremmo noi, inguaribili moralisti… a cui dà un po’ fastidio forse che questo padre, a differenza di quanto spesso predichiamo, custodisce la dignità di figli anche per quei peccatori, che non si pentono!); questo Dio è un padre il cui cuore non ha spazio per il “giusto” risentimento, per la “giusta” necessità di un risarcimento per il danno arrecato, per la “giusta” diffidenza verso uno che si è appena mostrato inaffidabile (gli rimette l’anello al dito, che era il libretto degli assegni di allora!), per la “giusta” delusione e desolazione… Tutta questa “giustezza” / “giustizia” non è la sua… Siamo noi che siamo sempre alla ricerca di ragioni per avere ragione… perché finalmente sia riconosciuta universalmente la legittimità del nostro risentimento… Non così per Dio… perché il suo cuore funziona diverso: la passione per il figlio vince sempre, è incontenibile la gioia nel vederlo fare capolino da lontano che gli sprizza tutta fuori, contro ogni buon senso e teoria pedagogica che forse avrebbe consigliato altro…

Come noi… che forse avremmo consigliato altro a questo padre… Esattamente come l’altro fratello… che non vuol saperne di entrare!

Ed ecco di nuovo il padre: ecco di nuovo i suoi gesti e le sue parole. «Suo padre allora uscì a supplicarlo. […] “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Anche verso questo figlio il padre esce… e si spiega…

È cambiato l’interlocutore, ora il figlio è l’uomo che si è sempre sentito suddito, ma comunque nel giusto, o la parte di noi che pensa così (questi sono infatti i veri destinatari della parabola: i farisei e gli scribi che mormoravano tra loro: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»… e in quanti o quanto siamo ancora oggi fatti così…). È cambiato interlocutore, è cambiato il figlio... ma il fraintendimento sul volto del padre è il medesimo, come dicevamo all’inizio… Ecco perché medesima è anche la riaffermazione – nelle parole di Gesù – del volto autentico di Dio. Anche verso questo figlio vince, su ogni altra considerazione, il desiderio di un abbraccio… Esce… Gli parla… E chissà quanto fremeva dentro, perché finalmente il cuore dell’altro si sciogliesse, gli togliesse il muso e facesse ricircolare nelle vene il calore dell’affetto, della consegna, della fraternità (tornare a chiamare suo fratello “mio fratello” e non “tuo figlio”).

Ma la parabola ha una finale aperta: cioè non finisce. Non si sa se questo fratello maggiore rientra, oppure no, a far festa con suo padre e suo fratello.

Gli esegeti dicono che la finale è aperta perché siamo noi questi fratelli maggiori a cui è rivolta la domanda, se rientrare o meno… Fuor di metafora: se essere figli di un Dio così, o continuare a voler essere sudditi di un dio che non esiste se non nelle nostre teste… che sarà anche meno appassionante, ma di certo è più consolante, perché mette le cose in chiaro: il bene ai bravi, la punizione ai cattivi e se non si pentono, tutti all’inferno!

Invece l’appassionante e imprevisto Dio di Gesù, fa diverso: sembra quasi che i peccati dei “ribelli” – quelli così chiaramente e perentoriamente stigmatizzati dalla predicazione cattolica (sesso, soldi, sballi…) – siano meno potenti nel cuore umano per sottrarsi al volto paterno di Dio, anzi… in qualche modo lasciano ampi margini per farsi raggiungere dallo sguardo sprizzante amore di Dio (“Ci si sente così delle merdeche si è più disposti a farsi incontrare dalla tenerosità di chi ci fa una carezza); mentre il peccato dei “sudditi-giusti” – quello di chi rimprovera al padre il suo essere così come egli è – sembra più subdolo e potente nel tenere il cuore dell’uomo alla larga dall’amore di Dio, le cui tenerezze, quasi infastidiscono, perché sono proprio quelle – che siccome rivolte a tutti – sono inaccettabili!

sabato 13 marzo 2010

È questione di sguardi

In questa quarta domenica di Quaresima, che la Chiesa tradizionalmente chiama laetare perché sospende il cammino di penitenza dei quaranta giorni prima di Pasqua, anche il vangelo sembra rimandare a quel clima di allegrezza che si mostra a livello liturgico (i canti della Messa non parlano che di gioia e di consolazione; si fa risentire l'organo, rimasto muto nelle tre Domeniche precedenti; è consentito sostituire i paramenti violacei coi paramenti rosa, colore che pur rimanendo legato al viola della penitenza, è alleviato dal bianco dell'imminente solennità; ecc…): il capitolo 15 di Luca è infatti uno dei più inequivocabili nel trasmettere la letizia dell’essere figli di questo Padre.
La cosiddetta parabola del padre misericordioso, più conosciuta come quella del figliol prodigo, mette in gioco infatti – al di là delle altre molteplici cose che si potrebbero dire – un gioco di sguardi sul personaggio del padre. È interessante guardare a questo racconto ponendosi come uno spettatore che osserva lo svolgersi della scena con in testa una domanda fondamentale: A partire da ciò che fanno e dicono i vari personaggi, qual è l’idea del padre che hanno in testa? Il primo figlio che immagine ha di suo padre? E il secondo? E il padre stesso, come si propone sulla scena? Cosa dice di sé, agendo e parlando?
Le domande evidentemente sono fondamentali, perché in ultima analisi è la stessa questione che il lettore stesso è chiamato a porsi: Io che idea ho di questo padre? E fuor di metafora: Qual è la mia idea di Dio? Senza dimenticare che la parabola è raccontata in un particolare contesto, quello in cui vedendo Gesù circondato da pubblicani e peccatori, «i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”».

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, a partire dalla storia narrata nella parabola, proviamo a delineare le varie idee di padre che emergono nei cuori e nelle teste dei personaggi. In primo luogo quella del figlio più giovane, il primo a comparire sulla scena. Egli, dopo essersene andato ed essere caduto in disgrazia, ragiona più o meno in questo modo: suo padre non potrà certo riaccoglierlo come un figlio, ma se non altro lì a casa si può mangiare; suo padre – egli pensa – avrà perciò il buon cuore di accettarlo come suo servo. Ragiona cioè nella maniera che pare più logica anche a tutti noi, che infatti parte da un presupposto solitamente assai condiviso, quello della retribuzione/reciprocità. Il padre punirà i suoi misfatti (non lo può riaccogliere come figlio; anzi il figlio non spera nemmeno in questa eventualità, non gli salta nemmeno in mente come possibile), ma potrebbe riaccoglierlo come servo, in nome dell’antico affetto o per lo meno della pietà a cui spera di muoverlo. In qualche modo cerca da lui il dovuto, o poco più del dovuto.
Proprio in questa logica va rintracciata la prima identificazione cui la parabola di Gesù chiama colui che la ascolta: precisamente questo modo di ragionare del primo figlio, questo suo modo di pensare il padre, coincide col nostro modo di pensare Dio. Non un Dio cattivo, anzi un Dio che come servi ci riaccoglierebbe mosso a pietà dalla nostra miseria. Diremmo: un Dio giusto. Che dà il giusto. A ognuno il suo: anche il perdono ai pentiti.
Ma proprio qui la parabola fa scattare il suo meccanismo, creando uno stacco sorprendente, quasi incomprensibile: al lettore che segue annuendo al discorso che il figlio giovane si fa tra sé e sé («Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati»), si presenta una scena non prevista: il padre «quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Non lascia nemmeno finir di parlare il figlio, che tentava di ripetere il pensiero che aveva formulato nel suo cuore («Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”») «e cominciarono a far festa». Dove la cosa più interessante, più imprevista, quella che dovrebbe far sobbalzare l’ascoltatore è che – contrariamente all’immagine del padre che il figlio più giovane aveva in testa – questi non aspetta il suo pentimento e – solo a posteriori – gli concede di essergli servo, ma piuttosto preventivamente lo perdona e lo riaccoglie come figlio.
Il punto critico è perciò quello per cui lo sguardo con cui il figlio guardava al padre era sbagliato, falsificava la realtà, non era conforme all’identità del padre. Più precisamente ancora: lo sguardo con cui il figlio si sentiva guardato dal padre non corrispondeva alla realtà, allo sguardo con cui il padre lo guardava.
E questo è il punto interessante per gli ascoltatori, dunque anche per noi: Qual è lo sguardo con cui guardiamo a Dio? È conforme alla realtà (di Dio)? Alla sua identità? E soprattutto, come è lo sguardo con cui ci sentiamo guardati da lui? È in sintonia con questa parabola? Con questa scena in cui emerge, per esempio, che – ben al di là del luogo comune per cui Dio ci perdona se ci pentiamo – in realtà egli ci perdona a prescindere? Cioè continua a custodire la nostra identità di figli e a guardarci così, anche quando noi roviniamo o sfuochiamo questo nostro volto (Non a caso il salmista lo chiama «salvezza del mio volto e mio Dio» (Sal 42,6d) e un grande teologo come P.A. Sequeri ricorda che «L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde l’uomo con il serpente»!)? È in sintonia con il resto del vangelo? Con lo sguardo con cui è necessario che Gesù guardi ai poveri, agli affamati, agli afflitti, ai perseguitati… agli incompiuti della storia, per chiamarli beati (Lc 6,20-23)? O allo sguardo che deve avere per proclamare e vivere come unica strada per la felicità l’amore ai nemici (Lc 6,27-38)? O la disposizione che deve avere perché a lui si avvicinassero «tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo»?
Perché questo è il Dio che Gesù rivela nel suo vangelo, esattamente come così è la vera identità del padre che emerge dalla parabola, al di là dell’idea dell’uno e dell’altro figlio…
…A proposito dell’altro figlio… il maggiore, quello che entra sulla scena solo nel finale… Anche la sua idea di padre non si scosta molto da quella del fratello: anche lui ha in mente un padre giusto, che dà il giusto, il dovuto, incapace del contrario, cioè del gratuito, delle cose gratis, dell’amore a perdere. Ma proprio qui sta l’inganno… Nel tentativo, suo e nostro (e dei farisei che occasionano la parabola, tanti simili a questo secondo figlio…), di bilanciare la vita sul dovuto: su ciò che mi è chiesto e ciò che è giusto io riceva… sul reciproco scambio, sul do ut des, sul tanto mi tanto, come se il dovuto potesse appagare il desiderio di Vita dell’uomo...
Il p(P)adre è altro rispetto a questo calcolatore e bilanciatore, sembra dire la parabola. Dio è altro, sembra dire il vangelo. La felicità è altrove, sembra dire Gesù: solo la verità dello sguardo con cui Dio guarda all’uomo senza dimenticarsi mai che è suo figlio, e solo l’acquisizione da parte dell’uomo di questo sguardo che vede l’altro senza mai dimenticarsi che è suo fratello, è Vita!

venerdì 13 febbraio 2009

Una singolare immagine del figliol prodigo



Un'altra opera d'arte che ci aiuta a riflettere. Con un deciso balzo all'indietro rispetto alla modernità di Ensor, questa volta andiamo in Germania, a vedere un'opera di Albrecht Durer (1471 - 1528)

Artista tedesco di grandissima qualità, vissuto a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, Durer ha segnato la storia dell'arte con le sue opere, che mettono in comunicazione le esperienze figurative nordiche e quelle italiane. Tuttavia, ciò che di quest'opera è notevole non è solo lo stile. Quello aiuta, certo: si tratta di un'immagine gradevole a vedersi, equilibrata nella composizione, e non si può non rimanere affascinati dalla perizia tecnica dell'artista (per inciso, questa dovrebbe essere la sua prima lastra a bulino a noi nota): tutto ciò che vediamo è realizzato incidendo una lastra di rame attraverso uno strumento tagliente, il bulino, appunto, e poi procedendo all'inchiostratura e alla stampa della lastra.
Ma ciò che la rende, a mio avviso, davvero significativa, è la scelta del soggetto. Durer sceglie di raffigurare la parabola del figliol prodigo, narrata dal vangelo di Luca al capitolo 15. Questo racconto è largamente rappresentato nella storia dell'arte, ma solitamente ciò su cui si concentrano gli artisti - da Rembrandt a Martini e De Chirico - è il momento conclusivo, con l'abbraccio del padre che riaccoglie in casa il figlio perduto. Durer, invece, ci mostra un altro momento. Per rievocarlo ci appoggiamo direttamente al testo evangelico:

Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali. Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava. Allora, rientrato in sé, disse: "Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi".

L'opera, dunque, ci mostra il momento del pentimento, della presa di coscienza; e, secondo me, è questo il momento centrale del racconto. Se avessimo un cuore pronto a riconoscere il vero volto di Dio, sapremmo infatti che lui è già alla finestra, ci attende...sempre, aspetta il nostro passo. Tutto ciò che noi dobbiamo fare è accorgerci di questo, mutare il nostro pensiero, in una parola convertirci. Mi sembra dunque una bellissima immagine che, in modo indiretto, ci parla di perdono e di come, forse, dobbiamo mutare le nostre idee "mercantili" su questo argomento.
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