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giovedì 4 luglio 2013

XIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 66,10-14)

Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria. Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 6,14-18)

Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,1-12.17-20)

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

In questa Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sul brano del vangelo di Luca (Lc 10,1-12.17-20) che segue immediatamente quello della settimana scorsa (Lc 9,51-62), seppur con una piccola cesura nel mezzo (Lc 10,13-16).

Dopo la prima parte (conclusasi in Lc 9,50), siamo dunque collocati in quella seconda parte del vangelo che era iniziata con la decisione di Gesù di dirigersi a Gerusalemme – «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51) – e che si concluderà proprio a Gerusalemme con la passione, morte e risurrezione di Gesù: una seconda parte orchestrata seguendo il filo conduttore del viaggio verso Gerusalemme.

Mentre quindi il brano di settimana scorsa era l’episodio inaugurale di questo “secondo tempo” del vangelo di Luca, il brano di questa domenica tratteggia quello immediatamente successivo… il quale però si riferisce subito a quanto lo aveva appena preceduto: «Dopo questi fatti…», dopo cioè il rifiuto dei samaritani ad accogliere Gesù, la reazione dei discepoli (con annessa sgridata!) e le istruzioni di Gesù a chi vuole seguirlo.

È a questo punto che l’evangelista inserisce un episodio che gli è proprio, cioè che solo lui – fra tutti – racconta: è il cosiddetto “invio dei settantadue”. «L’intenzione, probabilmente, è di mostrare come la missione non è unicamente affidata allo stretto gruppo degli apostoli, ma anche alla cerchia più vasta dei discepoli. Il compito di annunciare Cristo rientra nella vocazione cristiana semplicemente. E deve estendersi a tutta la terra: il numero settantadue richiama infatti la tradizione giudaica che riteneva che le nazioni della terra fossero, appunto, settantadue» [B. Maggioni, il racconto di Luca, 206].

Il problema però è quello di intendersi… Troppo spesso infatti la sottolineatura per cui la “missione” è prerogativa di tutti i cristiani, è stata usata da qualcuno per autoproclamarsi dispensatore di verità, o – peggio – per reclutare improvvidamente (per loro e per gli altri) turbe di persone (che in maniera efficace e geniale come sempre, Sequeri chiama “i pretoriani del vangelo”) a convertire chissà chi… un esempio su tutti: quando preti e catechisti invitano i ragazzini a essere “testimoni” presso i loro coetanei – che in sé sarà anche una cosa bella, ma non quando vuol dire mandarli a combattere (totalmente sprovveduti) “battaglie” da cui escono solo più bastonati, più frustrati e più soli … o peggio ancora, ritenendosi gli unici “santi” in un mondo di peccatori… che è l’anti-vangelo (ma loro non lo sanno… ancora). Anche perché aveva detto «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi»… dunque i cuccioli è meglio lasciarli a casa…

Il punto è dunque intendersi… su cosa sia “missione”, “testimonianza”, “annuncio”… e in proposito qualcuna Gesù ne dice…

Innanzitutto: «li inviò a due a due»… forse perché – e mi pare già una bella delimitazione di campo per inserirsi in una prospettiva corretta – la missione non è questione di insegnare intellettualmente delle verità, o moralmente dei precetti, o spiritualisticamente dellepreghiere, ecc… ma di mostrare la verità che è Gesù, che si traduce in una “morale” (cioè in una storia... fatta di gesti, parole, carezze, silenzi, vicinanza, accudimento… comportamento, plasmazione di sé…), nutrita dentro allapreghiera (la relazione intima col Padre…). E allora, quale il modo migliore di mostrare questa verità (Gesù e il suo vangelo), questa morale (la vita evangelizzata in tutti i suoi interstizi), questa preghiera (il farsi dire la propria identità di figli da uno che ci è Padre) – tutte cose che noi per primi abbiamo ricevuto in regalo (non sono nostre… conquiste!) – che quello di “farla vedere” a due a due – appunto: cioè in un “cantiere antropologico”, dove vivendo così, amando così, gli altri possano prima vedere e poi essere come tirati dentro ad una dinamica, ad una relazione… Non a caso Gesù pone come segno di riconoscimento dei suoi, proprio il bene che si vogliono (tra loro!), cioè la qualità (evangelica) della relazione che vivono: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)!

Segue poi una constatazione… «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai»… «per chiarire subito l’impresa e gli attori : e prendere atto che c’è una sproporzione strutturale congenita tra le messi sterminate da mietere e i pochi contadini addetti! Bisogna assolutamente entrare in questo atteggiamento di piccolezza e insufficienza sproporzionata, a scanso di equivoci dolorosi, perché l’opera a cui siamo mandati ‑ il Regno – non è nostra… organizzata da noi: è sua! Siamo solo lavoratori nei suoi campi – e la tentazione subdola sarà [invece sempre quella] di inventarci mezzi nostri, illudendoci di riempire lo scarto incolmabile»! [Giuliano].

«Pregate dunque il signore della messe»… «la preghiera,[infatti] è l’unica preparazione proporzionata: proprio perché il Regno è del Padre, occorre entrare nelle sue intenzioni, nel suo animo, nella sua volontà…» [Giuliano]. E «non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada», «per togliere ogni occasione di conflitto, ogni apparenza di interesse, ogni materia di rivalità, nell’incontro tra discepolo di Gesù e gli uomini» [Giuliano].

Fino a qui le premesse… per arrivare al dunque… le istruzioni cioè per favorire quello che è il centro dell’annuncio, il senso della missione, l’oggetto della testimonianza: e cioè una buona notizia! E non le cattive notizie di cui invece spesso – più o meno inconsciamente – noi cristiani ci facciamo messaggeri (“Se fai così vai all’inferno!”, “Guarda che questo è peccato”, “Non si può fare questo, non si può fare quello”, ecc… ecc… ecc…). Che magari possono anche essere inevitabili, e giuste, e necessarie (pedagogicamente parlando)…

Ma prima… di tutto… dite: “Pace”: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”».

E che questo sia l’essenziale lo ribadisce il fatto che – nonostante Gesù stesso ponga la distinzione tra le “città che vi accoglieranno” e quelle che “non vi accoglieranno” – comunque “a tutti annunciate il Regno”: «Quando entrerete in una città e vi accoglieranno […] dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio” / Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno […] dite: “[…] sappiate però che il regno di Dio è vicino».

E il Regno – nel vangelo – è sempre e solo una buona notizia! Questo è, senza ombra di dubbio, l’inequivocabile del vangelo (eu = buon; anghello = annuncio): «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5). Proprio come aveva profetizzato Isaia: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi»… come mano/sguardo di Padre e non di Giudice! Una mano/sguardo che sola può fare dell’uomo la “creatura nuova” di cui parla Paolo, per la quale davvero poi «la circoncisione non conta, né la non circoncisione»; né i voti, né i non voti; né l’essere Giudei o Greci; maschi o femmine, schiavi o padroni… perché – appunto – ormai si è nuovi, come ritessuti di una stoffa i cui fili si chiamano fiducia, consegna, dedizione, cura: «Il frutto dello Spirito infatti è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge» (Gal 5,22-23).

E allora sì che “satana cade”… cioè: la storia si sdemonizza, le persone sono liberate e gioiose, la pace è accolta in comunione e tenerezza…

Ma c’era uno “scuotere la polvere”, che forse fa contraddizione (?!)… perché «“scuotersi la polvere dai piedi contro qualcuno…” è comunque sempre un fatto doloroso» [Giuliano]… Ma anche qui… bisogna intendersi… “scuotere la polvere” per quanto sia un riconoscimento del rifiuto della pace – e dunque un prendere le distanze dalla logica mondana che l’ha provocato – non è però certo un maledire quella casa, per la quale l’annuncio di pace si è rivelato precoce… basta ricordare la reazione aggressiva rimproverata da Gesù ai due fratelli, di domenica scorsa: Lc 9,54… si tratta allora piuttosto del rifiuto (visibilizzato in un gesto) del lasciarsi contaminare dalla stessa logica della contrapposizione competitiva… dunque – appunto – rilanciare ancora una volta la logica evangelica!

E a conferma le parole di Paolo Curtaz, tratte da una sua omelia: «Gesù ci indica con precisione lo stile e la modalità della missione. I discepoli vengono mandati a due a due, precedendo il Signore. Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori. A noi, solo, di preparargli la strada. Non dobbiamo salvare il mondo: il mondo è già salvo, è che non sa di esserlo. In coppia veniamo mandati: l’annuncio non è l’atteggiamento carismatico di qualche guru, ma dimensione di comunità che si costruisce, di fatica dello stare insieme. Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all’essenziale. Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l’arroganza dell’annuncio ci taglia da Dio in maniera definitiva. Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità. Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l’ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli uomini sono proprio le nostre, esattamente le nostre. Condividiamo la ricerca, portando nel cuore il Vangelo, senza facili verità da sbattere in faccia agli altri, ma nella serena certezza che il Signore ci conduce per mano».

domenica 17 marzo 2013

La novità sempre nuova!

Una Giustizia Nuova

Per un approfondimento “esegetico” del brano rimando al post precedente.
Qui segue lo schema dell’omelia.

Per prima cosa le letture di questa V domenica di quaresima ci insegnano che esiste una NOVITÀ:
Dice infatti la prima lettura tratta dal libro di Isaia: nel passato il Signore che ha fatto cose grandi (“aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli”) ma ciò che ci prepara è infinitamente più grande al punto che per quanto grande fu il passato non vale più nemmeno la pena di ricordarlo! «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa».

Una novità così grande, così al di fuori della nostra esperienza, che possiamo sempre dire di NON conoscerla.

E qual è questa novità?
Ce lo dice san Paolo nella Lettera ai Filippesi: La Giustizia apportata da Gesù! Paolo parla infatti di “nuova giustizia”! Ecco la NOVITÀ: Quella che ci offre Gesù! Non quella che viene da altro da lui, per quanto sublime: filosofia, legge, comandamenti, religione, morale… La “nostra” giustizia è nuova solo se viene dalla nuova giustizia di Dio rivelata in Gesù Cristo! Per questo, ribadendo lo stesso concetto della prima lettura, san Paolo afferma che tutto, ma proprio tutto ciò che ho conosciuto fin d’ora, è “spazzatura” a confronto di questa novità! Spazzatura eh, e guai a riciclarla!

Quindi NOVITÀ che non cessa mai di essere NOVITÀ, è questa GIUSTIZIA NUOVA!

E in cosa consiste questa giustizia nuova? Ce lo dice il Vangelo con l’episodio dell’adultera:
Ci sono tre personaggi: gli accusatori di un’adultera, l’adultera e Gesù!
Gli accusatori accusano: nessuna comunione anche quando se ne vanno! Non vanno dalla donna a dire «abbiamo sbagliato scusaci!»: Il male è ciò che non crea comunione che sia ARMATO o INDIFFERENTE, sempre assassino è! Al centro la donna, muta, silenziosa, come un agnello condotto al macello! Poi Gesù che prende le difese della donna, e crea vera comunione con lei e, attenti!, la porta a parola! Umanizza!

Per il Vangelo sempre anche quando gli altri se ne vanno la donna resta “in mezzo”! Questo a mio parere sta a sottolineare ciò che è centrale nella GIUSTIZIA NUOVA, nella NUOVA LIBERTÀ: la vera giustizia è quella che è capace di compromettersi per portare a parola a chi voce non ha! (normalmente si dice il contrario in una forma di paternalismo farisaico: dare voce a chi non ha voce!). La GIUSTIZIA NUOVA è una giustizia che si mette sempre e comunque dalla parte della storia fallita di ogni uomo e donna!

Quindi riassumendo l’insegnamento: Siamo davanti a una NOVITÀ che mai possiamo dire di conoscere appieno, e questa NOVITÀ è una GIUSTIZIA NUOVA che è tale perché è SEMPRE DALLA PARTE DI CHI HA SBAGLIATO! Comunque!

Conseguenze:
“Santo” traduce l’ebraico qadosh “separato”: Nel racconto dell’adultera, c’è il rifiuto della santità come separazione: nasce quindi un nuovo modello di santità come commistione!
Nel racconto dell’adultera, Dio non appare più “santo” perché separato, ma “santo” perché si sporca, si immischia con la storia umana: contrariamente a Pilato che se le lava, Dio ama sporcarsi le mani (mi piace pensare a questo significato delle dita nella sabbia di Gesù che rimandano alle mani nel fango di Yhwh nella creazione di Adam il Terrestre)! Così deve fare la chiesa e il cristiano: questo è il vero significato del perdono e quindi dell’amore! (Non si salva il fratello stando fuori dalla storia, nel proprio benessere!).

E allora una Chiesa, un cristiano, un ordine religioso che non scambia e si contamina assumendo su di sé i drammi della vita dell’altro, e che invece si aggrappa alla propria sacrale purezza, cessa di essere “sacramento di liberazione” (cf Vat II). La paura di contaminarsi per timore di perdere la propria identità sacrale fino a “separarsi” dal mondo, dai laici, dagli altri, fa del cristiano, del religioso, della chiesa, la versione moderna del fariseismo!
Ecco perché la Chiesa non può non uscire da se stessa e sporcarsi mani e piedi facendosi missionaria!

Per caso in rete, cercando chi fosse J.M. Bergoglio appena eletto vescovo di Roma, ho trovato questa sua espressione sul tema dell’evangelizzazione, che mi sembra si adatti bene a quanto stiamo dicendo: «Tutta l’attività ordinaria della Chiesa è impostata in vista della missione. Questo implica [che]si deve uscire da se stessi… È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima».

martedì 10 luglio 2012

XV Domenica del Tempo ordinario


«Quando si parla di evangelizzazione, il nostro pensiero corre subito al «che cosa vado a dire?» e meno, molto meno, a «come devo essere io?», al mio stile di vita. Perché lo stile di vita non è un accessorio, magari desiderabile, ma secondario, del messaggero. Le modalità del presentarsi dei messaggeri missionari, cioè gli strumenti economici, il tessuto di relazioni nelle quali si inseriscono, le strutture istituzionali con le quali si incontrano, o si scontrano, nei paesi e nelle città dove arrivano, anche se ancora minime, come in questi inizi… sono già il messaggio!», [Giuliano].


In questa Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario è su questo che vorrei riflettere… su quanto poco conto, nel nostro pensare la nostra vita, spesso abbia il “come devo / voglio essere io”, “come dobbiamo / vogliamo essere noi” e su quanto invece questo sia il tutto di ciò che trasmettiamo.

Noi siamo infatti figli di una mentalità, plasmata nei secoli, che ha teso sempre più a staccare i messaggi dai messaggeri, la verità dalla storia, sia che essa riguardasse l’uomo, Dio, il mondo… Siamo nati e cresciuti in un contesto pieno di verità (teologiche, antropologiche, morali, scientifiche, economiche, ecc…) che fluttuavano sulle nostre teste e che erano lì “a portata di mano” per essere usate come “frasi fatte”, “risposte pronte”, “marchingegni logici” a seconda delle varie situazioni… E – per quanto questo modo di affrontare le varie questioni della vita spesso ci sia risultato inadeguato, riduttivo, inefficace – facciamo fatica a staccarcene e a renderci conto che, forse, si potrebbe cambiare prospettiva…

La Chiesa – col Concilio – si è resa conto di questo stato di cose e ha formulato una delle più stravolgenti (rispetto alla mentalità precedente) espressioni della sua storia, quando nella Dei Verbum al n° 2 ha scritto: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi».

Al di là del linguaggio necessariamente formale del documento, mi piacerebbe che cogliessimo lo scaravoltamento in atto!

Innanzitutto, dentro ad una mentalità ecclesiale in cui la trasmissione della fede coincideva con la trasmissione delle verità (al plurale, cioè di un insieme di definizioni: pensate – soprattutto chi tra voi è più datato – a cosa voleva dire andare a dottrina – non a caso si chiamava così! – prima del Concilio: imparare a memoria il Catechismo di Pio X, cioè tutta una serie di domande e risposte che racchiudevano – appunto – le verità del Cristianesimo!), inserire “la bomba atomica” (originaria, ma dimenticata) per cui a Dio è piaciuto rivelarsi in persona, vuol dire mettere in cantina tutta quella mentalità separatista che relegava Dio lassù nei cieli (del quale infatti sapevamo solo “le verità” che ci dicevano i preti) e noi quaggiù sulla terra (a imparare a memoria il “da sapersi” su Dio – senza magari capire – e il “da farsi” morale).

Perché se a Dio è piaciuto rivelarsi in persona, allora vuol dire che c’è un po’ più sostanza che nel semplice imparare a memoria definizioni a suo riguardo! Vuol dire che il campo semantico non è semplicemente quello dell’istruzione, dell’imparare, dell’applicare, ma diventa quello del relazionarsi, conoscere, intrattenersi, voler bene…

Ha espresso bene questa svolta, in maniera profetica (perché è vissuta quasi 100 anni prima del Concilio Vaticano II), Santa Teresa di Gesù Bambino che diceva: «Sentivo che era meglio parlare a Dio che parlare di Dio» [ManoscrittoA, 125].

Se si tratta di questo, allora si capiscono bene anche le altre affermazioni di DV 2: «gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura», «infatti Dio invisibile parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé».

Capite cosa è in gioco nella relazione con Dio?

Ma è ovvio che se da trasmettere non è più una dottrina, ma una relazione, un’amicizia, una comunione, le modalità di trasmissione non possono più essere quelle anaffettive dell’indottrinamento, ma diventano quelle della dinamica storica (proprio come accade nelle nostre relazioni, amicizie, comunioni umane): «Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi», cioè Dio si fa conoscere in persona, dentro ad una storia (eventi e parole intimamente connessi vuol dire questo!).

Ecco allora che entra in gioco il nostro vangelo! Era già tutto scritto lì, ma gli incrostamenti della storia ce l’avevano fatto un po’ dimenticare!

Il problema non è il “cosa andare a dire”, ma il “come essere”, il “quale storia scrivere” quando si è tra la gente col deliberato intento di essere testimoni dell’amore del Padre (cioè del Regno che viene!).

Innanzitutto bisogna essere almeno in due («Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due»), perché «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri», Gv 13,35.

Se si tratta della trasmissione di una relazione (quella con Dio) che ci cambia, perché ci fa figli e dunque fratelli, questa “cosa” non può che essere “detta” vivendo e (proprio per questo) mostrando (mai il contrario!!!) il modo nuovo di volersi bene che la comunione col Padre inaugura.

Perché se c’è una cosa indiscutibile nel vangelo è proprio questa: che l’amore con cui il Padre ci ama implica una risposta spostata; Egli infatti non chiede mai di essere ri-amato, ma di ri-amarlo amando i fratelli («Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri», Gv 13,34).

In secondo luogo bisogna “scrivere una storia” in cui la gente sia liberata dal male (almeno un pochino), in cui le si tocca la carne (almeno un pochino) e le si tolgano le catene (almeno un pochino): «dava loro potere sugli spiriti impuri».

«E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche»: «Gesù esige uno stile ed una radicalità di disimpegno dai lacci che legano al potere, al denaro, alle convenzioni del consenso socio politico, che sembra ingenuo o poetico o utopistico. Non portate nulla, perché tutto ciò che hai in più, ti divide dall'altro. Tutto ciò che hai di troppo (su cui il potere ti gioca, perché te lo può concedere, lasciar o togliere…) è pericoloso… pane, bisaccia, soldi, vestiti. Il problema si è immensamente complicato oggi – pur rimanendo limpide, incontestabili… e drammatiche queste esigenze “evangeliche”, tuttora inseparabili dal messaggio e dal contenuto del messaggio che è il Regno. È una povertà che è fede, libertà e leggerezza. Un messaggero carico di bagagli, che s’illude possano servire per spiegare e convincere meglio… sarà invece paralizzato o impedito o invischiato dall’ambiguità dei mezzi stessi a cui si affida, incapace di cogliere la novità di Dio e abilissimo nel trovare mille ragioni di comodo per giudicarli irrinunciabili. Scordandosi della forza interna della Parola, che si diffonde solo se chi la porta è testimone appassionato e capace di rischiare la vita, le risorse e il futuro … perché il suo riferimento propulsore è il Signore, non qualche proprio progetto o vantaggio o interesse.  E lo Spirito che compie le parole dette!», [Giuliano].

Infine… «diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”»: l’incarico è l’annuncio, non il successo; «Se non ci sarà non deve importare, devono semplicemente andare e tentare altrove…» (Balthasar).

sabato 12 febbraio 2011

Ti amo...



Ci ho messo un po' a decidere se sopprimere definitivamente il post o mantenerlo. Poi ho deciso di mantenerlo per due ragioni: primo perché le riflessioni fatte e la bellezza del testo non vengono meno. Poi perché è una bella lezione di umiltà... Di cosa sto parlando? Semplice ho preso una "bufala" nel senso che il vero autore del testo è Fabio Volo. Precisamente la lettera è tratta dal suo romanzo E' una vita che ti aspetto, (2003). Il brano in questione si trova proprio alla fine del romanzo. A.M., da cui io l'ho preso col suo esplicito permesso (!) lo ha semplicemente reso al femminile e indirizzato al suo ragazzo. Io ho riportato adesso la versione "originale".

Tutto il male però non vien per nuocere. Dubito che avrei prestato tanta attenzione ad un testo tratto da un romanzo... Il "merito" di A.M. sta nell'avermelo calato nella realtà rendendo il testo, nell'immaginario personale ancor più suggestivo e pregnante. D'altronde è questo il vero modo di leggere un romanzo: "funziona" solo se si fa finta che sia vero...

Ti dico queste parole nel periodo migliore della mia vita, nel periodo in cui sto bene, in cui ho capito tante cose. Nel periodo in cui mi sono finalmente ricongiunto con la mia gioia.

In questo periodo la mia vita è piena, ho tante cose intorno a me che mi piacciono, che mi affascinano. Sto molto bene da solo, e la mia vita senza di te è meravigliosa.

Lo so che detto così suona male, ma non fraintendermi, intendo dire che ti chiedo di stare con me non perché senza di te io sia infelice: sarei egoista, bisognoso e interessato alla mia sola felicità, e così tu saresti la mia salvezza. Io ti chiedo di stare con me perché la mia vita in questo momento è veramente meravigliosa, ma con te lo sarebbe ancora di più. Se senza di te vivessi una vita squallida, vuota, misera non avrebbe alcun valore rinunciarci per te. Che valore avresti se tu fossi l'alternativa al nulla, al vuoto, alla tristezza? Più una persona sta bene da sola, e più acquista valore la persona con cui decide di stare. Spero tu possa capire quello che cerco di dirti.

Io sto bene da solo ma quando ti ho incontrato è come se in ogni parola che dico nella mia vita ci fosse una lettera del tuo nome, perché alla fine di ogni discorso compari sempre tu. Ho imparato ad amarmi. E visto che stando insieme a te ti donerò me stesso, cercherò di rendere il mio regalo più bello possibile ogni giorno. Mi costringerai ad essere attento. Degno dell'amore che provo per te. [...]

Da questo momento mi tolgo ogni armatura, ogni protezione [...] non sono solo innamorato di te [...], io ti amo. Per questo sono sicuro. Nell'amare ci può essere anche una fase di innamoramento, ma non sempre nell'innamoramento c'è vero amore. Io ti amo. Come non ho mai amato nessuno prima...


Non ho letto (ancora) il romanzo di F. Volo, ma trovo questo brano bellissimo.
Una dichiarazione d'amore che inizia in modo spiazzante con quel «…la mia vita senza di te è meravigliosa»: Che razza di dichiarazione d’amore può mai essere una frase del genere? Sembrerebbe più un voler prendere le distanze, un premunirsi da fallimenti futuri, quasi un insulto… L'autore se ne rende conto e, con un guizzo di genio non indifferente, apre a orizzonti nuovi: «… Se senza di te vivessi una vita squallida, vuota, misera non avrebbe alcun valore rinunciarci per te», e ancora – spostando lo sguardo su di lui – «… Che valore avresti se tu fossi l'alternativa al nulla, al vuoto, alla tristezza? ». Cioè – sembra voler dire – proprio perché anche senza di te io sono felice, io voglio condividere questa felicità con te…

Non so voi, ma a me sembra che il discorso – che esistenzialmente nasce dal tentativo di sciogliere il nodo gordiano del comprendersi tra l’essere-con-sé e l’essere-con-te – è a dir poco sublime. E nelle poche parole dello slancio del cuore, fa una sintesi magistrale della ragione stessa, non solo dell’atto Creativo di Dio – il perché dell’esistente – ma di tutta la storia della Salvezza, dalla prima all’ultima pagina della Bibbia.

E facendo questo, come se non bastasse, spazza letteralmente via duemila anni di quella spiritualità cristiana (che davanti a questa scritto appare piuttosto un simulacro di spiritualità e per niente cristiana) che ha fondato la fede in Cristo e l’appartenenza a lui, sulla ricerca di “senso” alla propria esistenza: Buona parte dell’annuncio cristiano si basa ancora oggi su questo principio, che qui si mostra come inconsistente e per lo meno ambiguo. Perché riduce Cristo, la fede, la religione, la preghiera, l’amore stesso, ecc., a “compensazioni” di mancanze esistenziali che hanno come esito la fuga dal “reale”: «sarei egoista, bisognoso e interessato alla mia sola felicità, e così tu saresti la mia salvezza», scrive!

Da qui si possono trarre degli spunti ulterioni sempre in ambito cristiano...

Dobbiamo avere il coraggio di dircelo chiaramente, senza Gesù Cristo, ci sono miliardi di persone che vivono bene e alcune benissimo. Lo ripeto, senza fede, senza Gesù Cristo, si può vivere bene, eccome. Forse, in quanto credenti, fa male dirselo, ma è la verità che constatiamo ogni giorno, anche in noi stessi.
Verità dolorosa, ma meravigliosa però, perché ci permette di scoprire che solo colui che vive in pienezza la propria vita può, senza piegare la fede ai propri bisogni, vivere un rapporto di fede e di affidamento a Gesù Cristo in tutta autenticità: le letture strumentali del Vangelo nella storia sono lì a ricordarcelo…
Solo allora ci si può decidere per “complicarsi la vita” in un rapporto con l’altro… Con tutto quel che comporta nella vita pratica, la fatica di dare storia al proprio reciproco amore.

Ci possiamo domandare allora se Gesù Cristo “oggi”, è “ancora” un “di più”. Anche a questo credo che possa rispondere il brano «Io ti chiedo di stare con me perché la mia vita in questo momento è veramente meravigliosa, ma con te lo sarebbe ancora di più».

Solo se si arriva a dire questo, l’amore è veramente amore. Perché gratuito, cioè “di Dio”. E solo questo amore, rende ancor più meraviglioso, il meraviglioso che già viviamo: Qualunque sia il punto di partenza con cui iniziamo (con Dio, con le persone, con le cose), questa è per tutti la direzione in cui incamminarsi.

Altre considerazioni potrebbero essere fatte, ma non vorrei allungare eccessivamente il post.
Accenno solo a due aspetti non marginali, presenti nella struttura del testo.
L’imparare a stare bene con sé: ove la “necessaria solitudine” diventa il “luogo” in cui si impara a costruire l’incontro con l’altro.
L’osservazione, indicata solo indirettamente, che l’amore è sempre un incontro tra maturi e non tra immaturità. A qualunque livello questa si situi…

Sinceramente è un brano che consiglierei caldamente a ogni coppia che intendesse intrapprendere (o continuare) un cammino di relazione che non si fondi sul "completamento, da parte dell'altro, di ciò che ci manca".

In ogni caso, grazie ad A.M. che mi ha fatto conoscere questo brano!

Nota: Quando avrò letto il romanzo, vedrò se sarà il caso di commentare ulteriormente il brano... Ho eliminato i commenti che non sono più "attinenti" al post. Mi scuso ancora con le lettrici e lettori del blog.

venerdì 11 febbraio 2011

L'ultimo Antipapa

Penso che dopo questa ultima sortita di Berlusconi, il Magistero della chiesa, Papa in testa, debba cominciare a preoccuparsi seriamente.

Il movimento capeggiato da Giuliano Ferrara (che con tutta evidenza si sta rivelando “più ateo che devoto”) fonda la “difesa” di Berlusconi su una presunta campagna giacobina e moralista del mondo puritano italiano: proprio lui che ha fondato un movimento puritano contro la legge dell’aborto, riconosciuta da tempo “il miglior compromesso possibile” persino da Ruini!

Solo che Berlusconi infilandosi a testa bassa in questo pertugio difensivo non si accorge che così facendo peggiora ancor di più la propria situazione “morale” proprio in quegli ambienti cattolici a cui in primis sembra intendere rivolgersi per recuperare quel consenso che sta visibilmente perdendo.

Infatti il suo discorso, impostato sulla falsariga di quello di Ferrara (che ha già dimostrato quanta poca comprensione ha del cattolico elettorato) e supportato a spada tratta dai suoi politici, diciamo così, “riconoscenti” e per questo legati a filo doppio al suo destino politico, si configura come una vera e propria eresia propinata a quell’elettorato che allo stesso tempo costituisce di fatto il “gregge” affidato ai Pastori della Chiesa.

Ma in questo modo Berlusconi, (che continua legittimamente a professarsi cattolico, e fino a “scomunica comminata” è un suo diritto), facendo da contraltare alla vera dottrina cattolica sul peccato, e quindi auto-costituendosi come “fonte normativa magisteriale” della dottrina morale cattolica, comincia a configurarsi come un autentico antipapa scismatico, all’interno del mondo cattolico: soprattutto se c’è come sembra, qualche pio fedele che – ignorando quello del Papa – comincia a credere al suo discorso.

Di fatto, definendosi “peccatore” e chiedendo per questo “al popolo sovrano” una assoluzione generale sui peccati di cui è indagato in quanto reati, Berlusconi fa volutamente una grave confusione dottrinale tra legge e peccato, tra giustizia di Dio e giustizia umana, tra assoluzione e immunità, tra pena e colpa, tra foro interno ed foro esterno… Contrariamente alla dottrina cattolica che afferma, distinguendo, che ci sono peccati e reati e non sempre le due cose coincidono.

Inoltre la dottrina morale cattolica dichiara espressamente che se non ci sono ragioni “proporzionate di coscienza”, alla legge è dovuta obbedienza (anche se ritenuta personalmente ingiusta!) e la sua violazione costituisce formalmente “peccato”. Per cui: è peccato passare col rosso; è peccato parcheggiare fregandosene degli altri; è peccato non pagare le tasse; è peccato non andare a votare; è peccato saltare la coda; è peccato non rispettare la raccolta differenziata; è peccato inquinare… Molti qui arricceranno il naso anche in ambito cattolico, ma io ho citato espressamente questi casi perché col tempo alcuni di questi comportamenti sono stati declassati dal sentire comune a semplice “cattiva educazione”, ma la dottrina cattolica che vede l’individuo sempre inserito all’interno di una comunità umana più ampia, li ha da sempre configurati come peccati. Certo, c’è peccato e peccato, ma pur sempre di peccato si tratta, in quanto figlio di un menefreghismo egoista che disprezza il “prossimo”…

Tornando al tema della “dottrina berlusconiana del peccato”, ripeto, la esplicita confusione tra peccato e reato, con tutta evidenza finalizzata alla propria incolumità non solo politica, costituisce un vulnus nella dottrina cattolica e, siccome è propinata alla gente come “verità morale”, si configura come un tentativo di formulare una dottrina contraria agli insegnamenti della chiesa e quindi formalmente eretica e fautrice di movimenti scismatici.

Visto che non posso dilungarmi in un corso di morale, sintetizzo: Ci sono reati che non sono peccato; ci sono peccati che non sono reati; ci sono peccati che sono reati! In ogni caso da sempre nella dottrina morale cattolica, anche qualora un cristiano per obbligo di coscienza viola la legge, sempre in coscienza se ne deve assumere la responsabilità civile e penale; sociale e politica ed economica… Se questo vale persino per dei fatti che riguardano la coscienza, questo vale ancor di più per fatti come la concussione e l’incitamento alla prostituzione minorile, dove l’obiezione di coscienza non può, con tutta evidenza, essere usata come giustificazione di tali comportamenti.

In ogni caso nella dottrina cattolica mai l’assoluzione del peccato costituisce assoluzione del reato! A questo invece punta Berlusconi col suo eretico discorso, ma facendo questo incorre in un peccato (non reato!) questo sì imperdonabili.

E sia detto per inciso, qualora un peccato si configura come reato, esso esce necessariamente dalla sfera del privato e si configura come atto pubblico. Sempre! Anche quando si consuma all’interno della sfera privata della propria intimità personale. Quindi è falso che ci sia violazione della privacy da parte dei giudici, semmai è il contrario: è la privacy che viene usata per fare violenza al suo contrario, alla collettività…

Quindi si rassicurino Berlusconi e Ferrara, il fratello Berlusconi è già formalmente “perdonato” dall’elettorato devoto… e proprio questo perdono esige che lui (smettendo di dire eresie) dei suoi peccati se ne assuma la piena responsabilità civile, penale, politica, economica, sociale oltre che ecclesiale… in una parola storica. E proprio a questo mira quella “penitenza” che il prete formula durante il sacramento della confessione: solo qui l’assoluzione diventa effettiva! Solo con la esplicita assunzione delle proprie responsabilità storiche del proprio peccato nella forma di un tentativo di avviare un cammino di conversione nei comportamenti concreti del proprio vissuto (a cui ben poco servono le classiche “tre avemarie”). Perché lo ribadisco, l’assoluzione del peccato non assolve mai dal reato (e viceversa)! O per usare un linguaggio più classico: l’assoluzione della colpa non toglie la pena!

Ci fa piacere che Berlusconi quindi si consideri peccatore (e Ferrara con lui), ma propri l’essere peccatore esige che si assuma le conseguenze storiche del proprio peccato, andando dai giudici di Milano (che gli contestano il reato non il peccato!) e non ponendo mille ostacoli per sottrarsi alle proprie responsabilità come sta invece facendo. Così facendo però accentua ulteriormente quella deriva etica che (oltre a rendere il peccato imperdonabile, finché persiste tale comportamento) diffonde il proprio peccato all’intera collettività proponendosi non solo come modello da imitare (che dovrebbero invece imitare il Cristo), ma anche colui che dà giustificazione dottrinale del proprio peccato accentuando ulteriormente il degrado morale della collettività e ampliando ulteriormente il “disastro antropologico”.

Non so se siamo di fronte a una apologia del reato, ma certamente siamo davanti a una apologia del peccato che dovrebbe non poco impensierire quelle alte sfere del magistero che avrebbero dovuto vegliare sul gregge a loro affidato e che invece interessi di basso mercato ha portato dapprima a chiudere un occhio, poi a turarsi il naso, quindi anche le orecchie ed ora entrambi gli occhi: se continuano così resterà loro ben poco di scoperto per potersi rendere ancora riconoscibili dagli agnelli del gregge di Dio.

giovedì 1 luglio 2010

XIV domenica del Tempo Ordinario – Prima dite “PACE”

In questa quattordicesima domenica del tempo ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sul brano del vangelo di Luca (Lc 10,1-12.17-20) che segue immediatamente quello della settimana scorsa (Lc 9,51-62), seppur con una piccola cesura nel mezzo (Lc 10,13-16).

Dopo la prima parte (conclusasi in Lc 9,50), siamo dunque collocati in quella seconda parte del vangelo che era iniziata con la decisione di Gesù di dirigersi a Gerusalemme – «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51) – e che si concluderà proprio a Gerusalemme con la passione, morte e risurrezione di Gesù: una seconda parte orchestrata seguendo il filo conduttore del viaggio verso Gerusalemme.
Mentre quindi il brano di settimana scorsa era l’episodio inaugurale di questo “secondo tempo” del vangelo di Luca, il brano di questa domenica tratteggia quello immediatamente successivo… il quale però si riferisce subito a quanto lo aveva appena preceduto: «Dopo questi fatti…», dopo cioè il rifiuto dei samaritani ad accogliere Gesù, la reazione dei discepoli (con annessa sgridata!) e le istruzioni di Gesù a chi vuole seguirlo.
È a questo punto che l’evangelista inserisce un episodio che gli è proprio, cioè che solo lui – fra tutti – racconta: è il cosiddetto “invio dei settantadue”. «L’intenzione, probabilmente, è di mostrare come la missione non è unicamente affidata allo stretto gruppo degli apostoli, ma anche alla cerchia più vasta dei discepoli. Il compito di annunciare Cristo rientra nella vocazione cristiana semplicemente. E deve estendersi a tutta la terra: il numero settantadue richiama infatti la tradizione giudaica che riteneva che le nazioni della terra fossero, appunto, settantadue» [B. MAGGIONI, il racconto di Luca, 206].
Il problema però è quello di intendersi…
Troppo spesso infatti la sottolineatura per cui la “missione” è prerogativa di tutti i cristiani, è stata usata da qualcuno per autoproclamarsi dispensatore di verità, o – peggio – per reclutare improvvidamente (per loro e per gli altri) turbe di persone (che in maniera efficace e geniale come sempre, Sequeri chiama “i pretoriani del vangelo”) a convertire chissà chi… un esempio su tutti: quando preti e catechisti invitano i ragazzini a essere “testimoni” presso i loro coetanei – che in sé sarà anche una cosa bella, ma non quando vuol dire mandarli a combattere (totalmente sprovveduti) “battaglie” da cui escono solo più bastonati, più frustrati e più soli … o peggio ancora, ritenendosi gli unici “santi” in un mondo di peccatori… che è l’anti-vangelo (ma loro non lo sanno… ancora). Anche perché aveva detto «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi»… dunque i cuccioli è meglio lasciarli a casa…
Il punto è dunque intendersi… su cosa sia “missione”, “testimonianza”, “annuncio”… e in proposito qualcuna Gesù ne dice…
Innanzitutto: «li inviò a due a due»… forse perché – e mi pare già una bella delimitazione di campo per inserirsi in una prospettiva corretta – la missione non è questione di insegnare intellettualmente delle verità, o moralmente dei precetti, o spiritualisticamente delle preghiere, ecc… ma di mostrare la verità che è Gesù, che si traduce in una “morale” (cioè in una storia... fatta di gesti, parole, carezze, silenzi, vicinanza, accudimento… comportamento, plasmazione di sé…), nutrita dentro alla preghiera (la relazione intima col Padre…). E allora, quale il modo migliore di mostrare questa verità (Gesù e il suo vangelo), questa morale (la vita evangelizzata in tutti i suoi interstizi), questa preghiera (il farsi dire la propria identità di figli da uno che ci è Padre) – tutte cose che noi per primi abbiamo ricevuto in regalo (non sono nostre… conquiste!) – che quello di “farla vedere” a due a due – appunto: cioè in un “cantiere antropologico”, dove vivendo così, amando così, gli altri possano prima vedere e poi essere come tirati dentro ad una dinamica, ad una relazione… Non a caso Gesù pone come segno di riconoscimento dei suoi, proprio il bene che si vogliono (tra loro!), cioè la qualità (evangelica) della relazione che vivono: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)!
Segue poi una constatazione… «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai»… «per chiarire subito l’impresa e gli attori : e prendere atto che c’è una sproporzione strutturale congenita tra le messi sterminate da mietere e i pochi contadini addetti! Bisogna assolutamente entrare in questo atteggiamento di piccolezza e insufficienza sproporzionata, a scanso di equivoci dolorosi, perché l’opera a cui siamo mandati il Regno – non è nostra… organizzata da noi: è sua! Siamo solo lavoratori nei suoi campi – e la tentazione subdola sarà [invece sempre quella] di inventarci mezzi nostri, illudendoci di riempire lo scarto incolmabile»! [Giuliano].
«Pregate dunque il signore della messe»… «la preghiera, [infatti] è l’unica preparazione proporzionata: proprio perché il Regno è del Padre, occorre entrare nelle sue intenzioni, nel suo animo, nella sua volontà…» [Giuliano]. E «non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada», «per togliere ogni occasione di conflitto, ogni apparenza di interesse, ogni materia di rivalità, nell’incontro tra discepolo di Gesù e gli uomini» [Giuliano].

Fino a qui le premesse… per arrivare al dunque… le istruzioni cioè per favorire quello che è il centro dell’annuncio, il senso della missione, l’oggetto della testimonianza: e cioè una buona notizia! E non le cattive notizie di cui invece spesso – più o meno inconsciamente – noi cristiani ci facciamo messaggeri (“Se fai così vai all’inferno!”, “Guarda che questo è peccato”, “Non si può fare questo, non si può fare quello”, ecc… ecc… ecc…). Che magari possono anche essere inevitabili, e giuste, e necessarie (pedagogicamente parlando)…
Ma prima… di tutto… dite: “Pace”: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”».
E che questo sia l’essenziale lo ribadisce il fatto che – nonostante Gesù stesso ponga la distinzione tra le “città che vi accoglieranno” e quelle che “non vi accoglieranno” – comunque “a tutti annunciate il Regno”: «Quando entrerete in una città e vi accoglieranno […] dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio” / Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno […] dite: “[…] sappiate però che il regno di Dio è vicino».
E il Regno – nel vangelo – è sempre e solo una buona notizia! Questo è, senza ombra di dubbio, l’inequivocabile del vangelo (eu = buon; anghello = annuncio): «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5). Proprio come aveva profetizzato Isaia: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi»… come mano/sguardo di Padre e non di Giudice! Una mano/sguardo che sola può fare dell’uomo la “creatura nuova” di cui parla Paolo, per la quale davvero poi «la circoncisione non conta, né la non circoncisione»; né i voti, né i non voti; né l’essere Giudei o Greci; maschi o femmine, schiavi o padroni… perché – appunto – ormai si è nuovi, come ritessuti di una stoffa i cui fili si chiamano fiducia, consegna, dedizione, cura: «Il frutto dello Spirito infatti è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge» (Gal 5,22-23).
E allora sì che “satana cade”… cioè: la storia si sdemonizza, le persone sono liberate e gioiose, la pace è accolta in comunione e tenerezza…
Ma c’era uno “scuotere la polvere”, che forse fa contraddizione (?!)… perché «“scuotersi la polvere dai piedi contro qualcuno…” è comunque sempre un fatto doloroso» [Giuliano]… Ma anche qui… bisogna intendersi… “scuotere la polvere” per quanto sia un riconoscimento del rifiuto della pace – e dunque un prendere le distanze dalla logica mondana che l’ha provocato – non è però certo un maledire quella casa, per la quale l’annuncio di pace si è rivelato precoce… basta ricordare la reazione aggressiva rimproverata da Gesù ai due fratelli, di domenica scorsa: Lc 9,54… si tratta allora piuttosto del rifiuto (visibilizzato in un gesto) del lasciarsi contaminare dalla stessa logica della contrapposizione competitiva… dunque – appunto – rilanciare ancora una volta la logica evangelica!

E a conferma le parole di Paolo Curtaz, tratte da una sua omelia: «Gesù ci indica con precisione lo stile e la modalità della missione. I discepoli vengono mandati a due a due, precedendo il Signore. Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori. A noi, solo, di preparargli la strada. Non dobbiamo salvare il mondo: il mondo è già salvo, è che non sa di esserlo. In coppia veniamo mandati: l’annuncio non è l’atteggiamento carismatico di qualche guru, ma dimensione di comunità che si costruisce, di fatica dello stare insieme. Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all’essenziale. Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l’arroganza dell’annuncio ci taglia da Dio in maniera definitiva. Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità. Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l’ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli uomini sono proprio le nostre, esattamente le nostre. Condividiamo la ricerca, portando nel cuore il Vangelo, senza facili verità da sbattere in faccia agli altri, ma nella serena certezza che il Signore ci conduce per mano».

lunedì 26 ottobre 2009

J'assume moi aussi!

Per non dimenticare...C'est parfaitement crétin (et j'assume le mot entièrement) de se fixer des objectifs chiffrés en matière d'expulsion. Au diable le cas par cas, l'appréciation individuelle de situation humaines complexes, on sacrifie des vies sur l'autel du chiffre, simplement pour dire qu'on a rempli les objectifs d'une politique. Abject, lamentable et honteux. Marwan H.

venerdì 10 luglio 2009

Missionari della benevolenza del Padre

Benevolenza del Padre in Gesù
Gesù chiama i dodici senza ulteriori dichiarazioni. Perché proprio questi? Non si dice nulla in proposito. Né virtù, né abilità particolari, né attitudine oratoria li distingue. Se manca loro qualcosa all’attuazione del loro incarico verrà ad essi aggiunto. Manca loro senz’altro tutto ciò che viene dato loro quando vengono mandati: l’autorizzazione ad annunciare il regno di Dio, e questo con il potere di scacciare i demoni, il che è unicamente possibile se si ha lo Spirito Santo, che estendendosi ricacci indietro la sfera di azione dello spirito maledetto. Avendo ricevuto questi doni da Gesù, si richiede loro di non mischiarli con i propri mezzi di appoggio o di propaganda; perciò nessuna bisaccia, non pane, non denaro, non abiti per cambiarsi,… e neppure la ricerca di un’abitazione più comoda. Gli incarichi sono l’annuncio, il richiamo alla conversione, non il successo. Se non ci sarà non deve importare, devono semplicemente andare e tentare altrove… (Balhasar)
Chiamati, mandati e respinti
Una chiamata di ordine radicale, quella di Amos e degli apostoli, senza possibilità di pensarci troppo. C’è però nel fare di Gesù una novità rispetto ai profeti antichi, nella chiamata degli apostoli. Gesù se li è scelti, uno ad uno, per nome, ma poi li ha radunati tutti insieme e ha fondato la comunità dei “Dodici”, “perché stessero con lui” - ci aveva informato Marco. E questo era il primo obiettivo immediato della chiamata, che ha sconvolto loro la vita. Ora li convoca di nuovo, ma per realizzare il secondo dei due obiettivi per cui li aveva radunati attorno a sé - “per mandarli ad annunciare” il vangelo, che da lui avevano ascoltato e con lui condiviso, imparando faticosamente a viverlo (Mc 3,14s). È arrivato dunque il tempo per i discepoli di “provare” almeno, come un tirocinio, a nostro insegnamento, a mettere in atto quanto dovrebbe essere il risultato della comunione di vita con Gesù: diventare missionari, come lui, e andare a fare, pur ancora maldestri, quello che finora hanno visto fare dal Maestro.
Un’irresistibile adesione interiore
La loro preparazione non era un seminario dove imparare un mestiere o una vocazione a cui addestrarsi, in una scuola di profeti, per poi praticarla. Ma piuttosto una irresistibile adesione interiore a seguire la chiamata del Signore senza possibilità di fuga. La chiamata si è rivelata un coinvolgimento progressivo e poi addirittura un’immersione in un progetto misterioso, il Regno di Dio, di cui Gesù parlava in continuazione e di cui tutto ciò che faceva, diceva, viveva era la manifestazione e la realizzazione. La loro comprensione di questo mistero e di Gesù stesso, era allora iniziale, informe, ancora grossolana… Ma pur mantenendo tutta la loro debolezza morale, culturale, psicologica, sempre più capiranno che stavano diventando tessere vive di questo immenso mosaico che è il “disegno” di Dio di salvare il mondo… e che in questo progetto tutta la storia di Israele e, in Israele, di tutte le genti, trovava il suo senso. L’annuncio che Gesù gli comanda di portare alla gente è fatto di poche parole (convertitevi), di alcuni doni speciali (liberare gli oppressi da varie forme di menomazioni diaboliche, curare molti malati) – ma insieme è fatto del “modo di essere e di presentarsi” dei Dodici.
Profezia svincolata dai monopoli del potere e dei suoi strumenti
Quando si parla di evangelizzazione, il nostro pensiero corre subito al «che cosa vado a dire?» e meno, molto meno, a «come devo essere io?», al mio stile di vita. Perché lo stile di vita non è un accessorio, magari desiderabile, ma secondario, del messaggero. Le modalità del presentarsi dei messaggeri missionari, cioè gli strumenti economici, il tessuto di relazioni nelle quali si inseriscono, le strutture istituzionali con le quali si incontrano, o si scontrano, nei paesi e nelle città dove arrivano, anche se ancora minime, come in questi inizi… sono già il messaggio! L’istituzione, come gruppo di apostoli, preparati e mandati ad annunciare, ancora sotto lo sguardo di Gesù, è necessaria ed essenziale per rendere percepibile e visibile alla gente il Regno di Dio. Il gruppo, che sarà la chiesa, inizia dunque a diventare sacramento del Regno, una minuscola chiesa, già indicatrice ed operatrice, fragile povera, ma efficace, del vangelo di salvezza! I Dodici non possono non riprodurre però in sé il volto di Colui che li invia, il giovane profeta che cammina povero e libero, senza un luogo dove posare il capo, “commosso nelle viscere per le folle, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore (Mt 9,37). A loro, come ad Amos, un po’ contadino e un po’ pastore, preso da dietro il bestiame, il Signore disse: Va profetizza al mio popolo. Loro, tra gli attrezzi per la pesca, o in varie altre faccende, si sono sentiti dire: vieni! E poi : Andate ad annunciare il Regno! Nessuno di loro pensava minimamente ad un incarico istituzionale. Avevano già il loro mestiere. Sono stati coinvolti dentro questa passione di portare l’annuncio di liberazione e redenzione, nelle città e villaggi. Ma proprio questo atteggiamento di dedizione e libertà, di distacco radicale dai beni economici e dalla ragnatela di legami e dipendenze che comportano, lo schieramento affettivo (appreso dal Maestro) con le folle dei poveri… inquieta il potere! Una chiamata simile a quella del profeta antico e che riproduce facilmente lo scontro con il potere, come previsto da Gesù: pochi anni e – appena apriranno bocca nella missione definitiva si accorgeranno della discriminante “repellente che ha il potere verso Amos ed ogni profeta: vattene, veggente, ritirati… a profetizzare da un’altra parte… perché questo è il santuario del re!” E anche loro troveranno la risposta radicale del profeta che non si vende: meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini!
Ordinò che non prendessero nulla per il viaggio
Ecco perché Gesù esige uno stile ed una radicalità di disimpegno dai lacci che legano al potere, al denaro, alle convenzioni del consenso socio politico, che sembra ingenuo o poetico o utopistico. Non portate nulla, perché tutto ciò che hai in più, ti divide dall’altro. Tutto ciò che hai di troppo (su cui il potere ti gioca, perché te lo può concedere, lasciar o togliere…) è pericoloso… pane, bisaccia, soldi, vestiti. Il problema si è immensamente complicato oggi – pur rimanendo limpide, incontestabili… e drammatiche queste esigenze “evangeliche”, tuttora inseparabili dal messaggio e dal contenuto del messaggio che è il Regno. È una povertà che è fede, libertà e leggerezza. Un messaggero carico di bagagli, che s’illude possano servire per spiegare e convincere meglio… sarà invece paralizzato o impedito o invischiato dall’ambiguità dei mezzi stessi a cui si affida, incapace di cogliere la novità di Dio e abilissimo nel trovare mille ragioni di comodo per giudicarli irrinunciabili. Scordandosi della forza interna della Parola, che si diffonde solo se chi la porta è testimone appassionato e capace di rischiare la vita, le risorse e il futuro … perché il suo riferimento propulsore è il Signore, non qualche proprio progetto o vantaggio o interesse. E lo Spirito che compie le parole dette!
Entrati in una casa lì rimanete! La missione non tende a formare funzionari di Dio o adepti sottomessi ad una nuova religione, quanto seguaci di Gesù, animati dal dinamismo dello Spirito… per affrontare ogni sofferenza che opprime la gente. Loro compito è annunciare e liberare dalla catene esteriori e interiori e poi guarire, dunque creare dilatazione di umanità e comunione… Il loro approdo, nei centri di convivenza della gente, città e villaggi, è la casa: il luogo della vita più normale, dove, dentro e attorno, l’uomo “sta”, lavora, ama, soffre, accoglie e tramanda vita, speranza e dolore. Il nuovo progetto di missione privilegia dunque quella che noi chiamiamo inculturazione a livello di base, seminando il vangelo nel cuore delle culture e dei tessuti umani, ben attenti ad accogliere la sfida dell’alterità. Che vuol dire di ciò che lo Spirito farà nascere… accudendo i germogli che spuntano e crescono, ma lasciando che siano nuovi e diversi frutti dello stesso vangelo, nelle più svariate situazioni umane, come si vedrà negli Atti degli apostoli, quando avranno ben imparato.-
...dentro un disegno d’immensa benevolenza
Ma c’è anche un altro aspetto che Gesù ci ricorda: l’atmosfera «drammatica» della missione. Il rifiuto è previsto: la parola di Dio è efficace, ma a modo suo. Il discepolo deve proclamare il messaggio e in esso giocarsi completamente, ma deve lasciare a Dio il risultato. Al discepolo è stato affidato un compito, non garantito il successo, e la sofferenza e il rifiuto non ci sono risparmiati. Non si spegne però in cuore, anzi si radica e prende forza, la consolante speranza che il Regno comunque sta venendo e, man mano che secondo le nostre povere possibilità, qualcosa ci spendiamo… qualche barlume di esperienza per confortarci ci è dato… E scopriamo di essere un piccolo frammento di un disegno immenso di benevolenza che il Padre ha riversato su di noi con ogni sapienza e intelligenza, per realizzare l’obiettivo di cui misteriosamente siamo parte viva : ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra… in attesa della piena redenzione di coloro che Dio si va conquistando.

venerdì 3 luglio 2009

Perché non possiamo più dirci italiani

Leggendo i giornali in questi giorni, si ha come l’impressione che l’Italia non esista più…
Quel patto sociale che ci teneva uniti e che ci costituisce Nazione si è sfaldato da tempo ed ora sembra giungere al capolinea.

La verità e il bene comune non sono più il criterio ultimo dell’agire politico-economico-religioso.

Tanti, troppi sono gli episodi che mostrano chiaramente il venir meno di questo patto di solidarietà di una società che rifiuta di crescere aprendosi al futuro accettandone i rischi (ma non dicevano i liberisti che senza rischio non c’è impresa?) per rifugiarsi invece nelle false sicurezze di un passato che perché passato non può che comunicare il proprio essere trapassato…

L’impressione che se ne ricava è un “fuggi-fuggi”, un “si salvi chi può” mentre la barca sta inesorabilmente affondando… La stazione di Viareggio è solo l’immagine visibile, di ciò che quotidianamente accade nel nostro Paese: ciascuno pensa per sé, ad accumulare per sé e per i propri amici e per gli amici degli amici…
Qualche episodio a caso?
Leggete questo articolo del Corriere: il criterio di giudizio, non è più la verità di un rapporto, di un ruolo istituzionale, il criterio è: «se lo hai fatto tu, posso farlo anche io!». Un partito fa una cosa? Allora ci si sente autorizzati a fare altrettanto, poco importa se sia bene o giusto… I festini di Berlusconi? Ma li fanno anche gli altri! La lottizzazione della Rai? C’è sempre stata! I respingimenti? Ma anche a sinistra li hanno fatti! La clandestinità è un crimine? Anche all’estero fanno altrettanto! Insomma, «Le tue malefatte giustificano le mie»… Come se la menzogna dell’altro annullasse la propria!

Che cosa c’è da leggere ancora di questa legge “immonda”? Una volta affermato il principio disumano, poco importa come lo si addolcisce: la merda resta merda, nonostante il profumo di parole che ci si sparge sopra! Un cristiano dovrebbe vergognarsi di pensarle certe cose, figurarsi poi se le fa diventare leggi! A Gesù Cristo cosa si dirà? Che le sue parole nel Vangelo non contano niente perché non sono state dette dal Vaticano? O ci si gongolerà coi sofistici distinguo dell’Azzeccagarbugli di turno su quali sono le parole “ufficiali” della Santa Sede? Se è per questo anche quelle del Vaticano non sono quelle di Gesù Cristo! E se un cristiano non sa quali prevalgono si illude se spera nella propria salvezza…

Se poi si gioca con le parole, allora vuol dire che la dignità è calpestata da tempo… Nessuno Stato può creare delle leggi per violare delle leggi, nemmeno le dittature – che infatti si creano delle leggi ad personam – figurarsi il Vaticano! Se uno conosce il significato della parola clandestino non fa fatica a capire che nessuno Stato al mondo fa entrare i clandestini: non si chiamerebbero clandestini! Ma un conto è fare rispettare le leggi e la legalità, un altro è calpestare le ragioni per cui le leggi e la legalità esistono: la giustizia vera e per tutti! E cercare di assecondare le esigenze di coloro che le leggi loro malgrado non sono in grado di rispettarle è compito della giustizia propria di uno “Stato di diritto”! Uno Stato che approva leggi che, invece di accoglierle, criminalizzano le vittime della nostra voracità coloniale è uno Stato immorale e criminale! Anche se si chiama Gran Bretagna o Francia o Italia o Spagna – con o senza Zappatero! Non solo li riduciamo in miseria riducendoli alla fame e quant’altro, corrompendo i loro governi e sfruttando le loro ricchezze, ma li sbattiamo in galera se cercano di fuggire dalla miseria a cui noi li abbiamo ridotti! Più immorali di così si muore: si vede proprio che noi europei siamo figli di negrieri!

Ecco il vero relativismo! Non più i valori della persona – e le sue lacrime - come assoluto, persino di Dio (ma lo leggiamo il Vangelo?); non più il bene – e le sue ferite - di questo disgraziato pianeta (ma la leggiamo la Bibbia?); non più la ricerca autentica di ciò che è bene, vero, giusto per tutti (ma li leggiamo i documenti del Magistero che sono “parola ufficiale della Santa Sede”?)! Ma alleanze; corporazioni; lobby; opportunità… Apparenza senza sostanza?… Peggio! Quando non ci si preoccupa più nemmeno di salvare l’apparenza siamo allo sfascio, al decadimento di una nazione, allo sfaldamento di un patto di convivenza civile, all’immoralità fatta sistema!…

Basta entrare in un ospedale o salire su un treno o su un taxi o entrare in un ufficio o avere bisogno per qualche ragione dello “Stato” e dei suoi cittadini… per accorgersi di tutto questo, per accorgersi che lo Stato non c’è più, se non per battere cassa – elettorale o tributaria – per usarti!… e ti senti come un estraneo tra gente che credevi se non amici, almeno non nemici… e ti senti servo invece di essere servito… prigioniero di un sistema che si alimenta della tua umiliazione… E poi c'è chi si giustifica parlando di diffusa antipolitica... La vera antipolitica la fanno coloro che non si occupano del bene della polis!

Tassisti, notai, avvocati, professori universitari, medici, sono solo alcune delle categorie che solo a pronunciarle si trasformano in incubi… Gli onesti, oramai, sono dei martiri!
Per non parlare delle Banche e delle schifezze che ci fanno mangiare quelli dell’industria alimentare…
Se la mafia, come diceva il card. Pappalardo, è un modo di pensare prima che un’associazione a delinquere, questa è “mafia”… È come se tutta una nazione ne avesse assunto lo schema mentale di fondo… Quando leggo sui giornali che è stato sgominato un clan mafioso, mi vengono i brividi: lo Stato lo ha sconfitto perché lo combatte o perché ne ha integrato la mentalità? …

È come se tutto fosse diventato un “interesse privato in atti d’ufficio”… per questo la corruzione e l’evasione fiscale sono inarrestabili… Non sono le tasse che sono troppo alte, è il senso comune che è troppo basso! Il resto poi…

Il Parlamento? Sembra più una fabbrica di ingiustizie, che un luogo dove si cerca “prima di tutto la giustizia” se non del “Regno di Dio”, almeno degli uomini, del Paese o di quel che ne rimane… Così, l'anfiteatro della politica diventa l’arena dell’antipolitica... Il luogo per eccellenza della democrazia, diventa il laboratorio del suo disfacimento… Perché la democrazia è ancora questo: il potere è nelle mani del popolo che lo esercita anche attraverso i suoi rappresentanti… Ebbene qui c’è una diabolica originalità: Se le dittature “classiche” si fondano sulla sottrazione di questo potere al popolo, per darla a uno solo che decide per tutti… oggi il metodo è più subdolo e perverso, non si sottrae più il potere al popolo, si “sottrae” il popolo, disfacendone il tessuto che lo costituisce tale, la solidarietà! In fondo è questa la mentalità del leghismo: dividi gli italiani in lombardi, veneti, terroni… togli cioè il demo, il popolo, e otterrai automaticamente la crazia, il potere da gestire in conto proprio! Le leggi e i decreti di attuazione di questa mentalità sempre più maggioritaria non sono altro che la sua pianificazione… No! non è fascismo, è molto peggio, è il suicidio di un intero popolo attraverso la morte della sua millenaria cultura nata da infiniti incroci etnici e culturali, razziali e religiosi… È l’eclissi di un popolo, sradicandone i fondamenti della sua stessa ragion d’essere! Una forma di democraticidio attraverso un genocidio culturale. Nazionalismo senza Nazione! E osano parlare di «Leggi per il bene degli italiani»! Quali italiani? Con queste leggi si sta distruggendo la possibilità stessa di definirsi tali!
Altro che radici cristiane! Ironia della sorte, per paura di perdere i valori cristiani stanno uccidendo persino quel poco di cristiano che c’era nelle nostre istituzioni… Come in ogni totalitarismo: destinati a regnare su un mucchio di ceneri!…

E la Corte costituzionale? L’impressione è che sia più una Coorte d’altri tempi, con stipendi e privilegi e amicizie che la sensibilità odierna (anche di ieri per la verità!), rifiuta come offensive della dignità di un uomo “per bene”, figurarsi di un giudice “sopra le parti”… Certo che i “poteri” devono pur dialogare e incontrarsi, ma ci sono sedi opportune alla luce del sole dove questo può e deve essere fatto senza anche lontanamente dare l’impressione di essere “di parte”. Se non altro fatteci vedere che vi sforzate di esserlo! Mentre ora si ostenta il non esserlo! Perché così fan tutti? Ma è proprio per questo che non va fatto!

Altro che abbassare i toni! Non sono ancora sufficientemente alti! Si ha paura “della cattiva immagine” ignorando che l’immagine si può migliorare solo cambiandola, non nascondendola con un velo! Ecco il vero scandalo: non denunciarli, gli scandali! e volerli coprire, seppur provvisoriamente, per opportunità politica, diplomatica, istituzionale o qual si voglia altra ragione… È come voler rimandare la cura a dopo… nel frattempo il malato ci muore tra le dita… Si avranno mille ragioni, ma nessuna è tanto vera come quella della verità! E la verità la si difende rivelandola! Che guarda caso è esattamente l’opposto - non solo etimologico - di ipocrisia! E la giustizia per sua natura esiste là dove la si attua, non dove “la si rimanda”! Verità e giustizia sono parte integrante della “res publica”, senza le quali non c’è convivenza civile e valori costituzionali che tengano. E se non si è “garanti” di ciò, di cosa si è garanti? Si attui verità e giustizia e ci sarà pace e i “toni” si abbasseranno: ma non si può domandare a chi si vede cavare la dignità di non gridare dal dolore, usassero almeno l’anestetico!… Abbassare solo i toni, serve all’autarchia ad innalzare il proprio potere che indisturbato si crogiola nella menzogna e nell’ingiustizia che queste sì divorano la pace!

L’Italia di oggi? Una succursale di Rebibbia! Dove non puoi fare un gesto senza pagarne il corrispettivo… Dove se provi a dire qualcosa, se provi a domandare giustizia per tutti anche per lo straniero, sei disfattista, qualunquista, cattocomunista, persino “pessimista”… E se provi a non essere ipocrita, a non nascondere la verità dietro una maschera di perbenismo? Pura intimidazione! Chissà cosa direbbe questa gente leggendo certe espressioni di Gesù nel Vangelo, tipo “Guai a voi…”! L’avrebbero arrestato per intimidazione? Sicuramente!
E ci si chiede pure di “abbassare i toni”!

In tutta buona coscienza questi giudici, questi politici, questi economisti, si rivoltano nel fango dell’apologia della propria menzogna… Chissà con quale vangelo se la sono formata! Il bene comune avrebbe dovuto educarli almeno a questo: se non è comune non è bene!

Invece l’incuria generale, che si vede in ogni angolo della strada… dice oramai che siamo un popolo che è passato dal “fai da te” al “fai per te”… nell’illusione di potersi salvare nel giardinetto di casa propria e con qualche zattera di un conto estero!

E in tutto questo, gli equilibrismi clericali di un episcopato incapace di essere coralmente annunciatore di una novità altra rispetto alla pulsione autodistruttiva di un popolo… E tutto quello che sanno dire è, diplomaticamente: “porterà molto dolore” o peggio “non basta all’ordine pubblico”… Non si è capace di dire che queste leggi sono una “schifezza immonda indegna di un popolo civile e degna solo per gente destinata alla discarica (Geenna) eterna”? o sa troppo di cristianamente profetico?

Siamo dunque, noi testimoni, destinati alla stessa sorte di Edith Stein? Che condivise i destini del suo popolo (è così che una massa di persone diventa “popolo”: quando qualcuno se ne sente parte e agisce di conseguenza), senza poter fare niente per cambiarli?… Con un’aggravante in più, ora, gli aguzzini, non appartengono “a un altro popolo” (almeno dal versante degli aguzzini in quanto gli ebrei si sentivano parte integrante del popolo che li perseguitava), ma al tuo, carne della tua carne e sangue del tuo sangue… Le mani “assassine” non sono quelle del nemico, ma di coloro che continuano a proclamarsi tuoi amici…

Sta accadendo l’inverosimile: gli italiani si stanno costruendo con le proprie mani, le leggi e i forni con i quali si inceneriranno da soli… Se non ci “cambieremo mentalità” (questa è la conversione), faremo – anzi la stiamo già facendo – la fine di Atlantide: la nostra grandezza ridotta a mitologia seppellita negli abissi della storia!

sabato 13 giugno 2009

Mani schifate

Per non dimenticare...


Quei guanti di lattice, che servono a non toccare l'orrore, sono come il nostro pensiero, come i nostri ragionamenti sull'immigrazione-sì e l'immigrazione-no, le quote, i conteggi, i controlli, le leggi. Le guardie di finanza usano guanti di gomma e noi usiamo guanti mentali. Proprio come loro li indossiamo per non entrare in contatto con il male fisico, con la sofferenza dei corpi.

Ma bastano una, due, tre foto come queste per farci scoprire la fisicità. Le guardiamo infatti senza più la mediazione della logica, ne percepiamo l'efferatezza e la bruttura. E saltano i ragionamenti, non c'è più bibliografia, spariscono i distinguo del "però questo è un problema complesso". Ecco dunque la banalissima verità che sta dietro ai nostri dibattiti, al nostro accapigliarci sull'identità e sulle frontiere: stiamo buttando fuori a calci in faccia dei poveretti che ci pregano in ginocchio stringendo le mani delle nostre guardie di finanza, mani schifate e dunque inguantate.

E ci cade a terra anche la penna perché l'occhio è molto più veloce e diretto dell'intelligenza con la quale siamo abituati a mentalizzare il mondo. Ci cade la penna perché capire e spiegare è già tradire l'orrore, significa infatti infilarsi il guanto dell'orientamento politico, dei libri che abbiamo letto, della nostra battaglia contro la xenofobia, significa parlare dell'esplosione demografica e del deflusso inarrestabile dell'umanità dai paesi dell'infelicità a quelli dell'abbondanza... E invece qui non si tratta né di cultura né di generosità, qui il pensiero si mostra per quel che è: un guanto di lattice, appunto.

Qui ci sono da un lato i corpi tozzi, grassi e forti della Legge, la nostra legge, e dall'altro lato i corpi umiliati e maltrattati dei disperati che non vogliamo in casa nostra e che respingiamo. E nella loro sofferenza c'è un surplus di mistero che non si esprime necessariamente nella magrezza e nelle cicatrici perché - guardateli bene - quei corpi avviliti sono ben più vigorosi dei corpi sformati degli aguzzini che ci rappresentano, degli italiani "brava gente" con il manganello. Sembrano addirittura più sani, certamente sono più vivi.

Dunque ancora una volta è l'occhio l'organo vincente. Ancora una volta scopriamo che la mente ci abitua a non vedere le cose. E' infatti facile dire che in casa nostra devono entrare solo quelli che hanno un permesso di lavoro e che ci vuole un legge per facilitare le espulsioni dei clandestini. Grazie alle foto dei reporter di Paris Match ora sappiamo che tutto questo significa una scarponata sulle dita di una mano aggrappata alla murate di un'imbarcazione, o un pugno sui denti o...

A Porta a Porta o a Ballarò si può trovare una motivazione per tutto, si può spiegare ogni cosa. Ma davanti a queste foto ragionare diventa un crampo. Guardate che cosa è la fisicità della politica della dolce e bella Italia: respingere a calci, prendere di peso gli infelici e buttarli fuori dalla Bovienzo che fa servizio da Lampedusa a Tripoli, portarli davanti alle coste libiche e far credere loro che è ancora Italia, trascinarli a terra nudi. E non sono foto di scena, immagini di un film, non sono finzioni. E' davvero questa la nostra politica, con un rapporto stretto tra quello che qui stiamo vedendo e quello che qui non si vede. La nave Bovienzo infatti è come le nostre strade di notte dove piccole creature nere si vendono ai camionisti. La Bovienzo è la violenza sulle donne, anche quella che ci viene restituita in forma di stupro. La Bovienzo sono i soprusi e il disprezzo per i miserabili. La Bovienzo sono le ronde razziste e i barboni bruciati. La Bovienzo è l'Italia dei mille divieti e dei mille egoismi. La Bovienzo è l'Italia generosa che è diventata feroce per paura. La Bovienzo è l'Italia che guardando queste foto si riconosce irriconoscibile: ma davvero siamo noi? di Francesco Merlo in Repubblica.it

lunedì 25 maggio 2009

New Italian Style... ciò che i media italiani si guardano bene dal mostrare...














Foto di Enrico Dagnino, acquisite dalla rivista francese Paris Match, n° 3130 del 14-20 maggio 2009. Cliccare sulla foto per ingrandirle.

New Italian Style... Immigrati: il sogno infranto


Dal nostro inviato speciale a bordo del “Bovienzo”, François de La Barre – ParisMatch

Credeva di lasciare l’inferno, ma ci è riaffondato. L’Italia lo riporta nel continente da cui è fuggito con i suoi 79 compagni di sventura. Per la prima volta, degli immigrati africani vengono respinti col manganello e restituiti alla brutalità degli aguzzini libici, sotto gli occhi dei nostri reporter. Nel 2008, 36.900 “naufraghi” si sono arenati nei pressi dell’isola di Lampedusa. Per arginare quest’ondata, Silvio Berlusconi ha fatto votare una legge, in spregio ai diritti dell’uomo, che riqualifica la domanda d’asilo come reato passibile di 18 mesi di reclusione. L’anno scorso 3 immigrati su 4 avevano depositato una richiesta di asilo politico: il 50 per cento di esse era stato accettato. Poi è stato siglato un accordo con Gheddafi, gli espulsi vengono riportati a Tripoli senza che la loro sicurezza e la loro dignità venga minimamente garantita. Ma non c’è nessun argine alla miseria. A Tripoli, non ci saranno più fotografi a testimoniare…
La scaletta! Bisogna raggiungere questo pezzo di ferraglia e venir fuori dal canotto pneumatico in panne, che si sgonfia, beccheggia e, con un’ondata, sbatte contro la fiancata dell’imbarcazione della guardia di finanza. Questa scaletta è il percorso più breve tra l’Africa e l’Europa. Tra la miseria e la speranza. Sul fondo dello Zodiac alla deriva, prostrata, incastrata, c’è una ragazza di cui si vedono solo gli occhi spalancati. Lo sgardo è spaventato…Il pigia-pigia ai piedi della scala, l’assalto per sfuggire al relitto, l’abbordaggio della disperazione ha qualche cosa di dantesco. Spaventoso, anche per i marinai del “Bovienzo”, che non sono al loro primo salvataggio di disperati nel Mediterraneo. Uno di loro grida: “Aspettate! Uno alla volta!” Non serve a niente. Come ci può essere disciplina? Sono dei sopravvissuti. Gli ordini del comandante Christian Acero non ottengono migliore effetto. D’altronde, la sua voce roca è coperta dal rumore assordante di un elicottero che sorvola la scena. Il comandante è esasperato: “ Se ne va di qui o no, quello?” Un membro dell’equipaggio picchia col manganello sulle sbarre della scaletta., per tentare di dissuadere i fuggitivi dal precipitarsi tutti assieme. Se ne fregano, del suo manganello. Salgono come possono, gli uni sugli altri, rischiando di cadere in mare, di annegare. E l’angoscia si impadronisce dell’equipaggio del “Bovienzo”.
I primi sono a bordo. Si siedono subito, si stendono col dorso contro la lamiera del cockpit. Gambe stese, braccia spenzoloni, fiato corto. Nessuno si sdraia, tranne Adill, che ha barcollato ed è crollato. Adesso, si trascina gemendo per avvicinarsi ad Amal, un altro naufrago con un cappello beige, suo amico. Amal lo prende tra le braccia, lo stringe. Adill ci squadra, le sue labbra tremano. “Acqua”, chiede Amal. Gli si tende una bottiglia. Discretamente, cosparge Adill, poi la bottiglia passa di mano in mano, e in qualche secondo è vuota. Non finiscono più di invadere il ponte. Quanti sono? Dieci, venti, trenta… E continua. I marinai ordinano loro di stringersi per fare posto a quelli che stanno imbarcando. Dirigono gli uomini in avanti – adesso sono 68, e le donne dietro, sono 12. 80 esseri umani che erravano da giorni e notti in quel maledetto Zodiac, che i marinai del “Bovienzo” lasciano affondare senza recuperare quello che galleggia sul fondo. Non c’è nulla che valga la pena: tessuti a brandelli, magliette sporche, una bottiglia di plastica vuota.Non avevano più niente, né acqua né cibo né benzina. Per arrivare in Sicilia, avrebbero dovuto percorrere ancora più di 100 miglia nautiche. Senza viveri, non avevano la minima possibilità. “Gli abbiamo salvato la vita”, sussurra un membro dell’equipaggio. Per lui, è un salvataggio. Il comandante tace, si accende una sigaretta e torna a prendere il timone della nave…
Sul ponte, Amal aiuta Adill a riprendersi. Adill è nato nel 1983. “Il 1 aprile”, dice. “Sono designer. Voglio lavorare, andare a scuola non importa in che paese d’Europa. Farò tutto ciò che volete”. Gesticola, Amal lo calma. Amal viene dal Ghana, ha 26 anni. Ha trascorso 4 anni in Libia, tempo di guadagnare 1500 dollari, il prezzo della traversata. Vuole raggiungere suo fratello in Spagna. Non gli piace parlare del suo tentativo di traversata, bisogna quasi cavargli fuori le parole. Uno sconosciuto che ha incontrato al mercato di tripoli gli ha proposto di imbarcarsi. Di notte, Amal è salito in un pick up con degli altri africani. Gli hanno bendato gli occhi. Si è ritrovato in una casa dove gli hanno preso i suoi soldi. Poi, una spiaggia, lo Zodiac, la partenza…

Nessuno può valutare quanto tempo hanno passato in mare

“Quanto tempo avete passato in mare?” Amal non lo sa. Uno dei suoi compagni, in tee short arancio, con un orecchino, alza la mano con due dita alzate e dice;”tre giorni. Poi, non c’era più benzina”. Si chiama Franck. Gli occhi arrossati, le labbra gonfie e tagliate a causa del sole e del sale, è confuso come gli altri. Qualcuno afferma che il viaggio è durato cinque giorni. Un marinaio dice che è impossibile:” Dopo cinque giorni in queste condizioni, nessuno avrebbe più la forza di parlare”. Nessuno di essi sembra capace di valutare con esattezza il tempo passato in mare. Hanno imparato una storia che si sono ripetuti sullo Zodiac, da raccontare alla polizia e ai giudici. Una storia incredibile di un lungo viaggio, di una guida caduta in mare che ci racconta una giovane nigeriana con i capelli arruffati. Si chiama Gift, porta un jeans scolorito e mi chiede cosa succederà adesso.
Le rispondo ciò che ho già visto, ciò di cui sono convinto. Ciò che si aspetta, d’altronde. Ci si dirige al porto nuovo di Lampedusa, dove la Croce Rossa, la Caritas e l’unhcr [l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati] si occuperanno di loro. Verranno loro offerti del the, dei biscotti, delle coperte, un’assistenza legale, delle cure, dei vestiti ed anche una carta telefonica. Tutta l’Africa sa che quelli che approdano a Lampedusa sono trattati come dei naufraghi, non come dei clandestini. Anche se questo esaspera la maggior parte degli abitanti dell’isola, che non amano vedersi sfilare davanti tutta la miseria del mondo e detestano che la loro spiaggia si trasformi in cimitero a cielo aperto. Comunque, la consueta umanità. Il minimo di solidarietà, di carità. Allora dico a Gift e agli altri: “Non preoccupatevi…non preoccupatevi…”
Però sono preoccupato anch’io: risalendo nella cabina di pilotaggio, vengo a sapere che la destinazione è cambiata. Lampedusa è a un’ora di mare, ad ovest. E la vedetta della guardia di finanza naviga direzione sud. Cala la notte, comincia a fare freddo. I naufraghi indeboliti sono ghiacciati, mancano di sonno, hanno fame. “Ieri” dice Amal”ha piovuto, siamo ancora tutti inzuppati”. Fa un tiro della sigaretta che gli hanno dato, poi la passa ai suoi compagni. Un uomo smilzo domanda del cibo. Non avrà nulla. Un altro, con la maglietta di Francesco Totti, dell’as Roma, chiede dei vestiti asciutti, ma non ce n’è. E nemmeno delle coperte. Dappertutto sul ponte, delle figure sedute o sdraiate, avviluppate in pezzi di stoffa luridi. Dei piedi sporgono. L’odore è forte e nauseabondo. Meglio non immaginare come 80 persone si liberavano in mare. A volte, qualcuno si alza per andare a vomitare; un marinaio l’accompagna.

Nel retro, un militare napoletano distribuisce alle donne delle bottiglie d’acqua e dei biscotti farciti al cioccolato, e del cotone per tapparsi le orecchie. Sono sistemate al di sopra dei due motori di 3000 cavalli ciascuno. Fa meno freddo di prima, ma il rumore è insopportabile.

Gift è accovacciata, lo sguardo vuoto e spento. Ha infilato le mani nelle tasche del vestito. Ha mal di denti e non riesce ad inghiottire niente. Per un istante, esce da questo stato semi comatoso, contempla il cielo, la luna a babordo, la stella polare che brilla in cielo. “Dove siamo?” domanda Gift. Dove andiamo? Non ottiene risposta. È mezzanotte. Si avvistano due battelli della guardia costiera , che portano anch’essi dei clandestini. Via radio, il comandante del “Bovienzo” chiede delle coperte di sopravvivenza e un aiuto medico. Qualche minuto più tardi, il medico giunge a bordo. Senza coperte di sopravvivenza. Piccolo uomo raggrinzito, dallo sguardo deciso, il dr. Arturo porta un berretto e l’uniforme rossa dell’ordine della croce di Malta ( Corpo italiano soccorso di Malta). Porta una valigetta di medicinali, roba da rimettere tutti in forma. Parla solo italiano; Enrico, il nostro fotografo, gli fa da interprete assieme a me. Due malati si sono rifugiati nello Zodiac del “Bovienzo”. “Fuel burn”, dice uno di loro indicando i genitali. “Ho i guanti sporchi”, dice il medico. Mi chiede di prendere dalla sua borsa un prodotto spray. Ne cosparge i genitali del paziente, che fa una smorfia prima di riallacciarsi i jeans.
Gli altri clandestini capiscono che il prodotto allevia il dolore. La benzina si era riversata nel relitto dove sono rimasti seduti senza muoversi per lunghe ore, a mollo nel carburante. Soffrono di bruciori alle natiche. Si alzano uno dopo l’altro, abbassano i pantaloni mostrando le natiche. Quelli che ne hanno ancora la forza ridono. Un senegalese in giacca zippata nera dice in francese che ha continui nausea e vomito. “Lo vedremo più tardi” dice il dottore. Qualcuno ha mal di testa. “Da quanto tempo?” “Due mesi”. “Non posso farci niente, sono qui solo per le urgenze”. Un altro apre una vecchia borsa di plastica e fa vedere due boccette vuote. “Le mie medicine, sono asmatico e nel mio paese non ci sono più medicine. Mio padre mi ha detto di andare”… “Che cos’ha?” interrompe il medico prima di voltarsi. “Andiamo a vedere le donne…” Una di loro sembra stare male. Si tocca i fianchi ed il petto facendo smorfie. Non parla inglese e Gift non ha più la forza di tradurre. Il dottore l’ausculta un momento, sospira e passa alla vicina, che abbassa i pantaloni :“fuel burn”…

Gift parla del suo mal di denti. “Vedremo dopo” dice di nuovo il medico. Dopo cosa? Non risponde. Delle lacrime scendono sulle guance di Gift. Il medico termina il suo giro: “Non posso mica occuparmi di tutti!” Rivolto a me, aggiunge: “ È sempre così, si lamentano delle irritazioni dovute all’acqua di mare. Questi qua sembra che stiano bene invece”. Gli restituisco la sua valigetta. Era piena di garze, siringhe e medicine che non sono servite a niente. Ha almeno portato dei sacchi dell’immondizia. I marinai li distribuiscono. Gli uomini li tagliano e se li infilano come delle giacche. Dietro, le donne, rannicchiate le une contro le altre, le usano come coperte.

Grazie a Sam per la traduzione
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