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martedì 8 ottobre 2013

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal secondo libro dei Re (2Re 5,14-17)

In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 2,8-13)

Figlio mio, ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa Ventottesima Domenica del Tempo Ordinario, ha come oggetto il racconto di un miracolo. Un miracolo che per molti aspetti ricalca lo “schema” consueto con cui questi segni di Gesù (cioè queste modalità gestuali con cui annuncia il Regno) sono solitamente narrati; ma anche, un miracolo, che viene raccontato con qualche particolare “variazione sul tema” e che proprio per questo suscita particolare interesse: è il racconto di un miracolo, certo, come ce ne sono tanti nei vangeli… eppure è un racconto sui generis, non classificabile con troppa leggerezza come uno dei tanti miracoli di Gesù.

Proprio per questo proviamo a ripercorrere il testo lucano con ordine, in modo da recuperare il senso sia degli aspetti comuni del “tema-miracolo” – che, non perché sono comuni, vanno per questo sottovalutati –, sia delle singolarità di questoracconto di miracolo.

Innanzitutto la contestualizzazione: siamo al capitolo 17 del vangelo di Luca, i versetti 11-19; e come ci ricorda l’evangelista stesso ci troviamo «Lungo il cammino verso Gerusalemme». Siamo cioè in quella sezione del vangelo di Luca che organizza il materiale, di cui l’evangelista è in possesso, secondo il canovaccio del viaggio verso Gerusalemme: un viaggio iniziato al capitolo 9,51 (con la celebre espressione: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione [indurì il suo volto] di mettersi in cammino verso Gerusalemme») e che sta ormai per giungere a compimento (Lc 19,28). Un viaggio che ha visto – appunto – lo snodarsi di molte delle vicende più importanti della vita pubblica di Gesù (parabole, guarigioni, insegnamenti, contrasti, ecc…) e che ora è testimone di questo incontro con i dieci lebbrosi, che – come dice il testo – «si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”».

Questo loro comportamento (fermasi a distanza e urlare) – che a noi potrebbe sembrare strano – in realtà è in perfetta consonanza con la legge ebraica in materia di lebbra (cfr. capp. 13-14 del libro del Levitico), la quale in particolare in Lv 13,45-46 sancisce: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

Ma anche la reazione di Gesù (che «appena li vide, disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”») è rispettosa della legge, la quale prescriveva in caso di guarigione l’obbligo di presentarsi ai sacerdoti perché quest’ultima fosse certificata: «Questa è la legge che si riferisce al lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà…», Lv 14,2-3 + tutti i versetti seguenti che indicano la ritualità sacrificale per la riammissione del lebbroso – ormai guarito – nell’accampamento). Si tratta, dunque, semplicemente di «un retaggio dell’antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva attestare la guarigione e il reinserimento di un lebbroso» [P. Curtaz].

Fin qui dunque, niente di particolarmente significativo, se non il fatto che, a differenza della mentalità dei suoi contemporanei, Gesù non considera coloro che sono affetti da lebbra come dei maledetti, degli impuri da evitare o come peccatori castigati. Li accosta e li guarisce (lo aveva già fatto – secondo il racconto di Luca – al cap. 5,12-14). Per lui non ci sono persone da escludere, persone che debbano fermarsi a distanza (cfr. B. Maggioni, il racconto di Luca, p. 301).

A ben guardare però, qualcosa di incongruente con la tradizione ebraica c’è: Gesù invia i dieci lebbrosi al sacerdote primadi guarirli (e non dopo averli guariti, come prevedeva la legge)! Essi infatti «mentre andavano, furono purificati»… Questo dettaglio apre ad un duplice ordine di considerazioni:

1-   Innanzitutto l’emergere di un elemento costitutivo della struttura dei miracoli di Gesù. Essi non sono mai gesti di dimostrazione fatti per catturare l’attenzione e la fede (la credulità) della gente – come invece troppo spesso il sentire comune ancora oggi rilancia –, bensì gesti che presuppongono la fede, cioè la fiducia nella persona di Gesù (non a caso li invia – cioè, spazialmente parlando, li allontana da sé, li manda via… essi devono dunque fidarsi che qualcosa accada poi, quando Gesù non è nemmeno più con loro). Gesti che dunque non mostrano solo e non mostrano tanto la potenza di Gesù, quanto la sua straripante benevolenza per l’uomo: è un altro modo (oltre a quello verbale) di annunciare il Regno, che infatti non è che la liberazione dell’uomo dal male (cfr. Mt 11,2-6). È di questa benevolenza che l’uomo si deve fidare: Dio è colui che vuole solo il bene dell’uomo. E in effetti è da notare che tutti e dieci si fidano: innanzitutto perché tutti e dieci lo chiamano “epistàta” (= maestro), termine che – a parte i discepoli – usano solo loro in tutto il vangelo; inoltre perché tutti – sulla sua parola si avviano verso i sacerdoti.

2-   Proprio questo aspetto apre al secondo ordine di considerazioni: il fatto cioè che i dieci lebbrosi vengano purificati mentre andavano, porta a riflettere anche su una modalità di guarigione apparentemente anomala, eppure forse molto più consueta, rispetto a quella del gesto miracoloso puntuale. Scrive ancora P. Curtaz: «Anche a molti di noi accade di guarire per strada»… Anche a noi capita di guarire strada facendo… Che è una considerazione che forse, istintivamente, rifiutiamo (perché pensiamo che se manca la extra-ordinarietà di ciò che provoca il cambiamento della nostra situazione non si può parlare di “intervento divino” e perché poi – in fin dei conti – se non c’è extra-ordinarietà il merito è mio, non di Dio…), ma che in realtà rimanda allo statuto più autentico del rapporto dello spirito umano con lo Spirito di Dio. Questi due attori infatti agiscono e inter-agiscono molto più nelle trame (lente e viscose) della storia, negli interstizi bui della quotidianità che scorrendo costruisce la nostra esistenza, nella consistenza umana che ci ritroviamo tra le mani man mano che passa il tempo, piuttosto che negli interventi estemporanei operati da qualche potenza soprannaturale.

Comunque, al di là delle nostre considerazioni, e tornando al vangelo… ai nostri dieci capita di essere purificati mentre andavano. E qui accade l’inedito della vicenda – ciò che non rientra né in qualcosa che ha a che vedere con la tradizione ebraica, né con la consueta “struttura-miracolo” dei vangeli: «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano». Dove ciò che crea discrepanza sono – nuovamente – due elementi: il fatto che solo 1 su 10 torni a ringraziare e il fatto che quell’uno che torna sia un samaritano. Elementi per altro ravvisati entrambi dalle stesse parole di Gesù: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». Con la frase finale «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!», che – posta proprio dopo la guarigione di tutti e 10 i lebbrosi – mette immediatamente in luce come Gesù sottolinei un differenza decisiva tra “guarigione” e “salvezza”.

Dunque dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato… e quell’uno – l’unico tornato a ringraziare – è un samaritano, uno straniero, un eterodosso, un nemico… percepito allora dagli uditori di Gesù come oggi noi italiani (in specie del nord) percepiamo i rumeni, per intenderci. In effetti è come se Luca andasse da un enclave leghista e dicesse che su 10 persone guarite, le 9 padane se ne sono andate per la loro strada e l’unico rumeno del gruppo è quello che è tornato a ringraziare e per questo non è stato solo guarito, ma salvato!

Capite come le coronarie del pubblico siano messe a dura prova… Ma l’impatto emotivo è vincente, perché fa dire a chi ascolta: “ma porca miseria! Noi che siamo i vicini, quelli che dovevano capire tutto, che sanno la bibbia a memoria, che non possono farsi passare il messia sotto il naso senza neanche accorgersi che era lui… ci siam fatti fregare da ‘sto samaritano/rumeno che non va al tempio/in chiesa, appartiene ad un’altra cultura (sottinteso: inferiore) e solitamente non è proprio un cittadino rispettabile…”.

Ecco ciò che accade e che in una certa misura stupisce anche Gesù, che non a caso più volte “ha il pallino” di fare l’esempio col samaritano/a: accade che a volte è più capace di accedere al senso vero di ciò che accade qualcuno che non ha lo strumentario (culturale, razziale, religioso…) che noi riteniamo adeguato, rispetto a chi invece ha tutte le carte in regola (la fedina penale apposto, quella ecclesiale linda con tutti i bollini dei sacramenti ricevuti, un matrimonio apposto, un buon lavoro, ecc…).

E questo è insieme un grande monito… per chi si mette tra i giusti, tra quelli apposto, tra gli ortodossi… tra quelli che “c’hanno ragione loro…”… (siamo noi, al 90%!).

E un grande conforto, per “tutti gli altri”… perché ci ricorda che per fortuna i pensieri del Signore, non sono i nostri pensieri e le nostre misure non sono le sue misure…

Infine l’ultimo punto rimasto da sviscerare… perché, certo, quello che torna è un samaritano… ma resta il fatto che samaritano o no, qui ne è tornato solo 1… E gli altri 9?

Ma siamo sicuri che la domanda giusta sia chiedersi dove sono andati a finire gli altri 9? Perché a ben guardare non è che hanno fatto qualcosa di diverso da quello che gli aveva detto Gesù… il quale non li aveva invitati a tornare… e non si capisce nemmeno bene – dal testo – perché Gesù se ne risenta… Essi infatti sono stati quelli che gli hanno dato fede, chiamandolo maestro e incamminandosi – sulla sua parola – verso i sacerdoti! Non si tratta perciò di cattivoni, ma di persone capaci di un atto di fede in Gesù!

Forse allora la domanda più corretta non è tanto “Perché i 9 non son tornati”, ma quell’altra “Perché questo è tornato? Perché non gli è bastata la guarigione, ma ha avuto voglia/bisogno/desiderio di tornare dal guaritore… di tornare a vedere la faccia di quello là che dicendogli di andare per quella strada, ha avuto ragione e gli ha regalato la guarigione?”.

Io credo che la risposta stia nel fatto che a questo – chissà perché? – è scattata la molla d’accesso al circolo della riconoscenza. Infatti: «Come in un bambino, perché scatti la scintilla della coscienza di sé, della memoria autobiografica, ad un certo punto non bastano più le carezze rassicuranti sulla pelle. Ci vuole un volto cui affidarsi per entrare in dialettica con “lui”, e scoprire un “tu”, che faccia nascere e individuare i contorni dell’io… Così per diventare “credenti”, discepoli di Gesù, ci vuole la ri/scoperta di un volto… che ti ha salvato e ti rigenera. Perché in quel volto amico si ridisegna la propria identità e il senso della propria vita. È la riconoscenza! il balsamo che lenisce le malattie del cuore, apre un’uscita di luce dai propri abissi, fa compagnia alla solitudine angosciosa delle crisi di panico, disinquina i complessi di colpa… È la ri/conoscenza (gratitudine) che scoppia dalla gioia di aver scoperto l’affetto che ti ha guarito – perché? – gratis, per niente, per amore…  Solo così si entra nel circolo virtuoso di comunione» [Giuliano].

Al samaritano – per strada – sono capitati due miracoli: andando, il miracolo della guarigione esteriore della pelle; tornando, il miracolino nascosto e interiore dell’accesso alla gratitudine.

Ecco perché lui non è solo “guarito”, ma “salvato”: non perché lui quando morirà andrà in paradiso e gli altri no (!), ma perché si è inserito (si è lasciato tirar dentro) al circuito relazionale dell’amore riconoscente, che – come dice la Liturgia delle Ore – lenisce con le lacrime la durezza del cuore.

giovedì 4 luglio 2013

XIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 66,10-14)

Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria. Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 6,14-18)

Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,1-12.17-20)

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

In questa Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sul brano del vangelo di Luca (Lc 10,1-12.17-20) che segue immediatamente quello della settimana scorsa (Lc 9,51-62), seppur con una piccola cesura nel mezzo (Lc 10,13-16).

Dopo la prima parte (conclusasi in Lc 9,50), siamo dunque collocati in quella seconda parte del vangelo che era iniziata con la decisione di Gesù di dirigersi a Gerusalemme – «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51) – e che si concluderà proprio a Gerusalemme con la passione, morte e risurrezione di Gesù: una seconda parte orchestrata seguendo il filo conduttore del viaggio verso Gerusalemme.

Mentre quindi il brano di settimana scorsa era l’episodio inaugurale di questo “secondo tempo” del vangelo di Luca, il brano di questa domenica tratteggia quello immediatamente successivo… il quale però si riferisce subito a quanto lo aveva appena preceduto: «Dopo questi fatti…», dopo cioè il rifiuto dei samaritani ad accogliere Gesù, la reazione dei discepoli (con annessa sgridata!) e le istruzioni di Gesù a chi vuole seguirlo.

È a questo punto che l’evangelista inserisce un episodio che gli è proprio, cioè che solo lui – fra tutti – racconta: è il cosiddetto “invio dei settantadue”. «L’intenzione, probabilmente, è di mostrare come la missione non è unicamente affidata allo stretto gruppo degli apostoli, ma anche alla cerchia più vasta dei discepoli. Il compito di annunciare Cristo rientra nella vocazione cristiana semplicemente. E deve estendersi a tutta la terra: il numero settantadue richiama infatti la tradizione giudaica che riteneva che le nazioni della terra fossero, appunto, settantadue» [B. Maggioni, il racconto di Luca, 206].

Il problema però è quello di intendersi… Troppo spesso infatti la sottolineatura per cui la “missione” è prerogativa di tutti i cristiani, è stata usata da qualcuno per autoproclamarsi dispensatore di verità, o – peggio – per reclutare improvvidamente (per loro e per gli altri) turbe di persone (che in maniera efficace e geniale come sempre, Sequeri chiama “i pretoriani del vangelo”) a convertire chissà chi… un esempio su tutti: quando preti e catechisti invitano i ragazzini a essere “testimoni” presso i loro coetanei – che in sé sarà anche una cosa bella, ma non quando vuol dire mandarli a combattere (totalmente sprovveduti) “battaglie” da cui escono solo più bastonati, più frustrati e più soli … o peggio ancora, ritenendosi gli unici “santi” in un mondo di peccatori… che è l’anti-vangelo (ma loro non lo sanno… ancora). Anche perché aveva detto «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi»… dunque i cuccioli è meglio lasciarli a casa…

Il punto è dunque intendersi… su cosa sia “missione”, “testimonianza”, “annuncio”… e in proposito qualcuna Gesù ne dice…

Innanzitutto: «li inviò a due a due»… forse perché – e mi pare già una bella delimitazione di campo per inserirsi in una prospettiva corretta – la missione non è questione di insegnare intellettualmente delle verità, o moralmente dei precetti, o spiritualisticamente dellepreghiere, ecc… ma di mostrare la verità che è Gesù, che si traduce in una “morale” (cioè in una storia... fatta di gesti, parole, carezze, silenzi, vicinanza, accudimento… comportamento, plasmazione di sé…), nutrita dentro allapreghiera (la relazione intima col Padre…). E allora, quale il modo migliore di mostrare questa verità (Gesù e il suo vangelo), questa morale (la vita evangelizzata in tutti i suoi interstizi), questa preghiera (il farsi dire la propria identità di figli da uno che ci è Padre) – tutte cose che noi per primi abbiamo ricevuto in regalo (non sono nostre… conquiste!) – che quello di “farla vedere” a due a due – appunto: cioè in un “cantiere antropologico”, dove vivendo così, amando così, gli altri possano prima vedere e poi essere come tirati dentro ad una dinamica, ad una relazione… Non a caso Gesù pone come segno di riconoscimento dei suoi, proprio il bene che si vogliono (tra loro!), cioè la qualità (evangelica) della relazione che vivono: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)!

Segue poi una constatazione… «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai»… «per chiarire subito l’impresa e gli attori : e prendere atto che c’è una sproporzione strutturale congenita tra le messi sterminate da mietere e i pochi contadini addetti! Bisogna assolutamente entrare in questo atteggiamento di piccolezza e insufficienza sproporzionata, a scanso di equivoci dolorosi, perché l’opera a cui siamo mandati ‑ il Regno – non è nostra… organizzata da noi: è sua! Siamo solo lavoratori nei suoi campi – e la tentazione subdola sarà [invece sempre quella] di inventarci mezzi nostri, illudendoci di riempire lo scarto incolmabile»! [Giuliano].

«Pregate dunque il signore della messe»… «la preghiera,[infatti] è l’unica preparazione proporzionata: proprio perché il Regno è del Padre, occorre entrare nelle sue intenzioni, nel suo animo, nella sua volontà…» [Giuliano]. E «non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada», «per togliere ogni occasione di conflitto, ogni apparenza di interesse, ogni materia di rivalità, nell’incontro tra discepolo di Gesù e gli uomini» [Giuliano].

Fino a qui le premesse… per arrivare al dunque… le istruzioni cioè per favorire quello che è il centro dell’annuncio, il senso della missione, l’oggetto della testimonianza: e cioè una buona notizia! E non le cattive notizie di cui invece spesso – più o meno inconsciamente – noi cristiani ci facciamo messaggeri (“Se fai così vai all’inferno!”, “Guarda che questo è peccato”, “Non si può fare questo, non si può fare quello”, ecc… ecc… ecc…). Che magari possono anche essere inevitabili, e giuste, e necessarie (pedagogicamente parlando)…

Ma prima… di tutto… dite: “Pace”: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”».

E che questo sia l’essenziale lo ribadisce il fatto che – nonostante Gesù stesso ponga la distinzione tra le “città che vi accoglieranno” e quelle che “non vi accoglieranno” – comunque “a tutti annunciate il Regno”: «Quando entrerete in una città e vi accoglieranno […] dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio” / Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno […] dite: “[…] sappiate però che il regno di Dio è vicino».

E il Regno – nel vangelo – è sempre e solo una buona notizia! Questo è, senza ombra di dubbio, l’inequivocabile del vangelo (eu = buon; anghello = annuncio): «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5). Proprio come aveva profetizzato Isaia: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi»… come mano/sguardo di Padre e non di Giudice! Una mano/sguardo che sola può fare dell’uomo la “creatura nuova” di cui parla Paolo, per la quale davvero poi «la circoncisione non conta, né la non circoncisione»; né i voti, né i non voti; né l’essere Giudei o Greci; maschi o femmine, schiavi o padroni… perché – appunto – ormai si è nuovi, come ritessuti di una stoffa i cui fili si chiamano fiducia, consegna, dedizione, cura: «Il frutto dello Spirito infatti è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge» (Gal 5,22-23).

E allora sì che “satana cade”… cioè: la storia si sdemonizza, le persone sono liberate e gioiose, la pace è accolta in comunione e tenerezza…

Ma c’era uno “scuotere la polvere”, che forse fa contraddizione (?!)… perché «“scuotersi la polvere dai piedi contro qualcuno…” è comunque sempre un fatto doloroso» [Giuliano]… Ma anche qui… bisogna intendersi… “scuotere la polvere” per quanto sia un riconoscimento del rifiuto della pace – e dunque un prendere le distanze dalla logica mondana che l’ha provocato – non è però certo un maledire quella casa, per la quale l’annuncio di pace si è rivelato precoce… basta ricordare la reazione aggressiva rimproverata da Gesù ai due fratelli, di domenica scorsa: Lc 9,54… si tratta allora piuttosto del rifiuto (visibilizzato in un gesto) del lasciarsi contaminare dalla stessa logica della contrapposizione competitiva… dunque – appunto – rilanciare ancora una volta la logica evangelica!

E a conferma le parole di Paolo Curtaz, tratte da una sua omelia: «Gesù ci indica con precisione lo stile e la modalità della missione. I discepoli vengono mandati a due a due, precedendo il Signore. Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori. A noi, solo, di preparargli la strada. Non dobbiamo salvare il mondo: il mondo è già salvo, è che non sa di esserlo. In coppia veniamo mandati: l’annuncio non è l’atteggiamento carismatico di qualche guru, ma dimensione di comunità che si costruisce, di fatica dello stare insieme. Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all’essenziale. Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l’arroganza dell’annuncio ci taglia da Dio in maniera definitiva. Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità. Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l’ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli uomini sono proprio le nostre, esattamente le nostre. Condividiamo la ricerca, portando nel cuore il Vangelo, senza facili verità da sbattere in faccia agli altri, ma nella serena certezza che il Signore ci conduce per mano».

martedì 1 novembre 2011

XXXII Domenica del Tempo Ordinario

La liturgia della Parola di questa Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario ci presenta i primi versetti del capitolo 25 di Matteo. Il salto, rispetto a settimana scorsa, è di un intero capitolo: là infatti abbiamo letto il capitolo 23, mentre oggi ci viene presentato l’incipit del 25. Tutto il 24° capitolo è perciò “saltato”.

Per comprendere però la parabola di questa domenica è utile – anche solo rapidamente – andare a guardare cosa contiene questo 24° capitolo, per evitare di far della parabola delle dieci vergini, una lettura estemporanea.

Ebbene nel capitolo 24 inizia il V e ultimo discorso che Matteo inserisce nel suo vangelo (dopo il Discorso della montagna, il Discorso missionario, il Discorso delle parabole, il Discorso ecclesiale), il cosiddetto “Discorso escatologico”, cioè “parola sugli eskata”; dove eskata sta per “cose ultime, finali, che riguardano la fine / il fine della storia”.

Siamo perciò all’interno di un contesto letterario in cui Matteo, dovendo narrare l’approssimarsi della fine della vita di Gesù (al cap. 26 inizierà il racconto della sua passione), raccoglie e organizza le parole del suo Maestro intorno – appunto – al tema della fine / del fine delle cose.

È un discorso che inizia in Mt 24,1 e termina in Mt 25,46 (le prossime domeniche prima che inizi l’Avvento, dunque quelle conclusive di questo anno liturgico, saranno tutte impegnate in testi tratti da questo discorso. Anche per questo pare utile spendere oggi qualche parola in più sulla sua contestualizzazione). Nell’organizzazione matteana, è un discorso che si svolge a Gerusalemme: Gesù è appena uscito dal tempio (Mt 24,1), dove aveva avuto duri scontri con i venditori (Mt 21,12-13), con i sommi sacerdoti e gli scribi (Mt 21,14), con gli anziani del popolo (Mt 21,23 ss), con i farisei (Mt 22,15 ss; Mt 22,34-24,39) e con i sadducei (Mt 22,23 ss) ed è interpellato dai suoi discepoli: «Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio» (Mt 24,1). Questo invito diventa per Gesù (e letterariamente per Matteo) l’occasione per introdurre una riflessione dal tenore – appunto – escatologico (finale): Gesù infatti avverte che di tutte quelle cose «non resterà pietra su pietra che non venga diroccata» e, allargando il discorso, nuovamente sollecitato dai discepoli («Dicci quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo» Mt 24,3) inizia a parlare di guerre, carestie, terremoti, supplizi, uccisioni, falsi profeti... che anticiperanno, ma non saranno la fine. Il discorso si sposta allora sull’atteggiamento che i discepoli dovranno tenere in questa attesa del ritorno del Figlio dell’uomo: quello dell’essere vigilanti, sottolineato dall’inserzione di ben tre parabole: quella del maggiordomo (Mt 24,45-51), quella delle dieci vergini (Mt 25,1-13) e quella dei talenti (Mt 25,14-30).

La seconda di queste parabole è la nostra; la terza, quella di settimana prossima.

Per comprendere bene questi brani, non va dunque dimenticato questo “contesto escatologico” che abbiamo provato a descrivere: il problema che vi soggiace è quello della vigilanza nel tempo dell’attesa del ritorno di Gesù, cioè nel tempo della storia. Come se il problema fosse: Come vivere la storia? Con quale atteggiamento attraversarla? Come pensare al rapporto col Signore, dunque con se stessi, dunque con gli altri, in un tempo in cui Gesù non è più incontrabile come prima per le strade della Galilea? Sapendo che a queste domande in positivo, nel nostro cuore soggiacciono quelle ben più angosciose del tipo: Che senso ha la storia? Ha un senso? Da dove veniamo e verso cosa andiamo? Dal caso al niente? E di me, che ne sarà? Di ciò che ho amato, vissuto, sofferto, accarezzato, gioito? Di ciò che mi si è scritto nella carne? Che cosa devo fare in questa storia che – a volte – si teme non abbia senso, data la lontananza del suo creduto fondamento e l’incertezza della sua destinazione?


La nostra parabola è la prima risposta, che i vangeli di questa settimana offriranno, a queste domande: “Vegliate”!.

Vediamo meglio di che si tratta facendoci aiutare dalle parole di Paolo Curtaz: «Siamo ormai a qualche settimana dalla fine dell’anno liturgico, che vuol dire che saluteremo Matteo, incontreremo Marco, e inizieremo il tempo di Avvento, Natale e via discorrendo. Matteo ci ha accompagnato in queste ultime domeniche con vangeli piuttosto impegnativi, quello di domenica scorsa in particolare: questo vangelo di questa lunga sequenza in cui Gesù contesta duramente quella che era la classe dei devoti (i farisei, i sommi sacerdoti, gli scribi) del suo tempo.

Ma il vangelo di oggi non è da meno, anche se bisogna, prima di interpretarlo bene, capire alcune cose.

Perché? Perché è un vangelo zeppo di contraddizioni. La storia è molto bella e ovviamente ricalca quella che era la cerimonia, la tradizione, la cultura dei matrimoni al tempo di Gesù, in Israele.

La festa durava diversi giorni e il primo giorno era lo sposo che andava a casa del suocero a prendere la sposa. E veniva accolto dalle damigelle, cioè dalle amiche della sposa, che facevano un lungo corteo di accoglienza. Se questo matrimonio avveniva quando ormai era calata la luce, cioè dopo le cinque della sera, c’erano delle lampade, delle fiaccole per accompagnare lo sposo incontro alla sposa, visto che non c’era l’illuminazione pubblica.

Una seconda cosa da capire, da sapere e che aiuta a correttamente interpretare quello che probabilmente Gesù ha detto, è il fatto che più di una volta nell’AT, Israele è chiamata come la sposa. E anche il numero delle cinque vergini, in questo caso dieci, cinque più cinque, ha a che fare con Israele.

Come dire: probabilmente Gesù quando dice questa parabola si sta rivolgendo alle persone che lo stanno ascoltando, alla sposa che è Israele.

E sta dicendo che cosa? Un po’ sulla falsa riga di quello che ha detto domenica scorsa: ci sono persone che accolgono (le vergini sagge) e delle vergini che non accolgono (che sono quelli che rifiutano il suo messaggio).

E da questo punto di vista allora, sicuramente, sta tutto in piedi: capiamo il discorso di Gesù, capiamo la sua ammonizione, cioè lui sta dicendo al suo uditorio: “Cercate di fare come le vergini sagge che accolgono e non come quelle sciocche che non accolgono”.

Cos’è successo allora? Perché Matteo quando prende questa parabola la infarcisce di elementi che provengono sicuramente dalla bocca di Gesù, ma non in quel contesto?

Il clima è molto più teso, è quasi terroristico; e poi, soprattutto, stupisce questa strana conclusione per cui Gesù dice di vegliare, ma, in realtà, anche le vergini sagge si sono addormentate.

Poi cos’è questa storia che nel cuore della notte bisogna andare a cercare olio per le lampade? Una cosa assolutamente assurda; nessuno nel cuore della notte vende dell’olio per le lampade.

E poi che sposo è mai questo, che non arriva all’imbrunire e neanche all’inizio della notte, ma nel cuore della notte?

Allora dobbiamo stare un po’ attenti a interpretare bene quello che Matteo fa: Matteo fa un’opera che a volte facciamo anche noi: prende cioè una parola di Gesù e cerca di adattarla, di attualizzarla per il suo uditorio, per la sua parrocchia, per la sua comunità.

[…] Cioè, questa parabola che fila via liscia nella bocca di Gesù, Matteo poi la rielabora un pochettino: non più rivolta, quindi, a Israele, che è diviso in vergini sagge e vergini folli (vergini pigre, vergini distratte), ma rivolta alla comunità cristiana. Comunità cristiana invitata a vegliare.

Perché? Perché c’era un grande fermento all’interno delle comunità: si pensava che Gesù dovesse tornare da un momento all’altro. Tutti erano convinti di questo.

C’è sempre la sensazione che tutto finisca, c’è sempre la sensazione che debba, da un momento all’altro, capitare di queste cose. Ebbene al tempo di Gesù, nelle primissime comunità, nei primi decenni dopo la risurrezione di Gesù, c’era questo clima un po’ euforico, che faceva sì che alcuni, addirittura, tirassero i remi in barca, cioè che non facessero più nulla. Paolo stesso, scrivendo alla comunità di Tessalonica, dice: “Chi non vuol lavorare neppure mangi”, cioè uno diceva “Beh, tiro i remi in barca, perché tanto arriva la fine del mondo”.

Solo che quando poi si vedeva che non arrivava la fine del mondo, ecco che qualcuno tornava alle abitudini di prima: cioè diceva “Tutto quello che abbiamo saputo, creduto erano tutte delle emerite baggianate”.

[…] Matteo si sta rivolgendo alla sua comunità, dicendo: “State attenti, perché anche se il Signore non è ancora arrivato, non è il caso di abbandonarsi alla logica del mondo, ma dobbiamo avere l’umiltà e il coraggio di aspettare, di vegliare operativamente, cioè non lasciandoci andare, non impigrendoci, addormentandoci. Perché il grosso rischio – e nella storia è successo più di una volta – è che i cristiani stessero seduti ad aspettare la venuta del Messia, pensando al paradiso, e intanto lasciavano tutto il mondo andare a rotoli”» [http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23804.html].

Ora questa parabola è rivolta anche a noi (è il suo III livello, dopo quello di Gesù e quello dell’evangelista): anche a noi è rivolto l’invito (pressante) a vegliare; a vegliare per non essere come le vergini distratte che perdono l’incontro con lo sposo, cioè che non accolgono Gesù; a vegliare per non dividerci tra l’estremo di chi tira i remi in barca (tanto prima o poi arriva il Signore) e quello di chi – dato che Egli non è ancora sopraggiunto – declassano il suo vangelo a “baggianata”, “illusione”, “fantasia”…

Fuor di metafora, la parola del vangelo che la Chiesa ci consegna in questa Trentaduesima domenica del Tempo Ordinario ci invita a vivere, nella storia che ci è data, come coloro che hanno l’olio; come coloro, cioè, che attraversano la storia costruendosi interiormente in quel particolare e personale modo (non prestabile ad altri, non sostituibile con quello altrui), che li rende “pronti” al rapporto col Signore, riconosciuto nei luoghi e volti ove si fa presente nella storia (i piccoli).

A conclusione, qualche appunto di Giuliano su questo vangelo… dato che la lectio vera e propria di 3 anni fa sulla XXXII Domenica del Tempo Ordinario non esiste. Tale Domenica era, infatti, “saltata” nella Liturgia della Chiesa, in occasione della Celebrazione dei Defunti.



Mt 25 , 1-13

1 Il regno dei cieli è (sarà!) simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. 2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; 4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell'olio in piccoli vasi. 5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. 6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro (uscite per l’incontro!) 7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. 9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. 10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12 Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. 13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.



La vita è uscire verso lo sposo… vista in questa parabola alla luce dell’esodo … finale ! o determinante, che è il risultato di tutto il cammino!

Di quanti esodi ( con relativi sbandamenti verso gli idoli fallaci) abbiamo bisogno per capire che uno solo (lo sposo – il Signore) è quello che cerchiamo… Ma non riusciamo a capacitarcene se non svendendoci varie volte… e sperimentando di restare senza olio…   e solo attraverso il fallimento, ( delusione, esilio distruzione del tempio…)  maturare la convinzione di chi è il Signore… e dov’è…  e cercarne e trovarne la strada – visto che ne abbiamo la possibilità e la libertà (metà saggi e metà stolti! È la storia di Israele, della Chiesa… di ciascuno )



L’olio è la maturità cristiana del discepolo di Gesù! È la ri/conoscenza interiorizzata – cioè verificata pian piano nel cammino… che l’unico che ci salva è lui – nello Spirito.

E’ un’esperienza delicata di cui Gesù parla continuamente (il vino di Cana, l’acqua zampillante dal di dentro della Samaritana, il fermento che lievita la pasta, il seme che germoglia dentro con la sua forza autonoma… il gemito dello Spirito in noi …) come di una realtà / dono che innesca un circolo interiore vitale.  Esperienza di essere amati/salvati e trepidante tentativo di risposta, di coinvolgimento sempre più vero, che innesca un flusso  di /riconoscenza della presenza efficace del Signore  nella nostra vita. E dunque una forza interiore (dallo Spirito, perché noi non siamo capaci) benefica e dolce, sanante e balsamica… che ci convince dal di dentro che questa è la strada giusta. E così la morale diventa amore – la Parola diventa esperienza di luce: olio e fiaccola. E camminando tra tanti dubbi e incertezze si fa sempre più forte e radicata la convinzione di una conoscenza nuova di lui, di una frequentazione dello sposo/amico…di un incontro (ri/conoscenza!) pur nelle difficoltà e fragilità della vita… con relativa gratitudine che risana le inadempienze…



L’olio non si può scambiare né comprare… la parabola chiude la strada ad ogni possibile interpretazione contrattuale

 Non sta parlando della salvezza eterna… ma dell’apprendimento dell’attesa cristiana (vegliate!)… Ogni strumento religioso (fiaccole… servi incaricati di svegliare al mento opportuno…  solidarietà … è inadeguato… si tratta di imparare una relazione di amore che coinvolge la vita… non è scambiabile, si può dar aiuti e consigli, ma non saranno mai al livello adeguato, ( ricascano nella inutile religione contrattuale!)  perché non è comprensibile da chi non entra nel bisogno/esperienza che la fede è un affidamento di amore, che se non matura un rapporto personale, rimane sterile e nana…



Le pronte entrarono… alle altre: non vi conosco!

Si tratta dell’esito del percorso di fede di una vita: che sboccia in ri/conoscenza o disconoscenza… La vita eterna è vista come continuazione e esplosione, senza più limiti storici, dell’amore Gesù/discepolo… nel grande convito celeste: ci entra chi è ri/conosciuto dal Signore, per la lunga frequentazione che ne ha avuto nelle varie ricerche e notti (esodi) della vita… Non è riconosciuto (anche se crede d’aver comprato la conoscenza) chi non ha mai riconosciuto e  amato il Signore nei luoghi e volti ove si fa presente nella storia…

… datevi dunque da fare, dice il Signore!


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