Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

Visualizzazione post con etichetta Mosè. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mosè. Mostra tutti i post

martedì 18 marzo 2014

III Domenica di Quaresima


Dal libro dell’Èsodo (Es 17,3-7)

In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?». Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-2.5-8)

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 4,5-42)

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

Le letture che la Chiesa ci propone in questa terza domenica di Quaresima sono talmente ricche da rendere impossibile un’indagine approfondita di tutto ciò che mettono in campo. Per questo mi limito a delineare uno dei possibili percorsi a cui esse ci aprono, e cioè: è soltanto facendo esperienza (e facendo poi memoria) del Signore che mi incontra nel più intimo di me (Gv 4,5-42), che Egli può essere tolto dal banco degli imputati (Es 17,3-7), dov’è guardato con sospetto come un lui qualunque, e diventare un Tu con cui Vivere la vita (Rm 5,1-2.5-8). Cerco di spiegarmi… a partire dall’esperienza del popolo di Israele nel deserto: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Ecco la domanda inquisitoria nei confronti di Dio che crea un evidente “ribaltamento” dei ruoli “classici” (di solito è dio che mette alla prova l’uomo!): qui invece il deserto, da terra di prova per la fede dell’uomo, diventa luogo dove in discussione vi è Dio in persona.

«Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»… è la domanda di Israele nel deserto, ma non è certo una domanda che noi possiamo permetterci di guardare con sufficienza o superiorità: quante volte infatti è salita in gola anche a noi? Soprattutto proprio in quei momenti in cui, come si dice del popolo, si «soffriva la sete per mancanza di acqua»?

Per ognuno certamente l’esperienza del deserto e della sete assume contorni e sfumature personalissime, l’acqua che manca è per ciascuno connotata in modo singolarissimo, ma – mantenendo il paragone – non si può negare che quello della mancanza di acqua sia proprio un tratto caratteristico di questa nostra vita umana, di tutti e di ciascuno. «il credente fa fatica a scoprire il presente di Dio. E quindi va in crisi ad ogni sofferenza e si ribella: il Signore è in mezzo a noi o no? Rischia di regredire nella religione come schiavitù o di fuggire nel futuro apocalittico. Ma il Signore non vuole servi. Si offre come amico, che è presente adesso: io ci sono! è sempre la sua risposta» [Giuliano].

Ma non solo: comune a tutti e a ciascuno pare anche, almeno tendenzialmente, la reazione a questa carenza di acqua, di vita. Essa si connota infatti umanamente con l’inquisire Dio: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». È lui il primo imputato del nostro male di vivere, dei nostri stenti, delle nostre infelicità e solitudini, delle nostre povertà e miserie, dei nostri lutti… della nostra sete di Vita: Dov’era Dio? Interessante a questo proposito è notare come la domanda «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» sia come urlata ad un cielo vuoto: non è rivolta a Mosè, né a nessun altro membro del popolo; e non è rivolta nemmeno a Dio stesso; Egli vi è infatti citato alla terza persona… Ed è interessante perché rimanda ad un’altra domanda – urlata da una croce – che interrogherà il cielo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Anch’essa è la domanda di uno che ha sete (sete di vita), di uno che dispera, di uno che muore… ma – a differenza di quell’altra – è una domanda che, anche nel grido dello strazio, tiene aperto il dialogo con il Padre. È infatti la domanda di uno che continua comunque a dargli del Tu, a interpellarlo in prima persona.

È proprio questa la novità cristica, la sua risposta al nostro umanissimo istinto di mettere in discussione Dio: o Dio lo incontri nel dramma della libertà storica di Gesù, o, se rimane un’impalcatura religiosa, un insieme di pratiche e devozioni, non ti disseta, non ti salva, non ti dà Vita; resta sempre un idolo in terza persona… cioè uno sconosciuto.

In questo senso è significativo che il liturgista abbia posto in connessione alla sete di Israele nel deserto, il dialogo che Gesù intrattiene con la Samaritana sull’acqua viva che zampilla per la vita eterna.

Questo incontro tra la libertà storica di questo uomo – che possiede in sé la fonte della Vita – e questa donna – che invece ha in sé la fonte della sete – è così coinvolgente perché non rappresenta un esempio edificante, un modello stereotipo del rivolgersi al Signore. Esso è piuttosto raccontato nel suo snodarsi, nel suo svolgersi reale; e in questo senso noi lettori siamo come catturati dentro alla scena, dove «il prototipo della fede... è la donna di tanti mariti! ... presso un antico pozzo biblico, a mezzogiorno, fuori orario per andare ad un pozzo, arriva infatti una donna mai vista prima, razza e religione diverse e conflittuali... Gesù, seduto lì, spossato dal viaggio, inizia un approccio sorprendente per lei (e anche per i discepoli, dopo). Un dialogo... come si impara una lingua ignota in terra straniera. Partendo dall’esperienza comune delle cose semplici e concrete, evidenti a tutte due, provoca l’intuizione di un significato nuovo, per successive ambiguità e spiegazioni, equivoci e chiarimenti. Smonta dolcemente un’impalcatura interiore di paure e pregiudizi, bisogni e desideri, legami e rimorsi... e le fa intravedere e le induce nel cuore una costellazione di orizzonti nuovi... e infine un totale sconvolgimento della vita. Attraverso    il sentiero difficile dei fraintendimenti: l’acqua e la sete, l’amore e i mariti, Dio e la sua casa, il messia e il suo vangelo, il pane e la fame, il missionario e il salvatore... sono i passi di questa privilegiata catecumena, alla quale un catechista d’eccezione insegna il cammino per diventare... discepola e apostola, come lui la sogna. Un arduo viaggio interiore, per portarla a disseppellire una sorgente d’acqua viva per la sua sete, non chissà dove, ma nel proprio intimo, scavando nei sedimenti induriti che le impediscono la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio. Le due immagini infatti sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa. Il racconto vivace dei desideri e delle resistenze, dello stupore e delle riluttanze di questa donna, segna in filigrana i passi critici della fede» [Giuliano].

Così al seguito di questa donna anche noi abbiamo, ancora una volta, la possibilità di accedere al mistero dell’identità di Gesù vedendolo in azione, dal di dentro della sua vita: Egli è accessibile anche ai peccatori! In queste pagine infatti si rivela qualcosa di eccezionale: Dio è quel Gesù che camminando per le strade della Samaria si incontra (e qui il verbo va preso nel senso forte di “si mischia l’anima”) con una donna («Giunge una donna»), una donna considerata eretica («una donna samaritana»), un’eretica peccatrice («Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero») e proprio a lei si rende accessibile come fonte della Vita: «Sono io, che parlo con te». Ecco perché è possibile anche per noi metterci nella nuova prospettiva (convertirci) che «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».

Non è più questione di appartenenza etnica, religiosa, di genere, di casta, di santità... L’incontro col Signore è questione di spirito e di verità, o, se volete, di verità di spirito: cioè è questione di lasciarsi incontrare nella trasparenza del proprio essere, di quel centro vitale in cui noi siamo proprio noi... O Dio lo si incontra lì nel nucleo vitale della nostra singolarità, o non è Dio, di certo non è il Signore della mia vita, non può essere la fonte che mi dà Vita. È questa la nuova via aperta da Gesù nell’incontro col Padre: «noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo [...] perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». E non tengono più neanche le remore etiche che ci facciamo o che ci mettono addosso: «Infatti, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Non c’è scusa per non avventurar la vitasulle strade di questa amicizia... neanche il male commesso fa più da ostacolo... nel poter lasciarsi zampillare l’anima.

Infatti: «L’amore non funziona perché non si apre all’altro, ma cerca se stesso, cioè la propria immagine e il proprio soddisfacimento. Non incontrando nessuno che lo ami, la sete insaziata moltiplica i tentativi di dissetarsi e la conseguente frustrazione... Anziché patire una grande sete, sembra più comodo inseguirne molte, piccole e inappaganti. Gesù non rimprovera la donna per i cinque mariti, le fa osservare la sua situazione senza aggressione moralistica... Sa che non ha imparato ad amare, perché nessuno l’ha mai amata gratuitamente, in perdita – per amore! È apprendimento più difficile e più importante della vita. Si impara ad amare per contagio, per esser venuti in contatto con chi ti fa sperimentare che amare vuol dire consegnarsi alla sete dell’altro. Questo amore accende una nuova dinamica interiore, che ha il suo senso e la sua garanzia in se stessa. Lo sappia o no, si è incendiata ad un Amore che genera e nutre ogni amore, senza fine» [Giuliano].

domenica 20 ottobre 2013

Chi la dura la vince

contagio di luce

A una prima lettura appare evidente nella liturgia di oggi il riferimento all’impegno costante sia nella preghiera che nell’annuncio missionario…

Così nel libro dell’Esodo, Mosè con le braccia alzate appare il vero autore della vittoria di Giosuè contro i nemici di Israele. Non è la forza di Giosuè ma la costante preghiera di Mosè – e in ultima analisi, Dio – ciò che fa vincere Israele!
La conclusione appare quindi ovvia: Senza la preghiera non riusciamo a vincere (Esodo)… e ad ottenere giustizia (Vangelo)! A questo livello di interpretazione, avere fede è perseverare con la preghiera incessante, fiduciosi nella promessa di Dio. Fiducia in Dio che salverà il suo fedele nonostante la storia sembri smentirla! Riappare quindi nel Vangelo il tema della costanza nella preghiera che abbiamo visto in un Mosè stanco e sostenuto dalla comunità (rappresentata da Aronne e Cur)… Esortazione alla costanza (a “tener duro”, endurance) che ritroviamo in san Paolo nella lettera a Timoteo!
Fin qui la lettura “tradizionale” (In questa chiave anche la preghiera iniziale della Colletta: O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te).
Tutte cose belle e giuste e che ci hanno guidato per anni e guidano ancora la vita di molti cristiani. Ma mi chiedo, “sperare contro ogni speranza” anche quando i fatti sembrano contraddirla, è ancora speranza? È questo il senso che intendeva Paolo? Non siamo davanti a «un ottimismo che toglie alle decisioni morali e alle nostre azioni quel senso acuto di responsabilità che invece dovremmo avere»? (Ernesto Balducci). Tanto Dio – si badi bene: Dio! – prima o poi vince(rà)! E l’uomo? Personalmente penso che una fede siffatta non sia molto diversa da quella del bambino che crede alla Fatina delle favole. Non è fede, è fideismo! L’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione (Antonio Gramsci) è da schizofrenici, non da uomini che fondano sulla lucidità del pensiero l’agire della volontà.

Leggendo e rileggendo passi interi della bibbia e del vangelo abbiamo imparato a conoscere la figura di Mosè, di Paolo e di Gesù. E così decidiamo di non sorvolare più su certe sue espressioni fino a ieri oscure, perché pian piano sembrano illuminarsi di luce propria mentre altre assumono riflessi di significato nuovo. Cosa vorrà dire per esempio la frase spiazzante di Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Di che fede sta parlando?

E allora rifacciamo il percorso che abbiamo fatto tante volte, cercando di guardare con occhi diversi i testi che abbiamo imparato a conoscere!
E ci accorgiamo che nella prima lettura l’unico che prega, se prega, è Mosè… e gli altri? Ma sta proprio pregando? Almeno nel senso nostro di preghiera. Cioè se Mosè prega, che preghiera è? In cosa si differenzia dalla nostra?… C’è forse qualcosa nel nostro modo di pregare che non sia preghiera?
Già sappiamo dalla bibbia che c’è un modo di pregare che Dio non sopporta, perché non ci umanizza, perché ci rende schiavi di ritualità vuota. Le invettive di Isaia ci fanno tremare: 1,4 «Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti!» 1,11 «Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero?… Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12 … chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13 Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14 Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15 Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue». Di che sangue grondano le nostre mani?

Torniamo a Mosè: Mosè non aveva bisogno di pregare… almeno non nel senso nostro! Salvato dalle acque, poteva ringraziare la figlia del faraone se era ancora in vita! Crescendo avrà fatto le sue offerte rituali al dio Rha insieme a tutta la famiglia del Faraone. Aveva tutto Mosè: forza, ricchezza, salute, giovinezza e potere… Che cosa poteva dargli di più un dio? Ci viveva in casa (Faraone)! Certo aveva un grosso difetto Mosè che gli uomini potenti credono di non potersi permettere perché temono di perdere il loro potere (tirannico): aveva un forte senso di giustizia che lo porterà ad uccidere pur di difendere l’operaio ebreo vittima dell’arroganza di un egiziano. E così come Caino, fuggirà nel deserto! Forse in quella vita da fuggitivo il rischio di Mosè era che vivesse di nostalgia… ma in fondo aveva una vita tranquilla… s’era persino sposato!

E qui, rifugiato nel deserto, che accade a Mosè? Un Dio fino ad allora a lui sconosciuto, gli parla attraverso un roveto ardente! Se qualcuno l’avesse visto l’avrebbe preso per matto: parlare con un rovo in fiamme!

Ma il dialogo tra Mosè e il “roveto” è significativo: è il “rovo” (e non un albero maestoso!) che si rivolge a Mosè e gli chiede di esaudire un suo desiderio che aveva coltivato da sempre: libera il mio popolo! Sembra una fiaba! Ma non racconta favole: La vita di Mosè cambia radicalmente per la terza volta e la sua vita consisterà nell’impegno – fino alla morte – ad esaudire la richiesta di Dio. Anzi non Dio, ma Yhwh! Non è Yhwh che esaudisce le sue richieste ma lui che esaudisce le richieste di Yhwh! Se Mosè chiederà qualcosa a Yhwh, sarà solo per realizzare efficacemente ciò che Egli gli aveva chiesto. Ecco perché quando Mosè si arrabbia – dice il testo – è punito da Yhwh. Come a dire: Mosè, non è mica un tuo progetto! Se ti arrabbi stai trasformando il progetto di liberazione di Yhwh in un tuo progetto di potere!
La vita di Mosè insomma ci insegna che la preghiera non è quella “cosa” con cui chiediamo a Dio di esaudire le nostre esigenze, ma è preghiera quella che cerca di comprendere i desideri di Dio per poterli esaudire nella storia! Anzi non di Dio, ma del Padre!
La vita dell’uomo si realizza, l’uomo si umanizza, nell’appagamento dei desideri dell’altro (Padre, prossimo) non dei propri! Perché i propri sono solo progetti di potere!

Yhwh sa che il popolo di Israele è la propria “memoria” storica. Se viene distrutto Israele, viene distrutta la sua presenza storica e Yhwh sparisce dalla storia! – Ogni antisemitismo mira a questo e anche per questo non potrà vincere mai! – Tra Israele e Yhwh c’è un solidum esistenziale sancito con Alleanza eterna mai superata e superabile. Così la storia dell’uno dipende dalla vita dell’altro e viceversa! La richiesta di Yhwh a Mosè, agli israeliti, a ogni uomo, in fondo è: “Fammi vivere”! Che è ciò che invece siamo soliti chiedere noi a Dio!

Nella Bibbia, i poli della preghiera quindi sono capovolti rispetto ai “nostri”! E scopriamo che solo esaudendo i desideri di Dio, possiamo esaudire i nostri! La radice dell’uomo immagine di Dio, sta a questo livello. Mangiare dell’albero della conoscenza del male (e del bene) è mangiare un frutto che nemmeno Dio mangia: l’uomo se vuol vivere non può che mangiare solo ciò che Dio mangia. Perché può nutrirsi solo se si nutre di ciò di cui si nutre Dio.

Le mani alzate di Mosè quindi non sono le preghiere di Mosè a Dio, ma l’esaudimento (da parte di Mosè) della preghiera fatta da Yhwh a Mosè: salva/libera il mio popolo e così salverai anche me e te con noi! Mosè accetta di essere strumento di questa liberazione di Yhwh e di Israele. E così costruisce la propria. Ha il “bastone di Dio” in mano, ma il vero bastone è lui, le sue braccia, la sua fragilità, la sua ostinata passione per l’avventura di Dio. Su cui Dio e la storia si appoggiano.

Tutto il popolo di Israele, e noi con lui, dobbiamo imparare questo passaggio per vivere la “preghiera” – il modus orandi – di Mosè: passare dalla preghiera dello schiavo (Dio liberami, salvami, guariscimi, dammi…), alla preghiera dell’uomo libero che si prende cura della libertà altrui (di Dio e dell’uomo).
A partire da questa rapida comprensione rinnovata, noi possiamo accedere alle altre letture con uno sguardo nuovo: la missione, l’annuncio del vangelo, se non vuole essere la realizzazione di un proprio progetto di potere, non può non partire da un ascolto assiduo della Parola di Dio! «Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture» (Paolo) per attuarle nella storia! Se c’è preghiera di domanda non può che essere in questa direzione: e infatti Paolo prega Timoteo di attuarla! Paolo non scrive come un padrone ai suoi sudditi… come un Cesare a Pilato…! Non ordina, supplica!

La parabola di Gesù non si discosta da questa logica: la preghiera non è relazione intimistica con Dio! Non è un abbraccio tra due narcisisti! E ancor meno un “volemose bene”, ma è il lavoro (braccia, gambe, lingua, sguardi…) diuturno di attuazione della giustizia del Padre nella storia: solo così il Padre vive e l’uomo con lui.

Il Padre non è colui che deve attuare la nostra giustizia, ma è colui che è giustizia già attuata. La sua! E che prega, supplica, sprona ciascuno di noi a farla propria! Storicizzandola!

Il linguaggio paradossale della parabola non può contraddire ciò che nella storia biblica è stato un guadagno culturale e cultuale dell’umanità!
Dire che Dio attua prontamente, significa che Dio da parte sua ha già attuato questa giustizia, semmai tocca all’uomo farsene carico! Dio c’è, è l’uomo che a volte, troppe volte, non c’è! Non siamo stati a Lampedusa come non siamo stati ad Auschwitz; non siamo a San Vittore come non ci siamo a Guantanamo; non siamo a Bruxelles perché non vogliamo essere ad Atene; non siamo a Wall Street come non siamo a Francoforte; fingiamo di esserci al Palazzo di Vetro come fingiamo di esserci a Palazzo Madama; eliminiamo ogni presenza umanizzante a Torino come la togliamo a Pomigliano… Crediamo di poterla difendere nella propria casa (“ah! casa, dolce casa”) ignorandola nel quartiere!...
E ci stupiamo poi di trovare tanto acida la casa che credevamo così dolce!

Ecco i luoghi (alcuni) dove avremmo dovuto custodire la fede nella giustizia e nei quali invece rischiamo di perderla! Per sempre!

Come l’ultimo gradino indifeso della scala sociale e religiosa della vedova; come il balbuziente Mosè; come il fragile e perseguitato Paolo (2Cor 11,23-12,10), l’attuazione di questa giustizia di Yhwh/Padre nella storia, non sta nella nostra forza, ma nella nostra disponibilità a rompere gli indugi e gli schemi sociali e culturali per farci incessanti rompiscatole. “Maggioranza rumorosa” contro ogni forma di ingiustizia e facitori di giustizia nuova. Nuova perché non nostra ma del Padre!
Solo così il “giudice dell’imperatore”, se non per convinzione, per spossatezza (spossatezza che il facitore della giustizia del Padre – seppur stanco – non ha! cfr 2Cor 4,8ss), vinto come il Faraone, diventa “giudice del Padre”. Attuatore storico – suo malgrado – della misericordia di Yhwh!

Giustizia che è già presente nella storia, accolta inizialmente solo dai poveri di Yhwh quale la vedova (che a mio avviso qui rappresenta Dio che ottiene soddisfazione da noi uomini cattivi cfr Mt 7,11)! Poveri che non badando alla propria insignificanza storica, e senza voler diventare “politicamente significativi” (sarebbe una lotta di potere!), se ne fanno audace istanza senza scoraggiarsi. E vincono sempre!
Al giudice iniquo infatti, come ad ogni promotore di ingiustizia restano dunque tre strade: o elimina il “disturbatore” della sua falsa quiete (con la certezza di diffondere ulteriormente la protesta dilazionandola), o accetta di lasciarsi perennemente disturbare (col risultato di minare la propria autorità), o più furbescamente cominciare, seppur controvoglia, ad ascoltare il popolo che sta opprimendo! In ogni caso, come si può notare qualunque scelta faccia, è scacco matto!
A una condizione però, lo ribadisco perché a mio parere è di decisiva importanza: La vedova bussa alla porta, non gliela sfonda! La rivendicazione della giustizia non può usare il metodo dell’ingiustizia che vuol combattere, altrimenti l’oppresso non solo giustificherebbe la propria eliminazione da parte del potere costituito, ma nel gioco della inversione delle parti, in caso di vittoria dell’oppresso non sarebbe eliminata l’ingiustizia! Il fallimento di ogni rivoluzione violenta è tutta qui!

La preghiera dopo questo percorso perde così ogni tradizionale connotazione spirituale per assumere una dimensione nuova in cui l’accoglienza del Sogno (cfr Lc 11,13) di Gesù e del Padre diventa discernimento operativo, fattualità storica!
Pregare vuol dire allora, non incrociare le dita o le braccia, ma assumersi la responsabilità di una ostinata, pacifica quanto scomoda “guerriglia” di rivendicazione della giustizia del Padre. Perché anche nella fede come nella vita, “chi la dura la vince”! E… non conosco nessuno più ostinato di Dio!

domenica 11 novembre 2007

FIDUCIA E FEDE


Da "I racconti dei Chassidim" di Martin Buber.

"Avviene talvolta", diceva il Baalshem, "che si è turbati nella propria fede in Dio. Il rimedio contro questo è di pregare Dio di rafforzare la fede in noi. Ché il vero male che Amalek arrecò a Israele fu che con il suo fortunato assalto fece raffreddare la loro fede in Dio. Perciò Mosè, con le mani tese al cielo, che erano come la fiducia e la fede stesse, insegnò loro a pregare Dio che li rafforzasse nella loro fede, e questo solo è ciò che importa nella battaglia contro la potenza del male".

sabato 20 ottobre 2007

Fra il credere e il pregare: quale Dio?


… c’è un Dio che ha fatto uscire Abramo dalla sua terra, con grandi promesse, senza dirgli dove doveva andare… c’è un Dio che ha mandato Mosè a guidare il popolo nell’esodo dall’Egitto, ed è finito errando nel deserto senza più trovare l’uscita… un Dio che guarda se Mosè tiene le braccia alzate, per sconfiggere gli Amaleciti… C’è il Dio che fa costruire un Regno “eterno” a Davide, e poi abbandona Gerusalemme, la città della pace, alla distruzione e lascia deportare il suo popolo in esilio, senza più re, né sacerdote, né tempio, né legge, né profeta… Tutti costoro e l’immensa processione dei profeti e dei poveri di Jawhé hanno imparato a credere, vedendo barlumi di epifanie di Dio, e poi hanno imparato soprattutto a pregare per “consentire” …a ciò che non capivano. Gesù, in un paese senza speranza, ha rivissuto nella sua avventura umana la storia del suo popolo, credendo nella benevolenza paterna di Dio sia quando ascolta e si manifesta con forza e potenza, tra lo stupore e la simpatia di discepoli e delle folle che lo seguono… sia quando poi ha sofferto l’angoscia e la solitudine, profetizzando l’abbandono e il tradimento e la morte, alla fine del suo viaggio verso Gerusalemme - dove Dio stesso lo abbandonerà sulla croce.
Le Scritture, raccontano questo lungo cammino della fede e della preghiera dell’uomo fino a lui, “per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia…” l’ uomo di Dio completo” l’uomo che davvero ha creduto nel Padre e a lui e totalmente si è affidato, “con forti grida e lacrime”: Gesù! È infatti “per mezzo della fede in Gesù Cristo” che la chiesa primitiva, dopo lo scandalo della sua morte, ha imparato a comprendere le Scritture e trovarne il compimento. E così scoprire la dinamica tra credere e pregare: la luce e il sale della propria avventura ‘cristiana’ nella storia.
pregare sempre… : quale Dio!?
Luca, che fa della preghiera il respiro del suo Vangelo, ci ricorda l’esempio di Gesù e il suo insegnamento sulla preghiera, una ventina di volte (e poi i suoi discepoli impareranno bene dal Maestro, perché nel racconto degli Atti se ne parla una cinquantina di volte!). Questa pagina, della vedova ostinata e del giudice iniquo (come poi subito dopo del fariseo e del pubblicano), in poche righe ci presenta un’analisi sconvolgente e drammatica dell’avventura della preghiera… Il dramma della vedova è il dramma di ogni disperato, credente o no, di ogni povero, di ogni anima inascoltata… C’è nella lotta di questa vedova irriducibile la sorpresa di un antagonista inaspettato. Il personaggio che nella minuscola parabola tiene il posto di Dio, stavolta non è un padre misericordioso, un pastore affettuoso, una massaia volonterosa…. É: un giudice malvagio, “che non teme Dio e non ha rispetto per nessuno…, È questo “ente” terribile, cinico e sprezzante, che secondo Gesù, bisogna snidare dalle caverne del nostro cuore, ove abita da sempre, ma abusivamente, al posto del vero Dio, lì forgiato e mantenuto dalle paure e dalle angosce dei nostri antenti, dai nostri deliri frustrati, come un’immagine dilatata e deturpata del nostro io personale e collettivo, tradito e incattivito dalle speranze inappagate, e amareggiato dal troppo dolore inutile del mondo. Ecco perché ce lo raffiguriamo come un Moloch, indifferente alla preghiera più ostinata e insistente – impassibile perfino davanti alla sofferenza degli innocenti, che divora. Tutta la nostra lettura della storia è fuorviata ed equivocata da questo antagonista insensibile e ingiusto. Il Dio che vive dentro di noi e che tutti in qualche momento preghiamo (pur lamentando la sua indifferenza) è come questo giudice - senza religione e senza pietà… proprio quando ne avremmo diritto. Quanti gemiti, rifiuti e ribellioni gli uomini hanno lanciato nei millenni verso questo dio, disarmati di fronte a lui, che ha tutti i poteri, ma non gliene importa niente di noi! Siamo noi la vedova abbandonata senza appoggio di nessuno, senza un dio che davvero protegga ed esaudisca coloro che nessuno più accudisce, ai quali nulla più rimane fuorché una ostinazione invincibile … Oppure l’abbandono della partita, per ateismo o agnosticismo. … a meno di prendere l’altra strada, suggerita da Gesù : cambiare il volto di Dio!
pregare… un dio duro a morire
… questo Dio resiste a lungo a chi prega… Le volonterose ma fragili costruzioni delle nostre teodicee sulla bontà di Dio e le sue premure paterne per i piccoli che gridano a lui, si sfasciano e ci crollano addosso… Basta avere il coraggio di ammettere quello che abbiamo davanti agli occhi, e costatare che questo dio non ascolta affatto il povero che lo invoca, lascia morire di fame e di oppressione gli innocenti, e lascia fare il male a chiunque lo voglia… La bestemmia è già pronta nel cuore, anche ai più santi di noi… o almeno, se per un tale dio non esiste misericordia – bisogna trovare il coraggio di restituirgli dignitosamente il biglietto da visita, come l’Ivan di Dostojevski … non mi interessa più, non voglio aver più niente a che fare con lui! Gesù vuol portare il suo discepolo con sé, a questa barriera estrema oltre la quale inoltrarsi, per continuare a pregare… cioè per imparare a credere non in un dio fatto da noi, ‘manufatto’ per difendere i nostri interressi e progetti… ma nel Padre misterioso che solo lui ha conosciuto - e quelli ai quali vuole rivelarlo. Che fatica, togliere a questo dio la maiuscola abusiva!
pregare … senza incattivirsi
… si può tradurre anche “ senza scoraggiarsi”, o “deteriorarsi” – atteggiamenti, tutti, che indicano chiaramente il riscontro dell’esperienza che Gesù ha visto in tanta gente, che si è stancata di domandare ascolto a un sordo, si è demoralizzata e poi si è inacidita… Senza più un volto, nel cuore, a cui parlare, in cui sperare! Allora riemergono tutti i mostri di Dio che la paura e l’angoscia covano dentro di noi, e ci lacerano e ci incattiviscono…
Resistere nella preghiera, resistere a questa corrosione delle nostre impalcature religiose, senza indurire, ma temprandosi (Etty Hillesum)… non è per conseguire poi l’esaudimento miracoloso di qualche richiesta, che cambi a nostro vantaggio i destini del mondo, ma per vivere la profezia di Gesù, che ha promesso a chi lo implora senza stancarsi (senza incattivire), il suo Spirito, lo spirito che fa vivere Dio stesso (Lc 11,13).
La parabola dà per sicuro l’esaudimento, ma al futuro: non è una cosa scontata! la vedova mantiene un’ostinazione incrollabile, fino a spossare il giudice: questa vedova mi dà fastidio, fino alla fine, a rompermi la testa…Forse la sua invincibile preghiera rompe davvero la testa al dio che abbiamo fatto a nostra immagine e somiglianza, e lascia spazio a un altro Dio! di tutt’altra qualità. Sul suo biglietto da visita non c’è scritto l’onnipotenza o l’immensità o la giustizia vendicatrice… C’è solo la promessa dell’infinita longanimità (makrothumia) di un Dio che nella storia del mondo vuole attendere pazientemente i tempi lunghi della conversione dell’uomo, del crollo delle sue ambigue torri di babele, lo scolorirsi delle sue immagini di dio… per dare tempo al trasformarsi della nostra paura, fatica, resistenza, insofferenza… in travaglio doloroso di purificazione del dio introiettato… : fino a lasciare spazio alla comprensione della Parola di Gesù su questa vedova: non è l’ingiustizia sorda di Dio la causa dei nostri mali inascoltati… ma la pochezza e l’incostanza della nostra fede (18,8)!
il Signore tarda a venire solo per darci il tempo di convertirci
… la salvezza, non viene perché non è invocata! o è richiesta solo come soluzione di qualche problema occasionale! Non come desiderio di amare ed esser amati da un interlocutore… Finché il desiderio di Lui “persona” – antagonista / protagonista della vita!? – non ha conquistato e polarizzato il discepolo, (il “credere” non è diventato “pregare”), non c’è condizione interiore di esaudimento, se non “come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole”. È ancora religione interessata e contrattuale, utilitarista… La preghiera capace di ottenere tutto da Dio è quella che ci insegna Gesù: che ha cambiato il volto di Dio in “Padre nostro” – e prima si preoccupa anzitutto di lui, del suo nome, del suo regno della sua volontà… perché questa è la nostra salvezza, affidarsi a Lui: “…Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma prolunga la sua pazienza (makrothumia) su voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi (2Pt 3,8s).
Dio è poco desiderato
Una preghiera che tende a consentire ai progetti di Dio ed esaudirlo in ciò che domanda è l’unica purificazione possibile della preghiera stessa, secondo le misure di Dio. Le misure di Dio sono il suo Spirito. Il quale trasforma il nostro desiderio nel desiderio di Dio - cioè, del suo essere, del suo bene! Una preghiera (un gemito!) non sovrapposta alle azioni che si fanno, o alternata agli atti consecutivi che scandiscono il quotidiano… ma una presenza accolta e custodita, che ci illumina, impregna, accudisce dal di dentro… come la “assenza” di una persona lontana ci tiene in tensione il cuore e ci fa vibrare per la sua “presenza”, mentre continuiamo a fare tutto quello che dobbiamo fare…. Il travaglio della fede è faticoso per noi, perché forse desideriamo tante cose per la nostra fame e sete… e poco, troppo poco, il vino, il pane e la parola che Gesù ci ha preparato per il nostro cammino, da condividere con i fratelli. Da questo nostra fragile passione, dipende se Gesù troverà ancora fede sulla terra!

domenica 3 giugno 2007

di Pasqua in Pasqua

Proprio perché, come scrivevamo, il senso del nostro agire (umano-cristiano-missionario), è dato dall’orientamento del nostro camminare nella nostra storia concreta, sia come singoli che come collettività, diventa vitale la domanda sull’origine del viaggio stesso. Affinché il nostro camminare non sia un “girovagare senza meta” o un “girare su se stessi” ma tragga dallo stesso avanzare la forza per sostenere la “fatica del viaggio”.
Come una barca in mezzo al mare, sbattuta dalle acque e senza una striscia di terra all’orizzonte che possa farne intravedere l’arrivo, occorre “fare il punto” della fede, sulla mappa della storia, per vedere a che punto siamo del tragitto e se, sballottati dal vento e dalla tempesta dei problemi della nostra vita, non ci siamo involontariamente allontanati dalla meta, come “smarriti nei pensieri dei nostri cuori” appesantiti dal quotidiano tran-tran dell’esistenza.
La meta non dobbiamo inventarcela, dobbiamo solo tracciare la rotta, nel mare senza strade e pieno di pericoli della vita, della “mia vita concreta”. Altri ci hanno preceduti, alcuni hanno fatto da “apripista” e taluni si sono accodati, molti sono già arrivati, altri ci seguono, altri ancora stanno partendo… Altri, forse i più, vorrebbero partire, ma timorosi, stanno a guardare se noi non… affondiamo!
L’unica nostra preoccupazione, per ora, deve essere però quella di vedere se siamo nella “direzione” giusta, se siamo ancora “in rotta”!
Per questo resta importante fissare lo sguardo là dove il viaggio è iniziato, per noi, per tutti, e cercare di vedere quale itinerario è stato percorso e perché, da coloro che ci hanno preceduti nel viaggio della fede e hanno “saputo” arrivare a destinazione.
E iniziamo allora là dove questo cammino ha cominciato nella storia dell’umanità.
Dove? A mio modesto avviso la “storia” ha inizio esattamente “qui”:

Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l'Hittita,l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora và! Io ti mando dal faraone. Fà uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!».
Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall'Egitto gli Israeliti?». Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte».
Mosè disse a Dio: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono/sarò!». Poi disse:«Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi». Dio aggiunse a Mosè:«Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.
Và! Riunisci gli anziani d'Israele e dì loro: Il Signore, Dio dei vostri padri, mi è apparso, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, dicendo: Sono venuto a vedere voi e ciò che vien fatto a voi in Egitto. E ho detto: Vi farò uscire dalla umiliazione dell'Egitto verso il paese del Cananeo,dell'Hittita, dell'Amorreo, del Perizzita, dell'Eveo e del Gebuseo, verso un paese dove scorre latte e miele.
Essi ascolteranno la tua voce e tu e gli anziani d'Israele andrete dal re di Egitto e gli riferirete: Il Signore, Dio degli Ebrei, si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto a tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore, nostro Dio. Io so che il re d'Egitto non vi permetterà di partire, se non con l'intervento di una mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l'Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo egli vi lascerà andare.
Farò sì che questo popolo trovi grazia agli occhi degli Egiziani: quando partirete, non ve ne andrete a mani vuote. Ogni donna domanderà alla sua vicina e all'inquilina della sua casa oggetti di argento e oggetti d'oro e vesti; ne caricherete i vostri figli e le vostre figlie e spoglierete l'Egitto»

Avrei dovuto scrivere tutto il libro dell’Esodo, alla cui lettura integrale rimando, ma non potendo, ho voluto qui riportare per esteso almeno il brano che è capitale per comprendere il cammino che intendiamo intraprendere perché vi è descritta l’esperienza primordiale e fondante di ogni esperienza di Dio, di ogni vocazione.
Siamo qui al capitolo 3° del libro dell’Esodo dove, nelle varie versioni della Bibbia, si dice che qui si tratta della vocazione di Mosé, ma stiamo attenti a non lasciarci ingannare, qui più che la vocazione di Mosé c’è la descrizione, passatemi il termine, della “Vocazione di Dio” e in quella di Dio, quella di Mosé e del popolo di Israele, di Gesù e dei suoi discepoli… Della nostra e quella di ogni uomo e donna.
Israele stesso ne è come positivamente “ossessionato”… E noi con lui… Bisognerebbe ritagliare il brano e incollarlo su un cartoncino per farne come un “segnalibro” tra le pagine della Bibbia per averlo continuamente sott’occhio ogni volta che leggiamo un qualunque altro brano. Non c’è infatti praticamente un solo passo della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, che in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente non vi faccia in qualche modo riferimento…
Tutta la storia di Israele, la predicazione dei profeti, la sua preghiera e il suo culto, le immagini e i simboli della Bibbia stessa (fuoco, acqua, vento…), hanno la preoccupazione di “dilatare” nella storia questo avvenimento di liberazione e di attualizzarlo rendendolo “visibile” facendone continuamente memoria. Così che, in un continuo rinvio circolare, (ri)attualizzandolo, ne (ri)comprende sempre meglio la infinita ricchezza della sua manifestazione.
Gesù stesso vi farà continuamente riferimento prima e dopo la resurrezione: in quanto ne è “l’ispiratore” (Gesù è Dio in quanto Figlio del Padre) e colui che lo porta a compimento realizzando definitivamente nella propria umanità ciò che in Mosé il Padre ha iniziato nella storia dell’umanità. E, in quanto “corpo di Cristo”, la Chiesa stessa (e la sua missione), non può esistere e capirsi se non in questa stessa dinamica. Il cristiano cioè, non può comprendere la propria missione e identità se non a partire, a imitazione di Gesù Cristo, dalla figura di Mosé e dalla storia di liberazione che ne segue(vedi nota), diventandone “vivente epifania”.


La Pasqua come avvenimento di liberazione e inaugurazione di una vita nuova, è, e resta, nella sua continuità e nella sua diversa compiutezza, l’avvenimento fondante sia per il cristiano che per l’ebreo. E a questa vita nuova, nella assunzione responsabile della libertà, rimanda tutta l’azione di Dio nella storia come descritta dalla tradizione biblica. E nuove, nel suo rinnovato significato, appaiono anche le “parole” ivi contenute.
Ad esempio, ma è solo veramente un piccolissimo esempio, parole “positive” come: libertà, figlio, amico, salvezza, riscatto, redenzione, guarigione, dono, grazia, amore, promessa, terra, popolo, Alleanza, fede, speranza, carità, avvocato, testimonianza, perdono, cuore, coscienza, anima, s/Spirito, Signore, dono, ascesi, vita, creazione, “Legge”, “comandamenti”… E naturalmente il loro contrario “negativo” come: schiavitù, servo, dannazione, malattia, odio, vendetta, peccato, fallimento, infedeltà, disperazione, morte… non possono essere comprese in modo adeguato nel loro autentico senso biblico se non all’interno della prospettiva inaugurata da questo avvenimento di liberazione ivi descritto. E questo è vero sia per l’Antico che per il Nuovo Testamento. Sia nell’esperienza credente del popolo di ebraico che nell’esperienza credente del popolo cristiano.
Infatti essa non fa altro che rimandare, come declinazioni storiche in un crescendo di attuazione e rivelazione, a quest’avvenimento fondamentale in cui Dio si manifesta come Liberatore e quindi conseguentemente nell’agire come tale, Creatore del suo popolo e per questo Signore della storia. Ed è da qui che deve “partire” ogni autentica vocazione missionaria…
_______________________________________

nota: Ricordo qui un solo esempio per il prima: l’episodio della Trasfigurazione (Lc 9,30; Mc 9,4; Mt 17,3) e per il dopo: l’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,27).

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter