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martedì 6 marzo 2012

III Domenica di Quaresima

La prima lettura che la liturgia ci propone per questa Terza Domenica di Quaresima, è tratta dal libro dell’Esodo e propone il cosiddetto Decalogo, ossia i dieci comandamenti che Mosè ricevette da Dio sul Sinai.

È un testo molto noto e i cui commenti si sprecano, anche se ancora troppo diffusamente nella mentalità comune – rispetto a questo testo – si ha l’istintiva sensazione di trovarsi di fronte ad un elenco vuoto, dal suono sordo… che davvero poco ha da dirci…

Un po’ come la famosa battuta di un calciatore dell’Italia, durante la polemica sull’Inno nazionale che non veniva cantato a inizio gara dagli atleti… perché non lo conoscevano… Disse: “Sì, ma questo è un testo difficile, che non si capisce nemmeno bene che cosa voglia dire… Per esempio ‘Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa’ che vor dì?”…

Già… “Che vor dì?”…

Che vor dì “Non avrai altri dei all’infuori di me”?

E perché lì c’è scritto: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti»?

Perché, cioè, a noi è arrivata una versione stringata e svuotata del testo biblico, in cui i 10 comandamenti sono diventati solo un elenco da imparare a memoria? Un po’ come i doni dello Spirito Santo, che vanno imparati, perché se no poi il vescovo quando viene a farti la Cresima te li chiede e se non li sai, niente sacramento?

Che vor dì? Perché?

Quante domande…


Sono le domande!

Quelle che chi vuole uscire dalla condizione di “uomo/donna di cultura cristiana” (in cui la storia ci ha relegato) per accedere a quella di discepolo/discepola del Signore, deve porsi... le medesime a cui bisogna anche tentare di rispondere…

Non voglio certo farlo io, ora: è un itinerario non esauribile in un foglio… Ma bisogna che iniziamo a pensare a come vogliamo stare sulla scena di questo mondo: se come cattolici per cultura (che sanno a memoria i 10 comandamenti allo stesso modo di come sanno a memoria l’Inno di Mameli) o se come figli del Dio dell’alleanza…

Perché è proprio di questo che si tratta nel Decalogo: del Dio dell’alleanza.

Il testo infatti inizia con un’ annotazione storica: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile». Essa non è un’annotazione stilistica o marginale; anzi, racchiude il senso stesso di tutto quanto segue: proprio perché c’è una storia di salvezza, una vicenda di liberazione, una relazione di custodia, Dio è il Dio del popolo.

Solo per questo hanno senso una legge e un culto, da non intendere come mere pratiche vuote, ripetizioni di gesti o parole magiche – che funzionano senza adesione del cuore; non si tratta di un tentativo di ingraziarsi o imbonirsi la divinità.

Molto di più: la legge è il consiglio che Dio (che ama il popolo e lo ha mostrato fattivamente nella storia liberandolo) dà perché il popolo sia felice (non per soggiogarlo! Che è l’eterna tentazione, come ci rivela il mito di Genesi 3, quello del peccato originale); e il culto è l’esplicitazione gestuale, vocale e rituale di quella relazione originaria che fonda la vita: proprio perché Dio è Colui che ha condotto fuori dall’Egitto il popolo, proprio perché cioè Dio è Colui col quale c’è una storia di reciproco disvelamento e affidamento, sono necessarie le mediazioni simboliche (culto) che permettono la relazione.

Ecco perché l’idolatria è considerata il peccato più grave del popolo: essa non è, come a volte capita di pensare a noi occidentali, una forma scaramantica nei confronti di statuette di poco conto, ma la scelta di fondare la propria vita su ciò che fondatezza non ha, su ciò che – anche linguisticamente – evoca l’inconsistenza, l’evanescenza, l’insignificanza («Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni! Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida!», Sal 115).

Il libro dell’Esodo ribadisce dunque l’unicità della relazione d’alleanza («io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo», Ger 7,23; 11,4; 30,22; Ez 36,28) e la necessità di un’autentica mediazione simbolica che la custodisca e la alimenti.

Anche il vangelo focalizza la sua attenzione in questo senso: «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”».

In esso la questione sembra allargarsi, o meglio approfondirsi: la problematica infatti non è più solo quella della necessità di un’autentica relazione con il Dio dell’alleanza, ma quella di una legge e di un culto codificati, eppure essi stessi idolatrici. La religione ufficiale non è più uno strumento che facilita l’accesso al vero volto di Dio, ma diventa un ostacolo: propone un volto di Dio, che non è il suo; è idolatrico, appunto.

Non si tratta certo di una tematica sconosciuta al Primo Testamento (basti pensare a cosa diceva Isaia di sacerdoti e profeti al capitolo 28,7: «Sacerdoti e profeti barcollano per la bevanda inebriante, sono annebbiati dal vino; vacillano per le bevande inebrianti, s’ingannano mentre hanno visioni, traballano quando fanno da giudici»; o al capitolo 30,9-11: «Questo è un popolo ribelle. Sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. Essi dicono ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni! Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo d’Israele”»; o Geremia, al capitolo 2,7-8: «Io vi ho condotti in una terra che è un giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti, ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra e avete reso una vergogna la mia eredità. Neppure i sacerdoti si domandarono: “Dov’è il Signore?”. Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano»), ma che certamente nella risposta di Gesù trova un’evoluzione sorprendente e scandalosa.

Gesù infatti compie un gesto fortissimo («Fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”»), ma in modo più radicale ancora usa parole di spiegazione sconcertanti.

Infatti, alla richiesta di spiegazione dei Giudei – che in questo versetto 18 del capitolo 2 si oppongono per la prima volta a Gesù, ma d’ora in poi diventeranno i suoi oppositori abituali e che qui indicano sicuramente i custodi del tempio – («Quale segno ci mostri per fare queste cose?»), risponde: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».

Alla domanda, cioè, sulla sua εξουσία (exusìa), sull’autorità con cui compie il gesto simbolico della purificazione del tempio, Gesù risponde rimandando al suo corpo («egli parlava del tempio del suo corpo»):



«C’è una autorevolezza che viene dalla verità interiore di una persona, il fascino dell’autenticità, che tutti attorno sentono, alcuni accogliendola come un dono e uno stimolo, altri rifiutandola come un  rimprovero o una sfida. Uomo compiuto, uno lo può essere soltanto diventando progressivamente quello che è, perché si è costruito così fin dall’inizio, orientando i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole nella costante, faticosa e gioiosa, fedeltà del processo della vita, a partire dall’istintualità infantile congenita in noi, in ascolto della “voce” che lo chiama da dentro – nella sua piccola nicchia socioculturale che lo permea da fuori.

Se lo sdegno della passione talora esplode, è sempre per la difesa dei diritti altrui violati o vilipesi, non per sé, perché non ha bisogno di difendere se stesso, confortato interiormente dalla testimonianza viva della verità. Allora il suo corpo, luogo, strumento e materia del crearsi dell’identità personale, da minuscolo germoglio di carne a uomo compiuto, è diventato la creta dove l’antica immagine di Dio ha trovato espressione, dove il progetto va compiendosi, la casa dove il Padre è venuto ad abitare, ormai indistruttibile, perché impregnata dal suo amore.

Gesù, erede della millenaria storia di Israele, è l’ebreo compiuto che ne incarna l’anelito ininterrotto di cercatori e ascoltatori della parola di Dio. Finché questo cammino non è terminato, e morte e risurrezione non hanno ancora sigillato l’alleanza nuova nel suo corpo, l’antica casa di Dio, il tempio, doveva servire solo alla preghiera incessante, che implora nell’attesa dell’“eletto”, nel quale Dio potesse finalmente compiacersi. Gli idoli non devono assolutamente profanare la casa del Padre, tanto meno il dio alternativo, che è mammona, il denaro, il mercato – la svendita dell’amore!

[…] Gesù rifiuta apparentemente la provocazione dei giudei (e dei credenti di ogni tempo) che chiedono segni, ma di fatto la esaudisce, prevedendo e lasciando che la logica perversa del rifiuto dell’amore distrugga il suo corpo: Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra (Mt 12,40). Questa forza interiore di fedeltà assoluta all’amore è la sua vera “autorità”, contro la quale ogni potere spezza le sue armi, pur sicure di poterlo vincere! e dimostrando proprio con questo, che l’amore, che sembra inerme e disarmato, di fatto è invincibile… nella sua impotenza! Ed è proprio per questo che il corpo di Gesù umiliato, torturato e ucciso, diventa la nuova vera abitazione, il vero tempio di Dio, che è amore! E qui, in questo luogo sacro, il Padre scende a compiacersi di trovare chi ha ascoltato la sua parola fino a diventare, come Dio, amore. Un corpo di carne che diventa amore è il luogo di Dio, è divino!
… il nuovo tempio del culto di Dio è dunque il corpo dell’uomo, attraverso un passaggio, una pasqua, che proprio per renderci capaci di questo amore abissale, passa attraverso il dono “fisico” della vita, e scende come ogni corpo nel ventre della terra. L’osservanza radicale e compiuta della legge, pallida immagine del progetto di Dio sulla natura e sulla storia, porta fino a questa soglia, non può andare oltre. È esterna all’uomo, scritta su lastre di pietra, non ancora incisa sul cuore degli uomini. Giudei, che si fidano solo di segni divini, e greci, alla ricerca di una superiore sapienza umana, sono parimenti bloccati di fronte a questa soglia. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. La maturità cristiana è il lungo cammino, alla sequela di Cristo, per fare del proprio “corpo di carne” il tempio, il luogo di “riconoscenza” del Padre, dove la legge e la giustizia sperimentano la propria impotenza, per l’invincibile tentazione contrattuale di cui sono intrise, che fa di ogni rapporto con Dio un consapevole o inconsapevole mercato, dove non il volere, ma il potere di Dio è la merce più ricercata. Ma Dio è stoltezza, scandalo e debolezza… in questo mercato! e la religiosità del credente, come la sapienza dell’ateo, giustamente aborrono un tale scambio!» [Giuliano].

domenica 8 marzo 2009

Come il Padre, figli oltre ogni limite…

Oltre ogni limite
Fa veramente impressione leggere le prime parole che Dio rivolge ad Abramo nel brano di oggi
Se uno non conoscesse la storia precedente e non sapesse chi fosse Abramo non riuscirebbe a coglierne la violenza… Ma noi sappiamo chi era Abramo e chi era Isacco! Noi sappiamo che Isacco era il figlio donato da Dio a dei vecchi a cui l’età aveva tolto ogni speranza di un futuro storico: la morte li avrebbe oramai riportati nell’oblio del tempo, marchiati col ferro rovente di una sterilità esistenziale…
Ma ecco che inaspettati, gratuiti, arrivano i messaggeri di Dio, che ridanno speranza, ridanno vita a delle carni avvizzite… E nasce Isacco, il figlio della promessa e la vita ritorna a sorridere (etimologia di Isacco) anche a chi non ha più denti per poterlo fare con spavalderia…
E allora quanti figli aveva Abramo? Non era necessario essere un dio per saperlo: quanti poteva averne colui che non ne aveva mai avuti? Uno! Ed è già troppo! Forse che Dio non lo sapesse? Ma no! lo sapeva benissimo glielo ha dato lui! E allora che senso ha porre in tal modo un ordine già di per sé disumano? Ma che Dio è un Dio che sembra girare il coltello nella piaga?… Peggio di un avvoltoio che gira intorno alla preda prima di infliggerle il colpo finale, peggio di un gatto che gioca col topo… Dicesse: «Prendi tuo figlio e offrilo in olocausto»!… che già così è “roba da matti”, ma no! Non gli basta e dice “prendi tuo figlio l’unigenito”… e quanti figli aveva Abramo per dover specificare “l’unigenito”? Non contento aggiunge “che ami”… Roba da «padrone» più che da «padre»! A questo punto esplode con tutta la violenza dirompente come un “colpo di grazia” che uccide un nemico già ridotto a brandelli: «Isacco»! Già! ne aveva così tanti di figli Abramo che rischiava di fare confusione...
Umanamente parlando la frase per intero è di una perfidia inaudita: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Come diceva quel film? Dio… «Tu uccidi un uomo morto!»…

Perché tanto accanimento, perché tanta crudeltà? se non fosse Dio a parlare sembrerebbero parole dell’antico serpente… Il serpente già… questo ci rimanda a quello che meditavamo domenica scorsa sulla tentazione… sullo Spirito che butta Gesù nel deserto, tra le braccia di Satana… Come un padre che volendo insegnare al figlio a nuotare lo butta in acqua: o annega o impara a nuotare… o lotta o soccombe! Ek-ballei, dicevamo, è il termine usato per indicare l’azione dello Spirito… “gettare oltre, al di là” del limite… parola imparentata con syn-ballo (simbolo, sacramentum) e con dia-ballo (diavolo)… Simbolo che unisce, diavolo che separa, Satana che accusa, Spirito che ci difende ma “gettandoci oltre”… oltre sé, oltre il proprio limite, oltre i propri spazi, oltre la propria cultura, oltre il proprio corpo, oltre la propria vita, oltre la propria ragione, oltre i propri affetti, oltre i propri difetti… Come il Logos eterno che in Gv 1,1 si getta oltre sé (pròs…), tra le braccia del Padre (…tòn theón)… Lo Spirito “spinge fuori”, come una madre che deve “spingere” per espellere il figlio se vuole farlo nascere, separandolo da sé, separandoci da lei… C’è qualcosa di più violento e di più “cinico” di un parto? Per la madre e per il figlio? Solo la morte gli è paragonabile, infatti è un altro parto…

Ecco come si fa un figlio… devi “gettarlo fuori”, dopo averlo “conservato dentro”… Ecco perché Gesù dice che chi non odia suo padre e sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle i suoi figli e le sue figlie, i suoi averi e persino la propria vita… non può essere suo discepolo (cf Lc 14,26): perché altrimenti non può nascere, nascere come figlio, figlio come lui…

La speranza è il cammino dell’amore! La speranza è ciò che ci consente di camminare nella storia, superandoci continuamente… il rischio per noi uomini è quello di confondere la speranza con il suo “segno”, la promessa col dono, l’alleato con l’alleanza!
Tentati di non essere figli, tentati di non essere padri per rinchiuderci nel dono… tentati di non vivere e di ritornare alle sicurezze di un ventre materno, caldo e accogliente, senza neanche la fatica di doverci procurare il cibo… ma moriremmo avvizziti dentro la pancia di chi ci ha generati! Chissà, forse in realtà il “paradiso terrestre” descritto nella bibbia è la teatralizzazione (le acque, il cibo…) di come ci si trova(va) nella pancia di nostra madre… e da cui siamo stati forzati a uscire, “sentendoci” cacciati! E col divieto di rientrarci!
E allora Dio, per salvarci da morte certa, ci “forza a nascere” (letteralmente è l’espressione usata da Paolo in 1Cor 15,8 per parlare della propria conversione: ek-trómati): ci “spinge” fuori! Sempre, continuamente, oltre.

Proclamiamo nel “Credo” che il Figlio, il Verbo eterno del Padre, è “generato e non creato”… un bel concetto dinamico questo “generato”… chissà allora cosa ci ha portato a concepire la creazione come qualcosa di statico… Noi siamo creati da Dio, ma non per questo siamo stati creati “ieri”… Dio ci crea e ricrea continuamente… come? gettandoci oltre… La vita è un parto continuo (sempre Paolo in Rm 8,22)… Dio non mi ha creato, Dio mi sta creando… L’uomo si fa nella storia e si fa gettandosi oltre, lasciandosi gettare oltre… Questo è il movimento della speranza… Che tanto ottiene da Dio quanto in lui si abbandona (cf San Giovanni della Croce, “…tanto alcanza de él cuanto ella de él espera.”, NO II,21,8)…

Nascere è Esodo, Passaggio continuo. È lasciare quello che si conosce, per andare verso quello che non si conosce, che è come dire che si cresce lasciando la luce per andare verso l’oscurità… E del buio si ha sempre più paura… ecco allora la Parola, come luce e lampada ai nostri passi (cf Gv 1,9; Sal 119(118),105 e luce)… passi che conducono nei cammini bui della storia, per strade e sentieri stretti che non si conoscono perché del Padre!… come Gesù che se da un lato è l’unico che conosce il Padre (Mt 11,27), dall’altro sembra che gli manchi ancora qualcosa da conoscere (Mt 24,36)… E qualcosa gli resterà sempre… Per questo la speranza come l’amore è eterna, non solo perché l’amore tutto spera (1Cor 13,7), ma perché il Figlio sia tale e non si sostituisca al Padre è necessario che si “attenda” dal Padre: per questo lo Spirito intercede, geme, langue, invoca, ama e spera (cf Rm 8,26ss)… Ecco perché ci è nascosta anche l’ora della morte... ci ucciderebbe come figli il saperlo!

In fondo è la stessa esperienza degli apostoli sul monte. Dopo la luce della visione… il giorno sarà apparso più buio… ma fermarsi alla visione — «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne» (Mc 9,5) — vorrebbe dire uccidere la vita… E “costruire capanne” è il movimento contrario all’Esodo: ma perché la vita viva, deve andare oltre, attraversare il Mar Rosso, incontrare il buio della croce. Dell’assurda, ingiusta, stolta, disumana, diabolica, croce… per ritrovare in pienezza la ragionevole, giusta, saggia, umana, divina, vita! Così l’uomo si crea!

Ecco perché il Padre «non ha risparmiato il proprio Figlio» (Rm 8,32) e non ne risparmia mai nessuno! Diversamente dalle nostre madri così iperprotettive da uccidere il figlio e uccidersi come donne. Ma questo e solo questo è amare veramente, e rivela il nuovo volto dell’Amore! E il nuovo modo di dirsi padri, madri, figli, mogli, mariti, fratelli e sorelle!



«Ma intanto ora Dio tentava Abrahamo, e gli dice: Prendi il tuo figlio carissimo, che ami (Gen 22,1-2); non gli era bastato aver detto figlio, ma aggiunge anche carissimo; sia pure, ma perché aggiunge ancora: che ami? Considera la gravità della tentazione: mediante questi dolci e cari nomi, di nuovo e più volte ripetuti, sono eccitati i sentimenti del padre, affinché, essendo ben desta la memoria dell’amore, la destra del padre sia trattenuta nell'immolare il figlio, e tutta la milizia della carne faccia lotta contro la fede dell’anima. Prendi, dice dunque, il tuo figlio carissimo, che ami, Isacco; sia pure, Signore, che tu ricordi il figlio al padre; aggiungi anche carissimo di colui che comandi di uccidere; basti questo al supplizio del padre; di nuovo aggiungi anche che ami; pure in questo siano triplicati i supplizi del padre; ma che bisogno c'è ancora che tu ricordi anche Isacco? Forse che Abrahamo non sapeva che quel suo figlio carissimo, colui che egli amava, si chiamava Isacco? Ma perché si aggiunge ciò a questo punto? Perché Abrahamo si ricordasse che gli avevi detto: In Isacco si chiamerà per te la discendenza, e in Isacco saranno per te le promesse. Viene anche ricordato il nome, affinché subentri la disperazione nei confronti delle promesse che erano state fatte in questo nome» (Origene, Omelie sulla Genesi, VIII,2)

venerdì 19 ottobre 2007

Il sostegno degli altri...

«Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?».
Anche se può sembrare strano, mi sembra utile partire dalla fine… mi spiego… questa domanda sconsolata, posta da Luca sulla bocca di Gesù, chiude il brano di vangelo che la liturgia di questa domenica ci propone e quindi chiude anche la liturgia della parola stessa…
Io invece la utilizzo come esordio perché mi pare che le letture convergano tutte nel tentativo di articolarne una risposta…
Sono 3 gli elementi su cui il libro dell’Esodo, la Lettera di san Paolo a Timoteo e Luca 18,1-8 pongono la nostra attenzione:
1- il sostegno degli altri;
2- le Sacre Scritture;
3- la preghiera.
A Gesù e con Gesù risponderei che troverà ancora la fede sulla terra, se l’uomo saprà lasciarsi sostenere dai suoi fratelli e sorelle, lasciarsi scrivere la vita dalle Scritture e lasciarsi incontrare dal Tu di Dio.
Più precisamente…
La prima lettura (Es 17,8-13) ci presenta la situazione di Israele che scende in battaglia contro il nemico, in questo caso gli Amaleciti. Al di là delle questioni storiografiche a noi interessa la rilettura teologica della storia che gli autori di Esodo hanno prodotto: non si può (né ha senso) ricostruire quale sia la realtà storica che c’è dietro a questo bastone, che, alzato, ha il potere di fare di Israele il più forte, o alle parole che Dio direbbe a Mosè: «Scrivi questo in un libro perché non sia mai dimenticato; di' a Giosuè: Io voglio annientare gli Amaleciti; nessuno sulla terra si ricorderà più di loro!» (v. 14, che forse per custodire le orecchie sensibili del lettore di oggi, il liturgista omette…).
L’attenzione deve andare infatti al fatto che chi scrive questo brano crede nella potenza efficace di Dio nella storia, nella mediazione dell’uomo (Mosè in questo caso) e soprattutto – quello che interessa maggiormente noi oggi – chi scrive sembra credere (almeno in questo caso) nel fatto che né la potenza di Dio, né la mediazione mosaica avrebbero ottenuto “l’effetto sperato”, se Aronne e Cur non si fossero messi lì a tener su le braccia di Mosè.
Sinceramente immaginarsi la scena fa anche un po’ sorridere, ma immediatamente ci riporta alla nostra vita… Quante volte vorremmo che qualcuno tenesse su il nostro bastone… quante volte crediamo nella potenza efficace di Dio nelle battaglie della nostra vita, della Chiesa, del mondo. Quante volte ci sentiamo come Mosè, protagonisti della buona riuscita della battaglia (penso alle tante persone che si mettono nelle nostre mani… ai nostri poveri…)… Ma quante volte tutto è troppo pesante… e le braccia ci cadono…
E il rischio è che con le braccia e il bastone abbassato la battaglia che si perde è proprio quella della fede: «Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?». Troverà ancora l'uomo disposto a dar credito al fatto che la vita evangelica che proviamo a vivere sia veramente vitale? Troverà chi crede ancora che ne valga la pena?
Per quanto mi riguarda, il Figlio dell’uomo mi troverà ancora con la fede solo se i miei fratelli si metteranno lì a tenermi su le braccia.
E in questa linea anche l’invito incalzante di Paolo a Timoteo mi sembra proprio la scena di un fratello che “tiene su le braccia” all’altro: «Carissimo, rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le Sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza».
Il Figlio dell’uomo troverà ancora la fede sulla terra se l’uomo resterà saldo in quello che ha imparato e di cui è convinto… Cosa sappiamo? Di che cosa siamo convinti? E perché? Sappiamo le Sacre Scritture, lo loro logica, il loro istruirci per la salvezza (che per Paolo è Gesù: «La salvezza si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù»). Ne siamo convinti perché sappiamo da chi abbiamo appreso questa verità: e ognuno ha il suo/i suoi volti che l’hanno convinto di quella che poi è diventata la verità della vita.
Paolo allora, con la sua passione, ci invita a custodire un secondo elemento fondamentale perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra: la saldezza nella Parola di Dio, essa «infatti è […] utile […] perché l’uomo di Dio sia completo». Completo, cioè pieno, compiuto… in una parola cristico!
E questa saldezza nella Parola, questo radicamento in essa, questo rimanervi avvinghiati, se serve, anche con le unghie, è talmente pregnante per Paolo che addirittura scongiura Timoteo «davanti a Dio e a Cristo Gesù» di annunciarla in ogni occasione!
E infine… il Vangelo…
Una delle chiavi di lettura di questo brano è la necessità della preghiera (necessità perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra…): «In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare».
La preghiera in Luca è un tema che spesso riaffiora (cfr in particolare Lc 11,1-13) e anche Gesù è presentato spesso mentre prega (cfr 3,21; 5,16; 6,12; 9,18ss; 22,45).
Senza addentrarmi troppo in questo tratto del volto lucano di Gesù, ciò che mi colpisce è la precisazione «senza stancarsi». Essa può avere anche il senso di senza scoraggiarsi, senza farsi cadere le braccia (appunto)…
In proposito mi ritornano alla mente le parole di Teresa di GB: «Voi però, o Signore, conoscete la mia debolezza: ogni mattino prendo la risoluzione di praticare l'umiltà e alla sera riconosco che ho commesso ancora ripetuti errori di orgoglio. A tale vista sono tentata di scoraggiamento; ma capisco, anche lo scoraggiamento è effetto d’orgoglio. Voglio quindi, mio Dio, fondare la mia speranza su voi solo».
Teresina ha capito che l’unico modo per perseverare senza scoraggiarsi (l’unico modo perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra) è non fondarsi su se stessi, sulle proprie opere, sulla propria volontà… perché prima o poi le braccia cadono… ma fondarsi su Dio (sulla sua Parola, sulla relazione con Lui, che poi è la preghiera) intrecciati inestricabilmente ai fratelli.

domenica 3 giugno 2007

di Pasqua in Pasqua

Proprio perché, come scrivevamo, il senso del nostro agire (umano-cristiano-missionario), è dato dall’orientamento del nostro camminare nella nostra storia concreta, sia come singoli che come collettività, diventa vitale la domanda sull’origine del viaggio stesso. Affinché il nostro camminare non sia un “girovagare senza meta” o un “girare su se stessi” ma tragga dallo stesso avanzare la forza per sostenere la “fatica del viaggio”.
Come una barca in mezzo al mare, sbattuta dalle acque e senza una striscia di terra all’orizzonte che possa farne intravedere l’arrivo, occorre “fare il punto” della fede, sulla mappa della storia, per vedere a che punto siamo del tragitto e se, sballottati dal vento e dalla tempesta dei problemi della nostra vita, non ci siamo involontariamente allontanati dalla meta, come “smarriti nei pensieri dei nostri cuori” appesantiti dal quotidiano tran-tran dell’esistenza.
La meta non dobbiamo inventarcela, dobbiamo solo tracciare la rotta, nel mare senza strade e pieno di pericoli della vita, della “mia vita concreta”. Altri ci hanno preceduti, alcuni hanno fatto da “apripista” e taluni si sono accodati, molti sono già arrivati, altri ci seguono, altri ancora stanno partendo… Altri, forse i più, vorrebbero partire, ma timorosi, stanno a guardare se noi non… affondiamo!
L’unica nostra preoccupazione, per ora, deve essere però quella di vedere se siamo nella “direzione” giusta, se siamo ancora “in rotta”!
Per questo resta importante fissare lo sguardo là dove il viaggio è iniziato, per noi, per tutti, e cercare di vedere quale itinerario è stato percorso e perché, da coloro che ci hanno preceduti nel viaggio della fede e hanno “saputo” arrivare a destinazione.
E iniziamo allora là dove questo cammino ha cominciato nella storia dell’umanità.
Dove? A mio modesto avviso la “storia” ha inizio esattamente “qui”:

Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l'Hittita,l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora và! Io ti mando dal faraone. Fà uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!».
Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall'Egitto gli Israeliti?». Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte».
Mosè disse a Dio: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono/sarò!». Poi disse:«Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi». Dio aggiunse a Mosè:«Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.
Và! Riunisci gli anziani d'Israele e dì loro: Il Signore, Dio dei vostri padri, mi è apparso, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, dicendo: Sono venuto a vedere voi e ciò che vien fatto a voi in Egitto. E ho detto: Vi farò uscire dalla umiliazione dell'Egitto verso il paese del Cananeo,dell'Hittita, dell'Amorreo, del Perizzita, dell'Eveo e del Gebuseo, verso un paese dove scorre latte e miele.
Essi ascolteranno la tua voce e tu e gli anziani d'Israele andrete dal re di Egitto e gli riferirete: Il Signore, Dio degli Ebrei, si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto a tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore, nostro Dio. Io so che il re d'Egitto non vi permetterà di partire, se non con l'intervento di una mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l'Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo egli vi lascerà andare.
Farò sì che questo popolo trovi grazia agli occhi degli Egiziani: quando partirete, non ve ne andrete a mani vuote. Ogni donna domanderà alla sua vicina e all'inquilina della sua casa oggetti di argento e oggetti d'oro e vesti; ne caricherete i vostri figli e le vostre figlie e spoglierete l'Egitto»

Avrei dovuto scrivere tutto il libro dell’Esodo, alla cui lettura integrale rimando, ma non potendo, ho voluto qui riportare per esteso almeno il brano che è capitale per comprendere il cammino che intendiamo intraprendere perché vi è descritta l’esperienza primordiale e fondante di ogni esperienza di Dio, di ogni vocazione.
Siamo qui al capitolo 3° del libro dell’Esodo dove, nelle varie versioni della Bibbia, si dice che qui si tratta della vocazione di Mosé, ma stiamo attenti a non lasciarci ingannare, qui più che la vocazione di Mosé c’è la descrizione, passatemi il termine, della “Vocazione di Dio” e in quella di Dio, quella di Mosé e del popolo di Israele, di Gesù e dei suoi discepoli… Della nostra e quella di ogni uomo e donna.
Israele stesso ne è come positivamente “ossessionato”… E noi con lui… Bisognerebbe ritagliare il brano e incollarlo su un cartoncino per farne come un “segnalibro” tra le pagine della Bibbia per averlo continuamente sott’occhio ogni volta che leggiamo un qualunque altro brano. Non c’è infatti praticamente un solo passo della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, che in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente non vi faccia in qualche modo riferimento…
Tutta la storia di Israele, la predicazione dei profeti, la sua preghiera e il suo culto, le immagini e i simboli della Bibbia stessa (fuoco, acqua, vento…), hanno la preoccupazione di “dilatare” nella storia questo avvenimento di liberazione e di attualizzarlo rendendolo “visibile” facendone continuamente memoria. Così che, in un continuo rinvio circolare, (ri)attualizzandolo, ne (ri)comprende sempre meglio la infinita ricchezza della sua manifestazione.
Gesù stesso vi farà continuamente riferimento prima e dopo la resurrezione: in quanto ne è “l’ispiratore” (Gesù è Dio in quanto Figlio del Padre) e colui che lo porta a compimento realizzando definitivamente nella propria umanità ciò che in Mosé il Padre ha iniziato nella storia dell’umanità. E, in quanto “corpo di Cristo”, la Chiesa stessa (e la sua missione), non può esistere e capirsi se non in questa stessa dinamica. Il cristiano cioè, non può comprendere la propria missione e identità se non a partire, a imitazione di Gesù Cristo, dalla figura di Mosé e dalla storia di liberazione che ne segue(vedi nota), diventandone “vivente epifania”.


La Pasqua come avvenimento di liberazione e inaugurazione di una vita nuova, è, e resta, nella sua continuità e nella sua diversa compiutezza, l’avvenimento fondante sia per il cristiano che per l’ebreo. E a questa vita nuova, nella assunzione responsabile della libertà, rimanda tutta l’azione di Dio nella storia come descritta dalla tradizione biblica. E nuove, nel suo rinnovato significato, appaiono anche le “parole” ivi contenute.
Ad esempio, ma è solo veramente un piccolissimo esempio, parole “positive” come: libertà, figlio, amico, salvezza, riscatto, redenzione, guarigione, dono, grazia, amore, promessa, terra, popolo, Alleanza, fede, speranza, carità, avvocato, testimonianza, perdono, cuore, coscienza, anima, s/Spirito, Signore, dono, ascesi, vita, creazione, “Legge”, “comandamenti”… E naturalmente il loro contrario “negativo” come: schiavitù, servo, dannazione, malattia, odio, vendetta, peccato, fallimento, infedeltà, disperazione, morte… non possono essere comprese in modo adeguato nel loro autentico senso biblico se non all’interno della prospettiva inaugurata da questo avvenimento di liberazione ivi descritto. E questo è vero sia per l’Antico che per il Nuovo Testamento. Sia nell’esperienza credente del popolo di ebraico che nell’esperienza credente del popolo cristiano.
Infatti essa non fa altro che rimandare, come declinazioni storiche in un crescendo di attuazione e rivelazione, a quest’avvenimento fondamentale in cui Dio si manifesta come Liberatore e quindi conseguentemente nell’agire come tale, Creatore del suo popolo e per questo Signore della storia. Ed è da qui che deve “partire” ogni autentica vocazione missionaria…
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nota: Ricordo qui un solo esempio per il prima: l’episodio della Trasfigurazione (Lc 9,30; Mc 9,4; Mt 17,3) e per il dopo: l’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,27).

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