La prima lettura che la liturgia ci propone per questa Terza Domenica di Quaresima, è tratta dal libro dell’Esodo e propone il cosiddetto Decalogo, ossia i dieci comandamenti che Mosè ricevette da Dio sul Sinai.
È un testo molto noto e i cui commenti si sprecano, anche se ancora troppo diffusamente nella mentalità comune – rispetto a questo testo – si ha l’istintiva sensazione di trovarsi di fronte ad un elenco vuoto, dal suono sordo… che davvero poco ha da dirci…
Un po’ come la famosa battuta di un calciatore dell’Italia, durante la polemica sull’Inno nazionale che non veniva cantato a inizio gara dagli atleti… perché non lo conoscevano… Disse: “Sì, ma questo è un testo difficile, che non si capisce nemmeno bene che cosa voglia dire… Per esempio ‘Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa’ che vor dì?”…
Già… “Che vor dì?”…
Che vor dì “Non avrai altri dei all’infuori di me”?
E perché lì c’è scritto: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti»?
Perché, cioè, a noi è arrivata una versione stringata e svuotata del testo biblico, in cui i 10 comandamenti sono diventati solo un elenco da imparare a memoria? Un po’ come i doni dello Spirito Santo, che vanno imparati, perché se no poi il vescovo quando viene a farti la Cresima te li chiede e se non li sai, niente sacramento?
Che vor dì? Perché?
Quante domande…
Sono le domande!
Quelle che chi vuole uscire dalla condizione di “uomo/donna di cultura cristiana” (in cui la storia ci ha relegato) per accedere a quella di discepolo/discepola del Signore, deve porsi... le medesime a cui bisogna anche tentare di rispondere…
Non voglio certo farlo io, ora: è un itinerario non esauribile in un foglio… Ma bisogna che iniziamo a pensare a come vogliamo stare sulla scena di questo mondo: se come cattolici per cultura (che sanno a memoria i 10 comandamenti allo stesso modo di come sanno a memoria l’Inno di Mameli) o se come figli del Dio dell’alleanza…
Perché è proprio di questo che si tratta nel Decalogo: del Dio dell’alleanza.
Il testo infatti inizia con un’ annotazione storica: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile». Essa non è un’annotazione stilistica o marginale; anzi, racchiude il senso stesso di tutto quanto segue: proprio perché c’è una storia di salvezza, una vicenda di liberazione, una relazione di custodia, Dio è il Dio del popolo.
Solo per questo hanno senso una legge e un culto, da non intendere come mere pratiche vuote, ripetizioni di gesti o parole magiche – che funzionano senza adesione del cuore; non si tratta di un tentativo di ingraziarsi o imbonirsi la divinità.
Molto di più: la legge è il consiglio che Dio (che ama il popolo e lo ha mostrato fattivamente nella storia liberandolo) dà perché il popolo sia felice (non per soggiogarlo! Che è l’eterna tentazione, come ci rivela il mito di Genesi 3, quello del peccato originale); e il culto è l’esplicitazione gestuale, vocale e rituale di quella relazione originaria che fonda la vita: proprio perché Dio è Colui che ha condotto fuori dall’Egitto il popolo, proprio perché cioè Dio è Colui col quale c’è una storia di reciproco disvelamento e affidamento, sono necessarie le mediazioni simboliche (culto) che permettono la relazione.
Ecco perché l’idolatria è considerata il peccato più grave del popolo: essa non è, come a volte capita di pensare a noi occidentali, una forma scaramantica nei confronti di statuette di poco conto, ma la scelta di fondare la propria vita su ciò che fondatezza non ha, su ciò che – anche linguisticamente – evoca l’inconsistenza, l’evanescenza, l’insignificanza («Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni! Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida!», Sal 115).
Il libro dell’Esodo ribadisce dunque l’unicità della relazione d’alleanza («io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo», Ger 7,23; 11,4; 30,22; Ez 36,28) e la necessità di un’autentica mediazione simbolica che la custodisca e la alimenti.
Anche il vangelo focalizza la sua attenzione in questo senso: «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”».
In esso la questione sembra allargarsi, o meglio approfondirsi: la problematica infatti non è più solo quella della necessità di un’autentica relazione con il Dio dell’alleanza, ma quella di una legge e di un culto codificati, eppure essi stessi idolatrici. La religione ufficiale non è più uno strumento che facilita l’accesso al vero volto di Dio, ma diventa un ostacolo: propone un volto di Dio, che non è il suo; è idolatrico, appunto.
Non si tratta certo di una tematica sconosciuta al Primo Testamento (basti pensare a cosa diceva Isaia di sacerdoti e profeti al capitolo 28,7: «Sacerdoti e profeti barcollano per la bevanda inebriante, sono annebbiati dal vino; vacillano per le bevande inebrianti, s’ingannano mentre hanno visioni, traballano quando fanno da giudici»; o al capitolo 30,9-11: «Questo è un popolo ribelle. Sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. Essi dicono ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni! Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo d’Israele”»; o Geremia, al capitolo 2,7-8: «Io vi ho condotti in una terra che è un giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti, ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra e avete reso una vergogna la mia eredità. Neppure i sacerdoti si domandarono: “Dov’è il Signore?”. Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano»), ma che certamente nella risposta di Gesù trova un’evoluzione sorprendente e scandalosa.
Gesù infatti compie un gesto fortissimo («Fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”»), ma in modo più radicale ancora usa parole di spiegazione sconcertanti.
Infatti, alla richiesta di spiegazione dei Giudei – che in questo versetto 18 del capitolo 2 si oppongono per la prima volta a Gesù, ma d’ora in poi diventeranno i suoi oppositori abituali e che qui indicano sicuramente i custodi del tempio – («Quale segno ci mostri per fare queste cose?»), risponde: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Alla domanda, cioè, sulla sua εξουσία (exusìa), sull’autorità con cui compie il gesto simbolico della purificazione del tempio, Gesù risponde rimandando al suo corpo («egli parlava del tempio del suo corpo»):
«C’è una autorevolezza che viene dalla verità interiore di una persona, il fascino dell’autenticità, che tutti attorno sentono, alcuni accogliendola come un dono e uno stimolo, altri rifiutandola come un rimprovero o una sfida. Uomo compiuto, uno lo può essere soltanto diventando progressivamente quello che è, perché si è costruito così fin dall’inizio, orientando i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole nella costante, faticosa e gioiosa, fedeltà del processo della vita, a partire dall’istintualità infantile congenita in noi, in ascolto della “voce” che lo chiama da dentro – nella sua piccola nicchia socioculturale che lo permea da fuori.
Se lo sdegno della passione talora esplode, è sempre per la difesa dei diritti altrui violati o vilipesi, non per sé, perché non ha bisogno di difendere se stesso, confortato interiormente dalla testimonianza viva della verità. Allora il suo corpo, luogo, strumento e materia del crearsi dell’identità personale, da minuscolo germoglio di carne a uomo compiuto, è diventato la creta dove l’antica immagine di Dio ha trovato espressione, dove il progetto va compiendosi, la casa dove il Padre è venuto ad abitare, ormai indistruttibile, perché impregnata dal suo amore.
Gesù, erede della millenaria storia di Israele, è l’ebreo compiuto che ne incarna l’anelito ininterrotto di cercatori e ascoltatori della parola di Dio. Finché questo cammino non è terminato, e morte e risurrezione non hanno ancora sigillato l’alleanza nuova nel suo corpo, l’antica casa di Dio, il tempio, doveva servire solo alla preghiera incessante, che implora nell’attesa dell’“eletto”, nel quale Dio potesse finalmente compiacersi. Gli idoli non devono assolutamente profanare la casa del Padre, tanto meno il dio alternativo, che è mammona, il denaro, il mercato – la svendita dell’amore!
[…] Gesù rifiuta apparentemente la provocazione dei giudei (e dei credenti di ogni tempo) che chiedono segni, ma di fatto la esaudisce, prevedendo e lasciando che la logica perversa del rifiuto dell’amore distrugga il suo corpo: Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra (Mt 12,40). Questa forza interiore di fedeltà assoluta all’amore è la sua vera “autorità”, contro la quale ogni potere spezza le sue armi, pur sicure di poterlo vincere! e dimostrando proprio con questo, che l’amore, che sembra inerme e disarmato, di fatto è invincibile… nella sua impotenza! Ed è proprio per questo che il corpo di Gesù umiliato, torturato e ucciso, diventa la nuova vera abitazione, il vero tempio di Dio, che è amore! E qui, in questo luogo sacro, il Padre scende a compiacersi di trovare chi ha ascoltato la sua parola fino a diventare, come Dio, amore. Un corpo di carne che diventa amore è il luogo di Dio, è divino!
… il nuovo tempio del culto di Dio è dunque il corpo dell’uomo, attraverso un passaggio, una pasqua, che proprio per renderci capaci di questo amore abissale, passa attraverso il dono “fisico” della vita, e scende come ogni corpo nel ventre della terra. L’osservanza radicale e compiuta della legge, pallida immagine del progetto di Dio sulla natura e sulla storia, porta fino a questa soglia, non può andare oltre. È esterna all’uomo, scritta su lastre di pietra, non ancora incisa sul cuore degli uomini. Giudei, che si fidano solo di segni divini, e greci, alla ricerca di una superiore sapienza umana, sono parimenti bloccati di fronte a questa soglia. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. La maturità cristiana è il lungo cammino, alla sequela di Cristo, per fare del proprio “corpo di carne” il tempio, il luogo di “riconoscenza” del Padre, dove la legge e la giustizia sperimentano la propria impotenza, per l’invincibile tentazione contrattuale di cui sono intrise, che fa di ogni rapporto con Dio un consapevole o inconsapevole mercato, dove non il volere, ma il potere di Dio è la merce più ricercata. Ma Dio è stoltezza, scandalo e debolezza… in questo mercato! e la religiosità del credente, come la sapienza dell’ateo, giustamente aborrono un tale scambio!» [Giuliano].
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