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giovedì 27 marzo 2008

Gesù risorto: l'accessibile anche a chi non c'era

Le letture che la Chiesa ci propone per questa II domenica del tempo di Pasqua sembrano tutte indirizzate ai discepoli di seconda, terza… millesima mano… cioè a quelle generazioni, e quindi anche a noi, che non hanno incontrato Gesù nel volgersi della sua drammatica storica, ma che gli hanno creduto quando ormai la sua vicenda terrena si era conclusa.
Sono quei discepoli, quei cristiani, che come noi hanno il problema, nel credere, di doversi affidare, almeno inizialmente alla parola di qualcun altro, senza vedere…
Ed infatti la questione radicale che sta sotto ai testi della Chiesa nascente è proprio quella di coloro che non hanno visto. È possibile per essi credere? E, dato che credere è incontrarsi col Signore, è possibile ora, dopo la sua morte e risurrezione, che questo avvenga?
La risposta unanime negli scritti del Nuovo Testamento, e ne sono una prova i testi che la liturgia ci offre oggi, è “Sì! Sempre e in ogni luogo è possibile accedere alla libertà di Gesù il Cristo e intrecciare con essa la propria”.
È innanzitutto il vangelo a mostrare questa convinzione: infatti nell’episodio dell’incredulità di Tommaso, episodio che sembra proprio costruito ad hoc da Giovanni per i suoi lettori che non avevano incontrato Gesù in carne ed ossa, vi è l’emblematica frase: «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
È una beatitudine! E come tutte le beatitudini a noi pare un po’ paradossale («Beati i poveri»; «Beati gli afflitti», «Beati i perseguitati»…): a noi infatti a volte scappa detto proprio il contrario: “Beati quelli che hanno visto, che erano là”; oppure “Ah, se io fossi stato là…”. E invece il vangelo no, ha una prospettiva tutta diversa, tanto che non solo dice che anche per noi è possibile l’accesso al Risorto, ma addirittura delinea la nostra come una condizione privilegiata: «Beati!».
E in questa unione di credere-senza-vedere e situazione-di-beatitudine, il vangelo non è una voce fuori campo. Gli fa eco infatti lo stesso Pietro, quando nella sua I lettera (cap. 1, v. 8) dice: «Voi lo [Gesù Cristo] amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa».
Anche questa citazione è infatti una conferma della convinzione, che percorre tutto il NT, della possibilità reale per l’uomo di sempre di essere cristico, cioè intrecciato, nella sua individualissima libertà, con quella del Cristo. E questo ha una portata grandissima, che non si può permettere a nessuno di ridimensionare: non si tratta infatti semplicemente della possibilità di essere “buoni cristiani”, di sperare anche noi di andare in paradiso tentando di comportarci più bene che riusciamo in questa vita…
La possibilità di entrare in relazione vera con il Signore, di costruire insieme a lui la vita, ha infatti una valenza ben più determinante: è ciò che nobilita l’uomo, che lo fa veramente uomo, che gli permette di vivere una vita degna di questo nome: «perché credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Se l’annuncio è che da me personalissimamente il Signore si fa incontrare, che è con me, nella mia individualità singolarissima, che vuole intrecciare il suo Spirito… beh… questo davvero mi libera: mi libera dalla sindrome di “quello arrivato dopo, senza possibilità di rimedio”, mi libera dal bisogno di riferirmi ad altri – a un’istituzione, ai suoi modelli etici e ai suoi percorsi spiritualistici – per raggiungere il “divino”; mi aiuta anzi a ricollocare nel suo giusto posto l’autorità come colei che salvaguarda il mio incontrarmi col Signore, indicandomi criteri di autenticità, mai troppo vincolanti per evitare di soffocare la creatività dello Spirito; mi libera da una mediazione gerarchica intesa come custode di un mistero a me inaccessibile; mi libera dalla mia inadeguatezza, dal mio peccato, dalle mie miserie, come limiti per un incontro reale… infatti come ci ricorda Paolo nella lettera agli Efesini: «Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6).
Questa prospettiva allora, delineata in tutto il NT di una possibilità reale, per tutti, sempre e dovunque, di un accesso al Signore, ha un respiro grandissimo: è l’insperata incredibile possibilità di parlare io con Dio, di stargli io di fronte, di amarlo io in tutto quello che sono, e non come un numero, uno dei tanti casi della storia, uno dei tanti nomi dell’elenco dei battezzati…
È questo l’elemento affascinante dell’annuncio cristiano, che pone appunto i credenti in Cristo su un altro piano qualitativo rispetto agli appartenenti alle altre religioni: qui la sostanza non è l’adesione a dogmi, la coerenza a codici morali, l’assolvimento di precetti (tutte cose seconde)… la sostanza è la possibilità di un rapporto personale con Gesù risorto; un rapporto che mi fa pienamente me stesso, mi tira fuori le radici profonde e vitali del cuore, mi dà vita, mi fa zampillare le sorgenti dell’anima, mi fa scoppiare d’amore.
È questo l’annuncio esplosivo dei testi di oggi: che questo è possibile per me e per ciascuno, sempre.
Essi si limitano a questa lieta notizia: è possibile anche per chi non era là in quei 30 anni incontrare il Signore e con Lui «mischiarsi la pelle, le anime, le ossa»!
Si limitano all’annuncio, non spiegano le modalità di questo accesso: sono altri infatti i brani in cui gli autori si scatenano su questa prospettiva (in particolare Lc 24, dove nell’episodio dei discepoli di Emmaus sono indicate come vie di accesso all’evento Gesù la Parola, la mensa eucaristica e l’accoglienza dell’altro).
Eppure, pur non indagando la modalità di realizzazione di questo incontro col Signore risorto, anche il Vangelo di Giovanni dà qualche segnale per l’autenticità di questo rapportarsi:
- Per prima cosa la pace; come Gesù aveva chiesto di fare ai suoi discepoli mandati in missione «In qualunque casa entriate, prima dite: Pace» (Lc 10,5), così si presenta anche lui: «Pace a voi!». È il primo segnale che Giovanni pone per l’autentico incontro col Signore: è portatore di pace! Non in quell’accezione semplicistica che la intende come assenza di guerra, ma in quella pregnante che le dà l’intonazione ebraica, dove pace è ben-essere, è vita buona, è Vita!
- In secondo luogo i segni della crocifissione. È questo l’altro segnale potente e drammatico dell’incontro vero col Signore: egli è il crocifisso! È il trafitto dalla morte perché ha agito solo con l’amore, che per sua natura rende feribili. Se quello con Lui non è un incontro drammatico, che porta cioè il dramma della vita toccata dal male, non è un incontro vero: non è Lui. Tant’è che su questo Tommaso è acutissimo… e l’unica condizione che pone alla sua fede non è un miracolo, un discorso, un abbraccio, un essere chiamato per nome, da Gesù, ma proprio i segni della sua passione: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». È questa l’identità che Gesù pretendeva gli riconoscessero e che invece li aveva fatti scappare tutti… è questa l’identità con cui aveva chiesto di essere ricordato («fate questo in memoria di me»)… e Tommaso ormai lo sa… o è il crocifisso, o non è Lui. Per noi dunque, discepoli di ogni tempo, un secondo segno di autenticità nell’incontro col Signore è proprio questo: ci coinvolge in una storia che, proprio perché vive l’amore, porta in sé inestricabilmente anche una tragicità, una vulnerabilità, una passione ineludibili.
- Infine il dono dello Spirito, del suo Spirito, che è appunto il dono di sé, la possibilità stessa di questo incontro con Lui.
Un incontro, abbiamo detto, personalissimo, tanto da travalicare qualsiasi barriera istituzionale, gerarchica o autoritaria; ma non solipsistico, anzi abilitante nuovi rapporti tra gli uomini. Sembra paradossale che una cosa tanto mia, da riguardare solo me (e il Signore) vada ad intaccare anche il mio rapportarmi agli altri. In realtà è vero il contrario: è proprio solo perché coinvolge me nella mia presenza a me stessa più intima, che coinvolge di me anche il mio esser-ci con altri. Infatti è solo la libertà abilitata dall’incontro col Signore che permette di vincere la paura della morte (è vinta: «È risorto!») e con essa l’istinto di sopravvivenza che fa l’altro rivale, nemico, pericolo. È solo l’effervescenza della Vita che il relazionarsi con Lui suscita, che ci permette di guardarci come fratelli e dunque di essere: «perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere»; di stare insieme, avere ogni cosa in comune, vendere le nostre proprietà e sostanze e dividerle con tutti, secondo il bisogno di ciascuno; di essere: «ogni giorno perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case» di prendere «cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo».
E se questa certo è la descrizione idealizzata della comunità cristiana, essa però non può semplicemente essere relegata nel campo della mitologia… del “sarebbe bello, ma è impossibile”… se i nostri rapporti sono così lontani da questa realtà è perché difettiamo di conformazione a Cristo: più saremo cristici e più saremo fraterni… e viceversa… con buona pace di chi ama mettere incensi, latino e mediazioni gerarchiche tra sé e gli altri… per sentirsi più vicino a dio…

sabato 20 ottobre 2007

Fra il credere e il pregare: quale Dio?


… c’è un Dio che ha fatto uscire Abramo dalla sua terra, con grandi promesse, senza dirgli dove doveva andare… c’è un Dio che ha mandato Mosè a guidare il popolo nell’esodo dall’Egitto, ed è finito errando nel deserto senza più trovare l’uscita… un Dio che guarda se Mosè tiene le braccia alzate, per sconfiggere gli Amaleciti… C’è il Dio che fa costruire un Regno “eterno” a Davide, e poi abbandona Gerusalemme, la città della pace, alla distruzione e lascia deportare il suo popolo in esilio, senza più re, né sacerdote, né tempio, né legge, né profeta… Tutti costoro e l’immensa processione dei profeti e dei poveri di Jawhé hanno imparato a credere, vedendo barlumi di epifanie di Dio, e poi hanno imparato soprattutto a pregare per “consentire” …a ciò che non capivano. Gesù, in un paese senza speranza, ha rivissuto nella sua avventura umana la storia del suo popolo, credendo nella benevolenza paterna di Dio sia quando ascolta e si manifesta con forza e potenza, tra lo stupore e la simpatia di discepoli e delle folle che lo seguono… sia quando poi ha sofferto l’angoscia e la solitudine, profetizzando l’abbandono e il tradimento e la morte, alla fine del suo viaggio verso Gerusalemme - dove Dio stesso lo abbandonerà sulla croce.
Le Scritture, raccontano questo lungo cammino della fede e della preghiera dell’uomo fino a lui, “per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia…” l’ uomo di Dio completo” l’uomo che davvero ha creduto nel Padre e a lui e totalmente si è affidato, “con forti grida e lacrime”: Gesù! È infatti “per mezzo della fede in Gesù Cristo” che la chiesa primitiva, dopo lo scandalo della sua morte, ha imparato a comprendere le Scritture e trovarne il compimento. E così scoprire la dinamica tra credere e pregare: la luce e il sale della propria avventura ‘cristiana’ nella storia.
pregare sempre… : quale Dio!?
Luca, che fa della preghiera il respiro del suo Vangelo, ci ricorda l’esempio di Gesù e il suo insegnamento sulla preghiera, una ventina di volte (e poi i suoi discepoli impareranno bene dal Maestro, perché nel racconto degli Atti se ne parla una cinquantina di volte!). Questa pagina, della vedova ostinata e del giudice iniquo (come poi subito dopo del fariseo e del pubblicano), in poche righe ci presenta un’analisi sconvolgente e drammatica dell’avventura della preghiera… Il dramma della vedova è il dramma di ogni disperato, credente o no, di ogni povero, di ogni anima inascoltata… C’è nella lotta di questa vedova irriducibile la sorpresa di un antagonista inaspettato. Il personaggio che nella minuscola parabola tiene il posto di Dio, stavolta non è un padre misericordioso, un pastore affettuoso, una massaia volonterosa…. É: un giudice malvagio, “che non teme Dio e non ha rispetto per nessuno…, È questo “ente” terribile, cinico e sprezzante, che secondo Gesù, bisogna snidare dalle caverne del nostro cuore, ove abita da sempre, ma abusivamente, al posto del vero Dio, lì forgiato e mantenuto dalle paure e dalle angosce dei nostri antenti, dai nostri deliri frustrati, come un’immagine dilatata e deturpata del nostro io personale e collettivo, tradito e incattivito dalle speranze inappagate, e amareggiato dal troppo dolore inutile del mondo. Ecco perché ce lo raffiguriamo come un Moloch, indifferente alla preghiera più ostinata e insistente – impassibile perfino davanti alla sofferenza degli innocenti, che divora. Tutta la nostra lettura della storia è fuorviata ed equivocata da questo antagonista insensibile e ingiusto. Il Dio che vive dentro di noi e che tutti in qualche momento preghiamo (pur lamentando la sua indifferenza) è come questo giudice - senza religione e senza pietà… proprio quando ne avremmo diritto. Quanti gemiti, rifiuti e ribellioni gli uomini hanno lanciato nei millenni verso questo dio, disarmati di fronte a lui, che ha tutti i poteri, ma non gliene importa niente di noi! Siamo noi la vedova abbandonata senza appoggio di nessuno, senza un dio che davvero protegga ed esaudisca coloro che nessuno più accudisce, ai quali nulla più rimane fuorché una ostinazione invincibile … Oppure l’abbandono della partita, per ateismo o agnosticismo. … a meno di prendere l’altra strada, suggerita da Gesù : cambiare il volto di Dio!
pregare… un dio duro a morire
… questo Dio resiste a lungo a chi prega… Le volonterose ma fragili costruzioni delle nostre teodicee sulla bontà di Dio e le sue premure paterne per i piccoli che gridano a lui, si sfasciano e ci crollano addosso… Basta avere il coraggio di ammettere quello che abbiamo davanti agli occhi, e costatare che questo dio non ascolta affatto il povero che lo invoca, lascia morire di fame e di oppressione gli innocenti, e lascia fare il male a chiunque lo voglia… La bestemmia è già pronta nel cuore, anche ai più santi di noi… o almeno, se per un tale dio non esiste misericordia – bisogna trovare il coraggio di restituirgli dignitosamente il biglietto da visita, come l’Ivan di Dostojevski … non mi interessa più, non voglio aver più niente a che fare con lui! Gesù vuol portare il suo discepolo con sé, a questa barriera estrema oltre la quale inoltrarsi, per continuare a pregare… cioè per imparare a credere non in un dio fatto da noi, ‘manufatto’ per difendere i nostri interressi e progetti… ma nel Padre misterioso che solo lui ha conosciuto - e quelli ai quali vuole rivelarlo. Che fatica, togliere a questo dio la maiuscola abusiva!
pregare … senza incattivirsi
… si può tradurre anche “ senza scoraggiarsi”, o “deteriorarsi” – atteggiamenti, tutti, che indicano chiaramente il riscontro dell’esperienza che Gesù ha visto in tanta gente, che si è stancata di domandare ascolto a un sordo, si è demoralizzata e poi si è inacidita… Senza più un volto, nel cuore, a cui parlare, in cui sperare! Allora riemergono tutti i mostri di Dio che la paura e l’angoscia covano dentro di noi, e ci lacerano e ci incattiviscono…
Resistere nella preghiera, resistere a questa corrosione delle nostre impalcature religiose, senza indurire, ma temprandosi (Etty Hillesum)… non è per conseguire poi l’esaudimento miracoloso di qualche richiesta, che cambi a nostro vantaggio i destini del mondo, ma per vivere la profezia di Gesù, che ha promesso a chi lo implora senza stancarsi (senza incattivire), il suo Spirito, lo spirito che fa vivere Dio stesso (Lc 11,13).
La parabola dà per sicuro l’esaudimento, ma al futuro: non è una cosa scontata! la vedova mantiene un’ostinazione incrollabile, fino a spossare il giudice: questa vedova mi dà fastidio, fino alla fine, a rompermi la testa…Forse la sua invincibile preghiera rompe davvero la testa al dio che abbiamo fatto a nostra immagine e somiglianza, e lascia spazio a un altro Dio! di tutt’altra qualità. Sul suo biglietto da visita non c’è scritto l’onnipotenza o l’immensità o la giustizia vendicatrice… C’è solo la promessa dell’infinita longanimità (makrothumia) di un Dio che nella storia del mondo vuole attendere pazientemente i tempi lunghi della conversione dell’uomo, del crollo delle sue ambigue torri di babele, lo scolorirsi delle sue immagini di dio… per dare tempo al trasformarsi della nostra paura, fatica, resistenza, insofferenza… in travaglio doloroso di purificazione del dio introiettato… : fino a lasciare spazio alla comprensione della Parola di Gesù su questa vedova: non è l’ingiustizia sorda di Dio la causa dei nostri mali inascoltati… ma la pochezza e l’incostanza della nostra fede (18,8)!
il Signore tarda a venire solo per darci il tempo di convertirci
… la salvezza, non viene perché non è invocata! o è richiesta solo come soluzione di qualche problema occasionale! Non come desiderio di amare ed esser amati da un interlocutore… Finché il desiderio di Lui “persona” – antagonista / protagonista della vita!? – non ha conquistato e polarizzato il discepolo, (il “credere” non è diventato “pregare”), non c’è condizione interiore di esaudimento, se non “come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole”. È ancora religione interessata e contrattuale, utilitarista… La preghiera capace di ottenere tutto da Dio è quella che ci insegna Gesù: che ha cambiato il volto di Dio in “Padre nostro” – e prima si preoccupa anzitutto di lui, del suo nome, del suo regno della sua volontà… perché questa è la nostra salvezza, affidarsi a Lui: “…Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma prolunga la sua pazienza (makrothumia) su voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi (2Pt 3,8s).
Dio è poco desiderato
Una preghiera che tende a consentire ai progetti di Dio ed esaudirlo in ciò che domanda è l’unica purificazione possibile della preghiera stessa, secondo le misure di Dio. Le misure di Dio sono il suo Spirito. Il quale trasforma il nostro desiderio nel desiderio di Dio - cioè, del suo essere, del suo bene! Una preghiera (un gemito!) non sovrapposta alle azioni che si fanno, o alternata agli atti consecutivi che scandiscono il quotidiano… ma una presenza accolta e custodita, che ci illumina, impregna, accudisce dal di dentro… come la “assenza” di una persona lontana ci tiene in tensione il cuore e ci fa vibrare per la sua “presenza”, mentre continuiamo a fare tutto quello che dobbiamo fare…. Il travaglio della fede è faticoso per noi, perché forse desideriamo tante cose per la nostra fame e sete… e poco, troppo poco, il vino, il pane e la parola che Gesù ci ha preparato per il nostro cammino, da condividere con i fratelli. Da questo nostra fragile passione, dipende se Gesù troverà ancora fede sulla terra!

venerdì 12 ottobre 2007

Bonhoeffer (lett a Eberhard, 21 luglio ’44)


[…] Mi ricordo di un colloquio che ho avuto tredici anni fa in America con un giovane pastore francese. C’eravamo posti molto semplicemente la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo – e credo possibile che lo sia diventato –; la cosa a quel tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contraddissi, e risposi press’a poco: io vorrei imparare a credere.
Per molto tempo non ho capito la profondità di questa contrapposizione. Pensavo di poter imparare a credere tentando di condurre io stesso qualcosa di simile a una vita santa. Come conclusione di questo percorso scrissi Sequela. Oggi vedo chiaramente i pericoli di questo libro, che sottoscrivo peraltro come un tempo.
Più tardi ho appreso – e continuo ad apprenderlo anche ora – che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di Chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale!), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano –, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metànoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani. (Cfr. Ger 45!). Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o demoralizzarci per gli insuccessi, quando nell’aldiquà della vita partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico così in poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato. Per questo penso con riconoscenza e in pace alle cose passate e a quelle presenti.
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