Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

Visualizzazione post con etichetta avventurar la vita. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta avventurar la vita. Mostra tutti i post

martedì 12 aprile 2011

Non basta dire: «Carmelo, Carmelo!»


«Esci fuori!»
Un commento “interessato” – con un occhio alle letture di ieri e alla storia di oggi – all’articolo di Barbara Spinelli pubblicato qui sotto.
Il coraggio della profezia oggi diventa urgente a tutti i livelli.
Il suo pensiero, certamente forte e ardito, oltre che intelligentemente lucido e vero, è spesso quanto manca oggi alla nostra Chiesa. Se di profeti abbiamo bisogno, lei è certamente da annoverare tra questi. Questo è il mio parere.

Mio parere è anche – lo ribadisco qui – che dobbiamo ripensare la “vita consacrata” e la Chiesa stessa… Le soluzioni fin qui proposte per rispondere a un disagio di una vita ecclesiale e religiosa che non dà più risposte alla vita, si limitano – al di là delle intenzioni – a una “riorganizzazione” della struttura, non a una “pensata” rimessa in discussione della stessa.

La storia è in cammino, lo stesso cammino contorto di migliaia, milioni di persone che cercano disperatamente una via di uscita alla propria dignità oppressa di uomini e donne. Lo stesso cammino che cinquemila anni fa il Dio di Israele ha indicato all’umanità intera.
Questo movimento di popoli è il movimento stesso della storia: Non è possibile che questo accada senza che le millenarie strutture della Chiesa, popolo di Dio, non si mettano in movimento col suo “popolo che cammina”. Se non accadesse questo, avremmo – come già abbiamo – un “popolo in gabbia”, mortificato, pietrificato, dalla sua stessa sacrale strutturazione. Tutto il contrario dell’Esodo.

B. Spinelli osa proporre in ambito politico un “ripensamento (anche) della democrazia”. In ambito ecclesiale non può non riproporsi una “rifondazione” della stessa Chiesa e delle relazioni tra le sue componenti, laiche, religiose, magisteriali. Rifondazione che non può non coinvolgere tutti gli ambiti del pensare e agire teologico e spirituale e pastorale. Le parole stesse domandano di essere rifondate da un nuovo contenuto semantico.

Se la parola “rifondazione” non piace, lo si chiami come si vuole, ma il cambiamento radicale si impone urgente alla Chiesa: Questo è già accaduto nel passato, perché si ha paura di farlo riaccadere oggi? Certo è che “aggiornare” non basta più (S. Cannistrà).

Non di può oggi – per stare in casa propria – essere carmelitani/e come ai tempi di Santa Teresa d’Avila, come non si può oggi pregare come ieri… Troppe cose sono cambiate nel mondo. Lei osò cogliere il cambiamento, cambiando… noi la tradiremmo se non osassimo altrettanto.

Inadeguata è la risposta dei vari ordini religiosi alla crisi istituzionale degli stessi, perché si limita a una ristrutturazione geografica, sperando poi in una rivitalizzazione generale. Lo stesso errore si sta facendo con la ristrutturazione formale delle parrocchie. L’una non esclude l’altra ma la riorganizzazione della vita deve partire da una messa in discussione della vita stessa, deve partire da un ripensamento radicale dell’essere cristiani e religiosi oggi. E non il contrario come sta generalmente accadendo. In altre parole dobbiamo domandarci “che qualità di vita (religiosa, cristiana…) stiamo (ri)organizzando”? Se la vita è morta, non c’è riorganizzazione che le ridia vita! In qualunque posizione e luogo mettiate un cadavere, cadavere resta! E ancor meno basta raccoglierne i pezzi per farne un corpo vivo.

Occorre al contrario, sciogliergli le bende perché riprenda il movimento della vita.
Diceva don Giussani, a un ritiro a cui partecipai vent’anni fa, “la Chiesa è movimento, se non è movimento, non è Chiesa”. E già allora vedeva lungo: “le parrocchie stanno morendo perché han cessato di essere in movimento”. E penso che ciò che lui disse allora valga ancora oggi anche per la “vita consacrata” in generale. Occorre “slegarla” da lacci e laccetti (non solo canonici) che le impediscono di vivere… E non soffocarla ulteriormente in mega strutture ancor più vincolanti: Faremmo la fine dei dinosauri (T. Radcliffe).

Questo domanda una riflessione seria che vada oltre i luoghi comuni sul legame tra numero di religiosi in un convento e la qualità della sua vita. Tra l’età dei religiosi e la qualità di vita di un convento, di una provincia, di un ordine… La vita non è questione di quantità e non è questione di età (Gesù a Nicodemo). La vita è questione di rapporto. E di qualità di rapporto. E se questo rapporto non c’è, non c’è numero e età che tengano. I conventi non stan morendo perché l’età media dei religiosi sta aumentando, ma i conventi stanno invecchiando perché la vita ha smesso di essere vitale. E la vita ha smesso di affascinare perché ha smesso di camminare e ha preferito rinchiudersi in un “buco” protettivo e autoreferenziale.

Questo cammino nella storia lo esige l’Incarnazione stessa, senza la quale non esisterebbe cristianesimo e non esisterebbe Chiesa, perché non esisterebbe la Pasqua. Ora invece la Pasqua esiste e questo dà ragione dell’Incarnazione e della Chiesa. Il problema non è dunque se accettiamo o meno di cambiare, perché questo cambiamento avverrà comunque, perché lo Spirito di Dio susciterà per amore dell’umanità questo cambiamento. Il problema è semmai se noi vogliamo partecipare a questa festa di liberazione o preferiremo restare “dentro” alle nostre tristi sicurezze.

Il problema non è la vita della Chiesa che Dio sa condurre in Terre sempre nuove, il problema è se io in quanto uomo, in quanto “Carmelo”, accetterò di entrarvi vivo.

venerdì 14 novembre 2008

Meglio rischiare la vita che sotterrare la speranza!

Nel cap. 25° il Vangelo secondo Matteo intende raccogliere l'ultimo prezioso insegnamento di Gesù prima della passione. Le tre parabole delle 10 vergini che attendono lo sposo, dei talenti consegnati ai servi e infine, il giudizio universale, con la sorprendente coincidenza di Gesù con i poveri che sono tra noi, hanno in comune una discriminante, che divide gli uomini nella storia: cinque vergini sagge e cinque stolte; due servi operosi e premiati, e uno rinunciatario e punito; le pecore da una parte (i discepoli che accudiscono i fratelli) e le capre dall'altra (chi non serve il fratello nel bisogno). Si tratti dell'olio delle lampade, o dei talenti forniti ad ogni uomo o della dedizione ai poveri, le parabole hanno lo stesso obiettivo, sotto diverse modalità. Ed è questo: arriva per tutti il momento nella vita in cui siamo "costretti" a scegliere, a schierarci, a maturare una fede capace di trasformare "definitivamente" il senso dell'esistenza, come se ognuno fosse messo con le spalle al muro. Gesù stesso sta incamminandosi verso le esperienze finali della sua avventura umana, che sembrano travolgerlo e immergerlo nell'angoscia e insieme nel desiderio di affrontarle: Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! (Gv 12,27 ).Ecco allora le parabole: nel buio della notte bisogna mantenere gli occhi aperti e il cuore attento per riconoscere il Regno che viene…; l'impegno appassionato moltiplica e dilata il dono di luce e di benevolenza ricevuto…; lo spendersi per i più miseri è sempre un incontro con il Dio presente nell'uomo di carne, anche per chi non lo sa… E se la dinamica pedagogica del racconto comporta che chi non si assume le sue responsabilità sia punito, l'intento non è certamente di terrorizzarci con la minaccia del castigo futuro, ma di convincerci che il presente, affrontato con intelligenza ed amore, dà senso e gioia alla nostra fede.

"Avventurar la vida"… non seppellire la speranza!

La parabola scelta per questa 33a domenica è la seconda, che racconta la storia di un signore che, prima di mettersi in viaggio, distribuisce i suoi beni ai suoi sottoposti, ad ognuno secondo le sue capacità. E poi se ne va, per molto tempo, senza lasciare recapito. I talenti dati in consegna sono la vita stessa, come una promessa, misteriosamente donata ad ognuno, con tutto quello che ci vuole… per diventare noi stessi., cioè viverla! Ognuno ha la sua, diversa da tutti, e solo l'interessato, pur bisognoso di tanti aiuti, può, in definitiva, valorizzarla. I due primi servi lavorano e raddoppiano i talenti. Ma colui che ha ricevuto un talento solo, lo seppellisce, per non perderlo. Proprio il contrario di quanto il vangelo stesso suggerisce: se vuoi salvare la tua vita devi esser pronto al rischio di perderla! Teresa d'Avila, in un tempo quanto mai sfavorevole alla donna, che pretendesse di diventare se stessa, è un esempio luminoso e appassionato di come la vita, secondo questa parabola, deve essere assunta, con l'esplosiva carica affettiva ed esistenziale di un desiderio incontenibile: "tutto si riduce, in sostanza, ad arrischiare la vita, che io tante volte bramerei aver già persa, pur di avventurarmi a guadagnare così tanto con poco prezzo" (V 21,4)

Un Dio diverso!

Perché nasca e cresca questa passione in cuore, occorre cambiare la figura di Dio, che più o meno inconsciamente tutti abbiamo introiettato, come un interlocutore interiore… da incubo (sei un duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso). Talora diventa un'ossessione che finisce per rovinarci la vita (per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra). La radice profonda di ogni religione storica è il tentativo di rimettersi in contatto con il "padrone", che è "emigrato" in un paese lontano (così suggerisce il testo greco!), per contrattare "magicamente" con lui una salvezza in proprio. La paternità di Dio, come si è rivelata in Cristo, è la distruzione del ricatto interno a qualsiasi religione (e interno a noi stessi, come componente tossica del nostro super io e della nostra morale). E finisce per farci vivere una vita disaffezionata e spenta, da servi!. Finché, infatti, non ci consegniamo 'armi e bagagli' al Padre di Gesù Cristo, nutriti della sua parola e del suo pane, siamo preda dei nostri tormenti e delle nostre angosce interiori, che poi inevitabilmente proiettiamo e ritorciamo sugli altri (io non sono come gli altri, omicidi, adulteri…). Mentre orami, in Gesù, la fede o è questione di amicizia o ridiventa idolatrica: "Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi [Gv 15,15]. Esser amici, però, vuol dire sbilanciarsi rischiosamente e senza riserve verso un nuovo tipo di dinamica interna all'esperienza umana di Gesù, che si fonda sull'amore gratuito, pulito, totalizzante.

Una dinamica vitale nuova: entra nella gioia del tuo Signore!

Dio dunque sorprende i suoi servi, proprio chiamandoli a responsabilità e fiducia totalmente nuove. Neanche vuole indietro i talenti affidati, perché li trasferisce al livello della dinamica dell'amore: che, se corrisposto, raddoppia incessantemente… Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. L'esito dell'amicizia è la comunione piena e raggiante: entra nella gioia del tuo signore! Questo esito escatologico di una vita di impegno appassionato ci è annunciato per convincerci che già qui, nella nostra storia quotidiana, inizia questa dinamica creativa e profondamente gratificante di poter aiutare Dio, invitati nella sua vita intima, partecipando alla sua gioia di diffondere l'amore e la libertà tra gli uomini. Così si spiega il paradosso di togliere il talento al servo sfiduciato per darlo a chi già ne ha: «Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.». Chiunque abbia provato ad amare e appassionarsi alla vicenda umana del fratello che fa fatica a crescere, più che alla propria, sa quanto è vero che l'amore aumenta a donarlo via, e diminuisce e intristisce a difenderlo e trattenerlo per sé… E quanti sono coloro che sono fermi, paralizzati su questo crinale, senza osare tuffarsi!

E quando si dirà: "Pace e sicurezza", allora d'improvviso li colpirà la rovina,

Nel nostro tempo di totale interdipendenza degli uomini e dei popoli – il tempo della globalizzazione ‑ i figli della luce di cui parla Paolo, sono quelli che credono nelle ragioni della speranza, nella possibilità di convivenza tra diversi, nella fecondità dell'incontro tra religioni e razze. I figli della paura e della voglia di sicurezza sono quelli che nascondono la sfida della storia e il rifiuto delle scelte sotto le vesti della tradizione e della religione, ma di fatto difendono poi la sicurezza con i muri divisori e il filo spinato, e alla fine, con la forza delle armi, con il ricatto della fame, con la prepotenza della superiorità della razza o della religione. Ma affrontare i problemi di oggi illudendosi che vadano bene le soluzioni di ieri, è come voler solcare gli oceani con le barche. Non cercare e inventare risposte nuove è come dormire, fare della vita una lunga notte, illudendosi con lo slogan: Pace e sicurezza…, invece di un impegno fervente e generoso. Oggi non ci sono territori preclusi all'intervento umano dai confini sacri, che la religione ha sempre determinato nella storia dell'umanità, opponendosi ad ogni presuntuosa conquista o sconfinamento prometeico. La formazione della coscienza morale è più che mai determinante, in un mondo pluriculturale, che rischia di svuotare e relativizzare ogni tradizione od orientamento etico e religioso. La mutazione antropologica che le strutture di comunicazione commerciali, industriali e politiche hanno prodotto, richiede una nuova consapevolezza, una nuova spiritualità. L'umanità di oggi si trova di fronte a problemi, esigenze e istituzioni universali, ma non c'è ancora la cultura e gli uomini preparati, che sappiano accettare questa sfida. La paura di affrontare il rischio ha spinto anche la chiesa a sotterrare i suoi tesori… Siamo in ritardo rispetto al cammino dello sviluppo umano, della tecnica e della scienza. Questa forte esigenza di spiritualità non è di per sé esigenza di pratica religiosa, che è necessaria, ma non sufficiente. Si esige qualcosa di più: entrare cioè in sintonia con la forza creatrice che ci coinvolge consapevolmente in un atteggiamento nuovo. Siamo come costretti a rileggere questa parabola con prospettive e orizzonti completamente nuovi. Per disseppellire coraggio e speranza!

venerdì 18 aprile 2008

Io sono la via, la verità e la vita

Man mano che ci allontaniamo dalla celebrazione della Pasqua, anche la liturgia, che pure si mantiene ancora nel “tempo pasquale” dedicato appunto all’approfondimento dell’evento di risurrezione, anche la liturgia – dicevo - ci incanala verso un ritorno all’ordinarietà, alla quotidianità… alle domande del giorno dopo, di quando la vita continua e va portata avanti…
Ecco che allora sorgono i problemi: «Signore, non sappiamo dove vai»; non siamo neanche sicuri di aver capito bene chi sei («Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto?»); non sappiamo nemmeno che via intraprendere («come possiamo conoscere la via?»)…
È la sensazione dello spaesamento data dal ritrovarsi tra le mani la propria vita… dal non sapere che fare, da dove cominciare, a chi dare retta… dal non conoscere quanti anni avremo a disposizione, cosa farne, in vista di che cosa, se con un senso, se per qualcuno…
Sono le domande che affollano anche le nostre giornate: che senso ha tutto questo? Ha un senso? Perché faticare, soffrire, amare, se poi si muore? Se tutto è destinato a finire nella tomba? Perché ci sono? Chi avrà mai ragione dato che han già detto tutto e il contrario di tutto in questo mondo?
E anche a noi scappa detto, come a Filippo, che va guardato sentendolo proprio uno di noi: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Dacci cioè qualche risposta chiara, qualche visione illuminante, qualche criterio inconfutabile per avere un’intelligenza della realtà… altrimenti davvero… è un brancolare nel buio, è un vagare senza meta, è un tracciare un percorso nell’aria, senza senso e senza scia.
Che dire dunque a Filippo? Immediatamente che i suoi stessi pensieri, oltre a una forte immedesimazione coi nostri, ci rimandano anche un’altra sensazione: per certi aspetti cioè ci pare strano e anche forse poco confortante il fatto che ancora oggi noi, dopo 2000 anni dal momento in cui i primi cristiani hanno affrontato questi problemi, siamo ancora qui a riproporceli… E addirittura forse per un altro verso sembra ancora più strano il fatto che essi stessi se li siano posti… proprio loro che avevano vissuto con Lui, che erano stati i discepoli di prima mano, quelli che avevano sentito con le loro orecchie e visto coi loro occhi…
Ma… a bene guardare… forse, così strano poi non è…
Se ci pensiamo bene infatti siamo di fronte a quella che è la struttura antropologica di sempre, dell’uomo di sempre: figlio e padre dell’umanità, ma singolo, unico, irripetibile. E per questo erede e promotore della vita, della storia, delle risposte, delle domande, delle scoperte, dei fallimenti degli altri… ma impegnato personalissimamente nella sua vita, nella sua storia, nelle sue risposte, nelle sue domande, nelle sue scoperte, nei suoi fallimenti…
Ecco la struttura umana fondamentale: o la via diventa la mia via, o la verità diventa la mia verità, o la vita diventa la mia vita… o per me non è via, verità, vita.
Ed ecco perché è sconvolgente e insieme affascinantissima la proposta di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita».
Sconvolgente perché mai si era sentito che la verità era una persona e non un mistero, una legge, un codice etico, un sistema metafisico… Mai si era sentito che la via da percorrere era una relazione da attuare con una libertà storica. E di certo mai si era sentito che la Vita era un intrecciarsi con la soggettività singolare di Dio, fatto uomo…
Ma oltre che sconvolgente, inaudita ed esplosiva rispetto ad ogni schema interpretativo umano, quella di Gesù via, verità e vita è anche una proposta affascinantissima, perché di fatto è l’unica che risponde alla nostra sostanziale struttura antropologica.
Essa – dicevo – consiste proprio nell’essere figli e padri della storia dell’umanità eppure non sentirsi esauriti in essa: noi non siamo solo il prodotto dei nostri genitori, della società in cui siamo nati e cresciuti, dell’ambiente che ci ha coltivati; e non siamo neanche riducibili all’eredità che lasceremo, ai nostri successi, ai nostri fallimenti, ai nostri soldi, alle nostre carriere, ai nostri matrimoni riusciti o falliti, alle nostre vite realizzate o meno…
C’è un oltre tutto questo! C’è un noi stessi, la nostra identità più intima, che non si può circoscrivere in nessuno schema, che non si può classificare, standardizzare o irreggimentare… è quel nucleo di noi stessi che non coincide con nessuna delle nostre determinazioni: né coi nostri nomi, né con i nostri titoli, né con le nostre mansioni, né con le nostre conquiste o coi nostri sbagli…
Ed è lì, in quel nucleo centrale di noi stessi, quello che Etty chiamerebbe il pezzetto di Dio in noi, è lì che ci intercetta la proposta cristica.
E proprio perché è l’unica che arriva lì è anche l’unica che risponde davvero alla nostra struttura antropologica, che è la libertà singolare.
Riesce a intercettarci lì infatti, nell’unico “luogo” di noi stessi dove siamo noi stessi, perché non è qualcosa di universale che mortifica il particolare, qualcosa di vero per tutti e che dunque non è per me: non è un insieme di regole, non è un itinerario spirituale, non è un codice moralistico, non è un impianto cultuale, non è un sistema filosofico, non è un annullamento nel tutto… è una persona! È la relazione con una persona!
Una relazione personalissima, come non ce n’è un’altra, né mai c’è stata, n’è mai ci sarà, perché sebbene non l’unico, per Lui sono unico!
Ecco allora la risposta a Filippo, a Tommaso e a ogni uomo che si avventura nelle profondità della Vita, non rimando alla superficialità del si vive: avventurar la vita è acconsentire a una relazione che mi ridà la mia vera identità, che è quella di figlio amato e fratello amante. Un’identità che non è un copiare quella del Figlio, ma intrecciandosi ad essa, costruire la mia, tanto da compiere cose «più grandi di queste».

domenica 9 marzo 2008

È solo la fiducia nella Vita che colloca convincentemente la morte

Ed ecco che la liturgia della Quaresima, avendoci accompagnato, nel suo svolgersi, all’incontro con le grandi questioni della vita – quelle che la rendono appunto umana, umanizzata (il male – Mt 4,1-11; l’identità di Dio – Mt 17,1-9; la fonte-senso della Vita – Gv 4,5-42; il valore normativo dell’incontro personale con Gesù – Gv 9,1-41) – ci porta ora nel problema dei problemi, nell’ostacolo insormontabile, nell’ineluttabilità che soffoca il gemito vitale che è in noi… la morte… Il vangelo di Giovanni 11,1-45 infatti pone proprio in campo una scena chiarissima di incontro-scontro con questa realtà.
Interessante che protagonista di questo imbattersi sia proprio la libertà di Gesù; interessante soprattutto perché, mentre noi tendenzialmente parliamo del rapporto Gesù-morte come del rapporto Gesù-e-la sua propria morte, qui invece è messo in campo un imbattersi di Gesù con il mistero della morte di un altro…
E questo, da principio, ha un valore importante e confortante perchè ci rivela un Gesù, che anche in questo segue i percorsi comuni degli uomini: come tutti infatti si trova a confrontarsi con il mistero della morte, innanzitutto scontrandosi con la morte di un altro, proprio come avviene anche per noi che ci accorgiamo/ricordiamo del morire quando muore qualcun altro.
Neanche Gesù quindi nasce già capace di morire, di dare la vita, come se questo in lui avvenisse senza uno scontro con la drammatica umana. Anzi anche per lui, come per tutti, l’elaborazione della realtà del morire (del passaggio dal si muore, all’io sono destinato a morire), si dà dentro ad una drammatica storica, che nello scontro con la morte di una persona amata, mi anticipa la mia stessa morte e mi chiede un prenderne coscienza, che si evolve poi in un pensare la cosa, in un renderne ragione, in un’introdurla in un orizzonte di senso (sensato appunto).
Inoltre questo mettere in scena l’incontro della libertà stessa di Gesù con la morte dell’amico Lazzaro, ha un valore importante perché nel percorrere lo svolgersi di questa drammatica (anzi essendoci tirati dentro, come se anche noi fossimo là), emerge l’identità stessa di Gesù di fronte al male radiale, emerge chi lui sceglie di essere di fronte alla questione delle questioni, la sua singolarissima presa di posizione dinanzi alla morte: cosa, anche questa, tipicamente umana, perchè ogni uomo per vivere deve prendere posizione di fronte alla consapevolezza della sua propria morte: «chi ha paura di morire, ha anche paura di vivere», fa dire D’Alatri a Giuseppe ne “I giardini dell’Eden”. E infatti, gli fa eco Fabrizio Moro, nella sua canzone “Pensa”, che dice: «in fondo questa vita non ha significato se hai paura di una bomba o di un fucile puntato»; e chissà se sapeva di richiamarsi alla Bibbia stessa… nella lettera agli Ebrei, quando al capitolo 2,15 si dice: «per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita».
E allora, poste queste note introduttive, proviamo a percorrerla questa drammatica che Giovanni inscena…
Come dicevo siamo ancora una volta posti nel marchingegno giovanneo che ci chiede di lasciarci tirar dentro nella scena stessa. Non si può infatti leggere questo autore (e in generale nessun vangelo) come se fossimo gli spettatori di uno spettacolo da cui alla fine possiamo/dobbiamo estrarre un in segmento morale o un connotato di Gesù, dedotto appunto dal suo agire. No! Giovanni ci chiede di andare anche noi sul palco e interagire nel dramma: perché chi è uno, lo si capisce solo vivendoci assieme, interagendo con lui…
Solo per questa via scopriremo dunque qual è l’identità di Gesù; solo così ci sarà talmente prossimo da plasmarci l’anima, proprio come fanno quelli che, nel bene e nel male, vivono con noi.
Salendo dunque sul palco… vediamo che il racconto è molto lungo, compaiono diversi personaggi e ci sono anche ambientazioni diverse.
Dopo un’introduzione in cui ci viene detto che Lazzaro, fratello di Marta e Maria, è ammalato, vediamo che Gesù risponde a questa notizia riecheggiando le parole che aveva detto a proposito del cieco nato; in quella situazione infatti Gesù aveva subito svincolato la menomazione fisica del cieco dal peccato e aveva invece immediatamente messo quell’uomo in relazione a Dio «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Anche qui avviene la stessa operazione di legare intimante l’identità ferita dell’uomo (malattia) con Dio: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio». Segue poi subito la notazione che Gesù amava molto questi suoi amici e quindi in un certo senso ci aspetteremmo una certa urgenza nel raggiungerli… Invece: «rimase ancora due giorni nel luogo in cui si trovava».
Tutto questo denota una certa tranquillità di Gesù, che certo non ha fretta di arrivare da Lazzaro.
Scopriamo poi che in effetti qualche problemino nel raggiungere l’amico c’era; e glielo ricordano i discepoli stessi: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ritorni là?»; forse anch’essi un po’ preoccupati per la loro sorte, come fanno trapelare le parole di Tommaso: «Andiamo anche noi a morire con lui».
Fatto sta che Gesù sembra affrontare la questione in modo del tutto sereno, tant’è che commenta quanto sta accadendo quasi con parole di gaudio: «Lazzaro è morto e godo per voi di non essere stato là, affinché crediate».
Lo stato d’animo di Gesù però quando giunge sul posto e vede, una alla volta, le due sorelle, sue amiche, inizia a cambiare. Entrambe infatti gli propongono la stessa dolce e struggente rimostranza: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto».
Queste parole, che da un lato mostrano la grande fiducia di queste donne nel loro amico Gesù, dall’altro però introducono quest’ultimo dentro alla drammatica di quanto accaduto… Gesù respira qui la pesantezza che trasuda dalla sofferenza del cuore materno di queste donne… lo respira e gli entra come dentro…
Tant’è che già con Marta, alla quale pure dice parole di grande speranza e ancora tenendo ben saldo il riferimento della sua posizione di fronte alla morte («Io sono la risurrezione e la vita»), usa però toni che si caricano sempre più di pathos. Finché il culmine arriva quando al sopraggiungere di Maria «Gesù […] fremette interiormente, si turbò, […] pianse».
È frastornante per noi leggere queste cose di Gesù, soprattutto perché, come si vede bene scorrendo le parole che precedono questa falla che si apre nei suoi occhi, lo abbiamo visto finora molto tranquillo, sicuro, sereno. Non ci aspetteremmo certo questa cosa; verrebbe da dire anzi: ma se sapeva che la malattia di Lazzaro «non è per la morte, ma per la gloria di Dio», che «Lazzaro si è addormentato ma» lui può «risvegliarlo»; se addirittura aveva detto ai discepoli che godeva «di non essere stato là» affinché essi credessero e a Marta che suo fratello sarebbe risorto… beh… che piange a fare ora?
Beh, piange, perché sebbene egli abbia indubbiamente un riferimento saldissimo a cui fare appello nell’attraversamento della drammaticità della vita («Padre, ti ringrazio di avermi ascoltato. Sapevo bene che tu sempre mi ascolti»), tuttavia non viene mai meno alla tragicità che essa introduce nelle viscere umane… tant’è che ancora una volta di lui è detto che fu «scosso da un fremito in se stesso».
È non saltando questa drammaticità che Gesù stesso impara a costruire un orizzonte di senso in cui collocare anche la morte. Non la banalizza, non la considera semplicemente superabile con un miracoletto, ma ne vive la tragicità, se ne lascia scarnificare… e così facendo, le trova una collocazione… una collocazione che, per lui come per ogni uomo, o è persuasiva o, alla prova della vita, non tiene… La sua collocazione invece terrà… tant’è che Gesù… appunto saprà morire, dare la sua vita, rimanendo saldo al suo riferimento convincente: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». È solo la fiducia nella Vita allora che colloca convincentemente la morte.

E mi piace poter mettere qui in conclusione uno stralcio di un lavoro di Carlo Molari intitolato “Esperienza personale di fede nella maturità. La vita spirituale e la maturità della fede”. Egli parla infatti de I criteri della morte:

«Le riflessioni antropologiche non possono essere compiute senza un serio confronto con la morte. La morte, infatti, non è un incidente, bensì il traguardo ultimo di ogni impresa vitale e quindi è il criterio supremo della vita: noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne. Partiamo da una metafora chiara. Il feto resta nel seno della madre finché diventa capace di venirne fuori in modo vitale. Per lui la nascita è la fine di uno stadio. Il che significa che tutto ciò che capita al feto è valutabile secondo il rapporto che ha con la fine che lo attende. Ciò che favorisce la sua uscita dal seno materno è bene per lui. Ciò che, invece, la impedisce è male. Analogamente noi siamo in una situazione che è destinata a finire. Ciò che nella vita ci consente di finire bene è giusto, ciò che ci impedisce di morire bene è male per noi. Importante perciò è sapere che cosa la morte chiederà ad ogni uomo, perché egli sappia viverla.
La morte chiederà a tutti:

1) di avere consolidato la propria identità al punto da saperne abitare il nome senza ricorrere ad altri riferimenti;
2) di avere imparato il distacco da tutte le cose;
3) di avere interiorizzato così gli altri da sapere partire senza tenere nessuno per mano;
4) di avere imparato ad amare in modo così oblativo, da sapere donare se stessi senza rimpianti;
5) di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla».

venerdì 22 febbraio 2008

Il Signore è in mezzo a noi sì o no?

Le letture che la Chiesa ci propone in questa terza domenica di Quaresima, mi pare siano talmente ricche, da rendere impossibile un’indagine approfondita di tutto ciò che mettono in campo. Per questo mi limito a delineare quello che per me può essere un filo conduttore che le unisce e guida, e cioè: è soltanto facendo esperienza (e facendo poi memoria) del Signore che mi incontra nel più intimo di me (Gv 4,5-42), che Egli può essere tolto dal banco degli imputati (Es 17,3-7), dov’è guardato con sospetto come un lui qualunque, e diventare un Tu con cui Vivere la vita (Rm 5,1-2.5-8).
Cerco di spiegarmi…
E lo faccio a partire dall’esperienza del popolo di Israele nel deserto: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Ecco la domanda inquisitoria nei confronti di Dio, il ribaltamento delle posizioni in campo: da terra di prova per la fede dell’uomo, il deserto diventa luogo dove in discussione vi è Dio in persona.
Non è questa certo una domanda che noi possiamo permetterci di guardare con aria di sufficienza, o superiorità da benpensanti: quante volte infatti è salita in gola anche a noi? Soprattutto proprio in quei momenti in cui come si dice del popolo si «soffriva la sete per mancanza di acqua»?
Per ognuno certamente l’esperienza del deserto e della sete assume contorni e sfumature personalissime, l’acqua che manca è per ciascuno connotata in modo singolarissimo, ma – mantenendo il paragone – non si può negare che quello della mancanza di acqua sia proprio un tratto caratteristico di questa nostra vita umana, di tutti e di ciascuno dunque.
Ma non solo: comune a tutti e a ciascuno pare anche, almeno tendenzialmente, la reazione a questa carenza di acqua, di vita. Essa si connota infatti umanamente con l’inquisire Dio: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». È lui il primo imputato del nostro male di vivere, dei nostri stenti, delle nostre infelicità e solitudini, delle nostre povertà e miserie… della nostra sete di Vita: Dov’era Dio?
Interessante a questo proposito è che la domanda «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» è come urlata ad un cielo vuoto: non è rivolta a Mosè, né a nessun altro membro del popolo; e non è rivolta nemmeno a Dio stesso; Egli vi è infatti citato alla III persona…
Quanto è diverso questo modo di interrogare il cielo rispetto ad un’altra domanda che verrà urlata da una croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Essa è sempre la domanda di uno che ha sete (sete di vita), di uno che dispera, di uno che muore… eppure, anche nel grido dello strazio, è la domanda di uno che tiene aperto il dialogo con il Padre suo, dandogli comunque del Tu, interpellandolo in prima persona.
È proprio questa la novità cristica (di Cristo), la sua risposta all’umanissimo istinto di messa in discussione di Dio che l’uomo ha dentro di sé: o Dio lo incontri nel dramma della libertà storica di Gesù, o, se rimane un’impalcatura religiosa, un insieme di pratiche e devozioni, non ti disseta, non ti salva, non ti dà Vita.
E in questo senso è significativo che il liturgista abbia posto in connessione alla sete di Israele nel deserto, il dialogo che Gesù intrattiene con la Samaritana sull’acqua viva che zampilla per la vita eterna: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».
Questo incontro tra la libertà storica di questo uomo – che possiede in sé la fonte della Vita – e questa donna – che invece ha in sé la fonte della sete – è così coinvolgente perché non rappresenta un esempio edificante, un modello stereotipo di un rivolgersi al Signore. No: esso è raccontato nel suo snodarsi, nel suo svolgersi reale; e in questo senso noi lettori siamo come catturati dentro alla scena. Ancora una volta abbiamo la possibilità di accedere al mistero dell’identità di Gesù vedendolo in azione, dal di dentro della sua vita.
E dentro a questo suo relazionarsi concretissimo a questa persona rivela di sé (e del Padre suo) un tratto strepitoso: Egli è accessibile anche alle donne! Egli è accessibile anche ai peccatori!
Perché in effetti, mentre prima cercavo di dire che Dio lo si può tirar via dal banco degli imputati solo accettando la sfida di averlo come un interlocutore affidabile nella nostra vita (attimo per attimo), mi veniva anche in mente una possibile facile obiezione: io posso anche dare del Tu a Dio... posso pure vincere le mie paure, le mie resistenze, le mie recriminazioni nei suoi confronti... ma Lui che ha a spartire con una come me?
Dio è sempre stato il Dio dei buoni, dei santi, dei giusti, dei bravi, dei forti, dei maschi, dei grandi... Non è mai stato accessibile alle donne, ai bambini, ai poveri, ai peccatori, agli stranieri (tutta gente che infatti stava fuori dal Tempio – o comunque in zone riservate e “lontane” dal Santo dei Santi).
In queste pagine invece si rivela qualcosa di eccezionale: Dio è quel Gesù che camminando per le strade della Samaria si incontra (e qui il verbo va preso nel senso forte di “si mischia l’anima”) con una donna («Giunge una donna»), una donna considerata eretica («una donna samaritana»), un’eretica peccatrice («Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero») e proprio a lei si rende accessibile come fonte della Vita: «Sono io, che parlo con te».
Ecco perché è possibile anche per noi metterci nella nuova prospettiva (convertirci) che «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».
Non è più questione di appartenenza etnica, religiosa, di genere, di casta, di santità... L’incontro col Signore è questione di spirito e di verità, o, se volete, di verità di spirito: cioè è questione di lasciarsi incontrare nella trasparenza del proprio essere, di quel centro vitale in cui noi siamo proprio noi...
O Dio lo si incontra lì nel nucleo vitale della nostra singolarità, o non è Dio, di certo non è il Signore della mia vita, non può essere la fonte che mi dà Vita.
È questa la nuova via aperta da Gesù nell’incontro col Padre: «noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo [...] perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato».
E non tengono più neanche le remore etiche che ci facciamo o che ci mettono addosso: «Infatti, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Non c’è scusa per non avventurar la vita sulle strade di questa amicizia... neanche il male commesso fa più da ostacolo... nel poter lasciarsi zampillare l’anima.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter