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mercoledì 17 giugno 2015
XII Domenica del tempo ordinario
lunedì 30 marzo 2015
Pasqua
sabato 27 febbraio 2010
La paura
«Nel vangelo di Luca (come pure in quello di Matteo e Marco) il racconto della trasfigurazione è inquadrato in un contesto preciso e significativo. Non soltanto, è preceduto dalla confessione di Pietro, dal primo annuncio della passione e dalle istruzioni di Gesù sulla via Crucis del discepolo stesso, ma è anche seguito dalla guarigione del fanciullo epilettico e dal secondo annuncio di passione. Dunque, la trasfigurazione è raccontata in un contesto dominato dal tema della Croce.
I tratti del racconto (vocabolario, immagini, riferimenti alle Scritture) dicono chiaramente che esso appartiene al genere “epifanico-apocalittico”: vuole cioè essere una rivelazione rivolta ai discepoli, rivelazione che ha come oggetto il significato profondo e nascosto della persona di Gesù e della sua opera. Questo significato profondo e nascosto della persona e dell’opera di Cristo ci viene comunicato, da una parte, mediante riferimenti all’Antico Testamento (Mosè ed Elia e – più impliciti ma ugualmente presenti – i riferimenti al Figlio dell’uomo di Daniele e al Servo di JWHW di Isaia) e, dall’altra, mediante riferimenti a due episodi della vita di Gesù: il battesimo (con il quale il nostro racconto ha indubbiamente diverse analogie) e i racconti pasquali (con i quali ha pure una innegabile parentela di vocabolario e di immagini).
I due rilievi fatti sono comuni a tutta la tradizione sinottica. Ma su questa tradizione comune Luca ha introdotto due importanti modifiche: l’accenno alla preghiera di Gesù (“Salì sulla montagna a pregare. E mentre pregava…”); e l’esplicitazione del contenuto del colloquio che si svolge fra Mosè, Elia e Gesù: “Parlavano del trapasso (esodo) che egli doveva compiere a Gerusalemme”».
[B.MAGGIONI, il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2000, 186-187]
Siamo dunque di fronte ad una scena di rivelazione: una scena per molti aspetti simile a quella descritta dalla prima lettura (Gn 15,5-12.17-18), quando Abram è testimone del patto che il Signore stipula con lui «quando, tramontato il sole» passò «un braciere fumante e una fiaccola ardente in mezzo agli animali divisi».
Ciò che immediatamente fa da rimando tra le due letture, è l’atteggiamento, da un lato di Abram e dall’altro di Pietro, Giacomo e Giovanni. Del primo si dice infatti che «Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono»; degli altri, similmente che «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno» e che «All’entrare nella nube, ebbero paura».
Dunque il sonno e la paura come sentimenti ricorrenti dell’uomo di fronte al Signore che si rivela, che si mostra, che si fa conoscere.
Se da un lato questa reazione umana ci sembra istintivamente normale (quella che probabilmente anche noi avremmo/abbiamo o che immagineremmo/immaginiamo), perché di fronte a Dio è ovvio “non reggere il confronto” (sia fisicamente: sonno; che emotivamente: paura); dall’altro però, tale reazione, non può non risultare un po’ eterogenea rispetto a ciò che di fatto è il contenuto di quella rivelazione: di fronte a Gesù (che con Mosè ed Elia durante la trasfigurazione parla della sua croce!), al Dio Padre di tutti che Egli ha rivelato, è ancora così normale avere paura?
“Ovviamente no”, la risposta dovrebbe essere questa… eppure essa risuona così anaffettiva, privata della sua drammaticità, quasi stoicamente falsa, se detta un po’ troppo in fretta, se arriva subito a sciogliere l’impasse, se non fa la fatica di stare a bagno maria nelle angosce ataviche o ingenerate che abitano il cuore dell’uomo.
A me pare che il rapporto fiducia/paura, affidamento/angoscia, sia spesso sciolto – da alcuni – un po’ troppo celermente in grandi proclami della fede: “Il cristiano è colui che non ha paura, perché ha riposto la sua fiducia nel Signore!”, “Bisogna avere paura di quelli che hanno paura”, “Chi teme non crede!”, ecc… ecc… ecc…
Perché:
- se è vero – e molte volte noi stessi l’abbiamo ribadito (cfr. la riproposizione delle citazioni di Sequeri, da Il timore di Dio) – che va scardinato senza esitazioni dal nostro cuore il dubbio diabolico (divisorio) del serpente che proponeva un volto di Dio contraffatto (un dio ambiguo, geloso dell’uomo; dal quale l’uomo può aspettarsi tanto il bene quanto il male, ecc…), un dio di cui avere paura perché apre «lo spazio dell’incredulità: [...] il sospetto cioè che il comandamento invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione»;
- se è vero che questa paura dell’arbitrio di Dio, per la quale si teme che «dietro un volto apparentemente buono e promettente, Egli ne celi forse uno inquietante e minaccioso», va scardinata precisamente in nome di Gesù, che per tutta la vita non ha fatto altro che «attivare un processo di interno confronto fra l’immagine dell’abbà e la rappresentazione faraonica di Dio coltivata nel fondo della nostra coscienza» ribadendo incontrovertibilmente come «prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano»;
- se è vero che l’esercizio della fede di una vita consiste nel «togliere ogni ombra di dominio e di assoggettamento alla relazione che caratterizza Dio», per cui «neppure a fin di bene Dio esercita la propria potenza», e nel realizzare che «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente» e che «lo spazio dell’incredulità, sin dall’inizio, si apre [solo] nell’immaginazione [e mai] nell’esperienza»;
- è altrettanto vero che tutto questo non può mai diventare puro oggetto di insegnamento intellettuale, preteso auto o etero convincimento volontaristico, nominalistico discrimine tra “chi è dei nostri e chi non lo è”.
Tutte queste riduzioni della drammatica del vivere umano portano un cattivissimo servizio alla costruzione del Regno di Dio, perché saltano precisamente ciò che Gesù aveva posto a fondamento di tutto il suo essere e agire e parlare e vivere e morire: l’in-carnazione, lo strettissimo tenersi alla carne, la sua insuperabilità.
In questo senso la paura di morire, che è l’altra faccia della medaglia della paura di vivere, della paura di Dio, della paura di essere se stessi (ecc… ecc… ecc…) e che radicalmente racchiude non un dubbio intellettualistico su cosa ci sarà dopo la morte, sulla reale esistenza di Dio e di un Dio così, sulla sensatezza del faticare quotidiano (ecc… ecc… ecc…), ma le più tremende e penose angosce in cui ci dibattiamo nei nostri letti, sotto i nostri tavoli, negli angoli delle nostre pareti, sul ciglio delle strade, o sull’orlo dei precipizi, non si può “sanare” nell’estrinsecismo del sistema-scuola, nell’illusoria organizzazione dei tempi familiari, nell’asettica proposta catechetica delle nostre parrocchie, nell’interrogatorio moralistico di certi confessionali, nel fasullo mondo della trasgressione (comunque intesa), ma solo nella coraggiosa e solidale (bisogna essere almeno in due: «li inviò a due a due», Lc 10,1) discesa nei nostri inferi, senza paura di aver paura, perché l’avremo. Ma solo passando di lì, dentro a quella paura lì, dentro a quella angoscia lì, non saltata, ma incarnata, smetteremo di fronte ai nostri drammi e a quelli degli uomini del nostro tempo, di fare la figura di Pietro che «non sapeva quello che diceva». Non a caso infatti Gesù, diversamente, sa sempre cosa dire e cosa dice: lui infatti nella fornace ardente della trasfigurazione, ha guardato in faccia il suo inferno, il suo esodo. E l’ha fatto non da solo! Perché la paura è questione di pancia non di testa e si cura solo con le coccole, non coi discorsi: «Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!».
martedì 8 dicembre 2009
Per la prima volta un uomo – anzi una donna! – non ha paura di Dio!

…man mano che si avanza negli anni, e in più, se capita la grazia che ci sono meno cose da conquistare e da difendere … ecco, si vede più chiaro cha al fondo di tanti (tutti!?) i problemi e angosce e conflitti che ci dilaniano ci sta proprio quanto diceva, nel suo timido tentativo di difesa, Adamo: ho avuto paura! Non degli altri. Di me stesso. Con tutti i tipi di turbamento o di panico o di sottostima o di rabbia o di autocorrosione… che questa dolorosa sensazione comporta … Di essere scoperti. Scoperti, anzitutto di fronte a me stesso, atrocemente insufficiente e inadeguato, e perpetuamente e inutilmente indaffarato a coprirmi.
“Ma chi ti ha detto che eri nudo? … Sono nato così! e poi dopo è sempre stato così. Io, non c’ero prima, quando (dicono) è avvenuto il male che ho dentro, con sempre qualche vergogna da nascondere, di cui arrossire, e cercare affannosamente di superare, maldestramente aggiustare, amaramente piangere…
E così, il regalo bello e sorprendente della nostra umanità, il mondo e tutte le cose che contiene e l’universo in cui è contenuto, che mi è dato da esplorare, godere, lavorare, farne la casa – e la donna (o l’uomo) per cui sono fatto… con cui imparare ad amare – e gli altri (fratelli e sorelle!?), con cui crescere e progettare e condividere la vita e inventare sempre nuove cose … sono diventati interlocutori difficili, estranei o nemici, perché anche con loro mi devo nascondere, un poco o tanto. Per paura! Come loro con me! Il cuore non è mai libero d’essere umilmente e nudamente tutto se stesso. E l’amore, se va bene – e non muore – è rattrappito! Non innesca la sua capacità (che lui solo ha!) di scaldare e purificare e aumentare sempre più… per ‘umanizzarci’, togliendoci di dentro la tristezza del destino di regressione: essere fatti di terra e dover tornare terra inconsistente. Polvere! cioè niente!
… avvenga a me secondo la tua parola
La parola… è quella che aveva fatto il mondo, perché era prima del mondo. La parola di Colui che è tutto quello che può essere. E perciò non ha mai paura ed è contento di sé! E allora dice parole di amore e di bene. La sua parola è l’unica cosa che non è una cosa, come le altre … un dato scientifico, cioè un rapporto di necessità, di causa/effetto in campo fisico, o chimico o biologico o psicologico. La parola è libertà e amore: è l’intimo, l’anima di una persona che si rivolge… a chi la può ascoltare. Il meglio è un’altra persona, unica capace non tanto di ubbidire, ma di accoglierti. Uno che non abbia paura di te.
Chissà per quale mistero è nata, e come si è fatta, questa ragazza, che non aveva paura, perché era piena di grazia, cioè sicura d’essere amata. Come fosse attaccata alla sorgente, l’amore prima della paura, quella che poi ha avvelenato dentro ogni uomo. Anche lei è turbata… ma non ha paura per sé, ha paura per l’altro, cosa vuol dire, che senso ha ciò che dice… cioè come accoglierlo. Quando capisce, è così aperta la sua accoglienza (‘capacità’) di libertà e di amore, che si affida totalmente ad un mistero inspiegato… sicura solo che nulla è impossibile al Dio che la ama.
… la storia fa un sussulto, come registreranno gli scrittori sacri, attenti ai sismografi profetici che segnano per noi le cose più importanti della storia, anche se apparentemente insignificanti per le leggi e le logiche del mondo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
… ecco dov’era la sorgente, prima che il male la inquinasse! ‘Il progetto era bello, incontaminato, turgido di amore e benevolenza. Forse la ‘benedizione’ (la parola creativa di bene e di amore) in qualche passaggio si era inceppata? Forse invece il mistero ci diviene ancor più incomprensibile perché lo vediamo a rovescio? Cioè, dal nostro punto di vista, già immersi nella situazione di paura. Come un torrente di lava ormai sceso a valle si raffredda, intorpidisce e muore, diventa pietra fredda… non si immagina neanche quant’è ancora incandescente il cuore del vulcano, a monte, da dove è partito…
Paolo, in qualche lampo di visione, ha intuito la storia dall’altra parte. Un caleidoscopio dove tutti i frammenti sconnessi e dolorosi della storia erano mirabilmente ricomposti in un “disegno del Padre, cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”. Non è stato un incidente di percorso. Tutto era misteriosamente previsto fin dall’inizio, quando ci aveva scelti (individuati e amati) prima della creazione del mondo, per ricondurci, lungo i sentieri chiaroscuri della storia, ad essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore. Cioè, anche noi trasparenti, senza paura! Il segreto è ancora la Parola, dove stanno scritte le tracce dell’azione amorevole di Dio, che si è chinato su noi e continua a proporci la sua “sfida” forte e amorevole alla nostra libertà, che chiamiamo grazia!. Per questo Maria, che nella pienezza del tempo l’ha accolta e fatta carne, una volta per sempre, per tutti noi, ci è madre e sorella.
giovedì 5 febbraio 2009
Spacciatori di Paura!

Non ci sono parole davanti a una notizia del genere... a questo punto tutto è possibile: siamo ormai alla versione beta del sistema totalitaristico italiano... la programmazione è oramai allo stadio avanzato...
Fa specie che solo ieri davano la notizia della scoperta della morte, avvenuta nel '92, di Aribert Heim, il «dottor morte», responsabile di atroci esperimenti nei campi di sterminio (CorrieredellaSera)... e ora qualcuno in parlamento pensa bene di riesumarlo, certo non siamo ancora al «dottor morte» ma al «dottor giuda» eppure la logica di fondo è la stessa: il medico non è più al servizio del malato, dell’uomo, né si badi bene è al servizio dello Stato, inteso come «bene comune», no! Il dottore, in entrambi gli schemi è sempre servo di un'ideologia: di una particolare filosofia della politica, dell’uomo, del cittadino, dello Stato!...
A questo punto tutto è possibile, ripeto, se non ci sarà una reazione forte, dura, senza possibilità alcuna di mediazione: queste idee si infiltreranno nelle nostre menti e nei nostri cuori e non ci lasceranno mai e inquineranno lentamente ma inesorabilmente ogni nostro agire, ogni nostro pensare, persino ogni nostro pregare...
Chi pensa che io stia esagerando lo invito a riflettere sulle dinamiche della paura. Questa legge, come molte altre scellerate, nascono da una paura, poco importa chi o che cosa la generi... paura della miseria, paura di essere aggrediti, paura di diventare minoranza a casa propria, paura di avere paura... Ma la paura è un sentimento incontrollabile, che attanaglia, che non molla la presa, che come un fiume in piena non si ferma mai e ci rende schiavi (cfr Ebrei 2,14ss). Quando coloro che se ne lasciano guidare si accorgeranno, che nonostante tutte queste norme, nonostante i militari nelle strade, le ronde tra le case, i campi di raccolta profughi, le espulsioni, gli arresti, la levitazione dei costi per una permesso di soggiorno, l’ondata migratoria non solo non diminuirà (troppo grande è la disperazione che neanche il rischio della morte in mare li ha finora fermati), ma diventerà ancora più caotica (proprio a causa anche di queste norme: perché spingerà il clandestino a «criminalizzarsi» per sopravvivere), si apriranno orizzonti ancora più drammatici e allora le ultime resistenze morali crolleranno davanti a una paura che si trasformerà in terrore...
Spero vivamente che a questo punto ci sia una protesta forte e chiara da parte della Chiesa, come istituzione, come gerarchia, come Popolo di Dio, nei movimenti, nelle parrocchie… E che non si limiti solo alle parole, ma che agendo con tutti i mezzi che la forza del Vangelo consente, davanti a un pensiero disumano che sta corrompendo sempre più radicalmente le nostre e altrui vite, si facciano promotori di un annuncio di liberazione autentica che attraverso soluzioni concrete ci guidi ad attraversare con coraggio le acque minacciose di una storia che sembra ci stia sommergendo...
Non possiamo più stare a guardare che ci uccidano anche l’anima!
domenica 1 febbraio 2009
Testimoniare la Speranza...
Il contrario della fede, nella Bibbia, non è l'ateismo. È la paura. In questo senso la Chiesa di papa Ratzinger vive una profonda crisi di fede, attanagliata come è dal terrore di tutto ciò che la circonda… Il volto di Leonardo Boff, solitamente sorridente, si fa pensieroso.
"I credenti non possono avere paura delle novità. Sanno che il mondo è stato salvato in Gesù Cristo... E un vero pastore sa che la barca di Pietro non corre il rischio di affondare anche se affronta il mare aperto perché è assistita dallo Spirito Santo. Invece questo papa non è un pastore, è solo un professore. Si preoccupa di fare ogni genere di appunto critico alla modernità, ma non ha irradiazione spirituale, non ha carisma, non mostra il cristianesimo come una cosa buona, una fonte di gioia per l'umanità. In una parola, non fa la cosa più evangelica, quella che Ernst Bloch riteneva la più importante per ogni religione: suscitare speranza. Una Chiesa così, che non è fonte di fiducia nella vita e nel futuro, tutta ripiegata su se stessa, sulla propria identità e sul potere sacrale della gerarchia, completamente paralizzata dalla paura di ciò che sta 'fuori', non è più una Chiesa. È una 'ecclesìola', una piccola chiesa, con forti tendenze fondamentaliste".
... quando Leonardo [Boff] era solo un promettente dottorando alla Facoltà teologica di Monaco di Baviera, il giovane professor Ratzinger era stato suo mentore e protettore. "Era un teologo brillante e aperto che noi studenti ascoltavamo con entusiasmo", dice con una nota di affetto nella voce: "Ma è sempre stata una persona estremamente timida e i timidi non sanno gestire il potere. Inoltre, da professore è diventato subito cardinale, senza fare mai il parroco né il vescovo. E questo non l'ha aiutato".
Dai tempi di Monaco tanti anni sono trascorsi. E le traiettorie di vita si sono divaricate. Boff, insieme a Gustavo Gutierrez e altri, ha fondato la Teologia della liberazione, la corrente di pensiero che tra gli anni Sessanta e Settanta ha cambiato il volto della Chiesa latinoamericana, trasformandola da pilastro della società feudale in avvocata dei poveri, degli emarginati e degli oppressi. Ratzinger, invece, ha messo radici nella cittadella fortificata della Curia vaticana, la Congregazione per la dottrina della fede. E una volta prefetto dell'ex Sant'Uffizio, ha preso di mira il suo pupillo di un tempo. Le sue colpe? Aver 'inquinato' la ricerca teologica con l'utilizzo degli strumenti di analisi sociale di scuola marxista e aver ricordato troppo chiaramente che la Chiesa è, come dicevano i Padri dell'antichità, "casta meretrix", santa ma anche profondamente peccatrice.
Dopo un doloroso processo canonico durato oltre un decennio, nel 1992 Boff ha lasciato il sacerdozio. Ma non ha abbondato le comunità cristiane latino-americane. Ha continuato a scrivere (un centinaio di libri) e a far discutere, dentro e fuori la Chiesa. Oggi la sua criniera di capelli neri si è totalmente imbiancata e una leggera zoppìa lo costringe a camminare con un bastone, ma lui ci scherza: "È solo una stampella epistemologica". La sua franchezza, comunque, è rimasta quella di un tempo. In Italia per un ciclo di conferenze organizzato dalla Rete Radié Resch, un'associazione di solidarietà con il Sud del mondo, spiega i prezzi che ha pagato la Teologia della liberazione: "I processi ecclesiastici subiti da tanti teologi latinoamericani hanno indebolito la Teologia della liberazione, che prima era affermata, riconosciuta e, in alcuni casi come il Brasile, abbracciata ufficialmente persino dalla Conferenza episcopale.
Questo gli ha impedito di diffondersi. Ma, non potendosi espandere, è scesa in profondità. La Teologia della liberazione, insomma, ha approfondito lo studio, ha arricchito le sue intuizioni, ha scoperto nuovi filoni di ricerca: non solo il mondo dei poveri in senso meramente economico, ma anche altri mondi emarginati, come quello degli indios, delle donne, dei discendenti degli schiavi neri. E si è visto che non si trattava di una questione ideologica 'di moda': il grido degli impoveriti e della stessa Madre Terra, sfruttata e inquinata, rappresentano una sfida pastorale a tutte le Chiese cristiane".
Bastonata nei sacri palazzi ed espulsa dai seminari, la Teologia della liberazione oggi sembra essersi presa una rivincita in politica, 'andando al potere' in parecchi Stati: "I governi di Evo Morales in Bolivia, di Rafael Correa in Ecuador, di Fernando Lugo in Paraguay e dello stesso Lula in Brasile: tutto questo", dice Boff, "francamente non ce lo aspettavamo. Mio fratello Clodovis, che è un religioso servita, teologo anche lui, è preoccupato che, in questa situazione, la dimensione religiosa venga messa in ombra dalla 'liberazione politica'. Per me, invece, si tratta di uno storico passo avanti: la liberazione, infatti, è un bene preminente, che appartiene al Regno di Dio, e dunque è più importante della teologia in sé e per sé".
Il papa e i vescovi, però, sembrano più preoccupati dal calo della pratica religiosa, dal crollo delle vocazioni, dalla secolarizzazione. C'è stato un eccesso di politicizzazione del messaggio cristiano, che ha nuociuto all'evangelizzazione? "No", risponde Boff, "secondo me la grande responsabilità di questo fenomeno è della Chiesa gerarchica, che di fronte ai cambiamenti, invece di aprirsi, ha avuto paura e si è rivolta al passato, reintroducendo il latino e reinterpretando il Concilio Vaticano II con gli occhi del Vaticano I. Si è andata accentuando talmente l'identità cattolica da escludere tutti gli altri: alle Chiese cristiane non cattoliche si è voluto togliere il titolo di 'Chiese' in senso proprio. Ed è stato anche recuperato il vecchio tema medievale secondo cui fuori della Chiesa non c'è salvezza. Questo papa non ha capito che lo Spirito Santo soffia dove vuole e, sicuramente, arriva prima dei missionari.
Lui pensa che Dio abbia la misura della testa del papa, e lo Spirito la misura dello spazio della Chiesa gerarchica. Ma questo è diminuire il messaggio di Gesù e, in qualche modo, tradirlo. Secondo il Nuovo Testamento, Pietro e i suoi successori dovrebbero 'confortare le sorelle e i fratelli nella fede'. Ecco: io penso che questo papa non li stia confortando. Sta rafforzando solo la dottrina, la disciplina, l'ordine. Non la vita".
La deriva identitaria, però, non è un'esclusiva del cattolicesimo. Tendenze fondamentaliste si stanno diffondendo in tutte le grandi fedi, dall'Islam all'ebraismo, all'induismo. Sembra un virus planetario. Secondo Boff, "il primo fondamentalismo è quello della visione neoliberista del mercato, che dopo il crollo delle Borse è in profonda crisi. Poi ci sono i fondamentalismi religiosi. Tutti sono espressione di una crisi di civilizzazione, in cui nessuno sa più dire dove va il mondo. Si tratta di un atteggiamento di resistenza al nuovo, una strategia di pura sopravvivenza, non di accettazione del rischio".
Ma esiste un'istituzione che oggi può permettersi di rischiare? Boff non ha dubbi: "Sì, la Chiesa, che si fonda su Gesù risorto. Solo liberandosi dalla paura di 'perdersi' e ritrovando la capacità di aprirsi al nuovo, il cristianesimo può arricchirsi. Solo così può evitare di trasformarsi in un pozzo di acque morte e tornare a essere sorgente di acqua viva"
venerdì 20 giugno 2008
Il coraggio della paura…
I discepoli, appena tuffati nella storia senza il Maestro, si devono essere ben spaventati, se l’evangelista ricorda loro e ripete come una litania l’incoraggiamento: non temete, non temete, non temete… (la versione italiana cambia parola, forse per attenuare l’impatto). La verità del vangelo non è “potente”, splendente, riconoscibile, non è demagogica. È piuttosto un seme minuscolo, un fermento impercettibile, una proposta scandalosa… La verità che illumina il discepolo è verità crocifissa, la sua luce levata tra le nazioni è velata. Gli “altri” non la vedono e non la sentono… quindi pensano che sragioniamo. Ma il loro giudizio è troppo importante per noi e manda in crisi la poca fede cha abbiamo. Secondo Gesù il pericolo del discepolo è la paura… Mandato come agnello in mezzo ai lupi… contrastato da conflitti e persecuzioni, incompreso o travisato nell’annuncio della sua fede… la paura gli entra dentro nel cuore e mette in discussione i fondamenti della sfida evangelica.
la paura
…paura di doversi congedare per sempre dal successo, dal consenso e dal riconoscimento degli altri… che gratificano e insieme nutrono la nostra fragile identità personale con il supporto del tessuto umano in cui viviamo. Quando la gente non ci capisce o addirittura ci contesta, andiamo in crisi di identità. Possiamo reagire con aggressività o con depressione, ma rischiamo comunque di rimanere con una fede ridotta a un lumicino, nel segreto del proprio cuore, senza più forza per diradare le tenebre… né proposte comprensibili ed efficaci per affrontare la vita. La quale ci riporta invece sempre le stesse sofferenze e impotenze personali e collettive… gli stessi fallimenti. La fede dunque non era un rimedio, una risposta, una ‘redenzione’ dai mali della vita… Ma allora, a che serve?
…paura di perdere i beni necessari alla propria sussistenza, quando la verità del vangelo riduce il consenso attorno a noi… si diventa precari: è il momento di congedarsi anche da tanti beni materiali… legati alla carriera, alla vanità, alle comodità che il consenso consolidato offrirebbe.
…ma soprattutto paura di congedarsi da Sé, dal proprio corpo di carne e dal proprio io abbarbicato alla vita biologica e psichica, per salvare “l’anima evangelica”, cioè la propria vera identità di discepolo del Signore. Questa disponibilità a congedarsi da se è la premessa drastica del cammino del discepolo, messa in chiaro dal Signore, fin dall’inizio della fede in lui: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24)… È un cammino aspro e difficile, attraverso una via stretta e in salita, ma così si costruisce l’identità vera del discepolo, che è il primato dell’amore. Imparare a credere è imparare ad amare! Non con l’entusiasmo di Pietro, focoso e sincero, ma inconsistente di fronte alla paura di “morire con lui”… La fedeltà nella paura è una conquista sofferta e difficile, come ogni amore vero – che anche lui, il Maestro, ha guadagnato, ‘con forti grida e lacrime’, e che ripropone ai suoi con estrema lucidità: «Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!» (Gv 12, 26s)». Gesù non era immune dalla paura di morire, dall’angoscia della solitudine, dall’istintiva repulsione della sofferenza… ma ha avuto il coraggio di contenere questi sentimenti, umanissimi ma paralizzanti, e sottometterli alla volontà del Padre.
una promessa, infatti, è seminata nella paura!
…promessa che ogni amore vero, per quanto timido e riservato, vincerà le tenebre e manifesterà la sua verità. Ogni luce che si riesce a fare attorno a sé, ci rinforzerà ulteriormente il coraggio di testimoniare dai balconi… che è come bruciarsi alle spalle i ponti della paura. E ci darà il coraggio di proclamazione della verità, cioè di coinvolgimento nel Regno. Non riguarda tanto il successo finale, che secondo Gesù, è il Regno del Padre, che impregna, salva e trasfigura la storia. Ma riguarda immediatamente il “successo” quaggiù: un “diverso successo” che è la misteriosa e vera ricompensa del Padre nel segreto della propria anima, che impercettibilmente si diffonde e rigenera il cuore. I piccoli miracoli dell’amore che risanano le persone e ridonano speranza nella vita, anche se nessuno o pochi se ne accorgono. I semi che crescono dal nulla e offrono un angolo di ospitalità e fraternità a chi è smarrito e senza aiuto…
…promessa di una vita più bella, compiuta e intensa di quella fisica, anche se è solo sulla piattaforma di quella fisica che può spuntare e crescere… Esperienze di amore e tenerezza, accudimento e affidamento, liberazione dalle catene che imprigionano l’anima e avviamento alla libertà e autonomia personali… Queste esperienze inducono progressivamente una passione interiore più forte che la paura di perdere il corpo e suoi beni e la consapevolezza che l’anima, pur soffrendo è preservata, e diventa territorio non calpestabile da nessuno, riservato a Chi l’ha guadagnato con il suo amore…
…la promessa della tenerezza del Padre: “voi valete ben più di molti passeri … Perfino i capelli del capo sono tutti contrassegnati dalla sua attenzione affettuosa… Non è la “Provvidenza” che guida gli eventi a mio favore, evangelicamente smentita dalla sorte del Figlio. Dio non interviene nella dinamica delle forze naturali, non ci ha riservato ricette magiche per manovrare gli eventi a nostro vantaggio… Ci ha affidato piuttosto di continuare la consegna messianica al Figlio: che è il vero senso caratteristico della sua vita messianica, cioè assorbire su di sé il male che è attorno a noi e lasciare passare in noi il “suo” amore paterno al mondo! È verso questo nostro compito “smisurato” per le nostre forze, che va tutta la sua tenerezza paterna.
anch'io lo riconoscerò…
se questi segni caratteristici di Gesù si consolidano in noi, ci cambiano l’anima e il volto. Allora non solo superiamo la paura, ma lo rendiamo riconoscibile dagli uomini a cui arriva il nostro (suo!) bene. E facciamo riconoscere il suo Vangelo... È chiaro allora che Gesù gioirà, alla fine dei tempi nel presentare e riconoscere sulla nostra faccia, questo volto “cristiano” di fronte al Padre… Ma ogni escatologia evangelica ha la sua sorgente nella storia di questo nostro mondo. Allora, questo “riconoscimento” non é una promessa per “dopo”: il riconoscimento di Gesù sta preparandosi adesso, nel tempo della paura… man mano che facciamo i nostri piccoli passi di distacco da noi stessi per dare spazio all’amore disinteressato, e questo implica la nostra morte. È il segreto forte e ostico dell’avventura di Gesù sulla terra e non convinceremo mai del tutto il nostro io a non averne paura… Per questo la tenerezza paterna del Dio di Gesù che ci carezza perfino i capelli, ci è necessaria per rassicurarci.
Perché la paura?
Implorano aiuto, invocano pane e fortuna,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Tutti, tutti, cristiani e pagani
“gli uomini vanno a Dio nel suo bisogno
Lo trovano povero, umiliato, senza tetto né pane,
lo vedono soffocato dai peccati, dalla debolezza, dalla morte.
I cristiani stanno vicini a Dio nella sua sofferenza”
Può sembrare strano il fatto di postulare per l’uomo forte e adulto un Dio crocifisso e impotente. Già, ma è lui che si è rivelato così e poi questa è l’unica maniera di respingere ogni forma di integrismo e eteronomia in forma clericale. La terra è laicamente liberata dai cortocircuiti dell’oggettivazione teologica per le realtà mondane, e Dio gli sta sofferente nel cuore come imprevedibile fermento: Fonte di pietà senza fine, capace di attrazioni amorose, come quelle che portarono Bonhoeffer sulla via della sequela e della consumazione. Se “Dio onnipotente” atterrisce oppure crea l’ubriacatura del dominio, il “Dio impotente” attrae come un destino di partecipazione.
C’è poi un altro motivo per questa scelta biblica e cristiana, che rappresenta un “rovesciamento” teorico e pratico di fronte alle teologie dell’onnipotenza, ed è quello che solo nel senso di questa logica teologicamente depotenziata e umanisticamente esaltata porta Dio in Gesù ad essere totalmente per l’uomo. Il crocifisso infatti dice due cose molto importanti: l’antitrionfalismo e la totale immersione con la caratteristica tutta teologica della sostituzione. Il crocifisso infatti implica l’impotenza che Dio si sceglie per lasciare posto alla potenza dell’uomo: Il crocifisso non è allora un evento capitato a Dio, ma l’essenza del suo essere nel mondo. Il cristiano deve sapere che il modo cui il suo Dio vuole essere presente nel mondo è quello dell’assenza. La logica teologica non può essere giudicata con i parametri logici normali. Chi può insegnare a Dio come essere potente?
…
Inoltre il crocifisso è segno di un nuovo senso dell’essere di Dio, quello del consumarsi per l’altro. In ciò è Gesù che rivela compiutamente. La nuova stoffa dell’essere teologico è dunque definitivamente fissata così: “l’esistere per gli altri”. Ecco come si esprime Bonhoeffer nel ricordato schema per un saggio . “Chi è Dio? Non è prima di tutto fede generica in Dio,nell’onnipotenza di Dio e via dicendo. Questa non è autentica esperienza di Dio,ma un pezzo di mondo prolungato- L’incontro con Gesù Cristo è prendere coscienza che qui è avvenuto un rovesciamento di ogni essere umano, che Gesù “esiste solo per gli altri”
Nasce così un nuovo concetto di trascendenza e nuovi compiti infiniti: il trascendere non l’uomo, creando un pericoloso”in alto” tanto vicino al trono dei potenti, ma il trascendere l’io, in una tensione e svuotamento inesausti: Bonhoeffer insiste in questa nuova maniera di fare esperienza di Dio e su questa che è chiaramente una trascendenza mondana. «l’“esistere per gli altri” di Gesù è la presa di coscienza della trascendenza. Dalla libertà da se stessi, dall’ esistere per gli altri fino alla morte scaturiscono l’onnipotenza. l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipare a questo essere di Gesù (incarnazione, croce, risurrezione). Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto religioso con l’essere più alto, più potente, più buono: questa non è vera, autentica trascendenza; il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’ “esistere per gli altri”,nella partecipazione all’essere di Cristo. Il trascendente non è… doveri infiniti, irraggiungibili, ma il prossimo, dato volta per volta, raggiungibile».
L’inaudito tocca la sua più alta espressione“Dio in forma umana”
giovedì 19 giugno 2008
Non aver paura anche se si sta come d'autunno sugli alberi le foglie
Leggendo per intero questo brano, si vede subito come l’impressione tutto sommato positiva e vittoriosa che avevamo leggendone solo uno stralcio, cambi: le parole del profeta sono di una tragicità davvero soffocante, quasi straziante... Ma cosa sta vivendo quest’uomo? Gli esegeti ci invitano a «resistere alla tentazione di situare ogni confessione in un momento particolare della vita del profeta». Questo ha l’indubbio vantaggio di fare del profeta «il modello di ogni credente».
Ecco perché è così interessante anche per noi ripercorrere questo testo! Esso è paradigmatico proprio perché mostra come funziona l’uomo quando è come triturato dalla drammatica della vita.
«Mi hai sedotto, Signore, e ho ceduto alla seduzione; mi hai forzato e hai prevalso; sono divenuto derisione tutto il giorno, chiunque si beffa di me!»: Geremia, come ogni essere umano, aveva iniziato la sua missione perché aveva intuito qualcosa di promettente, iscritto dentro alla vita, e aveva voluto dargli credito, giocandosi per quella che gli pareva una vita buona. Funzioniamo così anche noi! Agiamo, speriamo, scegliamo, ci muoviamo, ci appassioniamo, ci dedichiamo... sempre perché percepiamo nella vita, in una situazione, in una persona, come una promessa, un qualcosa di promettente a cui acconsentiamo e per cui – crediamo – valga la pena compromettersi. Lo facciamo fin da bambini, quando acconsentiamo alla vita, considerando promettente il nutrirci dal seno di nostra madre; continuiamo a farlo da adulti, quando la promessa la vediamo iscritta nella faccia di un altro da amare; e lo facciamo perfino quando, morendo, acconsentiamo ad avere imparato a fidarci così della vita, da saperla perdere per ritrovarla.
Ma l’esperienza di Geremia ora è quella di chi si ritrova a mettere in dubbio quell’intuizione, per cui aveva deciso di spendere la vita: il profeta «si è lasciato sedurre da tante belle promesse e ora si trova abbandonato e fatto zimbello della gente. [...] Egli si chiede dolorosamente perché il Signore l’abbia chiamato ad un annuncio sterile («Perché ogni volta che io parlo debbo gridare, violenza e rovina debbo proclamare! Sì, la parola del Signore è divenuta per me obbrobrio e beffa tutto il giorno»). Non è forse un inganno, una trappola, una violenza?».
Quante volte anche a noi è salito alle labbra questo dubbio «Non è forse un inganno, una trappola, una violenza?». È l’esperienza della delusione, della dis-illusione, del fallimento, del tradimento, della messa in discussione di ciò su cui si è fondata la vita. Tant’è che come per Geremia, che pensa che «la soluzione potrebbe essere di non parlare più» in nome di Dio («Perciò pensavo: “Non voglio ricordarlo e non parlerò più in suo nome!”»), anche a noi viene in mente che forse il passo da porre è quello di «rompere i ponti con un Dio così», con un uomo così, con un figlio così, con un lavoro così, con una vocazione così, con una vita così...
Eccoci dipinti, nel giro di un paio di tocchi di pennello: intuizione di una promessa, credito accordatole, passione e dedizione per quanto scelto, delusione, messa in discussione della promessa, di chi ce l’ha fatta e di noi stessi che le abbiamo dato fiducia... con, da sfondo, l’insofferenza per l’attesa di una parola che rompa gli indugi, che ci dica se davvero abbiamo sbagliato, siamo falliti, siamo finiti, così da poterci lasciare andare alla disperazione e placare definitivamente gli impulsi di speranza, che ora sanno di illusorio, che ci tornano in pancia.
«Qui, però, Dio non risponde nulla al profeta, né lo esorta a sperare»: è il silenzio di Dio – letto dal punto di vista dell’uomo; è il desiderio che l’uomo converta l’immagine di dio che ha in testa – da parte di Dio.
I versetti che seguono infatti, quelli della nostra prima lettura, sono – come rivelano quelli ancora successivi (vv. 14-18: «Maledetto il giorno in cui io nacqui; il giorno in cui mi partorì mia madre non sia benedetto! Maledetto l' uomo che portò l' annuncio a mio padre, dicendo: «Ti è nato un maschio!», riempiendolo di letizia. Sia quell' uomo come le città che il Signore ha sconvolto senza pentimenti; oda il grido al mattino e clamori di guerra a mezzogiorno. Perché non mi ha fatto morire nel seno? Mia madre sarebbe stata per me la mia tomba e l' utero, gravidanza perpetua! Perché sono uscito dall' utero? Per vedere affanno e cordoglio e terminare nella vergogna i giorni miei?») – solo un affrettato momento edificante e consolatorio: «il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile. Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori». Un affrettato momento edificante e consolatorio che rivela solo come «il profeta intenda ancora troppo umanamente l’assistenza divina»: «Dio – infatti – interviene nell’intimo dell’uomo, rinnovandolo e trasformandolo», e non come un burattinaio nella storia. Come ricorda Sequeri[2] infatti: «Se gli uomini tentano Dio, sollecitandolo a esibire la sua potenza contro l’altro come una necessità in sua difesa, Dio si sottrae», perché il dio-mio-contro-l’altro è l’idolo; il Dio di Gesù Cristo invece non ha nemici, ha solo figli! È qui che deve approdare Geremia e con lui, ciascuno di noi, toccato nella sua umanità e nei suoi fondamenti quando – per rubar le parole a Ungaretti – «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie».
È proprio il silenzio di Dio che «fa sì che il dramma interiore del profeta si sviluppi con tutta la sua intensità ed egli cerchi proprio così più in profondità il volto di quella Persona di Dio di cui si è innamorato la prima volta e capisca in modo nuovo che Egli non è l’imbroglione, il seduttore, ma Colui che si prende cura infallibilmente e fedelmente del suo profeta» e di ciascun uomo.
È l’invito pressante del Vangelo di Matteo. Siamo immediatamente dopo la sezione in cui Gesù chiama i discepoli per mandarli a predicare e annunzia loro la persecuzione: come Geremia, come noi, come d’autunno sugli alberi le foglie! È la situazione della messa in discussione di noi, di Dio, degli altri... è il dubbio sul credito che abbiamo dato alla vita, alla promessa in essa iscritta... è la paura...
Gesù capisce profondamente com’è fatto l’uomo e per questo tocca proprio il punto caldo della questione: è la paura (di morire, di aver sprecato la vita, di non essere stati all’altezza, di trovarci falliti, soli, senza senso...) che blocca il fluire della vita nelle vene dell’uomo, i suoi guizzi di freschezza e di creatività, i suoi zampilli di amore rinnovato, la sua caratura umana, il suo esser-ci! E di fatti continua: «Non abbiate paura degli uomini...»; «non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo...»; «Non abbiate dunque paura...».
Gesù sa che «la paura genera mostri»: è questo il blocco interiore da spezzare, è questo il credito da rinnovare, non dimenticando – nella prova – che Dio non è il serpente. Egli, nella passione e morte del Figlio ha rotto per sempre questa ambiguità; per questo per l’uomo dev’essere un’evidenza, anche nella tragicità della vita, la sua affidabilità!
È quello che Paolo tenta di dire ai Romani! Benché il discorso sembri focalizzarsi sul peccato di Adamo, l’interesse principale di Paolo è sul molto più della grazia, sulla sua sovrabbondanza in Gesù! Il peccato di Adamo è messo lì solo per fare da contrapposto al molto più della grazia!
È sul credito a questa promessa, iscritta già nella grammatica della nostra vita (da quando acconsentiamo a succhiare il primo latte), che fiorisce l’uomo, come uomo, anche se «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie».
[1] P. Rota Scalabrini, Il profeta Geremia: sperare in un tempo di crisi, in Scuola della Parola, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 2001, 81.
[2] P.A. Sequeri, Il timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1993, 133.
giovedì 20 dicembre 2007
La forma dell'attesa: senza paura d'amare, ma con fedeltà e coinvolgimento
È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare…
E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…
Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa IV domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no?
No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo martedì, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…
Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale? Se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a), di che cosa parla sto Vangelo?!?
Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal rannicchiamento sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…
Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.
La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»…
Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… è vero sappiamo tutto… ma – ipotizziamo – se un ragazzino dei miei arrivasse e mi chiedesse “Tu che queste cose le sai già tutte, dimmi allora chi è Gesù, cosa vuol dire che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo…?”… ecco, se arrivasse, non so voi, ma io sbiancherei e con un bel giro di parole lo intorterei su per evitare il discorso…
E allora, forse… anche a noi, a me, che sappiamo già tutto e sappiamo già come va a finire la storia, fa bene metterci un po’ nei panni dei protagonisti e lasciarci istruire da come loro hanno vissuto le cose… o almeno da come ce le racconta Matteo…
Insomma… sto Giuseppe si ritrova con sto ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata con una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio…
Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina… a me vengo subito in mente io… quante volte mi ritrovo, ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del gatto che si morde la coda…
E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il ragionare, partorisce la sua risoluzione… una risoluzione che non può che essere il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla…
Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci sta intorno… ma d'altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro?
«Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».
È avvenuto qualcosa… Giuseppe arriva all’unica risoluzione che dà gioia, all’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa!
È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo qua determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).
È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il groppo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù »).
E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe…
Troppo spesso lo immaginiamo come lo sfigato – passatemi il termine – della situazione: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con sta storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce pure, senza che si sappia più niente di lui… insomma…
E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato…
Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…
È interessante che la Chiesa ci metta proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: che ci voglia dire che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…?
Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…
Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…
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