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mercoledì 17 giugno 2015

XII Domenica del tempo ordinario


Dal libro di Giobbe (Gb 38,1.8-11)

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 5,14-17)

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 4,35-41)

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

 

Questo brano di vangelo, difficile da spiegare nel suo senso letterale, spesso è stato interpretato metaforicamente: per cui la barca sarebbe la Chiesa, scossa dal vento e dal mare in tempesta (un mare che rappresenta il male) e che si spaventa. Il Signore – fortunatamente –, seppur inizialmente dorma e alla fine concluda con una sgridata, esaudisce il desiderio dei discepoli di “tirarli fuori dai pasticci”, misericordioso nei confronti della loro debolezza.

A partire da questa lettura poi spesso si evincono tutta una serie di considerazioni sulla Chiesa (che poverina – in questi tempi – pare proprio scossa dal vento e dal mare tempestoso), sul Signore (che pare dormire, ma c’è e quando la situazione si fa grama – tac – arriva infallibilmente), sulla fede (dato che crediamo in un Dio apparentemente dormiente, ma in realtà infallibile, non bisogna temere, ma avere fede).

Io credo che questa lettura non riesca più a parlare al nostro cuore.

Anche perché l’intento dell’evangelista Marco non mi pare sia tanto il destino della Chiesa e tutte le considerazioni dei parroci in merito, quanto piuttosto il tratteggiare una situazione esistenziale che è propria di ciascun uomo e che è ben riassunta nelle due domandine messe in bocca a Gesù alla fine dell’episodio: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

Che la vita sia una tempesta e che il Signore dorma (cioè appaia lontano, assente, ecc…) è un dato di fatto: questa è la base di partenza di chiunque si ponga a guardare alla storia (umana, ecclesiale, personale) senza troppi ghirigori.

Ma il problema del brano non è questo: questa è la condizione di partenza. È una situazione data.

Il centro del brano, e quindi dell’interesse dell’evangelista, è piuttosto quanto segue: cioè il fatto che in questa situazione data, in questa condizione che è la vita (non una fase brutta della vita, o un periodaccio, ma tutta la vita), l’uomo – anzi il discepolo! – si ponga come colui che dice: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

Il problema cioè è l’immediata associazione tra “vita” (sempre tempestosa) e “disinteresse di Gesù”: la questione cioè è esattamente la stessa descritta in Gen 3 nel racconto del peccato originale. Anzi, in questo brano è rinarrato il peccato originale (qui non dell’uomo in generale, ma del discepolo): la messa in discussione del volto benevolo di Dio a partire dalla tempestosità della vita. Tant’è che, come dicevamo, il brano si conclude con le domande: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

Le due domande non sono casuali, ma – ovviamente – la seconda implica la risposta alla prima: avete paura perché non vi fidate di me! Ecco la messa in discussione del suo volto buono. Non ci si fida di chi non si conosce o di chi si teme abbia una doppia faccia.

Il problema infatti è proprio questo: il discepolo dovrebbe essere colui che alla luce della sua relazione di fiducia con Dio (fede), con il Dio di Gesù, che conosce e del cui volto buono, proprio perché lo conosce, non può dubitare, non ha più paura.

Sarebbe interessante ripercorrere le nostre paure, analizzarle, cercarne la fonte e provare a capire in che senso la fiducia – fondata sulla conoscenza – nel volto solo buono di Dio possa spegnerle.

Perché ovviamente non tutti i sensi in cui sciogliamo le nostre paure con la fede sono corrette (cioè evangelicamente corrette: per esempio se ho paura di essere aggredita, non è che la fede mi fa passare la paura di andarmene in qualche postaccio a provocare dei tipacci… perché tanto poi ci pensa il mio dio supereroe).

È per questo che bisogna stare attenti col vangelo: perché si rischia di usare le sue stesse parole per fargli dire qualcosa di diverso da quello che era sua intenzione (non a caso il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che Parola di Dio non è quello che capisco io, o chi per me, ma l’intenzione dell’autore).

E allora io credo che – indubbiamente – un altro punto di partenza per la tavola rotonda che già invocavo (parlando della messa) che ci permetterebbe pian piano di andare a sondare i contenuti della nostra fede cristiana, potrebbero proprio essere queste due domande:
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

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