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martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale!... Forse

 
Forse mai come in questo Natale 2012 ci sentiamo così vicini a Gesù, a Maria, a Giuseppe.

Guardiamo il presepe… molto bello certo, ma quello vero non è mai così bello, così ricco di luci… con la bolletta dell’Enel che non si riesce a pagare…

Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire restare soli, senza un soldo in tasca, senza un lavoro degno di questo nome…
Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire essere cacciati da un alloggio caldo e accogliente in cui si cercava rifugio per una sola notte…
Forse… ora capiamo meglio la sensazione di disagio che ha provato Maria… con le doglie imminenti e l’assenza di acqua per potersi lavare.
Forse… ora capiamo meglio l’angoscia di Giuseppe… la sua impotenza davanti all’ostilità degli uomini e della storia. Capiamo meglio l’angoscia di un padre che non riesce a proteggere come vorrebbe le persone che ama…

Forse… capiamo meglio l’ingiustizia patita da Gesù…
In fondo Lui ha sempre vissuto così: “da cacciato via”… da straniero… Ha sempre fatto fatica Gesù a trovare una casa accogliente, Lui che non aveva neanche una pietra dove posare il capo, Lui che non aveva neanche – diversamente dagli animali – una tana dove rifugiarsi… Qualche volta la trovava a Betania, a casa di Lazzaro, ma ha sempre vissuto da rifugiato… anche a Nazareth. In fondo ci era andato per nascondersi dal potente di turno, tanto insignificante era quel posto.

Sta per nascere Gesù... e l’unico posto in cui ha potuto nascere è la nuda roccia di una grotta, di una caverna… la stessa roccia fredda che accoglierà il suo corpo… ciò che restava di una vita consegnata…
Appena madre e ancora ragazza Maria... e già si esercita a compiere quel gesto che trent’anni dopo dovrà fare per custodire le spoglie del figlio amato, avvolgendolo in fasce.

Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire, non trovare rifugio sicuro e stabile per poter condurre una vita dignitosa.
Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire vivere al freddo riscaldati dal tepore e fetore degli animali… E da genitori indifesi e infreddoliti, stanchi e affamati…

Forse… oggi capiamo meglio quella solidarietà che Gesù ha voluto vivere con il nostro disagio…
Forse ora comprendiamo che cosa voleva dire quando ci invitava a essere solidali con chi, per una ragione o per l’altra, è emarginato…
Forse… oggi, i disagi di quest’anno e la speranza di un futuro migliore che sembra spegnersi, ci fanno scoprire che abbiamo qualcosa in comune con le persone che fino a ieri incontravamo solo per far loro l’elemosina, “la carità”. Forse ora ci accorgiamo che abbiamo molte cose in comune con loro… Con molte cose da dirci, più che da darci.

Forse oggi, invece di chiedere qualcosa – a Gesù, agli altri – avremo voglia di dire qualcosa: che ci siamo anche noi, solidali come Lui, perché cominciamo a capire che cosa si prova a trovarsi ai margini della storia…
E forse oggi abbiamo voglia di ringraziarlo per questo, perché da stasera, forse, abbiamo capito grazie a Lui, che per vivere felici, senza perdere la propria dignità, non si ha bisogno di molte cose: basta un bue, un asinello, una madre affettuosa anche se inesperta, un padre premuroso anche se spaventato e qualche pastore, qualche povero disprezzato, che venga a farci compagnia.

Buon Natale! Forse…

martedì 18 dicembre 2012

IV Domenica di Avvento

Dal libro del profeta Michèa (Mi 5,1-4a)
Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace!».

 Dalla lettera agli Ebrei (Eb 10,5-10)
Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 1,39-45)
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

In questa Quarta e ultima Domenica di Avvento la Chiesa ci propone di riflettere sull’episodio del vangelo di Luca, tradizionalmente titolato “La visitazione”: Maria – dopo aver ricevuto, da parte dell’angelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Gesù – parte «in fretta» per andare da Elisabetta, sua parente.

«Per quale motivo Maria si reca da Elisabetta? Secondo un diffuso sentire popolare, e anche secondo diversi esegeti, Maria sarebbe stata spinta dalla carità e dalla volontà di servizio. “Maria poteva aiutare sua cugina nelle sue occupazioni quotidiane, offrendole quei servigi che le donne usano rendersi in tali circostanze” [scrive L. Deiss, ne Elementi fondamentali di Mariologia]. La “Serva del Signore” si fa serva degli uomini, come è nella logica del vangelo, dove l’amore di Dio si dimostra e si verifica nell’amore del prossimo. E. Bianchi annota che l’intenzione caritativa di Maria si trasforma però – nel racconto di Luca – in un viaggio missionario: “Maria va per fare il bene e finisce per portare Cristo” [E. Bianchi, Magnificat].

In realtà da nessuna parte del testo è suggerito che il viaggio di Maria sia stato motivato dal desiderio di aiutare Elisabetta. Tanto più che, come si è visto, Maria ritorna a casa sua prima della nascita del Battista (1,56). E l’espressione “Serva del Signore” (1,38) sottolinea l’obbedienza a Dio, non di per sé il servizio al prossimo. L’unico motivo, che può trovare un appoggio nel testo, è il desiderio di Maria di osservare il segno che l’angelo le ha indicato» [B. Maggioni, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2001, 36-37].

Pochi versetti prima infatti – durante l’annuncio dell’angelo a Maria («Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine», Lc 1,30-33) – Egli aveva aggiunto, quasi a indicare una traccia di attendibilità del suo messaggio: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,35-37).

Maria che «diversamente da Zaccaria [come annota ancora Maggioni], non ha chiesto un segno», individua nelle parole dell’angelo un’indicazione: un’indicazione che «nasconde un invito. Il segno e la sua verifica fanno [infatti] parte della logica delle rivelazioni. Dio mostra [N.B. “mostra” NON “dimostra”] la sua verità e non vuole che l’assenso della fede avvenga al buio»!

Precisamente in queste ultime indicazioni – purtroppo abitualmente soffocate dal continuo rilancio della lettura di questo brano che vede in Maria l’esempio di carità da seguire, accontentandosi ancora una volta di proporre semplicemente i luoghi comuni di una religiosità che troppo disinvoltamente fa “tornare i conti” della drammatica evangelica – sta la straordinarietà e – mi sia permesso – la spregiudicatezza di questo testo.

Esso infatti – precisamente mentre sta descrivendo il paradigma della fede di ogni credente: Maria, appunto – non ha paura di mostrare come la fede – cioè la relazione dell’uomo al suo Dio – non sia assolutamente da intendere come una fede cieca! Questa constatazione – che è un’evidenza che emerge da ogni interstizio evangelico – purtroppo ancora oggi risuona come una prospettiva sospetta: la catechesi neoscolastica degli ultimi secoli ha infatti radicalmente fatto sedimentare nelle nostre menti l’idea che se di fede si tratta, non c’è spazio per l’esercizio della ragione… Essa è “un salto nel buio”, se no che fede è?

“Curiosamente” invece proprio Maria – da sempre cantata come l’esempio della fede di ciascun cristiano – a fronte di una rivelazione di Dio, di un “farlesi” incontro di Dio, di un imbattersi in Dio, si appiglia all’unica “traccia” che l’angelo le ha lasciato per andare a constatare se effettivamente l’esperienza che ha vissuto ha una sua attendibilità. Il problema di Maria è infatti quello di ciascuno: “Questa rivelazione, questa lieta notizia, questo vangelo, – in ultima analisi –, questo Dio, è un Dio affidabile, è un Dio credibile, è un Dio degno di fede, della mia fede? Vale la pena dedicargli la vita, instaurare con Lui una relazione che diventi l’orizzonte di senso in cui comprendere il reale, incarnare la sua logica che conduce al dono della mia vita per amore dei fratelli?”.

L’angelo aveva parlato di Elisabetta… E Maria, «in fretta», va da lei!

Altro che fede cieca (che tra l’altro il Concilio Vaticano I ha stigmatizzato – con la Costituzione dogmatica Dei Filius – come inaccettabile)! La relazione che il Signore propone all’uomo onora fino in fondo la caratura pienamente umana (e dunque anche razionale) dell’uomo! Nessun salto nel buio, ma il paziente riconoscimento del farsi prossimo di Dio, l’intercettazione, nel nostro ordine degli affetti, di una promessa di senso lì contenuta, il credito dato a questa intuizione e il conseguente sbilanciamento verso un approfondimento della conoscenza di questo suo rivelarsi (fatto anche – non solo, ovviamente – di faticosa indagine sui testi, che invece molti cristiani non solo non hanno mai studiato, ma nemmeno mai letto…), la verifica di ciò che attraverso lo studio (Parola di Dio), il dialogo personale (preghiera), la vita ecclesiale (sacramenti), il volto dei fratelli (storia) emerge come volto del Dio di Gesù Cristo… per giungere ad un assenso consapevole… che riapre la circolarità appena descritta, dove infatti il consenso raggiunto, diventa occasione di nuove illuminazioni nell’ordine degli affetti, credito concessogli, ecc…

Ecco perché questo testo è coraggioso, perché non ha paura di mostrare come – per entrare in relazione con Dio – non ci sia affatto bisogno di uscire dalla carne, di censurare i nostri dubbi, di spegnere la nostra razionalità, di rispettare la nostra umana natura che prevede che per “farci” uomini, diventare uomini, ci si immerga nella storicità…

Maria – donna a tutti gli effetti, fatta di carne e sangue, sudore e fatica, gambe per andare in fretta da Elisabetta, “voce forte” per salutarla, entusiasmo e trepidazione per l’annuncio dell’angelo in cui le è capitato di imbattersi, tenerezza per il figlio che porta in grembo, desiderio di dirlo a qualcuno (a qualcuna…) –, l’esempio di fede dei cristiani di ogni generazione, non risulta affatto l’eterea semi-dea a cui spesso purtroppo ancora oggi è spesso ridotta dalla devozione popolare, colpevolmente alimentata da molti funzionari del sacro, ma ci appare – aprendoci ad un sorriso compiaciuto e tenerissimo – la ragazza a cui è capitato di tenere in pancia Dio, colma di paura e trepidazione, sospetti e incomprensioni, che non ha avuto paura di andare a vedere se davvero quell’angelo diceva il vero su Elisabetta!

Perché forse – se diceva il vero su Elisabetta – diceva il vero anche a lei…

E così Luca ci regala l’indimenticabile pagina della rivelazione del Signore (Elisabetta è la prima che chiama Gesù con questo titolo nel vangelo di Luca), chiusa fra le quattro mura di una casa normalissima, con protagoniste due donne – una ragazza madre e una donna sfiorita – e le loro pance (con i rispettivi abitanti) che si parlano di una gioia incontenibile: è il Signore che viene, nel mondo laico delle donne, nella quotidianità di quelli che non contano, nel cuore dell’umanità. «Perché Dio entra nella storia dalla porta di servizio, dove mai l’avremmo aspettato, perché da lì entrano i servi e i domestici…o, di soppiatto, i ladri. Noi eravamo e siamo sempre in attesa sul portone principale della religione, dell’intelligenza, della morale ascetica. Ma lui è entrato e continua a battere nella storia dal punto più basso, da dove noi cerchiamo faticosamente e inutilmente di allontanarci, dalla nascita alla morte: il ventre di una donna!

[Ma] Perché mai le donne sono protagoniste dell’incontro con il Signore? Persino in queste storie antiche, quando non era pensabile potessero neanche fare da testimoni affidabili di incontri umani? Perché la tentazione monofisita, (la tentazione più subdola e diabolica contro l’incarnazione) non le tocca. Cioè il corpo, la carne, pure sporca e malata, perfino il cadavere dell’amato… per loro ha sempre senso. E’ sempre il luogo della vita possibile, della comunicazione vera, l’unico luogo dove si trasmette la vita. Sono quindi più vicine all’accudire che al razionalizzare; a comprendere invece che proporre, a servire invece che pretendere. Anche loro sono intrise della congenita debolezza umana (e biblicamente sono state la prime a volerne uscire a tutti i costi) ma il circuito culturale non le chiude mai del tutto. La vita vale più dell’idea della vita!» [Giuliano].

martedì 27 dicembre 2011

Maria santissima madre di Dio

«Troppe cose insieme, forse, ci vuole dire la liturgia di oggi, nello spazio così piccolo di una giornata di inizio anno: Maria, madre di Dio, la giornata mondiale della pace, il capodanno…

[…] Comunque, nel vangelo scelto, c’è anche per noi, il rimedio che usava Maria, quando troppe cose difficili premevano, dentro e fuori di lei: Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore».

E allora, vorrei fermarmi solo su un aspetto… su questi pastori, che – curiosamente – come Zaccaria – dopo l’incontro con questo bambino – parlano benedicendo Dio.

Mi pare molto interessante infatti questa ripetuta sottolineatura dei vangeli dell’infanzia: chi incontra Gesù, bene-dice, cioè dice-bene di Dio!

Eppure ciò che hanno visto è un segno tutt’altro che “divino”: una donna con suo marito e il loro bambino…

Un segno, anzi, nemmeno così umanamente nobile o strabiliante, dato che questo bambino era «adagiato nella mangiatoia», «perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7).

Eppure «questa pagina, come tutto il racconto dell’infanzia di Gesù nel vangelo di Luca, ci fa da traccia e insieme dà conforto per capire il processo di umanizzazione nuova a cui il discepolo del Signore è chiamato».

Infatti «allora come ora, il gesto, il segno o l’evento che ci smuove è, in genere, povero e tanto insignificante», un’intuizione, un po’ di bene che qualcuno ci vuole, una carezza insperata… Ma a noi è bastato… perché ha come profuso una luce…

Infatti, «comunque sia la storia di ognuno, fatta sempre di dolore e gioia, speranza e peccato mescolati insieme, una luce ci ha illuminati e attratti tante volte, per un istante…

…ma adesso questa luce non c’è più! I pastori l’avevano accolta con gioia e se ne erano lasciati illuminare e com/muovere… ma non c’è più! Così Maria nella sua vita nascosta! Siamo tornati nella penombra del quotidiano feriale, e ce ne è rimasta solo l’impronta e la memoria.

[…] Ma di questa luce “che rifulge in terra tenebrosa” possiamo avere in qualche momento esperienza, se facciamo attenzione alle sue scintille fioche e molto intermittenti: incontri, sofferenze, gioie… riconoscenza! Esperienze che ci riportano al senso della vita nel riferimento a Gesù e al suo vangelo, nell’attenzione affettuosa alla sua presenza, da accudire e custodire gelosamente, altrimenti le scintille si perdono, e ne rimane solo il dato materiale, non parlano più. Infatti, che un segno sia leggibile in modo positivo e smuova il nostro cuore è solo in rapporto alla luce essenziale della fede [della fiducia che gli accordiamo], rappresentata in noi da queste scintille successive, da queste esperienze profonde, ma incatturabili e indimostrabili e tuttavia vere e sentite nel fondo dell’animo».

Vere, in proporzione ai frutti che portano, «ai frutti dello Spirito: se cioè ci aprono il cuore e la mente a seguire la via del Signore… Possiamo solo riceverle e custodirle, tentare di rendere queste scintille più continue tra loro attraverso atti singoli di fede, operazioni concrete di obbedienza (andate… sono andati! In fretta!). I nostri sforzi di assenso alla fede, piccoli atti di consegna di sé nelle minuscole vicende quotidiane, talora seguono, talora anticipano, con un colpo d’ala interiore, la convinzione. Piccoli gesti concreti che, se moltiplicati in un tessuto continuo, saldano l’una all’altra queste scintille e ci danno, pure nelle tenebre, una certa continuità nell’esperienza di fede, nel cammino della vita. È appunto il riferimento a questa luce, conservata con lucida e intelligente memoria affettuosa, che rende i segni percettibili, se no si vanificano… Quello che rimane e ci trasforma è il momento di fede che avremo vissuto nella nostra vita, la capacità di accumulare e condensare atti di fede, magari piccolissimi, uno dopo l’altro, giorno per giorno, che rendono sempre più vera e conseguente l’esperienza del mistero di Gesù, che abbiamo in cuore…»[1].

Per dire anche noi – come Zaccaria, come i pastori – incontrovertibilmente bene di Dio.

Buon anno.



[1] Tutte le citazioni sono di Giuliano Bettati, OCD.

domenica 20 novembre 2011

"Quel segreto che si svela quando lievita il ventre..." - LA VISITAZIONE

Dirk Bouts, Visitazione, dal Trittico della vita della Vergine, 1445 ca. Madrid, Museo del Prado

Perché Maria va da Elisabetta?

Per vedere se l’angelo aveva ragione!

Egli le aveva infatti annunciato:

«Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio»…

Il fatto che Elisabetta sia incinta è dunque l’unica traccia che Maria ha per vedere se a quell’angelo (e a quel Dio di cui era messaggero) bisognava dar credito…

Ecco perché va da Elisabetta! Perché ella è la sua traccia.

Da lei scopre che il Dio annunciatole da Gabriele è davvero un Dio affidabile!


Il tema della visitazione ricorre frequentemente nella pittura toscana e in quella fiamminga, ma se in Italia è sottolineato maggiormente l’aspetto dell’omaggio di Elisabetta alla cugina, gli artisti fiamminghi sembrano valorizzare la dimensione emotiva dell’episodio. Malgrado le parole del Vangelo di Luca, Dirk Bouts ambienta la scena all’esterno: come se le due donne attendessero con impazienza quell’incontro, non potessero aspettare di raggiungere casa. Maria, raffigurata con i capelli sciolti, ad indicare la sua condizione virginale, finalmente può vedere la cugina Elisabetta, constatare che il messaggero che l’ha visitata non ha mentito. L’autore ci restituisce, con grande realismo ed umanità, il gesto delle due donne, che si toccano il ventre e si riconoscono madri; insieme, tuttavia, allude al muto dialogo tra i due bambini narrato da Luca. Il miracolo di una vita che nasce si colora di un senso irripetibile: Dio sta facendosi uomo. E’ ben comprensibile che Maria, di lì a poco, intoni il Magnificat!

giovedì 12 agosto 2010

L'Assunta - Un segno ("traccia") anche per noi

Questa settimana, essendo domenica il 15 agosto, la XX domenica del Tempo Ordinario è sostituita dalla Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria: una ricorrenza che – data la sua importanza – ha letture proprie, diverse dunque da quelle che il calendario ordinario avrebbe presentato, e adatte piuttosto a questa importante festa mariana.
Il problema è che, però, l’evento dell’assunzione di Maria non è raccontato nei testi neotestamentari, ma ci giunge dalla Tradizione della Chiesa, perciò il vangelo proposto dalla liturgia è, sì, mariano, ma tratto dai racconti dell’infanzia di Gesù (in particolare la narrazione della visitazione di Maria ad Elisabetta + il Magnificat) e non fa riferimento al mistero dell’assunzione di Maria…
Questo è un primo elemento di difficoltà, perché o si sceglie di commentare il vangelo o si prende la via del commento al dogma mariano («L’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo»), contenuto nella costituzione dogmatica Munificentissimus Deus, promulgata da Pio XII il I novembre 1950.
Una resistenza a seguire la prima via – quella del commento al vangelo odierno – nasce dal fatto che, riferendosi agli inizi dell’esperienza storica di Gesù, non trova continuità col percorso che la liturgia ci sta facendo compiere lungo il testo del vangelo di Luca (di cui siamo già al capitolo dodicesimo); è stato scelto infatti solo perché “serviva” un testo che parlasse di Maria.
Ma altrettanto reticenti si è nel dedicare lo spazio della lectio sui testi della Liturgia della Parola della domenica, ad argomenti extra biblici. Anche perché «Anche la chiesa non sa bene cosa dire dell’Assunta, e lo dice con il linguaggio maldestro del tempo: Maria ci precede lassù, in corpo e anima!…
In verità, un frammento di terra, quello che ha contagiato di umanità il cuore di Dio, è rimasto a sua volta contaminato di eternità. Maria, come il figlio, non può rimanere prigioniera della morte, ma è sprofondata nella passione di Dio, divenuto per sempre casa sua! Madre sua e nostra, instancabilmente aspetta il lento farsi completo della speranza, nei suoi figli!» [Giuliano].
Quest’ultima visione potrebbe, invece sì, essere una via interessante per approfondire e convogliare le tante istanze contenute in questa domenica 15 agosto, quella che forse ha anche mosso fin dalle origini la fede dei cristiani verso questo mistero mariano: e cioè il fatto che quando muore si resta morti… ma se – una di noi – non una “semi-dea” come a volte si pensa (e come anche questo stesso dogma, letto male, ha contribuito a far pensare) – ci ha preceduto lassù in tutto quello che è stata la sua persona, la sua umanità, la sua storia (anima e corpo), allora davvero questa può essere una traccia di credibilità alla buona notizia (vangelo) di Gesù: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via» (Gv 14,1-4). Perché se è stato promesso per tutti e in lei si è realizzato, allora davvero può essere vero per tutti… e anche per me.
Maria – dunque – con la sua assunzione (vittoria sulla morte), come segno (traccia) dell’affidabilità della parola di Gesù, della parola di Dio… Proprio come – a suo tempo – le era stata “traccia” Elisabetta. Infatti l’episodio che la liturgia ha scelto per questa festa e che noi tradizionalmente chiamiamo “visitazione” (spesso interpretato come l’ulteriore esempio morale – caritativo, in questo caso – che Maria può darci – va infatti ad aiutare la cugina incinta) in realtà, ben al di là che rappresentare un quadretto esemplare di “aiuto al prossimo bisognoso”, va in un’altra direzione: perché Maria va da Elisabetta?
Certo per aiutarla… Ma soprattutto perché dentro all’intuizione promettente che l’angelo le ha posto in cuore, l’unico appiglio razionale, tangibile, rintracciabile era il riferimento a Elisabetta: «Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”. Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. E l’angelo si allontanò da lei. In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda», da Elisabetta – appunto –, la sua “traccia”.
“Curiosamente”, proprio Maria – da sempre cantata come l’esempio della fede di ciascun cristiano – a fronte di una rivelazione di Dio, di un “farlesi” incontro di Dio, di un imbattersi in Dio, si appiglia all’unica “traccia” che l’angelo le ha lasciato per andare a constatare se effettivamente l’esperienza che ha vissuto ha una sua attendibilità. Il problema di Maria è infatti quello di ciascuno: “Questa rivelazione, questa lieta notizia, questo vangelo, – in ultima analisi –, questo Dio, è un Dio affidabile, è un Dio credibile, è un Dio degno di fede, della mia fede? Vale la pena dedicargli la vita, instaurare con Lui una relazione che diventi l’orizzonte di senso in cui comprendere il reale, incarnare la sua logica che conduce al dono della mia vita per amore dei fratelli? È un Dio che mi salverà la vita?”.
L’angelo aveva parlato di Elisabetta… E Maria, «in fretta», va da lei!
Ecco perché questo testo è coraggioso, perché non ha paura di mostrare come – per entrare in relazione con Dio – non ci sia affatto bisogno di uscire dalla carne, di censurare i nostri dubbi, di spegnere la nostra razionalità, ma anzi si possa (si debba!) rispettare la nostra umana natura che prevede che per “farci” uomini, diventare uomini, ci si immerga nella storicità…
Maria – donna a tutti gli effetti, fatta di carne e sangue, sudore e fatica, gambe per andare in fretta da Elisabetta, “voce forte” per salutarla, entusiasmo e trepidazione per l’annuncio dell’angelo in cui le è capitato di imbattersi, tenerezza per il figlio che porta in grembo, desiderio di dirlo a qualcuno (a qualcuna…) –, l’esempio di fede dei cristiani di ogni generazione, non risulta affatto l’eterea semi-dea a cui spesso purtroppo ancora oggi è spesso ridotta dalla devozione popolare, ma ci appare – aprendoci ad un sorriso compiaciuto e tenerissimo – la ragazza a cui è capitato di tenere in pancia Dio, colma di paura e trepidazione, sospetti e incomprensioni, che non ha avuto paura di andare a vedere se davvero quell’angelo diceva il vero su Elisabetta! Perché forse – se diceva il vero su Elisabetta – diceva il vero anche a lei…
E così Luca ci regala l’indimenticabile pagina della rivelazione del Signore (Elisabetta è la prima che chiama Gesù con questo titolo nel vangelo di Luca), chiusa fra le quattro mura di una casa normalissima, con protagoniste due donne – una ragazza madre e una donna sfiorita – e le loro pance (con i rispettivi abitanti) che si parlano di una gioia incontenibile: è il Signore che viene, nel mondo laico delle donne, nella quotidianità di quelli che non contano, nel cuore dell’umanità.
Anche noi allora, spesso così increduli alla notizia (che ci appare troppo bella per essere vera) che il Signore ha sfondato la porta degli inferi e l’ha resa percorribile per tutti, possiamo trovare in Maria che l’ha già percorsa, la nostra affidabile traccia che può confermare il tentativo di una consegna disarmata tra le braccia del Padre, in vita e in morte, e festeggiare in pace la festa dell’assunzione, che qualcuno ha ribattezzato “la festa dell’impazienza”:

«LA FESTA DELL’ASSUNZIONE: la festa dell’impazienza

…sogno le diverse reazioni dei vari personaggi implicati nell’avventura più importante della storia dell’umanità, cioè la gioiosa promessa (o il vangelo!) della salvezza del nostro mondo e del nostro corpo, pur destinato alla morte: una sfida lanciata all’impazienza di chi, amico o nemico dell’uomo, non si rassegna e vuol sapere in anticipo, a tutti i costi, come il racconto andrà a finire…

 … l’impazienza di Adamo, anzitutto, che è l’uomo di ogni paese e di ogni storia, che si sa condannato a correre angosciato verso la morte senza senso, con una invincibile (e insaziata) voglia di vita.

 … l’impazienza del secondo Adamo che, nella pienezza dei tempi, si dà alla morte come un boccone avvelenato (1Cor 15, 54), e la disinquina dal suo potere malefico, per tutti noi, aspettando e intercedendo per noi di fronte al Padre, ora, nell’attesa che la sua missione sia accolta e si compia, per riconsegnare finalmente il Regno pacificato e compiuto.

 … l’impazienza del drago (il serpente della genesi … diventato drago a forza di mangiar uomini… è il meccanismo diabolico del potere mondano) che si è piazzato con le sue infinite bocche fameliche di fronte al bimbo “nuovo” che sta per nascere da una donna finalmente vestita di sole… per divorarlo e chiudere la partita per sempre.

 … l’impazienza di Dio, perché è proprio l’amore di Dio per l’uomo che si fa tanto “urgente” da non resistere … e così anticipa agli uomini la sorpresa finale, che è questa : “il corpo umano, il campo della coltivazione (o umanizzazione) dell’uomo (anche del corpo umano di Dio!), non è destinato alla consunzione definitiva dei cimiteri, ma invece misteriosamente si trasformerà in vita ridonata per sempre”… (come dicesse di Maria: “ecco, vedete… ho già provato!”).

 … l’impazienza di Maria… il suo inno, il Magnificat, è infatti la profezia dell’impazienza. Maria era già partita da casa sua, in fretta, avendo intuito che il Signore sta preparando grandi cose, in lei e con lei, per la salvezza del mondo. E contagia con la sua fretta umile e impaziente anzitutto il bimbo che sussulta di gioia nel seno di Elisabetta. La quale, a sua volta, è contaminata e capisce che il nucleo esplosivo della fede è proprio “credere nell’adempimento”, proprio adesso, della promessa antica.

Allora Maria se ne lascia tanto convincere che vede tutto già fatto, in anticipo. Proclama già avvenuto, oggi, ciò che di generazione in generazione pian piano dovrà “compiersi”: i potenti rovesciati, mentre sulle loro poltrone si son seduti i poveri, gli affamati ricolmi di beni e i ricchi a mani vuote. Finalmente, come era stato promesso ai nostri padri erranti, ogni dolore è risolto nella misericordia, la quale è ormai l’unico ricordo nella memoria di Dio. E’ tanta la partecipazione di Maria all’impazienza dolorosa e gioiosa del Figlio, per la salvezza di tutti… che il suo corpo, che già l’aveva generato, ne rimane intriso per sempre.

 … l’impazienza dei cattolici. Anche loro, ci si sono messi… a precorrere le cose: come i bimbi più grandi che non riescono a non sussurrare ai piccoli, in anticipo, come va a finire la favola. E si son messi a proclamare il dogma dell’Assunta (un evento di fede, su cui tutti da secoli, in modo diverso nelle varie confessioni cristiane, già avevano riposto la loro speranza, alcuni di loro con l’angosciosa trepidazione di chi ha paura che forse il finale è troppo bello!

 … l’impazienza dei poveri… proprio quelli cui si riferisce Maria nel suo inno all’impazienza. Il loro corpo martoriato, violentato o affamato, o ignudo o incatenato, ammalato e abbandonato … rimarrà sempre sotto i letamai o nei forni dei lager o sotto i bombardamenti… a marcire senza fine e senza speranza? (quanti corpi di donne uomini bambini nei millenni: Ez. 37)… Ecco allora che la loro devozione e la loro frustrazione, l’assimilazione del Signore Gesù alla loro vita e alla loro sorte, la consuetudine a carezzare ed accudire i brandelli sporchi di umanità senza cure né diritti… ha affinato il loro intuito evangelico e ha sopravanzato il passo lento dei teologi. In Maria e nel suo corpo hanno visto e desiderato la profezia e la sorte … dei loro corpi svuotati di vita».

[Giuliano]

venerdì 18 dicembre 2009

…Dio nel corpo umano

I Lettura: Michea 5,1-4II Lettura: Ebrei 10,5-10Vangelo: Luca 1,39-48
Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d'Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace.Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: "Ecco, io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà"». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto»



Può essere utile mettere a confronto tra loro le letture di questa domenica – ultima di preparazione al Natale – per rilevarne l’intima connessione, pur nel così diverso approccio al mistero della centralità del “corpo umano” (e di chi lo mette al mondo) – nella travagliata storia della nostra salvezza.
Michea raccoglie e rimanda fino a noi un’antica segnalazione profetica: siamo tutti in potere “altrui”, fin quando non partorirà colei che deve partorire … Allora soltanto, anche il resto dei fratelli ritornerà … ed “egli” stesso sarà la pace. Se c’è un’illuminazione nuova delle scritture antiche, a ritroso, a partire da Cristo (come Gesù stesso insegnò ai discepoli dopo la sua risurrezione), qui i simboli oscuri si illuminano… e nello stesso tempo accolgono (adempiono) e sconvolgono (convertono) le aspettative dell’uomo. È caratteristica della profezia biblica questa spada a doppio taglio. In modo umilissimo ed esplosivo, insieme, anche Luca racconta di due “partorienti”, che si incontrano e si dicono, in questa “scena madre” della nuova storia, il mistero a cui siamo chiamati. Lontano dai templi, lontano dalle regge del potere e dell’intelligenza, per la strada, sulla soglia della casa... I loro due piccoli d’uomo, ancora incompiuti nel seno delle madri, già si comunicano il passaggio del testimone della speranza, dal “più grande tra i nati di donna” (il Battezzatore, sempre chiuso però nella sua appassionata ma sterile ricerca della salvezza), al piccolo germoglio nuovo, di un’altra qualità a noi sconosciuta, che lo fa sussultare di gioia. Elisabetta, l’umanità senza futuro, graziata nel suo desiderio irraggiungibile di tramandare la vita, si domanda il motivo della grazia che l’inonda: a che debbo che il mio Signore venga da me? Ma subito intuisce il segreto del mistero che si è aperto sulla terra: beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto. La fede in Dio è fede nella salvezza della carne, perché proprio questa è la sua volontà di benevolenza sul mondo: ciò che è nato da lei (dalla sua carne e dallo Spirito) sarà santo e chiamato figlio dell’Altissimo. Questo “venire”, adesso, di Maria nella casa che l’accoglie, non è semplicemente annunciare e preparare, come farà Giovanni, ma è portare colui che viene.
Maria viene a portare una Salvezza ancora in germoglio, ma pronta, viva e personale, che, secondo la lettera agli Ebrei, esprime già con il suo “esserci” la propria identità: ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà! questa è la vocazione dell’uomo, finalmente consapevole e compiuta. La struttura religiosa profonda dello psichismo umano, la ricerca affannata e ambigua, quanto irreprimibile, di un “oltre sé” (esser come il Dio immaginario – imporsi come padroni onnipotenti) di cui racconta la pagina biblica delle origini, è radicalmente capovolta. Nella sua originaria e mai sopita passione di essere «un laboratorio unificatore del tutto» (San Massimo Confessore), l’uomo ha espresso una capacità di fabulazione religiosa che mentre doveva servirgli nella sua ricerca di Dio, ha prodotto e poi istituzionalizzato steccati, veli santi, templi, teologie e riti, sacrifici e caste sacre, che fanno da schermo e sono divenuti un ostacolo nel suo viaggio verso sé, gli altri e Dio stesso: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che vengono offerte secondo la Legge, … «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo.
Il “nuovo sacrificio” mina alla radice ogni altro espediente religioso, perché rovescia la religione dell’uomo, sì che non sono più i meccanismi psichici umani (paura della morte e pretesa di amore senza fine) ad esserne protagonisti, ma il corpo di Cristo offerto come luogo dell’inveramento della volontà del Padre: Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. Il dramma della libertà, il rifiuto da parte dell’uomo di essere persona, di realizzarsi ad immagine divina, ha trasformato la libertà in arbitrio cieco, sete di possesso e dominio, per consegnarsi al disordine ontologico e morale, il cui esito è la morte, la ferita finale che ammala già in anticipo ogni nostra relazione … Che ne siamo consapevoli o meno, nel nostro cammino culturale, la religione non serve più, è assorbita nel corpo di Cristo, al quale il nostro è chiamato ad assimilarsi: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. L’umanità del Cristo è testimonianza dell’amore assoluto di Dio, incarnato nella nostra polvere, alla quale dovremo ritornare, ma è più forte della morte. Senza peccato, ma capace di discendere al fondo dell’abisso della libertà umana deviata, sprigionandone ed attuandone la dimensione profonda, la corporeità gloriosa di Cristo, quella natura umana divinizzata che ha già in Lui la primizia di una nuova genesi – è il seme deposto in noi, da sviluppare in una vita di preghiera e di ascesi (cioè di vittoria evangelica sul mondo!), per imparare ed esercitare l’amore. Nella sua carne, nel suo Spirito, senza più distanze sacrali, anche a noi è dato rigenerare e dilatare la nostra umanità oltre noi stessi, per farne dono di sé all’Altro nell’amicizia (non vuole più servi!) – e a tutti gli altri nella carità, dono totale della nostra vita sino alla morte, fino a fare della morte stessa un dono. Ritroveremo custodito ed eternizzato ogni momento di offerta di sé, ogni atto creativo di bellezza e di tenerezza, di vittoria sui determinismi della vita biologica, ogni momento di comunione, custodito nell’umanità risorta del Cristo e nella nostra in Lui (cfr Massimo Bolognini in Corpo di morte e corpo di gloria)
Forse nessun esperienza o testimonianza come quelle riportate nel nuovo Testamento riguardo al “natale” di Gesù nella carne umana, indica così decisamente il “corpo” come il luogo della nascita dell’uomo a se stesso! Rivelando e illuminando così intensamente l’umile terrestre miracolo quotidiano per cui il nostro corpo fisico può nascere allo spirito e lo spirito nascere come carne riplasmata dall’amore (mistero di libertà e grazia del nostro feriale natale). Carne che imprigionata nei suoi ripetitivi e ciechi dinamismi corporei, contagiata ormai dal “natale” di Gesù, si riapre alla creatività della vita, abilitata a donare se stessa, a crescere nella dilatazione della persona in comunione, trasformando in sua memoria il nostro corpo, in offerta eucaristica che, unita al Verbo incarnato, ne rivela l’intima verità ed il compimento definitivo.Visita di Maria a Elisabetta (Giotto)Perché mai le donne, secondo il vangelo di Luca, sono protagoniste dell’incontro con il Signore – anche a Natale? Persino in queste storie antiche – quando non era pensabile che potessero neanche fare da testimoni affidabili di incontri umani? credo che la tentazione monofisita, (la tentazione più subdola e diabolica contro l’incarnazione – cioè il dubbio o il rifiuto di credere che l’umanità di Gesù sia vera) non le tocca. Cioè, il corpo, la carne, pure sporca e malata, perfino il cadavere dell’amato… per loro hanno sempre senso. Sono sempre il luogo della vita vivente o vissuta, il territorio della comunicazione vera, l’unico alveo dove si trasmette la vita – sempre amata! Sono quindi più vicine all’accudire che al razionalizzare; a comprendere invece che proporre, a servire invece che pretendere. Anche loro sono intrise della congenita debolezza umana (e biblicamente sono state la prime a volerne uscire a tutti i costi) ma il circuito culturale non le chiude mai del tutto. La vita vale sempre più dell’idea della vita!
Qui lo Spirito si trova più a suo agio, nella terrestrità che accetta la Parola-Promessa, perché è il brodo più fecondo di cultura della fede. E allora avviene che in una casa normale, in visita a parenti normali, bisognosi di accudimento, si può incontrare l’anziana cugina incinta, moglie di un prete ammutolito dal mistero, portando Dio nel ventre. E nessuno si gira a guardare, solo loro sanno … e raccontano ciò che ancora non si vede, ma illuminerà la storia.
Dunque la laicità è abitabile dallo Spirito divino, molto meglio che il sacerdozio, il tempio, la legge, l’accademia teologica, il monastero esseno… Ma non per diventare anch’essa, a sua volta, sacra, (cioè potente, separata, normativa, teocratica…), ma per rimanere terrestre, povera, fragile, radicata sempre nelle vicende difficili dell’affettività, dell’economia, del potere, che compongono l’ordito del tessuto della vita. Aperta però al natale dell’amore, al natale di Dio con noi, nel nostro corpo!

mercoledì 16 dicembre 2009

E Maria pensò: "Ma questo angelo, avrà davvero ragione?"

In questa quarta e ultima domenica di Avvento la Chiesa ci propone di riflettere sull’episodio del vangelo di Luca, tradizionalmente titolato “La visitazione”: Maria – dopo aver ricevuto, da parte dell’angelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Gesù – parte «in fretta» per andare da Elisabetta, sua parente.
«Per quale motivo Maria si reca da Elisabetta? Secondo un diffuso sentire popolare, e anche secondo diversi esegeti, Maria sarebbe stata spinta dalla carità e dalla volontà di servizio. “Maria poteva aiutare sua cugina nelle sue occupazioni quotidiane, offrendole quei servigi che le donne usano rendersi in tali circostanze” [scrive L. Deiss, ne Elementi fondamentali di Mariologia]. La “Serva del Signore” si fa serva degli uomini, come è nella logica del vangelo, dove l’amore di Dio si dimostra e si verifica nell’amore del prossimo. E. Bianchi annota che l’intenzione caritativa di Maria si trasforma però – nel racconto di Luca – in un viaggio missionario: “Maria va per fare il bene e finisce per portare Cristo” [E. BIANCHI, Magnificat]. In realtà da nessuna parte del testo è suggerito che il viaggio di Maria sia stato motivato dal desiderio di aiutare Elisabetta. Tanto più che, come si è visto, Maria ritorna a casa sua prima della nascita del Battista (1,56). E l’espressione “Serva del Signore” (1,38) sottolinea l’obbedienza a Dio, non di per sé il servizio al prossimo. L’unico motivo, che può trovare un appoggio nel testo, è il desiderio di Maria di osservare il segno che l’angelo le ha indicato» [B. MAGGIONI, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2001, 36-37].

Pochi versetti prima infatti – durante l’annuncio dell’angelo a Maria («Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine», Lc 1,30-33) – Egli aveva aggiunto, quasi a indicare una traccia di attendibilità del suo messaggio: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,35-37).
Maria che «diversamente da Zaccaria [come annota ancora Maggioni], non ha chiesto un segno», individua nelle parole dell’angelo un’indicazione: un’indicazione che «nasconde un invito. Il segno e la sua verifica fanno [infatti] parte della logica delle rivelazioni. Dio mostra [N.B. “mostra” NON “dimostra”] la sua verità e non vuole che l’assenso della fede avvenga al buio»!
Precisamente in queste ultime indicazioni – purtroppo abitualmente soffocate dal continuo rilancio della lettura di questo brano che vede in Maria l’esempio di carità da seguire, accontentandosi ancora una volta di proporre semplicemente i luoghi comuni di una religiosità che troppo disinvoltamente fa “tornare i conti” della drammatica evangelica – sta la straordinarietà e – mi sia permesso – la spregiudicatezza di questo testo.
Esso infatti – precisamente mentre sta descrivendo il paradigma della fede di ogni credente: Maria, appunto – non ha paura di mostrare come la fede – cioè la relazione dell’uomo al suo Dio – non sia assolutamente da intendere come una fede cieca! Questa constatazione – che è un’evidenza che emerge da ogni interstizio evangelico – purtroppo ancora nel 2009 risuona come una prospettiva sospetta: la catechesi neoscolastica degli ultimi secoli ha infatti radicalmente fatto sedimentare nelle nostre menti l’idea che se di fede si tratta, non c’è spazio per l’esercizio della ragione… Essa è “un salto nel buio”, se no che fede è?
“Curiosamente” invece proprio Maria – da sempre cantata come l’esempio della fede di ciascun cristiano – a fronte di una rivelazione di Dio, di un “farlesi” incontro di Dio, di un imbattersi in Dio, si appiglia all’unica “traccia” che l’angelo le ha lasciato per andare a constatare se effettivamente l’esperienza che ha vissuto ha una sua attendibilità. Il problema di Maria è infatti quello di ciascuno: “Questa rivelazione, questa lieta notizia, questo vangelo, – in ultima analisi –, questo Dio, è un Dio affidabile, è un Dio credibile, è un Dio degno di fede, della mia fede? Vale la pena dedicargli la vita, instaurare con Lui una relazione che diventi l’orizzonte di senso in cui comprendere il reale, incarnare la sua logica che conduce al dono della mia vita per amore dei fratelli?
L’angelo aveva parlato di Elisabetta… E Maria, «in fretta», va da lei!
Altro che fede cieca (che tra l’altro il Concilio Vaticano I ha stigmatizzato – con la Costituzione dogmatica Dei Filius – come inaccettabile)! La relazione che il Signore propone all’uomo onora fino in fondo la caratura pienamente umana (e dunque anche razionale) dell’uomo! Nessun salto nel buio, ma il paziente riconoscimento del farsi prossimo di Dio, l’intercettazione, nel nostro ordine degli affetti, di una promessa di senso lì contenuta, il credito dato a questa intuizione e il conseguente sbilanciamento verso un approfondimento della conoscenza di questo suo rivelarsi (fatto anche – non solo, ovviamente – di faticosa indagine sui testi, che invece molti cristiani non solo non hanno mai studiato, ma nemmeno mai letto…), la verifica di ciò che attraverso lo studio (Parola di Dio), il dialogo personale (preghiera), la vita ecclesiale (sacramenti), il volto dei fratelli (storia) emerge come volto del Dio di Gesù Cristo… per giungere ad un assenso consapevole… che riapre la circolarità appena descritta, dove infatti il consenso raggiunto, diventa occasione di nuove illuminazioni nell’ordine degli affetti, credito concessogli, ecc…
Ecco perché questo testo è coraggioso, perché non ha paura di mostrare come – per entrare in relazione con Dio – non ci sia affatto bisogno di uscire dalla carne, di censurare i nostri dubbi, di spegnere la nostra razionalità, di rispettare la nostra umana natura che prevede che per “farci” uomini, diventare uomini, ci si immerga nella storicità…
Maria – donna a tutti gli effetti, fatta di carne e sangue, sudore e fatica, gambe per andare in fretta da Elisabetta, “voce forte” per salutarla, entusiasmo e trepidazione per l’annuncio dell’angelo in cui le è capitato di imbattersi, tenerezza per il figlio che porta in grembo, desiderio di dirlo a qualcuno (a qualcuna…) –, l’esempio di fede dei cristiani di ogni generazione, non risulta affatto l’eterea semi-dea a cui spesso purtroppo ancora oggi è spesso ridotta dalla devozione popolare, colpevolmente alimentata da chi mente sapendo di mentire, ma ci appare – aprendoci ad un sorriso compiaciuto e tenerissimo – la ragazza a cui è capitato di tenere in pancia Dio, colma di paura e trepidazione, sospetti e incomprensioni, che non ha avuto paura di andare a vedere se davvero quell’angelo diceva il vero su Elisabetta! Perché forse – se diceva il vero su Elisabetta – diceva il vero anche a lei…
E così Luca ci regala l’indimenticabile pagina della rivelazione del Signore (Elisabetta è la prima che chiama Gesù con questo titolo nel vangelo di Luca), chiusa fra le quattro mura di una casa normalissima, con protagoniste due donne – una ragazza madre e una donna sfiorita – e le loro pance (con i rispettivi abitanti) che si parlano di una gioia incontenibile: è il Signore che viene, nel mondo laico delle donne, nella quotidianità di quelli che non contano, nel cuore dell’umanità.

venerdì 19 dicembre 2008

La strada dell’impossibile: l’umanizzazione del mondo

C'è un filo d'oro nascosto nel mistero dell'universo, che lega, passo passo, la prima pagina della Bibbia all'ultima. Ma c'è, questo filo d'oro, anche per l'uomo moderno, fornito di notizie inimmaginabili per gli antichi patriarchi, profeti e apostoli e quanti ricercatori di Dio hanno raccontato la loro esperienza, fino a noi. Il filo d'oro – o la domanda di senso ‑ è questa: dalla prima inesplicabile esplosione di energia creatrice fino a noi (14 miliardi di anni… o diecimila, sono troppi comunque per la testa e il cuore dell'uomo!) ci sono stati tanti salti di qualità "impossibili" – e quindi si sono cercate ipotesi o spiegazioni molteplici e contraddittorie. Ma la domanda resta. Passare dal nulla a qualcosa di esistente, dal livello fisico-cosmico alla vita, dalla animalità allo spirito…ci pare inspiegabile, impossibile! Allora l'uomo pensa che sia intervenuto Qualcuno… a condurre per mano il progresso evolutivo della creazione nei suoi momenti troppo difficili, impraticabili! L'impossibile è ciò che non può essere prodotto dalle cause o risorse o energie presenti: ciò che non è contenuto nelle premesse e quindi non può scaturire da quelle cause. Allora la Bibbia ci appare come il racconto di tanti testimoni che hanno visto questo raccordo tra la loro storia e l'impossibile, che hanno ascoltato e intrasentito la mano di un "dio" che li accompagnava sul crinale dell'ulteriorità incredibile e inaccessibile. La creazione, la promessa nel paradiso fallito, la malvagità umana autodistruttiva e l'arcobaleno di Noè, la fecondità del vecchio Abramo, la lotta di Giacobbe con Dio, la liberazione dell'uomo dalla schiavitù del Faraone, la trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne … sono i passi impossibili a cui l'uomo è stato chiamato da colui che "dà la vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esistono" (Rom 4,17). Allora, in questa pagina del Vangelo (l'annunciazione!), sta il cuore della storia, cui tutta la creazione anelava. La meta e, insieme, il centro propulsore di questo inarrestabile flusso dell'amore creativo di Dio è il seno, anzi prima il cuore, di Maria. La quale sa, come racconta il vangelo di Luca, che è impossibile ciò che le è annunciato ‑ eppure si consegna, perché nulla è impossibile a Dio! Adesso la Parola non è solo la metafora per indicare il legame di benevolenza gratuita del Padre con tutto ciò che esiste. Non è solo la sua sorprendente decisione, libera e amorevole, non prodotta da necessità fisica o psichica o morale, che cerca il consenso e la gioia: rallegrati, Maria). La Parola stessa si fa seme e diventa bimbo d'uomo nell' inimmaginabile assunzione o impregnazione divina di un germoglio di carne umana. "Il verbo si è fatto carne!". E la verginità è il timbro della suprema libertà di Dio da ogni legge di necessità. Nella catena dei miliardi di natali umani, un Natale impossibile, incredibile… tanto impossibile che, per non esserne accecati, i cristiani ne hanno fatto una favola, ormai così innocua, che viene mescolata ai tanti festeggiamenti natalizi commerciali, coloriti di simboli o leggende le più disparate.

Come incontrare Dio?

Tre personaggi ci presenta la liturgia di oggi, ultima domenica di preparazione al Natale. Tre appassionati ricercatori di Dio, che toccano con mano la discrepanza radicale tra i propri progetti umani e i progetti di Dio! Tra il dio che abbiamo in mente e il "Dio" che si rivela nella storia e viene loro incontro.

Davide. Al culmine delle sue conquiste e del suo regno, consolidata la nuova patria per il suo popolo, pensa di costruire una casa dignitosa anche per l'arca del suo Dio… Sembra un'idea bella anche al profeta Natan. Ma la parola del Signore li dissuade, e riporta la loro attenzione su una presenza inversa: «sono stato con te dovunque sei andato» dice il Signore. Non è Davide che l'ha cercato. È Dio che è andato a cercare Davide in mezzo ai pascoli, quando nessuno pensava a lui. Non è l'inventiva dell'uomo che individua dove e come il Signore deve farsi presente, ma la sua "obbedienza" nello zittire i suoi progetti, e ascoltare la Parola, che gli fa scoprire dove il Signore lo chiama. Questa frustrazione (forse tu mi costruirai una casa?) ha aperto a Davide orizzonti nuovi di penetrazione e accoglienza della misteriosa vicinanza di Dio nella storia, vicinanza implorata, pregata, cantata nei salmi, che hanno nutrito la fede di tanti di credenti.

Paolo. Nessun protagonista del Nuovo Testamento aveva idee così chiare e ferree come Paolo, che ha perseguitato a morte i discepoli di Gesù, finché era convinto che la razza, la circoncisione, la legge, il tempio, fossero i pilastri immutabili della appartenenza a Dio. Invece il progetto di Dio era nascosto in un mistero di salvezza «taciuto per secoli eterni», ma «rivelato ora e annunziato... a tutte le genti, perché obbediscano alla fede» (v. 26). "Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito (Rom 8,3s). Dunque era completamente diverso e imprevedibile (impossibile) "il disegno eterno che [Dio] ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, il quale ci dà il coraggio di avvicinarci in piena fiducia a Dio per la fede in lui." (Ef 3,12). Ma Paolo lo ha accolto e gli ha sconvolto la vita.

Maria. È attratta consapevolmente in questo mistero taciuto nei secoli eterni, mentre è in ascolto di un angelo, che le fa scoprire l'immenso rovescio di indicibile gratuita tenerezza di Dio su lei, nella sua piccolezza. Un attimo di smarrimento, come in tutte le epifanie bibliche, per dire lo sconcerto dell'imprevedibile, che fa irruzione in lei: a quelle parole Maria rimase turbata. Come è possibile? Una domanda il senso, nella trepidazione di far dire a Dio, forse, ciò che non sta dicendo. E fa emergere così lo stile inconfondibile di Dio nella storia: implodere la sua gloria esplosiva nell'ombra, adesso sconcertante come mai: L'Altissimo si fa piccolo e si nasconde (e si rivela) nell'ombra opaca della carne umana. Solo la madre sa che è figlio di una Parola di amore di Dio, anzi, è la Parola stessa dell'amore eterno di Dio per il mondo! Questo annuncio si diffonde come un contagio, sempre velato e insieme irresistibile, suscitando nei credenti la stessa appassionata disponibilità di totale consegna di sé, per riscoprire così la propria identità nel progetto di amore del regno di Dio:" si faccia di me secondo la tua parola"

L'obbedienza della fede è l'affidamento di sé alla "parola"

Il Natale ripete per noi la sua scansione di salvezza: non temere, il Signore viene, ti riempirà di vita, che coinvolgerà gli altri attorno a te! E la nostra speranza è una Vergine gravida dell'impossibile, ultimo (o primo) anello di una successione infinita di uomini e donne, che hanno creduto e si sono affidate, nella esperienza della fatica, del fallimento e dell'impotenza… ad un mondo altro.

L'obiettivo di ogni annuncio, di ogni manifestazione della Parola è la proposta di amore e di vita che c'è dentro, certo, ma raggiungibile solo attraverso l'obbedienza della fede: questo è il dinamismo di fuoco a cui siamo chiamati. Ogni altro aspetto di culto o di ascesi, di dottrina o di sacramento, di magistero o di sacerdozio è strumento e mezzo per riconoscere, entrare in contatto, accogliere questa "grazia", cioè questo regalo inaspettato di accesso all'impossibile che ci mette allo sbaraglio, ci provoca allo sbilanciamento di fronte agli accadimenti che non sono adeguati alle forze dell'uomo, e vengono dall'esser non più servi, ma amici di Dio: il perdono (nessuno può perdonare i peccati se non Dio solo); il corpo e sangue di Dio in materia cosmica per nutrire il credente (come può costui darci la sua carne da mangiare?); l'amore ai nemici (fu detto. Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico), il coinvolgimento coi poveri (di essi è il Regno dei cieli – sono "in società" con Dio!); la "necessità salvifica" della chiesa, pur fatta più di peccatori che di santi (su di te fonderò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa!)… Il nuovo credente sa che l'istituzione e la legge, i segni e le parole, la gerarchia e i ministeri, sono necessari finché dura la storia, ma ormai la loro necessità è strumentale, provvisoria e anche ambigua, appena si illudesse di essere adeguata all'obiettivo: sono soltanto il pedagogo che accompagna sempre alla soglia dell'incontro, che non è capace di produrre, come Giovanni il Battezzatore. L'obbedienza della fede ci fa riscoprire il rapporto faticoso tra libertà e necessità, ci riporta continuamente alla dinamica assiale della storia della salvezza, che ci fa dire di fronte alle esigenze radicali dell'amore: è possibile o è impossibile? Noi sappiamo per adesione umile all'obbedienza della fede, che è un regalo capirlo e tanto più riuscire a praticarlo. Che dunque è presunzione pensare di imporre questa fede, di esigerla e tanto meno di condannare coloro che si ritraggono… nella esperienza dolorosa dell'impossibilità!

…e vorremmo augurare e pregare anche per loro il Natale.

Maria, la discepola chiamata a essere madre

In questa quarta domenica del tempo di Avvento la liturgia, che la Chiesa ci propone, ci porta vicinissimi al mistero del Natale. Ciò che verrà ri-narrato in quel momento è infatti anticipato dalle letture di questa ultima domenica di attesa, nell’annuncio a Maria dell’evento della nascita di un figlio.
Bisogna sottolineare, che anche a livello letterario, il brano di questa domenica è strettamente legato a quello che leggeremo a Natale. Entrambi infatti appartengono alla stessa sezione narrativa, comprendente i cosiddetti “racconti dell’infanzia”.
Per comprendere bene questi testi, evitando soprattutto di farne una lettura ingenua e semplicistica, è utile perciò dare qualche indicazione sulla loro composizione, sull’obiettivo di chi li ha scritti e sul loro senso.
Innanzitutto è necessario ricordare come solo il Vangelo di Matteo e quello di Luca, contengano questa sezione, chiamata abitualmente “Vangelo dell’infanzia”: Marco e Giovanni iniziano invece i loro Vangeli narrando di Gesù già trentenne.Ma anche Matteo e Luca – che pure parlano entrambi di Gesù da bambino – non danno lo stesso resoconto dei fatti: è un’operazione errata perciò tentare di mettere insieme gli eventi narrati dai due evangelisti e – a partire da questo – tentare di ricostruire, anche cronologicamente, un’ipotesi realistica di come sono andati i fatti. Come scrive infatti il biblista don Bruno Maggioni «bisogna resistere alla facile tentazione di unificare i dati dei due evangelisti nel tentativo di offrire una successione verosimile degli avvenimenti. Meglio raccontarli rispettando l’originalità di ciascuno» (in “I personaggi della natività”, Ancora 2004).

Prima però di addentrarci nel particolare punto di vista di Luca, Autore con la sua comunità del Vangelo omonimo, da cui è tratto il brano dell’annunciazione, è utile dare ancora qualche indicazione preliminare. I racconti dell’infanzia infatti non vanno trattati come resoconti storici dell’infanzia di Gesù. Essi non sono e tanto meno intendono essere una cronaca delle vicende di Gesù bambino! Essi sono piuttosto testi teologici. Come scrive ancora il Biblista appena citato «i racconti dell’infanzia sono testimonianza a Cristo, e non solo (e non tanto) semplici ricordi storici. Gli evangelisti non hanno l’intenzione di raccontare la biografia di Gesù bambino. Attraverso i fatti che raccontano, intendono invece mostrarne già la missione e la vera identità. Sono, appunto, testimonianze, formatesi alla luce della fede e dell’esperienza di Pasqua. Questo non impedisce, sia ben chiaro, che in essi si nascondano diversi ricordi storici».
Non fantasie dunque, non storielle, ma dati storici reali ricostruiti e organizzati però con uno scopo teologico: prefigurare nell’infanzia il destino, l’identità, la vita di Gesù. Non a caso questi “vangeli dell’infanzia” sono stati gli ultimi ad essere stati scritti: infatti, come anche per la letteratura non religiosa, «non è mai l’infanzia degli eroi ad attrarre, in un primo tempo, l’attenzione dei biografi, ma la loro vita da adulti, le imprese che li imposero all’ammirazione di tutti; e se, in un secondo tempo, lo sguardo si spinge sino all’infanzia, è quasi sempre per il desiderio di trovarvi già i segni prefiguratori del loro destino».
Ma veniamo al nostro testo. Siamo nell’ambito del Vangelo di Luca. Dicevamo che esso, pur avendo dati comuni a quello di Matteo (fidanzamento fra Maria e Giuseppe, l’adozione legale di Gesù da parte di Giuseppe e quindi l’appartenenza di Gesù alla stirpe di Davide, Nazareth e Betlemme, la verginità di Maria e la nascita di Gesù per opera dello Spirito), ha però rispetto ad esso anche molte differenze. In particolare e soprattutto è la prospettiva ad essere differente: Matteo infatti racconta i fatti dal punto di vista di Giuseppe, Luca dal punto di vista di Maria. In più Luca ha una modalità di organizzazione del materiale (proveniente dalla tradizione) davvero originale e geniale: egli porta avanti come un confronto tra Gesù e il Battista. Dopo la breve introduzione (Lc 1,1-4) infatti egli presenta gli eventi dell’infanzia dei due fanciulli in parallelo: l’annuncio a Zaccaria della nascita del Battista (Lc 1,5-25) – l’annuncio a Maria della nascita di Gesù (Lc 1,26-38); il confronto fra le due madri (Lc 1,39-56); la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,57- 80) – la nascita di Gesù (Lc 2,1-21).
Non è possibile dunque comprendere il testo di questa quarta domenica d’Avvento, se non mettendolo in parallelo con quanto lo precede: l’annuncio a Zaccaria della nascita del Battista. È proprio dal confronto tra questi due eventi e tra il modo in cui essi sono narrati, che fa emergere la particolarità della persona di Gesù.
E interessante sarà notare come, delle due, la storia del Figlio di Dio sarà quella laica, profana, semplice, non quella religiosa, sacra e grandiosa!
Quando infatti Luca racconta di Zaccaria che riceve l’annuncio della nascita di un figlio, lo fa presentando sostanzialmente un quadro agiografico: la narrazione si apre infatti con la presentazione di Zaccaria ed Elisabetta, descritti come «giusti agli occhi di Dio, osservanti in modo irreprensibile tutti i comandamenti e i precetti del Signore»; tutta questa perfezione religiosa però è sterile, infeconda, «non avevano figli». Mentre però Zaccaria «esercitava le sue funzioni sacerdotali davanti a Dio nel turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel santuario per offrire l’incenso» e lì «gli apparve l’angelo del Signore» con l’annuncio: «Tua moglie darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Giovanni». Il contesto è perciò grandioso e solenne: nel tempio, durante la solennità di una liturgia, con protagonista un sacerdote nell’esercizio della sua funzione.
Di Maria invece non è detto nulla di straordinario, né dal punto di vista sociale – è semplicemente una «ragazza promessa sposa di un uomo della casa di Davide di nome Giuseppe» – né dal punto di vista morale– di lei si dice solo che si chiamava Maria. Anche il luogo in cui avviene questo annuncio è – a differenza del tempio – un luogo normalissimo, quotidiano, semplice: «una città della Galilea, chiamata Nazareth» (città che le Scritture neppure conoscono), probabilmente in casa, dato che dell’angelo si dice che «entrò».
Già questo alternarsi di grandezza e piccolezza, solennità e semplicità, sacralità e profanità, lascia intravedere i tratti nuovi e inconfondibili del Dio di cui Gesù è Figlio. Come scrive ancora Maggioni infatti: «Nell’annuncio a Zaccaria il divino si mostra con tratti di grandiosità e solennità, ma proprio per questo si mostra con un volto normale che non sorprende. Nell’annuncio a Maria il divino si mostra nella più assoluta semplicità, nella quotidianità, e proprio per questo svela un volto inatteso e sorprendente. Da una parte, l’uomo entra nella casa di Dio, dall’altra, Dio entra nella casa dell’uomo».
Il confronto tra Zaccaria e Maria prosegue poi con il fatto che, dopo lo sconvolgimento e il turbamento e dopo il rispettivo «Non temere», pongono entrambi all’angelo una domanda; Zaccaria chiede «Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni»; e similmente Maria: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le due domande, molto simili nella formulazione, ricevono però due reazioni diverse da parte dell’angelo: Zaccaria è rimproverato come incredulo («non hai creduto alle mie parole»), Maria riceve invece una spiegazione e un segno, il concepimento di Elisabetta, dalla quale non a caso andrà subito dopo la dipartita dell’angelo («L’angelo le rispose: “Lo Spirito santo scenderà su di te... Ecco anche Elisabetta ha concepito un figlio...»). Questo forse proprio perché l’uno è sacerdote – l’esperto nelle cose di Dio – mentre l’altra è “solo” una giovane donna laica...
Fatto sta che è lei ad emergere come “vincente” nel confronto, così come lo sarà suo figlio, rispetto a quello di Zaccaria!
Forse per le nostre orecchie è ormai abbastanza scontato sentir dire che il Dio di Gesù predilige i piccoli, i semplici, gli umili... E dunque non ci fa più tanto effetto, non tocca più la nostra capacità di sorprenderci e dunque di convertirci... Ma se provassimo a dire la stessa cosa con gli elementi di questo testo, se ci accorgessimo cioè che il Dio di Gesù non solo predilige i piccoli ai grandi, i semplici ai grandiosi, gli umili ai potenti, ma anche le donne agli uomini, i laici ai sacerdoti, il profano al sacro, i giovani ai vecchi... forse la reazione sarebbe un po’ meno scialba... qualche super-cattolico, forse, arriverebbe addirittura a dissentire da Gesù! Ad altri, forse, si aprirebbero un po’ gli occhi, soprattutto dal punto di vista dell’impostazione della vita ecclesiale...
Ma torniamo a Maria...
Ciò che di lei è infatti stupefacente, non è solo il fatto che emerga come “vincente” dal confronto col Battista, ma ciò che questo significa, ciò che questo dice dell’identità di Dio! Dà il senso di questa novità del suo volto una poesia di Frances Croake, intitolata “Consacrazione”: Tra gli animali, nell’umido freddo buio di una stalla, / dopo il dolore, il sangue e il nascere; / Maria guardò il bambino che giaceva tra le sue braccia / e disse: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». / Nelle ombre della brulla collina del Calvario, / dopo il dolore, il sangue e il morire; / Maria guardò il corpo spezzato tra le sue braccia / e disse: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». / È proprio così che disse a lui allora. / E voi, aridi vecchi uomini, / che contraffate la sterilità in broccati, / ordinate che lei non possa dirlo a lui ora.
È questo impastarsi di Dio nel mondo, nel sangue, nel dolore, nel nascere e nel morire, il volto nuovo di Dio che Gesù rivela! Non è un’umiliazione moralistica (non vuol proclamare il valore della piccolezza), non è un’umiliazione pedagogica (insegnarci a essere umili), ma – per parlare nei termini della teologia metafisica – è un’umiliazione ontologica: uno scegliere di essere così, non per finta, non per un momento, non per prova! È piuttosto la risposta di Dio alla domanda: “Chi sono io?”!
Ed è interessante che nel rispondere a questa domanda Dio abbia “bisogno” dell’uomo; o meglio, che scelga di non poter decidere di sé, senza decidersi con l’uomo; di non poter dire chi è Lui, senza insieme dire chi è l’uomo, chi sono io! Storicamente questo è avvenuto nel prendere carne di Gesù nel corpo di una donna!
Ecco perché non soddisfa più dire di lei che è una madre che si fa discepola – come se l’immischiarsi di Dio (in Gesù) con l’uomo arrivasse in seconda battuta; ella è piuttosto una discepola chiamata a essere madre, madre di Dio, dice la Chiesa dopo il Concilio di Efeso (431 d.C.), chiamata cioè a lasciar dire a Dio di sé in lei e con lei. Senza Maria, Gesù non sarebbe stato Gesù. Senza Maria ne va di Gesù. Senza il decidere di noi in Gesù e con Gesù, che fa di ciascuno di noi se stesso, ne va di Dio!

venerdì 21 novembre 2008

Vivere l'armonia

Nel monastero le dimensioni dell'esperienza umana

Di secoli ne sono passati proprio tanti, pari o tutt'al più inferiori, alle parole sprecate nel recriminare contro le claustrali, tanto da non valer neppure la pena di offrirne un assaggio!
Passiamo da questo "happy hour" al vero banchetto: quello della Parola che ogni giorno la Chiesa offre a chi voglia prendervi parte.
Vita contemplativa non significa vita reclusa o imbottigliata, significa fare dello spazio dello propria vita lo spazio della Parola. Esserne talmente magnetizzate che ogni uscita dalla Parola - Gesù Cristo, presente nell'Eucaristia e nella Sacra Scrittura - non viene neppure ipotizzata. La relazione con Colui che è presente e con le sorelle crea un'intersoggettività che innerva il quotidiano ed esige di sostare, intendendo così riconoscere alla clausura non il valore di un principio autonomo - si rischierebbe di essere assimilato agli ergastolani - ma la realtà che consente e custodisce la comunione amorosa con Dio e ne fonda la stessa possibilità.
Tutte le persone sono in cammino, lo ammettano o meno, dalla nascita alla morte (per usare il termine autentico e non ricorrere "alla dipartita della cara estinta!") da un dove preciso ad un altro dove, anch'esso preciso, conosciuto e amato nella fede: il Volto del Padre.
Tutta la vita monastica è un pellegrinaggio interiore parallelo a quello esteriore: attraversiamo il deserto guidate dalla colonna di fuoco e dalla nube. Lo attraversiamo come persone in relazione fra di noi, monache, ma dilatate ed aperte alla storia, alle sue vicende, a tutti i fratelli e le sorelle.
Il più piccolo monastero, situato nel borgo più sperduto del mondo, non è un buco in cui la donna-struzzo ha infilato la sua testa per rimuovere il grande spettro della falce... è il punto irradiante, centro del mondo delle relazioni, da cui la Luce di Dio si espande e si rifrange esattamente là dove deve andare, là dove la sofferenza è più acuta, là dove il fratello e la sorella gemono e patiscono.
Uno spazio amato che, purtroppo, viene definito con un termine, clausura, che suscita subito nell'immaginario umano un vortice di chiavistelli, di linee di demarcazione, di sanzioni disciplinari. Indubbiamente la Chiesa, da madre qual è, indica e tutela ma, soprattutto, suscita e incoraggia a permanere nell'ascolto dello Spirito, il solo che, nel silenzio e nella solitudine, sappia schiudere i sentieri del silenzio interiore.
Il rapporto fra le sorelle innerva il quotidiano e il monastero diventa così spazio di equilibrio fra le diverse dimensioni della vita: preghiera, lavoro, studio. Alla ricerca di un'armonia che è una grande sfida: vivere il Vangelo come anticipazione dei beni futuri.
L'insensatezza diventa allora la grande e unica sensatezza cui è chiamata la monaca: scoprirsi abitata per lasciarsi abitare da ogni gioia e dolore, da ogni evento, da ogni grido e da ogni richiamo. Non è un vuoto, è un'apertura proprio come la persona, così insegnava il prof. Ratzinger, è un'apertura all'Infinito. Noi Lo accogliamo e Lo doniamo, come Maria di Nazaret.
di C. Dobner, in SIR, 21 novembre 2008

giovedì 23 ottobre 2008

I due volti di Madame le professeur

Marguerite Aron
La storia dell’educazione delle donne nei secoli è sempre stata soggetta a discriminazioni e barriere, sconcerta però constatare come anche in tempi recenti - mi riferisco alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento - nella pur progressista e illuminata Francia ancora resistenze e pregiudizi fossero ben vivi e tenaci.
La ben conosciuta e rinomata scuola di Sèvres che avrebbe diplomato quelle giovani donne dette poi sévriennes, cioè la prima generazione di insegnanti nella scuola secondaria francese, era stata aperta solo nel 1881. In Senato, durante la discussione sull’opportunità di aprire una scuola Normale Superiore per le ragazze, un senatore conservatore ebbe a dire dinnanzi a un’idea così innovativa: «Un seminario laico per ragazze che vorrebbero essere delle signore professoresse, non sono abituato a questo tipo di mostri!».
Le giovani invece si sentivano pioniere del futuro, educate per creare l’anima della nuova donna, oltre che ad afferrare la grandezza e la bellezza del ruolo dell’educatrice. La lotta di queste coraggiose giovani per farsi accettare dalla società fu di non poco conto, pregiudizi e tabù gravavano ancora sulla donna che si sarebbe dedicata all’insegnamento superiore. La novità procurò notevoli commenti e disagi a queste «donne nuove» della Terza Repubblica: una barriera fu frantumata da queste giovani che passarono dal livello generico di istitutrici a quello socialmente riconosciuto di insegnanti a livello superiore. Inoltre, gli schemi e i parametri maschili non dovevano diventare impositivi e determinanti si apriva allora un tracciato inedito, tutto femminile.
La targa che ricorda tutte le Sévriennes morte per la Francia, non porta un nome, quello di Marguerite Aron che morì vittima della furia distruttrice del nazismo. Nata in una famiglia ebraica a Parigi nel 1873 nel ix arrondissement, nei pressi della stazione Saint-Lazare, Marguerite al compiere dei sette anni ricevette in dono dal nonno Aronhauser il libro delle preghiere degli ebrei d’Alsazia. Margherite, culturalmente, venne allevata sulle «ginocchia dell’università» e assorbì idee scettiche e indifferenti verso il cattolicesimo.
Un dissesto economico familiare costrinse la giovane ragazza, che si sentiva inclinata agli studi universitari, a virare invece nel 1893 verso quell’istituto di studi della Scuola Normale di Sèvres, detto Couvent laïque. La sua formazione fu quindi quella dell’insegnante, professione che intraprese una volta diplomata, dapprima in provincia, poi a Versailles e infine a Parigi. Il metodo e la personalità «del mostro» suscitarono notevoli problemi, tanto da venire invitata a non allargare troppo le idee delle allieve e a non prestare loro libri! Un problema però angustia madame le professeur ed è quello della sua vocazione nella vita: «Come vorrei avere una vocazione chiara, imperiosa, senza repliche! Eppure non ce l’ho. Appartengo a quel tipo di persone equilibrate e mediocri che riescono un poco dappertutto, senza riuscire da nessuna parte, che esitano, ponderano, che si servono di una parte della loro attività nel domandarsi che cosa vogliono fare (...) Quando ero piccola, era già il mio cruccio: sognavo d’avere una vocazione». Quando ancora frequentava la scuola di Sévres, Marguerite nelle sue sterminate letture si era imbattuta e aveva letto Pascal, mentre l’Imitazione di Cristo, per l’austero ascetismo non entrò nel suo spirito. Fu invece toccata nel profondo da un altro incontro con una persona di spicco nel suo tempo: il domenicano Héribert che aveva fondato il Circolo Veritas, nei cui interessi culturali religiosi poneva un accento ben preciso sul ruolo del popolo di Israele nella storia della salvezza. Si ignora come Marguerite ne incontrò il fondatore, però ne seguiva le attività e cominciò a percepire dentro di sé un richiamo interiore che promanava dalla sua stessa stirpe ebraica. Iniziò quindi il cammino della conversione al cristianesimo su cui ella mantenne sempre un silenzio denso di discrezione; un indizio può tuttavia gettare luce su quanto le accadde se ci si riferisce a quanto scrisse su Marie-Alphonse Ratisbonne: «Egli, d’un sol colpo, ricevette tutto, fede, luce; venne folgorato e illuminato, la sua partenza è l’arrivo degli altri». Sempre in lei rimarranno presenti «due tempi, due volti», non in conflitto ma in complementare armonia, ebraismo e cristianesimo.
Marguerite fu battezzata nel 1914 e si legò alla spiritualità e all’attività domenicana: collaborazioni a riviste quali La Vie intellectuelle e La Vie spirituelle, un vivo gusto per la ricerca e la scrittura di tanti libri di spiritualità, brillanti conferenze e l’animazione di circoli aperti ai liceali.
Fondamentale fu il suo avvicinamento all’abbazia di Solesmes dove giunse per la prima volta l’8 settembre 1930, frequentandola durante la Settimana Santa e per periodi personali di ritiro e riflessione, insieme con un fedele gruppo di amici.
La sua maturazione religiosa fu progressiva e attenta: «Giunge il momento in cui le cerimonie che incantavano annoiano, che all’ufficiatura solenne si preferisca l’orazione silenziosa. Ma se si è veramente figli della Chiesa universale si capisce poi che tutto questo non fa che un grande tutto la cui cifra è la lode, l’amore, l’obbedienza».
Un tratto della sua spiritualità fu anche il legame con Maria la Madre di Gesù; aveva scritto commentando le xilografie della Via Crucis di Raymond Dubois: «In Lui, tutti i morti della stirpe sono presenti, quelli dei secoli passati, quelli dei secoli futuri; e dopo il sacrificio di Abele, prima vittima del genere umano, mai nessun prete ha avuto o ha offerto una simile ostia (...) È così che Maria diviene la Madre di tutte le grazie, la misericordiosa dispensatrice del perdono, la tesoriera del sangue di Gesù».
Marguerite conobbe anche e strinse grande amicizia con quella che sarebbe divenuta la beata Ursula Ledochowska, la fondatrice delle Orsoline, la cui storia si deve alla sua penna.
Malgrado la persecuzione nazista che infuriava in Europa, Marguerite non volle lasciare Solesmes e nascondersi. Non solo ma osò ospitare nella sua casa un’ebrea ricercata, Elisabeth Cahen d’Anvers. Le due anziane, evidentemente denunciate, il 26 gennaio 1944 mentre uscivano dalla celebrazione della messa furono arrestate e deportate. Il 13 gennaio il convoglio giunse ad Auschwitz, quasi certamente Marguerite non superò la selezione del dottor Mengele che eliminava immediatamente i «pezzi» che contavano più di cinquant’anni, così ella condivise con il suo popolo l’odio contro il popolo di Israele e i suoi due volti trovarono, nel martirio silenzioso e sconosciuto ai più, quella pace e quell’unità cui tutti aneliamo.

di Cristiana Dobner in Osservatore Romano, 22 ottobre 2008

martedì 1 gennaio 2008

Madre di Dio e... nostra

Qualcosa, senz’altro, aveva intuito già… nei primi passi di quest’avventura.
Forse fin dall’inizio, a sentire di mamme come lei, che non volevano essere consolate, perché i figli non c’erano più.
Forse quando era extracomunitaria in Egitto, o quando il ragazzo le si era opposto, la prima volta - così deciso e quasi ostile - nel tempio.
Poi nel silenzio di vent’anni, a Nazareth, anni bui, abbaglianti, troppo misteriosi per raccontarne la storia.
O nei primi tempi della vita pubblica di giovane profeta, quando anche lei, spinta dalla reazione spaventata dei parenti, aveva osato pensare che ‘era fuori di sé’.
Lui aveva comunque proseguito per la sua strada, determinato e mite, come sempre. E così l’aveva perso di vista, quand’era tutto preso dal suo viaggio messianico verso Gerusalemme, sempre meno compreso dai discepoli, sempre più osteggiato dai capi del popolo.
…forse, appunto, qualcosa aveva intuito - da sempre.
Si può perdonare a Dio un dolore così grande?
Ma adesso… stava sotto la croce - in braccio il suo ragazzo, morto. Il più giusto e innocente dei figli dell’uomo, rifiutato, torturato, squarciato il cuore, tirato giù finalmente dal legno maledetto.
Un venerdì sera, la spada, di cui diceva il vecchio Simeone, trafigge il più intimo dell’anima, dove cercano pace impossibile la ragione, il cuore e la fede. Se lì t’invade il dolore, non va più via, mai più, come un tumore… ed ogni gioia è impregnata di mestizia, per sempre.
Una processione interminabile di donne, madri e sorelle, cammina da sempre verso di lei, sotto la croce - il cadavere del suo Dio in braccio - la speranza umana morta, senza perché, innumerevoli volte, nei millenni…
E nel perdono era sola. Sabato senza il Figlio. Piccola donna in carne ed ossa a pagare il prezzo d’essere concepita senza peccato. Lei, carne corruttibile, ci dà il segnale: la carne può salire in cielo, il cielo è qui. Il suo corpo ha steso un ponte tra noi e Dio, una strada umana e praticabile”.
Perdonare Dio, suo figlio crocifisso - come solo lei, piccola donna prediletta, poteva, a nome di tutti. Perdonare il male - troppo smisurato e sproporzionato alla capacità umana di farlo e sopportarlo.
l’altro figlio, l’altra casa
Perdonare è sempre ricominciare da capo.
Con un altro figlio, con un'altra maternità… o fraternità o figliolanza: è Dio che è fatto così! (Gesù, vedendo la madre e il discepolo che amava, dice alla madre: Donna ecco tuo figlio! Poi dice al discepolo: Ecco tua madre!)1. E da allora la piccola donna, che ha perdonato Dio, fa parte dei “beni di casa” dell’umanità.
L’umanità ricomincia a sperare e a vivere, dopo la morte e la tomba vuota… Da lei, riconciliata con Dio sotto la croce, inizia un nuovo modo di stare nella storia. Assumere il peso e la sofferenza dell’altro figlio, in un’altra casa. Il primo sì, che aveva segnato l’avvio misterioso di questa storia, svela il suo senso sorprendente. La religione è ‘sì’ e ‘no’ : sacro e profano, pure e impuro, grazia e disgrazia, sacerdozio e laicità… Cioè separare sempre il figlio proprio (figlio di Dio) dal figlio altrui (figlio dell’uomo). La fede di questa donna è invece solo “”. Accetta lo scambio dei figli, per sempre: sfida e scommessa su un Dio che abbandona e che accompagna! Ed è sempre lo stesso Padre.
Maria - madre e sorella, di casa, nell’umanità che spera e dispera. Passaggio obbligato. Crocevia di innumerevoli volti di donna.
generare è “mettere al mondo”!
Sotto la croce ha capito! Perché sotto la croce Dio le ha restituito - morto - il figlio comune (umano e divino). Mettere al mondo, dunque, voleva dire rendere mondano, cioè mortale, Dio. Mettere al mondo vuol dire mettere a morte. Seminare la morte all’interno di Dio. E Dio venne ad abitare nell’unico luogo dover non avrebbe mai potuto abitare. Ma siccome Dio è troppo grande, è la mondanità che è diventata interna a Dio. E di questa malattia umana Dio è morto.
Sotto la croce vuota, morte e vita in duello, in braccio a Maria, dopo quel venerdì sera, finché l'umanità dovrà soffrire la sua storia e Dio dovrà essere perdonato, fino alla fine dei secoli… Accettando sempre un altro figlio, un’altra casa!
Poiché questa unione di Dio con la sua carne di donna, dentro il suo corpo (questo è il mio corpo! questo è il mio sangue!)2 è indivisibile. Il figlio morente ne ha fatto una cosa sola, per sempre. Il matrimonio tra Dio e mondo diventa indissolubile.
dona la vita e riceve la morte
Dio abita, dunque, nel luogo dove non doveva mai entrare: nella morte! Ha domandato ad una giovane donna di insegnargli a percorrere, anche lui, sino in fondo, il sentiero interrotto della mondanità. Ed un umilissimo amore umano ne ha accettando la sfida. La vita umana, di carne, diventa ormai, per tutti, lo spazio finito (mortale) da attraversare (in compagnia di Dio) per vivere la paura della morte e vendere la vita.
Solo un Dio di carne lo poteva sperimentare. Grazie ad una piccola donna mondana, laica, “impura”… come ogni donna, in ogni religione di questo mondo. Ma capace di un amore più potente della paura della morte. Dove c’è quest’amore, c’è Dio: indivisibile dalla carne, orami! Ogni altro sacerdozio impallidisce… e proprio di questo mistero può divenire soltanto pallido segno, strumento di servizio.
Il cristiano - ogni povero cristiano - è un uomo di nuovo messo al mondo, dalla stessa piccola donna, sprofondato nel cuore incredente della laicità, a raccogliere umilmente la stessa sfida di un amore più potente della paura della morte.
dormitio Mariae
La morte continua a togliere la vita, ma non può più uccidere il cuore (o l'anima) dell’essere uomo o donna. Può paralizzarla provvisoriamente, cioè addormentarla - in attesa di un risveglio, affidato alle scadenze insondabili della misericordia del Padre.
Perché ormai la vita non è più il passaggio inutile di un barlume di coscienza nella carne - una meteora che si perde nel nulla. La morte non tronca la trasmissione della vita, con quanto si porta dentro - di tutta la passione dell’umanità.
Perciò la donna, la madre dei viventi, esulta nel più intimo della sua passione. E la sua piccolezza non le fa velo, perché sa che tutto quanto è umano, anche un frammento, è già anticipatamente salvo. A cominciare dai poveri, affamati, seduti nella polvere… ma destinati al trono - e noi a servirli!
Felice anno nuovo!
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