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venerdì 19 dicembre 2008

La strada dell’impossibile: l’umanizzazione del mondo

C'è un filo d'oro nascosto nel mistero dell'universo, che lega, passo passo, la prima pagina della Bibbia all'ultima. Ma c'è, questo filo d'oro, anche per l'uomo moderno, fornito di notizie inimmaginabili per gli antichi patriarchi, profeti e apostoli e quanti ricercatori di Dio hanno raccontato la loro esperienza, fino a noi. Il filo d'oro – o la domanda di senso ‑ è questa: dalla prima inesplicabile esplosione di energia creatrice fino a noi (14 miliardi di anni… o diecimila, sono troppi comunque per la testa e il cuore dell'uomo!) ci sono stati tanti salti di qualità "impossibili" – e quindi si sono cercate ipotesi o spiegazioni molteplici e contraddittorie. Ma la domanda resta. Passare dal nulla a qualcosa di esistente, dal livello fisico-cosmico alla vita, dalla animalità allo spirito…ci pare inspiegabile, impossibile! Allora l'uomo pensa che sia intervenuto Qualcuno… a condurre per mano il progresso evolutivo della creazione nei suoi momenti troppo difficili, impraticabili! L'impossibile è ciò che non può essere prodotto dalle cause o risorse o energie presenti: ciò che non è contenuto nelle premesse e quindi non può scaturire da quelle cause. Allora la Bibbia ci appare come il racconto di tanti testimoni che hanno visto questo raccordo tra la loro storia e l'impossibile, che hanno ascoltato e intrasentito la mano di un "dio" che li accompagnava sul crinale dell'ulteriorità incredibile e inaccessibile. La creazione, la promessa nel paradiso fallito, la malvagità umana autodistruttiva e l'arcobaleno di Noè, la fecondità del vecchio Abramo, la lotta di Giacobbe con Dio, la liberazione dell'uomo dalla schiavitù del Faraone, la trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne … sono i passi impossibili a cui l'uomo è stato chiamato da colui che "dà la vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esistono" (Rom 4,17). Allora, in questa pagina del Vangelo (l'annunciazione!), sta il cuore della storia, cui tutta la creazione anelava. La meta e, insieme, il centro propulsore di questo inarrestabile flusso dell'amore creativo di Dio è il seno, anzi prima il cuore, di Maria. La quale sa, come racconta il vangelo di Luca, che è impossibile ciò che le è annunciato ‑ eppure si consegna, perché nulla è impossibile a Dio! Adesso la Parola non è solo la metafora per indicare il legame di benevolenza gratuita del Padre con tutto ciò che esiste. Non è solo la sua sorprendente decisione, libera e amorevole, non prodotta da necessità fisica o psichica o morale, che cerca il consenso e la gioia: rallegrati, Maria). La Parola stessa si fa seme e diventa bimbo d'uomo nell' inimmaginabile assunzione o impregnazione divina di un germoglio di carne umana. "Il verbo si è fatto carne!". E la verginità è il timbro della suprema libertà di Dio da ogni legge di necessità. Nella catena dei miliardi di natali umani, un Natale impossibile, incredibile… tanto impossibile che, per non esserne accecati, i cristiani ne hanno fatto una favola, ormai così innocua, che viene mescolata ai tanti festeggiamenti natalizi commerciali, coloriti di simboli o leggende le più disparate.

Come incontrare Dio?

Tre personaggi ci presenta la liturgia di oggi, ultima domenica di preparazione al Natale. Tre appassionati ricercatori di Dio, che toccano con mano la discrepanza radicale tra i propri progetti umani e i progetti di Dio! Tra il dio che abbiamo in mente e il "Dio" che si rivela nella storia e viene loro incontro.

Davide. Al culmine delle sue conquiste e del suo regno, consolidata la nuova patria per il suo popolo, pensa di costruire una casa dignitosa anche per l'arca del suo Dio… Sembra un'idea bella anche al profeta Natan. Ma la parola del Signore li dissuade, e riporta la loro attenzione su una presenza inversa: «sono stato con te dovunque sei andato» dice il Signore. Non è Davide che l'ha cercato. È Dio che è andato a cercare Davide in mezzo ai pascoli, quando nessuno pensava a lui. Non è l'inventiva dell'uomo che individua dove e come il Signore deve farsi presente, ma la sua "obbedienza" nello zittire i suoi progetti, e ascoltare la Parola, che gli fa scoprire dove il Signore lo chiama. Questa frustrazione (forse tu mi costruirai una casa?) ha aperto a Davide orizzonti nuovi di penetrazione e accoglienza della misteriosa vicinanza di Dio nella storia, vicinanza implorata, pregata, cantata nei salmi, che hanno nutrito la fede di tanti di credenti.

Paolo. Nessun protagonista del Nuovo Testamento aveva idee così chiare e ferree come Paolo, che ha perseguitato a morte i discepoli di Gesù, finché era convinto che la razza, la circoncisione, la legge, il tempio, fossero i pilastri immutabili della appartenenza a Dio. Invece il progetto di Dio era nascosto in un mistero di salvezza «taciuto per secoli eterni», ma «rivelato ora e annunziato... a tutte le genti, perché obbediscano alla fede» (v. 26). "Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito (Rom 8,3s). Dunque era completamente diverso e imprevedibile (impossibile) "il disegno eterno che [Dio] ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, il quale ci dà il coraggio di avvicinarci in piena fiducia a Dio per la fede in lui." (Ef 3,12). Ma Paolo lo ha accolto e gli ha sconvolto la vita.

Maria. È attratta consapevolmente in questo mistero taciuto nei secoli eterni, mentre è in ascolto di un angelo, che le fa scoprire l'immenso rovescio di indicibile gratuita tenerezza di Dio su lei, nella sua piccolezza. Un attimo di smarrimento, come in tutte le epifanie bibliche, per dire lo sconcerto dell'imprevedibile, che fa irruzione in lei: a quelle parole Maria rimase turbata. Come è possibile? Una domanda il senso, nella trepidazione di far dire a Dio, forse, ciò che non sta dicendo. E fa emergere così lo stile inconfondibile di Dio nella storia: implodere la sua gloria esplosiva nell'ombra, adesso sconcertante come mai: L'Altissimo si fa piccolo e si nasconde (e si rivela) nell'ombra opaca della carne umana. Solo la madre sa che è figlio di una Parola di amore di Dio, anzi, è la Parola stessa dell'amore eterno di Dio per il mondo! Questo annuncio si diffonde come un contagio, sempre velato e insieme irresistibile, suscitando nei credenti la stessa appassionata disponibilità di totale consegna di sé, per riscoprire così la propria identità nel progetto di amore del regno di Dio:" si faccia di me secondo la tua parola"

L'obbedienza della fede è l'affidamento di sé alla "parola"

Il Natale ripete per noi la sua scansione di salvezza: non temere, il Signore viene, ti riempirà di vita, che coinvolgerà gli altri attorno a te! E la nostra speranza è una Vergine gravida dell'impossibile, ultimo (o primo) anello di una successione infinita di uomini e donne, che hanno creduto e si sono affidate, nella esperienza della fatica, del fallimento e dell'impotenza… ad un mondo altro.

L'obiettivo di ogni annuncio, di ogni manifestazione della Parola è la proposta di amore e di vita che c'è dentro, certo, ma raggiungibile solo attraverso l'obbedienza della fede: questo è il dinamismo di fuoco a cui siamo chiamati. Ogni altro aspetto di culto o di ascesi, di dottrina o di sacramento, di magistero o di sacerdozio è strumento e mezzo per riconoscere, entrare in contatto, accogliere questa "grazia", cioè questo regalo inaspettato di accesso all'impossibile che ci mette allo sbaraglio, ci provoca allo sbilanciamento di fronte agli accadimenti che non sono adeguati alle forze dell'uomo, e vengono dall'esser non più servi, ma amici di Dio: il perdono (nessuno può perdonare i peccati se non Dio solo); il corpo e sangue di Dio in materia cosmica per nutrire il credente (come può costui darci la sua carne da mangiare?); l'amore ai nemici (fu detto. Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico), il coinvolgimento coi poveri (di essi è il Regno dei cieli – sono "in società" con Dio!); la "necessità salvifica" della chiesa, pur fatta più di peccatori che di santi (su di te fonderò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa!)… Il nuovo credente sa che l'istituzione e la legge, i segni e le parole, la gerarchia e i ministeri, sono necessari finché dura la storia, ma ormai la loro necessità è strumentale, provvisoria e anche ambigua, appena si illudesse di essere adeguata all'obiettivo: sono soltanto il pedagogo che accompagna sempre alla soglia dell'incontro, che non è capace di produrre, come Giovanni il Battezzatore. L'obbedienza della fede ci fa riscoprire il rapporto faticoso tra libertà e necessità, ci riporta continuamente alla dinamica assiale della storia della salvezza, che ci fa dire di fronte alle esigenze radicali dell'amore: è possibile o è impossibile? Noi sappiamo per adesione umile all'obbedienza della fede, che è un regalo capirlo e tanto più riuscire a praticarlo. Che dunque è presunzione pensare di imporre questa fede, di esigerla e tanto meno di condannare coloro che si ritraggono… nella esperienza dolorosa dell'impossibilità!

…e vorremmo augurare e pregare anche per loro il Natale.

venerdì 8 agosto 2008

Il possibile incontro con Dio nell'inevitabile storicità dell'uomo

La prima lettura e il Vangelo di questa diciannovesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresi, invitano ad allargare lo sguardo su una porzione un po’ più ampia, rispetto a quella proposta dalla liturgia, della vicenda dei loro protagonisti: da un lato Elia, dall’altro Gesù e i discepoli (in particolare Pietro).
Questo ampliamento d’orizzonte consente infatti di collocare gli episodi qui narrati nell’evoluzione storica che li ha preceduti e seguiti, con due vantaggi: quello più immediato di permettere una visione non parziale e deformata dei personaggi; e quello più strutturale di farci cogliere come unico modo corretto di pensare l’uomo, sia quello di pensarlo come essere storico.
Come anticipato, questo è visibilissimo in Elia. L’episodio che la prima lettura ci presenta infatti rischia di rimanere un po’ incomprensibile o, peggio, di essere frainteso se non si conosce ciò che lo precede e ciò che lo segue. Ecco perché è doveroso, almeno velocemente, ripercorrere la storia di questo profeta così come ci è presentata nel I e nel II libro dei Re (1Re 17,1 – 2Re 2,18).
Siamo nel IX sec. a.C. nel Regno di Israele, che ha al suo vertice il re Acab. In questo contesto inizia la storia di Elia profeta; a dire il vero in modo un po’ anomalo: egli compare infatti sulla scena rivolgendo al re una parola che è sua e non di Dio: «Elia il Tisbita, uno degli abitanti di Galaad, disse ad Acab: “Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io» (1Re 17,1).
Davvero uno strano profeta quello che parla a nome suo e non a nome di Dio...
Ma proprio questo è l’aspetto interessante del ciclo di Elia: il fatto che questo profeta non è presentato in modo agiografico, come un eccellente uomo di Dio, ma come un uomo, dal “carattere difficile”, che dovrà fare un lungo percorso per convertire l’idea di Dio che ha in testa.
Tant’è che il testo, con un tono decisamente ironico, ci presenta immediatamente come Elia stesso sia vittima della sua profezia: infatti, dopo che su invito di Dio si era rifugiato presso il torrente Cherit, per sfuggire alle insidie della casa regnante che lo voleva morto, avvenne che «il torrente si seccò perché non pioveva sulla regione» (1Re 17,7). Simpatico questo Dio che fa propria la parola del profeta, anche se non era sua, e decide di attuarla proprio ora...
Il Signore allora – dopo questo primo smacco che Elia si auto-procura – decide di inviare il suo profeta a Sarepta di Sidone, dove egli si stabilisce, in casa di una vedova. Ma anche lì Elia prosegue con il suo strano stile: di fronte alla donna che, alla sua richiesta di nutrimento gli risponde «Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo», egli ribatte, con egoismo (?): «Non temere; su fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; [...] poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra» (1Re17,12-14). Peccato che anche stavolta questa è parola di Elia e non parola del Signore... Ad ogni modo anche stavolta quest’ultimo sceglie di assecondare il suo strano profeta, così che «La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (1Re 17,16).
Ma «In seguito il figlio della padrona di casa si ammalò» (1Re 17,17). E interessante è in quest’occasione, cogliere la reazione della madre, che chiaramente rivela che opinione essa abbia di Elia: «Che c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?» (1Re 17,18). Opinione certamente poco consueta di un profeta...
Eppure, con questa sua frase pungente e carica di dolore, questa donna riesce – per prima – a fare breccia in Elia, che sentendosi in colpa – dato il suo atteggiamento con Dio e con gli altri – si rivolge al Signore con queste parole: «Signore mio Dio, forse farai del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?» (1Re 17,20).
E ancora una volta «Dio ascoltò il grido di Elia; l’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere» (1Re 17,22).
Eppure Elia, che sembrava essersi un po’ smosso interiormente, nel capitolo immediatamente successivo dimostra ancora di non aver ben capito la lezione... Il Signore infatti gli disse: «Su mostrati ad Acab; io concederò la pioggia alla terra» (1Re 18,1). Questo dunque doveva dire: che stava per finire la siccità... Eppure pochi versetti dopo lo ritroviamo di fronte al re a riferirgli: «Io non rovino Israele, ma piuttosto tu con la tua famiglia, perché avete abbandonato i comandi del Signore e tu hai seguito i Baal. Su, con un ordine raduna tutto Israele presso di me sul monte Carmelo insieme con i quattrocentocinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera, che mangiano alla tavola di Gezabele [la regina]» (1Re 18,18-19).
Con queste pesantissime parole Elia – che doveva solo annunciare la fine della siccità – lancia invece una sfida ai falsi profeti che adoravano gli idoli... sfida che vincerà, ma che per sua volontà si concluderà in un bagno di sangue: «Elia disse: “Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi uno!”. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li scannò» (1Re 18,40). Ancora una volta – nel silenzio della parola di Dio – Elia fa di testa sua.
Ma la ritorsione della regina si preannuncia pesante ed Elia, «si alzò e se ne andò per salvarsi» (1Re 19,3). Ciò che lo muove però non è solo la paura, ma più che altro la crisi col suo Dio. Elia né lo capisce né tanto meno si sente capito: sceglie perciò di provocarlo. Infatti «si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». È un ricatto affettivo: vuole spingere Dio a intervenire in suo soccorso per ottenere in questo modo la sua approvazione. E il Signore – molto diversamente da come istintivamente avremmo pensato noi – ancora una volta, si fa vicino al profeta e lo nutre. Ma egli insiste e ostinato, pur mangiando e bevendo, non si alza. E il Signore nuovamente fa un passo verso di lui: «Venne di nuovo il messaggero del Signore, lo toccò e gli disse: “Su, mangia, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Finalmente Elia «Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19, 4.7-8).
È a questo punto che si inserisce il brano riportato nella prima lettura, che forse ora, dopo aver raccontato questa storia, possiamo guardare con occhi diversi, perché ormai il protagonista lo conosciamo...
E siamo alle solite: alla domanda del Signore «Che cerchi qui Elia?» - ed è da ricordare che qui non è un posto qualsiasi, ma significativamente la caverna dove Mosè aveva ricevuto la rivelazione del nome di Dio (Es 3,1 ss.) – Elia si rivela ancora sempre lo stesso: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita».
Ma ora è l’ora di Dio, infatti a questo grido di Elia, carico ancora di tutta la sua tracotanza, di tutta la sua rabbia, di tutta la sua paura, di tutto il suo desiderio di vendetta e rivalsa, il Signore semplicemente risponde: «“Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso... un terremoto... un fuoco... ma il Signore non era nel vento, nel terremoto, nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu voce di un silenzio svuotato. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello».
Alla chiassosa e violenta esistenza di Elia, il Signore risponde in una voce di un silenzio svuotato... un doppio ossimoro che – oltre a Elia – lascia a bocca aperta anche noi.
Eppure questa è la chiave di volta della vita del profeta: è l’incontro in verità col Signore, che è anche incontro in verità con se stesso. Questo, anche per noi, è il livello da guadagnare, perché è l’unico che trasforma davvero la nostra interiorità, la rende libera e dunque abilitata alla Vita. Infatti anche Elia – su cui forse noi ormai avevamo poche speranze – cambia, come attesta il proseguo della narrazione.
A questo proposito è interessante notare come, seppure anche prima dell’Oreb Elia avesse spesso giurato a nome di Dio («Per la vita del Signore»), creduto di averlo incontrato, addirittura preteso di parlare e agire a suo nome, è solo ora che c’è un discrimen qualitativo altro.
È la stessa vicenda dei discepoli... anch’essi immersi nella storicità dell’uomo... con le sue andate e i suoi ritorni, le sue parzialità e zone d’ombra, i suoi entusiasmi (c’è appena stata la moltiplicazione dei pani e dei pesci) e le sue paure («È un fantasma!»), con i suoi slanci («Davvero tu sei Figlio di Dio!») e le sue ritrattazioni («Non conosco quell’uomo»)...
Eppure dentro a questa storicità dell’uomo, e quindi anche alla storicità del suo incontro con Dio, è iscritta la possibilità di un incontro vero con lui, la possibilità di dire chi è Dio e dunque dire chi sono io (dire infatti chi sono io è possibile solo dicendo chi sono io di fronte a lui).
Un incontro che non risolve i dubbi, che non preserva dagli errori, dalle ritrattazioni, dalle paure, dalle infedeltà, dalle parzialità, dalla storia: dalla fatica di impegnare tutta la vita nel rapporto col Signore. Eppure, a incontro autentico avvenuto, tutto questo non ha più la potenzialità di falsificare l’identità sua e nostra. Tutto, pur nella sua realtà e nella sua drammaticità, è come “tenuto” da questa identità sua e nostra a cui si è avuto accesso e alla quale, per ciò, si può sempre ritornare! Come per Elia, come per Pietro... che ci somigliano tanto...

venerdì 18 luglio 2008

La zizzania lasciata è la salvaguardia dell'esser-ci storico dell'uomo

I testi che la liturgia ci propone per questa XVI domenica del tempo ordinario sono ricchissimi, sia dal punto di vista della mole che del contenuto. Proprio per questo, a partire da essi, si potrebbero sviluppare innumerevoli tematiche, col rischio però, nel commento, di disperdersi.
Per evitare tale pericolo, focalizziamo l’attenzione in modo specifico sulla cosiddetta “parabola della zizzania” (Mt 13,24-30), stando bene attenti però a non scivolare immediatamente dalla parabola vera e propria alla sua spiegazione (Mt 13,36-43), che forse, per deformazione (cattolica), ci è più nota. Quest’ultima infatti ha tutt’altri intenti e tutt’altre finalità rispetto alla parabola e punta interamente l’interesse sulla tematica della fine del mondo; tematica che invece nella parabola occupa solo lo spazio di mezzo versetto (il 30b «al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio») e che dunque non ne costituisce di certo il centro.
Precisato l’intento di concentrarsi soprattutto sulla parabola della zizzania, va chiarita in primo luogo la sua collocazione; essa infatti non è casuale, ma davvero significativa per la comprensione: siamo al capitolo 13 del Vangelo di Matteo, ai versetti 24-30, e cioè immediatamente dopo la spiegazione della parabola di domenica scorsa: quella del seminatore. Ciò che risulta così interessante è il fatto che mentre quella terminava con il riferimento al terreno buono («Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta», Mt 13,23), questa inizia con la menzione del seme buono («Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo», Mt 13,24). Questo richiamarsi così evidente delle due parabole ha una motivazione ben precisa: il fatto cioè che la problematica della seconda è in qualche modo lo sviluppo dell’esito della prima. Mentre in quella infatti si concludeva sottolineando la responsabilità dell’uomo (dei terreni) per la fecondità del seme, in questa nasce una domanda nuova: perché da un seme buono e da un terreno buono, da cui dobbiamo aspettarci ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta, non viene solo un frutto buono, ma anche dell’altro?
Perché cioè, sembra domandare la parabola, neanche quando la Parola di Dio (il buon seme) si incontra in modo fecondo con l’uomo (il buon terreno), il problema dell’ambiguità della storia è risolto? Perché anche nel fruttuoso incontro dell’uomo con Dio rimangono zone d’ombra, interstizi imputriditi, spazi di aridità?
Ma non solo! La parabola infatti sembra suscitare anche tutta un’ulteriore serie di interrogativi: come va identificata la zizzania? Da dove viene? Chi è quello che Gesù chiama un nemico? E soprattutto: Che cosa bisogna fare?
Andiamo con ordine...
Innanzitutto va evitata quella lettura (ereticheggiante) secondo la quale grano e zizzania rappresenterebbero la divisione fra buoni e cattivi. Che non sia questa l’intenzione di Gesù lo si capisce aguzzando la vista e facendo una piccola osservazione: se Gesù qui avesse voluto parlare dei peccatori, avrebbe utilizzato sicuramente un’altra immagine, qualcosa di convertibile in altro. Gesù infatti quando parla dei peccatori o si rapporta con loro, li pensa sempre come convertibili, come coloro cioè che possono trasformarsi in figli della luce, in malati che con l’aiuto del medico possono trasformarsi in sani (Mt 9,12), in pecore perdute che con la ricerca del pastore possono essere ritrovate (Lc 15,4-7); la zizzania invece è un’immagine che non rimanda a questa convertibilità; è troppo statica: e infatti, per quanto possa assomigliare al grano, non potrà mai trasformarsi in esso!
Conoscendo perciò l’insistenza con cui il NT ribadisce la sempre possibile convertibilità del peccatore, non si può qui ammettere una lettura che interpreti l’immagine della zizzania come un simbolo dei peccatori. Il referente deve essere altro.
E la questione infatti è più radicale: la zizzania non sono i malvagi, ma il male in senso forte, quello che non può essere trasformato in bene, ma che resta male radicale.
Ecco dunque il problema vero: perché c’è il male, nonostante il seme buono e il terreno buono?
La parabola espone questo problema ponendo in bocca ai servi due domande: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?».
La prima questione cade nel vuoto. Il padrone infatti alla prima domanda, che metteva in discussione la bontà del seme (che cioè poneva la possibilità dell’origine del male in Dio stesso), non risponde: è già stato detto che il seme era buono.
La seconda questione riceve invece una risposta: «Un nemico ha fatto questo!»; ma è una risposta che non soddisfa; non scioglie la gravità del problema e anzi suscita ancora maggiori interrogativi: chi è questo nemico? È un nemico che si può sconfiggere? Cosa bisogna fare?
Ma la parabola di tutte queste problematiche sembra disinteressarsi. Essa non dà risposta. Il suo interesse è altrove, nella nuova domanda dei servi: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?».
È a partire da qui infatti che si snoda il proseguimento della parabola, facendo di questa domanda il centro di interesse vero di chi racconta e di chi ascolta: il problema è infatti che cosa fare di fronte al male che c’è? Di fronte al male che c’è nonostante terra buona e seme buono si incontrino?
La soluzione proposta dai servi – «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» – la soluzione cioè dell’eliminazione, è ancora nella prospettiva di chi divide il mondo in buoni o cattivi, in giusti e ingiusti, in puri e impuri, con l’implicita premessa di sapere distintamente chi sono i bravi (noi) e chi i cattivi (gli altri) e con la apparentemente ovvia e necessaria conseguenza dell’estirpazione... è la stessa logica dei discepoli quando, di fronte alla non accoglienza di Gesù da parte di un villaggio di Samaria, avevano esclamato: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54).
È la modalità che immediatamente verrebbe naturale anche a noi. Ed in effetti non manca di una sua coerenza interna: togliere la zizzania infatti appare inevitabile per la crescita del grano; essa rischia di soffocarlo, di rubargli nutrimento, luce, aria e dunque vita! Non è una proposta assurda dunque quella dei servi: per la vita del grano, perché possa crescere più vigoroso, solido, robusto, è meglio che gli sia strappata intorno l’erbaccia che lo opprime... anche a rischio di strappare un po’ di grano – ci verrebbe da dire...
Eppure... questo discorso che a noi pare così lineare riceve nella parabola un duro rifiuto: «No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme». Per il padrone di casa è meglio che zizzania e grano crescano insieme! Conosce di certo le nostre obiezioni: il rischio che il grano soffochi, che faccia più fatica a crescere e a svilupparsi... Eppure preferisce correre questo rischio che percorrere la strada dell’estirpazione. In essa infatti il pericolo è ancora più realistico: che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano.
È dunque la salvaguardia del grano il principio che guida la scelta del padrone!
Alla logica dei servi, così simile a quella di Caifa per cui «È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» (Gv 18,14), che una parte di grano sia strappata per la buona crescita del restante, Gesù contrappone quella della salvaguardia della singolarità preziosa di ciascuno. Il Dio di Gesù è fatto così: non ragiona secondi i calcoli economici del massimo profitto (per cui val la pena a volte anche sacrificare qualcosa/qualcuno per una rendita maggiore – come di fatto funziona il nostro mondo), ma secondo quelli della massima cura di ogni singolo uomo: «Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti» (Sap 12,13.16).
Ma resta ancora qualcosa da dire... infatti, fatta salva la cura della singolarità di ognuno, resta il problema di questo “rimanere” della zizzania...
Se la zizzania nella parabola rappresentasse i cattivi, i peccatori, i malvagi, si potrebbe ancora capire il desiderio di Gesù di non estirparli: dicevamo, per lui sono sempre convertibili.
Ma se – come abbiamo detto – la zizzania rappresenta il male (il male che c’è in ciascuno di noi e nel mondo in generale) perché non va estirpato? La nostra singolarità non sarebbe ancora più custodita se il male fosse eliminato? Gesù non era venuto proprio per liberarci da esso? Sicuramente sì...
E di fatti “tenere” la zizzania non vuol dire accettare un compromesso col male, un rassegnarsi inoperoso alla sua presenza (in noi e nel mondo), ma è un prendere coscienza serio della realtà: la zizzania che rimane nel campo è come una fotografia della storia, un invito a uno sguardo lucido su di essa che porti alla consapevolezza dell’ambiguità dei percorsi umani che accompagna tutta l’esistenza e che va assunta.
E l’ambiguità è questa: che come non si può dividere l’umanità in buoni e cattivi, allo stesso modo non si può neanche col bisturi separare nel nostro cuore il limpido dal torbido, il chiaro dall’ombroso... e non perché l’uno non possa esserci senza l’altro (quasi che il male fosse necessario al bene), ma perché ogni bene è bene storico, si dà cioè in una storia, che ha un prima e un dopo, una germinazione silente e un futuro incerto, che impedisce qualsiasi assolutizzazione o fissazione, foss’anche del momento più bello della vita.
Per usare un’immagine: non possiamo pensare la nostra vita personale e la vita del mondo in generale come una linea retta in cui, in una progressione continua, man mano estirpiamo questo male, questo difetto, questo limite... per arrivare ad “essere apposto”.
Ad ogni istante infatti si ripropone per l’uomo la questione fondamentale della sua esistenza: l’inevitabile domanda su chi egli sia e dunque l’inevitabile scelta su chi egli voglia essere. E seppure è vero che tale questione, nel procedere della vita, è posta in modo diverso, con soglie che come regali a volte si schiudono, e che dunque – come dice Paolo – man mano, «colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito», all’uomo rimane sempre comunque l’inesauribile problema di se stesso, di farsi e costruirsi, di scegliere se esser-ci o auto-distruggersi, di vivere o di morire...
Ecco cos’è dunque il campo di grano con la zizzania: la fotografia della realtà, di come siamo fatti, della storicità della costruzione della vita! Perché nessuna assolutizzazione (nel male e nel bene) interrompa il farsi dell’uomo...
E per concludere... e forse, per chiarire... un piccolo stralcio del libro L’ultimo giro di giostra di T.Terzani, il quale nelle pagine finali, dopo aver raccontato della scoperta di avere un cancro e di tutto il viaggio interiore che questo l’ha portato a fare, commenta:
«Un lieto fine per questo?
E che cos’è lieto, in un fine? E perché tutte
le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia del
viaggio che ho appena raccontato? “... e visse felice e contento”? Ma così
finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il
tempo comunque consuma. E poi chi giudica ciò che è lieto e ciò che non è? E
quando?
A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un
bene o un male? È stato, e questo è l’importante. È stato, e con questo mi ha
aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto,
non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.
Questa non è
un’apologia del male o della sofferenza – e a me ne è toccata ancora poca. È un
invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista»
.
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