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martedì 2 febbraio 2016

V Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 6,1-2.3-8)

Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 15,1-11)

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 5,1-11)

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

 

Continuiamo con la lettura del vangelo di Luca, l’evangelista di quest’anno.

Domenica la liturgia ci propone il brano di vangelo che narra l’incontro di Gesù con i suoi primi discepoli, in occasione di quella che diverrà nota come “la pesca miracolosa”.

Ciò che ha attirato la mia attenzione questa settimana sono alcune espressioni usate dai protagonisti in questa vicenda.

Innanzitutto la constatazione di Pietro, quando Gesù gli suggerisce di prendere il largo e gettare le reti: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla».

Quando Gesù si imbatte nelle persone, la sua proposta è sempre una proposta vitale, che suscita energie positive, che muove a rientusiasmarsi per l’esistenza: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca».

La risposta di Pietro, come credo potrebbero essere le nostre, rimanda invece ad una disillusione: tutta la notte (cioè tutta la vita) abbiamo faticato invano… Ci abbiamo provato davvero, e non per modo di dire, a vivere intensamente e con speranza la vita, ma il risultato è stato deludente… che fatica…

Pietro però aggiunge qualcosa: «ma sulla tua parola getterò le reti». Pietro cioè fa la scelta di ri-fidarsi della vita, nonostante la disillusione, la stanchezza, la mortificazione delle speranze… Torna a fidarsi della vita, che gli si presenta nelle vesti di Gesù, quel rabbi in cui ha intravisto qualcosa di promettente. Si fida della sua parola. E il risultato è sorprendente: un pieno di vitalità che contrasta fortemente con la desolazione precedente.

L’evangelista Luca pare suggerirci allora – attraverso questo episodio – cosa accade quando ci si imbatte in Gesù di Nazareth: ci raggiunge nelle nostre vite affaticate e deluse, ci fa una proposta che promette un’iniezione di vitalità e mantiene le sue promesse: «presero una quantità enorme di pesci».

Ma non si tratta di una magia estemporanea, un’euforia passeggera che a breve ci rigetterà nella mediocrità delle nostre sterili fatiche: è un’iniezione di vitalità che apre possibilità nuove, che abilita a fare passi inaspettati, ad instradarci in percorsi insospettati: «d’ora in poi sarai pescatore di uomini».

Chi si lascia fare da Gesù (cioè chi si fida della sua Parola) la puntura di vitalità che propone (l’iniezione del suo spirito nelle nostre vene) diventa capace di trasformarsi da pescatore di pesci a pescatore di uomini, cioè diventa uno che può tirar fuori dal mare (cioè dal male) gli altri uomini. La sua iniezione di vita diventa contagiosa.


giovedì 24 giugno 2010

Un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso»

Le letture che la Chiesa ci propone in questa tredicesima domenica del tempo ordinario, sono molto dense: seguire tutti gli spunti di riflessione che esse suscitano è impossibile in breve tempo (ci vuole una vita!), ma rintracciare in qualche modo un punto prospettico è invece più fattibile, soprattutto grazie alla felice associazione dei brani scelti dalla liturgia.

La seconda lettura, infatti, contiene un’espressione talmente esplosiva, da risultare sintetica forse dell’intero NT, sicuramente dei testi odierni. Paolo infatti scrive: «Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”», dove ciò che interessa di più non è tanto “ciò che c’è” (che magari ad una prima veloce lettura non avevamo neanche notato, tanto è “scontato” nel cristianesimo l’amore al prossimo), quanto “ciò che non c’è”. Manca infatti la prima parte del duplice comandamento dell’amore, che invece – solitamente – è sempre ricordato (cfr. Mt 22,36-40: «“Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento". Il secondo poi è simile a quello: "Amerai il tuo prossimo come te stesso". Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”»): manca cioè il richiamo all’amore per Dio…
Indubbiamente non si tratta di un cambiamento di prospettiva di Paolo rispetto a Gesù (quasi che Paolo volesse correggere Gesù) e certamente è necessario contestualizzare l’affermazione paolina (collocata in una lettera – quella ai Galati – dove i problemi comunitari iniziavano a farsi sentire con veemenza), ma rimane il fatto che l’Apostolo sottolinei volutamente – per un ebreo come lui non si può infatti pensare ad una dimenticanza – come, la sintesi di tutta la Legge, coincida esattamente con l’amore per il prossimo.
E in questo non è certo il solo, né nella tradizione cristiana, né nel NT stesso; Giovanni infatti al capitolo 13, versetto 34, riporta questa frase di Gesù: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri»; ribadendo il concetto al capitolo 15, versetti 12-13: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici»; e nella sua prima lettera: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20)…
Anche Santa Teresa di Gesù – dottore della Chiesa – 1500 anni dopo si ritrova sulla stessa lunghezza d’onda, quando, nel Castello interiore, scrive: «Per noi la volontà di Dio non consiste che in due cose: nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo [5M 3,7]. Il segno più sicuro per conoscere se pratichiamo questi due precetti è vedere con quale perfezione osserviamo quello che riguarda il prossimo. Benché vi siano molti indizi per conoscere se amiamo Dio, tuttavia non possiamo mai esserne sicuri, mentre lo possiamo essere quanto all’amore del prossimo. Anzi, più vi vedrete innanzi nell’amore del prossimo, più lo sarete anche nell’amore di Dio: statene sicure. Ci ama tanto Dio, che in ricompensa dell’amore che avremo per il prossimo, farà crescere in noi, per via di mille espedienti, anche quello che nutriamo per Lui. E di ciò non v’è dubbio [5M 3,8]».
Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando un biblista come P. PEZZOLI in AAVV., Scuola della Parola 2002, Diocesi di Bergamo, commenta Gv 13,31-35 dicendo: «è interessante anche un altro aspetto di questo comandamento: “Così come io vi ho amato, amatevi gli uni gli altri”. Secondo una certa logica, avrebbe dovuto dire: “Così come io vi ho amato, voi amate me”. L’amore di Dio scende su di noi, ma il movimento inverso non è quello di risalire, bensì il diffondersi nel mondo. Certo, poi la risposta ha sempre una dimensione verticale, ma il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio»…
In questo senso trova luce anche il vangelo di Luca, quando – di fronte ai discepoli così appassionati nella difesa del loro Signore («Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?») – Gesù riporta “in squadra” il loro errore di parallasse: «Si voltò e li rimproverò»! Con la tristezza, forse, di chi proprio non si sente capito: perché “seguire” Lui, “difendere” Lui non può che voler dire difendere l’altro, il prossimo, chiunque si imbatta sulla nostra strada, foss’anche samaritano, oppositore, nemico.
«Le reazioni dei discepoli – invece – continuano a nutrirsi della logica mondana di competizione per l’affermazione dell’io personale e collettivo – con le inevitabili conseguenze di conflitto violento… con i concorrenti… ("Maestro, abbiamo visto un tale scacciare i demoni in tuo nome … e glielo abbiamo impedito, perché non è dei nostri!” 49). La comunità (la chiesa) fa ancor più fatica del singolo a rinnegarsi, a farsi piccola, a dare la precedenza… perché pensa addirittura che sia giusto affermare il proprio potere e la propria grandezza con il pretesto della missione ricevuta… Ma la chiesa non è il centro o il fondamento di sé stessa : “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già si trova, che è Gesù Cristo stesso” (1 Cor 3,11) e questi crocifisso (1 Cor 1,23; 2,2). Il centro della chiesa è sempre fuori di lei, perché Gesù, uscito dal Padre, è sempre dono “fuori di sé”… Discepolo è colui che accetta e resiste – cioè si schiera … con questo volto umile e rifiutato, vincendo la tentazione sempre rinascente di farsene un proprio potere, monopolizzando la salvezza – ed escludendo chi non si sottomette! Mentre l’amore di Gesù, presto o tardi, non può che rivelarsi come impotenza disarmata – pane offerto alla fame della gente. Il fuoco che lui porta non è quello che distrugge, ma quello che toglie il peccato del mondo, assumendosene il peso sulle proprie spalle… Solo Dio è davvero mosso da viscere di misericordia per l’uomo e vuole salvarlo… I discepoli vogliono salvare anzitutto se stessi…» [Giuliano].
Quanto è vera anche quest’oggi – per noi, per me, per ciascuno – questa fatica a mettersi davvero “dietro” a un Signore così, che – per amore dell’altro, per la preferenza della faccia dell’altro, per la custodia del volto dell’altro – non concede spazi alla ricerca dell’affermazione del nostro “io”… che invece in noi – continuamente e in molti modi (gratificazioni, potere, ricchezze… essere al centro, aver ragione, riuscire…) – torna a rispuntare, mai domi – come siamo – di fronte ad un Signore che di sé dice: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo», dove ciò che è indicata come la vera identità di Gesù «non è semplicemente la povertà, né semplicemente la fatica di una vita pellegrinante, ma l’insicurezza e la precarietà» [B. MAGGIONI, il racconto di Luca]. Insicurezza e precarietà di cui invece noi abbiamo terribilmente paura – incapaci – di far nostro ciò che Lui sostituisce alla nostra affannosa ricerca della sicurezza nel possesso, che è l’incondizionata fiducia nel Padre…
«Ecco, comunque, le istruzioni per non soccombere e prepararsi, almeno, alle insidie del viaggio di fede nella nostra povera storia:
1. … quando gli dici: “ti seguirò dovunque tu vada”, sappi che non andrai in nessun posto… (adesso sappiamo che, a seguirlo, non vedremo gratificazioni, né potere, né ricchezze… e neanche un posto dove sbatter la testa. Perciò sappiamo che lo tradiremo! Perché noi, e la nostra chiesa, tutte queste cose continuiamo a cercarle lo stesso, rinnegando il maestro!)
2. … ma il Signore, ostinato, ribadisce: “seguimi!”: non spegnerti nel passato, dove i morti accudiscono solo morti… annuncia e coltiva i germogli vivi del Regno, guardando avanti con i tuoi fratelli e sorelle, che vogliono vivere…» [Giuliano].
3. … con la preziosa associazione del testo di 1Re 19 – dove Elia permette ad Eliseo di andare a salutare quelli di casa – a ricordarci che, pure queste “istruzioni” se diventano rigidi moralismi fondamentalisti, ricadono nella logica di tradimento del Maestro… per il quale nulla è mai stato più importante che la faccia di quello che aveva davanti (e dietro… e nascosto… e perso chissà dove…).

giovedì 22 gennaio 2009

Per vincere la paura bisogna lasciarsi coinvolgere in una relazione

In questa terza domenica del tempo ordinario, il testo del vangelo di Marco ci annuncia l’inizio dell’attività pubblica di Gesù. Dopo il cosiddetto trittico sinottico infatti – costituito dagli episodi del battesimo di Giovanni Battista (Mc 1,2-8), del battesimo di Gesù (Mc 1,9-11) e delle tentazioni nel deserto (Mc 1,12-13) – Gesù torna nella regione in cui è cresciuto, la Galilea, e qui inizia a predicare e a chiamare i primi discepoli.
I versetti del vangelo in cui tutto questo è narrato, i versetti cioè dal 14 al 20 del primo capitolo di Marco (coincidenti con il testo proposto per questa domenica dalla liturgia), non devono stupire per la loro estrema essenzialità. Il loro scopo infatti non è tanto quello di narrare i primi episodi della vita pubblica di Gesù, quanto quello di fungere da prologo: la loro finalità è dunque quella di indicare la prospettiva generale in cui leggere tutta la storia di Gesù.
Anche solo ad una prima lettura del testo si può notare come questa prospettiva sembri essere incastonata soprattutto fra due grandi pilastri, due linee guida: per un verso, l’annuncio della venuta del Regno di Dio con la relativa conversione ad esso, e, per altro, il fatto che questo annuncio per Gesù implichi una prossimità solidale con l’uomo (chiama Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni).
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’annuncio del Regno, è utile forse soffermarsi un momento per tentare di sviscerare che cosa si intenda con questa categoria teologica e soprattutto qual è la prospettiva in cui va letto l’invito alla conversione.
Molto semplicemente si può descrivere il senso dell’espressione “Regno di Dio” – dalla chiara eco veterotestamentaria (Israele è il Regno di Dio) – come il luogo il cui re è Dio, in cui Egli esercita la sua signoria. Delineare in che cosa essa consista, è l’impegno di Gesù in tutta la prima parte della sua vita pubblica: numerose sono infatti le cosiddette “parabole del Regno” nelle quali Egli tenta di far comprendere alle folle la connotazione di ciò che sta annunciando (Mc 4,1-9.26-29.30-32; Mt 13,24-30.31-33.44-46.47-50; 22,1-4; 25,1-13) e nelle quali emerge come questa realtà chiamata “Regno” sia qualcosa di gioioso (come quando un uomo trova un tesoro nel campo o un mercante una perla preziosa di valore inestimabile), addirittura risolutivo per il dramma dell’uomo (tanto che chi lo trova vende tutto quanto possiede per averlo) e proprio per questo una realtà “da non farsi scappare”: soprattutto perché esso ha la forma semplice del dono (come un seme che germoglia e cresce al di là del fatto che il contadino dorma o vegli), di un dono di un’abbondanza spropositata (come di un seme che dà il cento per uno o di un granello di senapa che pur essendo il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno, diventa la pianta più grande dell’orto)…
Se il Regno di Dio, per quanto ne dice Gesù, è questo, diventa allora curioso il fatto che a volte invece nel nostro immaginario il pensiero della signoria di Dio rimandi a cose di ben altro tipo: la paura di Dio, della sua potenza, del suo castigo, della sua imperscrutabilità… Ma come mai succede questo? E come mai, pur avendo sentito tante volte che non è così, di fronte al pensiero di Dio continuiamo a ricadere nell’immediata reazione delle ginocchia che tremano?
A maggior ragione la domanda sorge, se si osserva come, non solo nelle parole, ma anche nei gesti, l’annuncio di Gesù sia inequivocabile. I suoi miracoli, gli atti di quella potenza che tanto ci atterra, sono sempre e solo gesti di liberazione dal male, sono cioè sempre per l’uomo, mai contro l’uomo! Ed è interessante che essi siano chiamati anche “segni della venuta del Regno”: essi cioè mostrano come è il Regno, quali caratteristiche ha… chi è colui con cui il Regno coincide. Essi sono infatti modi di agire di Gesù. E come tutti i modi di agire – anche nostri – mostrano chi è colui che li compie, ci dicono qualcosa della sua identità (per es.: un punk si veste in un certo modo non per dimostrare a tutti di essere un punk; piuttosto, proprio perché è punk, si veste così! Il suo modo di vestirsi rivela chi lui sia, in cosa creda, cosa voglia, ecc...). È così anche per Gesù! Egli non fa i miracoli per dimostrare di essere Figlio di Dio, ma il fatto che faccia i miracoli, dice qualcosa della sua identità, di chi è, di ciò in cui crede, di ciò che desidera, ecc... del suo Regno... Non a caso quando (in Matteo 11,2-6) Giovanni Battista dal carcere manda i suoi discepoli a chiedergli: «Sei davvero tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?», Gesù non risponde con un trattato teologico, o una dichiarazione d’intenti, ma con la descrizione di ciò che accade dove passa lui: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo». Dove passa Dio cioè il deserto fiorisce; questo è il Regno che Gesù sta annunciando: occhi ciechi che ci vedono, gambe storte che si raddrizzano, pelli deturpate che si aggiustano, orecchie sorde che ci sentono, cadaveri che vivono, afflitti che ridono...
Perché allora – ci chiedevamo – se questo è il Regno che Gesù annuncia, cioè il mondo come Dio lo vuole (e lo vuole così!), a noi scatta comunque l’idea che però in verità poi ci sia dell’altro, ci sia una ritorsione, un volta faccia di Dio, che saprà certo essere tanto buono, ma anche tanto vendicativo (se serve…)? Certo non si può negare che secoli di predicazione distorta (non necessariamente nel senso di erronea, ma indubbiamente di riduttiva) hanno condizionato l’imprinting religioso che ci plasma nel momento che veniamo al mondo… Eppure resta che se si legge il vangelo non c’è niente di tutto questo…
Forse davvero non per caso Gesù accompagna allora il suo annuncio della venuta del Regno, che per lui è buona notizia (non ultimo avviso per il “si salvi chi può”!!!), con l’invito alla conversione, un altro termine che in noi subisce lo stesso penoso percorso descritto prima per la signoria di Dio.
La parola “conversione” infatti fa risuonare immediatamente, istintivamente, pre-riflessivamente in noi le corde del timore di essere nella situazione sbagliata (ovviamente nella condizione morale sbagliata), le corde del senso di colpa, le corde dell’angoscia dell’inferno…
Anche qui, forse un po’ vittime della cultura religiosa che ci ha formato e insieme della fatica di credere davvero ad una buona notizia
Fatto sta che Gesù intendeva altro. Niente di morale innanzitutto: la sua prospettiva non è mai su questo piano, anzi la sua libertà in proposito suscita scandalo (infrange la legge del sabato per guarire, si fa accarezzare da una prostituta, ecc…). Il livello al quale Lui fa sempre appello infatti è un altro: è quello della profondità dell’interiorità umana, di quel luogo dove si è soli di fronte a se stessi e – se si vuole farsi guardare da Lui – a Dio; è il luogo della decisività, della scelta se stare dalla parte della Vita o della Morte, dell’esser-ci o del disperdersi, del crederGli o no…
È a questo livello che Gesù chiede una conversione (letteralmente un invertire la marcia, un cambiare direzione): dunque non dai peccati alle buone azioni, dalla lussuria alla continenza, dalla gratificazione alla mortificazione; ma dalla morte alla vita, dalla paura alla fiducia, dalla paura della morte alla fiducia nella vita, dalla paura di un dio castigatore alla pacificazione di un Dio che porta il suo Regno di cura e premura per l’uomo, da una dispersione inconcludente e triste a una dedizione appassionata e fortificante…
Questa è la conversione a cui Gesù invita… Una conversione che invece noi spesso (personalmente, ma anche ecclesialmente) occultiamo, forse inconsapevolmente, perché ci vien subito da pensare che sarebbe e troppo bello e troppo difficile: troppo bello… per essere vero… perché credere che la (famosa) volontà di Dio sia solo regalarmi il Regno (così come lo intende Lui!) sarebbe liberante… ma se poi non fosse proprio così?!? Se alla fine invece voleva un tot di opere di misericordia, un tot di rosari e un tot di astinenza!?!
E troppo difficile… Perché convertirsi è qualcosa di molto più dirompente che “aggiustare qualcosa che non va”… è un cambiamento che non si può contenere nelle vecchie strutture (personali, mentali, sociali): le rompe. Le vecchie strutture infatti sono state create per servire un altro tipo di dio e per un’altra visione dell’uomo…
Ecco perché allora, personalmente ed ecclesialmente, tendiamo sempre a scansare una conversione in senso forte… ecco perché tendiamo ad annacquarla, a liofilizzarla, a semplificarla… perché ciò che ci guida è la paura (che è la non-fede, la non-fiducia, il non-dare-credito): paura di Dio, paura della morte, paura di sbagliare, paura del cambiamento…
Ma la paura genera mostri… come quel dio che temiamo, perché ci manderà all’inferno o peggio ci condannerà alla nientificazione (paura della morte), ci punirà per i nostri peccati (paura di sbagliare), ci castigherà perché non siamo stati fedeli alla tradizione (paura del cambiamento)…
Invece l’annuncio di Gesù, tutta la sua vita (e la sua morte), è il pronunciarsi di Dio (la rivelazione) sul fatto che Lui non è così! E in proposito è interessante notare come Dio non faccia questo annuncio dall’alto dei suoi cieli, ma facendosi uomo… Ancora una volta questo non va inteso come lo stratagemma migliore che Dio ha pensato per farci sapere qualcosa, per convincerci o per istruirci… Non è che Dio pensi alla strategia migliore (qualcosa di esterno a sé) per ottenere il risultato che vuole ottenere… La logica non è cioè che si incarna per dirci qualcosa, ma il fatto che si incarna dice qualcosa di Lui, anzi, più che qualcosa: dice di Lui, di chi Lui sia…
Ciò che ci deve convincere di fronte alla paura non è dunque una particolare parola che estrapoliamo da quelle dette da Gesù, o un suo particolare gesto che ci è tanto caro… Ciò che ci deve convincere è che quella sua vita terrena, quel suo faticoso e coraggioso determinare, scelta dopo scelta, che Dio essere e che Uomo essere… beh… quello è Dio! Non a caso la professione di fede cristiana è: Gesù è Signore. Quella libertà storica lì è Dio. È dunque quella vita che, risultandoci credibile, ci deve liberare dalla paura, da ogni paura! Perché solo chi non ha paura di morire, non ha neanche paura di vivere! E questo vale tanto per ciascun uomo, quanto per la Chiesa tutta!
E allora è molto significativo anche il fatto che quello che abbiamo chiamato il “prologo” del vangelo di Marco (Mc 1,2-20) si concluda con la chiamata di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni. Infatti, proprio perché è nella libertà storica di Gesù che l’uomo incontra Dio («Questi è Dio»), questa libertà, questa Sua vita, è qualcosa a cui bisogna prender parte, è qualcosa con cui immischiarsi, per cui giocarsi; è qualcosa con cui entrare in relazione, qualcosa da interrogare, qualcosa da cui farsi plasmare… è Qualcuno da amare… E questo è il cammino dei discepoli, i primi e quelli di sempre: non tanto imparare o applicare… ma lasciarsi coinvolgere in una relazione.

venerdì 8 agosto 2008

Il possibile incontro con Dio nell'inevitabile storicità dell'uomo

La prima lettura e il Vangelo di questa diciannovesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresi, invitano ad allargare lo sguardo su una porzione un po’ più ampia, rispetto a quella proposta dalla liturgia, della vicenda dei loro protagonisti: da un lato Elia, dall’altro Gesù e i discepoli (in particolare Pietro).
Questo ampliamento d’orizzonte consente infatti di collocare gli episodi qui narrati nell’evoluzione storica che li ha preceduti e seguiti, con due vantaggi: quello più immediato di permettere una visione non parziale e deformata dei personaggi; e quello più strutturale di farci cogliere come unico modo corretto di pensare l’uomo, sia quello di pensarlo come essere storico.
Come anticipato, questo è visibilissimo in Elia. L’episodio che la prima lettura ci presenta infatti rischia di rimanere un po’ incomprensibile o, peggio, di essere frainteso se non si conosce ciò che lo precede e ciò che lo segue. Ecco perché è doveroso, almeno velocemente, ripercorrere la storia di questo profeta così come ci è presentata nel I e nel II libro dei Re (1Re 17,1 – 2Re 2,18).
Siamo nel IX sec. a.C. nel Regno di Israele, che ha al suo vertice il re Acab. In questo contesto inizia la storia di Elia profeta; a dire il vero in modo un po’ anomalo: egli compare infatti sulla scena rivolgendo al re una parola che è sua e non di Dio: «Elia il Tisbita, uno degli abitanti di Galaad, disse ad Acab: “Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io» (1Re 17,1).
Davvero uno strano profeta quello che parla a nome suo e non a nome di Dio...
Ma proprio questo è l’aspetto interessante del ciclo di Elia: il fatto che questo profeta non è presentato in modo agiografico, come un eccellente uomo di Dio, ma come un uomo, dal “carattere difficile”, che dovrà fare un lungo percorso per convertire l’idea di Dio che ha in testa.
Tant’è che il testo, con un tono decisamente ironico, ci presenta immediatamente come Elia stesso sia vittima della sua profezia: infatti, dopo che su invito di Dio si era rifugiato presso il torrente Cherit, per sfuggire alle insidie della casa regnante che lo voleva morto, avvenne che «il torrente si seccò perché non pioveva sulla regione» (1Re 17,7). Simpatico questo Dio che fa propria la parola del profeta, anche se non era sua, e decide di attuarla proprio ora...
Il Signore allora – dopo questo primo smacco che Elia si auto-procura – decide di inviare il suo profeta a Sarepta di Sidone, dove egli si stabilisce, in casa di una vedova. Ma anche lì Elia prosegue con il suo strano stile: di fronte alla donna che, alla sua richiesta di nutrimento gli risponde «Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo», egli ribatte, con egoismo (?): «Non temere; su fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; [...] poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra» (1Re17,12-14). Peccato che anche stavolta questa è parola di Elia e non parola del Signore... Ad ogni modo anche stavolta quest’ultimo sceglie di assecondare il suo strano profeta, così che «La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (1Re 17,16).
Ma «In seguito il figlio della padrona di casa si ammalò» (1Re 17,17). E interessante è in quest’occasione, cogliere la reazione della madre, che chiaramente rivela che opinione essa abbia di Elia: «Che c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?» (1Re 17,18). Opinione certamente poco consueta di un profeta...
Eppure, con questa sua frase pungente e carica di dolore, questa donna riesce – per prima – a fare breccia in Elia, che sentendosi in colpa – dato il suo atteggiamento con Dio e con gli altri – si rivolge al Signore con queste parole: «Signore mio Dio, forse farai del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?» (1Re 17,20).
E ancora una volta «Dio ascoltò il grido di Elia; l’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere» (1Re 17,22).
Eppure Elia, che sembrava essersi un po’ smosso interiormente, nel capitolo immediatamente successivo dimostra ancora di non aver ben capito la lezione... Il Signore infatti gli disse: «Su mostrati ad Acab; io concederò la pioggia alla terra» (1Re 18,1). Questo dunque doveva dire: che stava per finire la siccità... Eppure pochi versetti dopo lo ritroviamo di fronte al re a riferirgli: «Io non rovino Israele, ma piuttosto tu con la tua famiglia, perché avete abbandonato i comandi del Signore e tu hai seguito i Baal. Su, con un ordine raduna tutto Israele presso di me sul monte Carmelo insieme con i quattrocentocinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera, che mangiano alla tavola di Gezabele [la regina]» (1Re 18,18-19).
Con queste pesantissime parole Elia – che doveva solo annunciare la fine della siccità – lancia invece una sfida ai falsi profeti che adoravano gli idoli... sfida che vincerà, ma che per sua volontà si concluderà in un bagno di sangue: «Elia disse: “Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi uno!”. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li scannò» (1Re 18,40). Ancora una volta – nel silenzio della parola di Dio – Elia fa di testa sua.
Ma la ritorsione della regina si preannuncia pesante ed Elia, «si alzò e se ne andò per salvarsi» (1Re 19,3). Ciò che lo muove però non è solo la paura, ma più che altro la crisi col suo Dio. Elia né lo capisce né tanto meno si sente capito: sceglie perciò di provocarlo. Infatti «si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». È un ricatto affettivo: vuole spingere Dio a intervenire in suo soccorso per ottenere in questo modo la sua approvazione. E il Signore – molto diversamente da come istintivamente avremmo pensato noi – ancora una volta, si fa vicino al profeta e lo nutre. Ma egli insiste e ostinato, pur mangiando e bevendo, non si alza. E il Signore nuovamente fa un passo verso di lui: «Venne di nuovo il messaggero del Signore, lo toccò e gli disse: “Su, mangia, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Finalmente Elia «Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19, 4.7-8).
È a questo punto che si inserisce il brano riportato nella prima lettura, che forse ora, dopo aver raccontato questa storia, possiamo guardare con occhi diversi, perché ormai il protagonista lo conosciamo...
E siamo alle solite: alla domanda del Signore «Che cerchi qui Elia?» - ed è da ricordare che qui non è un posto qualsiasi, ma significativamente la caverna dove Mosè aveva ricevuto la rivelazione del nome di Dio (Es 3,1 ss.) – Elia si rivela ancora sempre lo stesso: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita».
Ma ora è l’ora di Dio, infatti a questo grido di Elia, carico ancora di tutta la sua tracotanza, di tutta la sua rabbia, di tutta la sua paura, di tutto il suo desiderio di vendetta e rivalsa, il Signore semplicemente risponde: «“Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso... un terremoto... un fuoco... ma il Signore non era nel vento, nel terremoto, nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu voce di un silenzio svuotato. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello».
Alla chiassosa e violenta esistenza di Elia, il Signore risponde in una voce di un silenzio svuotato... un doppio ossimoro che – oltre a Elia – lascia a bocca aperta anche noi.
Eppure questa è la chiave di volta della vita del profeta: è l’incontro in verità col Signore, che è anche incontro in verità con se stesso. Questo, anche per noi, è il livello da guadagnare, perché è l’unico che trasforma davvero la nostra interiorità, la rende libera e dunque abilitata alla Vita. Infatti anche Elia – su cui forse noi ormai avevamo poche speranze – cambia, come attesta il proseguo della narrazione.
A questo proposito è interessante notare come, seppure anche prima dell’Oreb Elia avesse spesso giurato a nome di Dio («Per la vita del Signore»), creduto di averlo incontrato, addirittura preteso di parlare e agire a suo nome, è solo ora che c’è un discrimen qualitativo altro.
È la stessa vicenda dei discepoli... anch’essi immersi nella storicità dell’uomo... con le sue andate e i suoi ritorni, le sue parzialità e zone d’ombra, i suoi entusiasmi (c’è appena stata la moltiplicazione dei pani e dei pesci) e le sue paure («È un fantasma!»), con i suoi slanci («Davvero tu sei Figlio di Dio!») e le sue ritrattazioni («Non conosco quell’uomo»)...
Eppure dentro a questa storicità dell’uomo, e quindi anche alla storicità del suo incontro con Dio, è iscritta la possibilità di un incontro vero con lui, la possibilità di dire chi è Dio e dunque dire chi sono io (dire infatti chi sono io è possibile solo dicendo chi sono io di fronte a lui).
Un incontro che non risolve i dubbi, che non preserva dagli errori, dalle ritrattazioni, dalle paure, dalle infedeltà, dalle parzialità, dalla storia: dalla fatica di impegnare tutta la vita nel rapporto col Signore. Eppure, a incontro autentico avvenuto, tutto questo non ha più la potenzialità di falsificare l’identità sua e nostra. Tutto, pur nella sua realtà e nella sua drammaticità, è come “tenuto” da questa identità sua e nostra a cui si è avuto accesso e alla quale, per ciò, si può sempre ritornare! Come per Elia, come per Pietro... che ci somigliano tanto...
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