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venerdì 8 agosto 2008

Il possibile incontro con Dio nell'inevitabile storicità dell'uomo

La prima lettura e il Vangelo di questa diciannovesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresi, invitano ad allargare lo sguardo su una porzione un po’ più ampia, rispetto a quella proposta dalla liturgia, della vicenda dei loro protagonisti: da un lato Elia, dall’altro Gesù e i discepoli (in particolare Pietro).
Questo ampliamento d’orizzonte consente infatti di collocare gli episodi qui narrati nell’evoluzione storica che li ha preceduti e seguiti, con due vantaggi: quello più immediato di permettere una visione non parziale e deformata dei personaggi; e quello più strutturale di farci cogliere come unico modo corretto di pensare l’uomo, sia quello di pensarlo come essere storico.
Come anticipato, questo è visibilissimo in Elia. L’episodio che la prima lettura ci presenta infatti rischia di rimanere un po’ incomprensibile o, peggio, di essere frainteso se non si conosce ciò che lo precede e ciò che lo segue. Ecco perché è doveroso, almeno velocemente, ripercorrere la storia di questo profeta così come ci è presentata nel I e nel II libro dei Re (1Re 17,1 – 2Re 2,18).
Siamo nel IX sec. a.C. nel Regno di Israele, che ha al suo vertice il re Acab. In questo contesto inizia la storia di Elia profeta; a dire il vero in modo un po’ anomalo: egli compare infatti sulla scena rivolgendo al re una parola che è sua e non di Dio: «Elia il Tisbita, uno degli abitanti di Galaad, disse ad Acab: “Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io» (1Re 17,1).
Davvero uno strano profeta quello che parla a nome suo e non a nome di Dio...
Ma proprio questo è l’aspetto interessante del ciclo di Elia: il fatto che questo profeta non è presentato in modo agiografico, come un eccellente uomo di Dio, ma come un uomo, dal “carattere difficile”, che dovrà fare un lungo percorso per convertire l’idea di Dio che ha in testa.
Tant’è che il testo, con un tono decisamente ironico, ci presenta immediatamente come Elia stesso sia vittima della sua profezia: infatti, dopo che su invito di Dio si era rifugiato presso il torrente Cherit, per sfuggire alle insidie della casa regnante che lo voleva morto, avvenne che «il torrente si seccò perché non pioveva sulla regione» (1Re 17,7). Simpatico questo Dio che fa propria la parola del profeta, anche se non era sua, e decide di attuarla proprio ora...
Il Signore allora – dopo questo primo smacco che Elia si auto-procura – decide di inviare il suo profeta a Sarepta di Sidone, dove egli si stabilisce, in casa di una vedova. Ma anche lì Elia prosegue con il suo strano stile: di fronte alla donna che, alla sua richiesta di nutrimento gli risponde «Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo», egli ribatte, con egoismo (?): «Non temere; su fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; [...] poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra» (1Re17,12-14). Peccato che anche stavolta questa è parola di Elia e non parola del Signore... Ad ogni modo anche stavolta quest’ultimo sceglie di assecondare il suo strano profeta, così che «La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (1Re 17,16).
Ma «In seguito il figlio della padrona di casa si ammalò» (1Re 17,17). E interessante è in quest’occasione, cogliere la reazione della madre, che chiaramente rivela che opinione essa abbia di Elia: «Che c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?» (1Re 17,18). Opinione certamente poco consueta di un profeta...
Eppure, con questa sua frase pungente e carica di dolore, questa donna riesce – per prima – a fare breccia in Elia, che sentendosi in colpa – dato il suo atteggiamento con Dio e con gli altri – si rivolge al Signore con queste parole: «Signore mio Dio, forse farai del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?» (1Re 17,20).
E ancora una volta «Dio ascoltò il grido di Elia; l’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere» (1Re 17,22).
Eppure Elia, che sembrava essersi un po’ smosso interiormente, nel capitolo immediatamente successivo dimostra ancora di non aver ben capito la lezione... Il Signore infatti gli disse: «Su mostrati ad Acab; io concederò la pioggia alla terra» (1Re 18,1). Questo dunque doveva dire: che stava per finire la siccità... Eppure pochi versetti dopo lo ritroviamo di fronte al re a riferirgli: «Io non rovino Israele, ma piuttosto tu con la tua famiglia, perché avete abbandonato i comandi del Signore e tu hai seguito i Baal. Su, con un ordine raduna tutto Israele presso di me sul monte Carmelo insieme con i quattrocentocinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera, che mangiano alla tavola di Gezabele [la regina]» (1Re 18,18-19).
Con queste pesantissime parole Elia – che doveva solo annunciare la fine della siccità – lancia invece una sfida ai falsi profeti che adoravano gli idoli... sfida che vincerà, ma che per sua volontà si concluderà in un bagno di sangue: «Elia disse: “Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi uno!”. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li scannò» (1Re 18,40). Ancora una volta – nel silenzio della parola di Dio – Elia fa di testa sua.
Ma la ritorsione della regina si preannuncia pesante ed Elia, «si alzò e se ne andò per salvarsi» (1Re 19,3). Ciò che lo muove però non è solo la paura, ma più che altro la crisi col suo Dio. Elia né lo capisce né tanto meno si sente capito: sceglie perciò di provocarlo. Infatti «si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». È un ricatto affettivo: vuole spingere Dio a intervenire in suo soccorso per ottenere in questo modo la sua approvazione. E il Signore – molto diversamente da come istintivamente avremmo pensato noi – ancora una volta, si fa vicino al profeta e lo nutre. Ma egli insiste e ostinato, pur mangiando e bevendo, non si alza. E il Signore nuovamente fa un passo verso di lui: «Venne di nuovo il messaggero del Signore, lo toccò e gli disse: “Su, mangia, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Finalmente Elia «Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19, 4.7-8).
È a questo punto che si inserisce il brano riportato nella prima lettura, che forse ora, dopo aver raccontato questa storia, possiamo guardare con occhi diversi, perché ormai il protagonista lo conosciamo...
E siamo alle solite: alla domanda del Signore «Che cerchi qui Elia?» - ed è da ricordare che qui non è un posto qualsiasi, ma significativamente la caverna dove Mosè aveva ricevuto la rivelazione del nome di Dio (Es 3,1 ss.) – Elia si rivela ancora sempre lo stesso: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita».
Ma ora è l’ora di Dio, infatti a questo grido di Elia, carico ancora di tutta la sua tracotanza, di tutta la sua rabbia, di tutta la sua paura, di tutto il suo desiderio di vendetta e rivalsa, il Signore semplicemente risponde: «“Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso... un terremoto... un fuoco... ma il Signore non era nel vento, nel terremoto, nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu voce di un silenzio svuotato. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello».
Alla chiassosa e violenta esistenza di Elia, il Signore risponde in una voce di un silenzio svuotato... un doppio ossimoro che – oltre a Elia – lascia a bocca aperta anche noi.
Eppure questa è la chiave di volta della vita del profeta: è l’incontro in verità col Signore, che è anche incontro in verità con se stesso. Questo, anche per noi, è il livello da guadagnare, perché è l’unico che trasforma davvero la nostra interiorità, la rende libera e dunque abilitata alla Vita. Infatti anche Elia – su cui forse noi ormai avevamo poche speranze – cambia, come attesta il proseguo della narrazione.
A questo proposito è interessante notare come, seppure anche prima dell’Oreb Elia avesse spesso giurato a nome di Dio («Per la vita del Signore»), creduto di averlo incontrato, addirittura preteso di parlare e agire a suo nome, è solo ora che c’è un discrimen qualitativo altro.
È la stessa vicenda dei discepoli... anch’essi immersi nella storicità dell’uomo... con le sue andate e i suoi ritorni, le sue parzialità e zone d’ombra, i suoi entusiasmi (c’è appena stata la moltiplicazione dei pani e dei pesci) e le sue paure («È un fantasma!»), con i suoi slanci («Davvero tu sei Figlio di Dio!») e le sue ritrattazioni («Non conosco quell’uomo»)...
Eppure dentro a questa storicità dell’uomo, e quindi anche alla storicità del suo incontro con Dio, è iscritta la possibilità di un incontro vero con lui, la possibilità di dire chi è Dio e dunque dire chi sono io (dire infatti chi sono io è possibile solo dicendo chi sono io di fronte a lui).
Un incontro che non risolve i dubbi, che non preserva dagli errori, dalle ritrattazioni, dalle paure, dalle infedeltà, dalle parzialità, dalla storia: dalla fatica di impegnare tutta la vita nel rapporto col Signore. Eppure, a incontro autentico avvenuto, tutto questo non ha più la potenzialità di falsificare l’identità sua e nostra. Tutto, pur nella sua realtà e nella sua drammaticità, è come “tenuto” da questa identità sua e nostra a cui si è avuto accesso e alla quale, per ciò, si può sempre ritornare! Come per Elia, come per Pietro... che ci somigliano tanto...

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