«O voi tutti assetati»...
E chi non sente di essere incluso in questa chiamata? Chi non ha provato la sete? Sete di acqua (paradigma di ogni altra sete), sete di senso, sete di vita, sete di cura, sete di custodia, sete di approvazione, sete di giustizia, sete di riconoscimento, sete di leggerezza, sete di affetto, sete di sorrisi, sete di star bene, sete di coccole, sete di serietà, sete di passione, sete di libertà, sete di Dio...
Chi, addirittura, non ha rabbrividito di fronte alla percezione di questa come la natura stessa dell’uomo? Un essere, sempre, dovunque e comunque, assetato?
E ancora, chi non ha avvertito che tutti i tentativi in proprio di dissetarsi sono destinati a sfumare tra le mani? Che, pur con tutte le risorse che uno può mettere in campo, il mirino è sempre come puntato male, destinato a fallire il centro della questione, il ciò che veramente sazia? «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?».
E siccome sono domande, la cui profondità (quasi fisica) è tale da poter inficiare il tutto di noi, perché “per cosa – o per chi – viviamo” dà senso (o lo toglie) a ogni nostro agire, dire, pensare, sognare, esser-ci... siccome sono domande di tale portata, non ci si può porre di fronte ad esse con la risposta pronta, foss’anche quella più ortodossa. Farlo – come troppo spesso si è preteso di fare – vuol dire non aver accettato di farsi toccare dalla portata di ciò che c’è in gioco, non aver colto quale livello della coscienza è chiamato in causa.
Non si può dire immediatamente “Dio sazia la nostra sete” e pensare che questo chiuda il problema. La Chiesa per troppo tempo si è accontentata di queste risposte pre-confezionate, che acquietavano momentaneamente le coscienze, facilmente placabili da questo punto di vista anche per l’enorme dispendio di energie che richiedeva un'altra sete, quella della sopravvivenza, e che però non fondavano nessuna consistenza di un senso per cui valeva la pena...
Risposte pre-confezionate (si pensi al Catechismo di Pio X: «Chi è Dio?», «Dio è l’essere perfettissimo...») che falliscono il bersaglio perché impediscono di chiamare in causa la vita, la storicità del “prendere coscienza”, gli strati dell’interiorità che non siano il mettere in fila un soggetto e un predicato.
Che fare dunque «o voi tutti assetati»?
«Ascoltatemi. [...] Porgete l'orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete».
Bisogna porsi come chi ascolta... come chi ascolta Dio... senza che questo però voglia dire ricadere nel nominalismo delle risposte pre-confezionate... “ascoltare Dio” non è certo sentire una vocina, né fuori di noi, né in noi; ma non è neanche semplicemente “assolvere a tutti i doveri cristiani”... “ascoltare Dio” è avventurare la vita, incarnarsi nella storia, scandagliare le viscere dell’umano... perché lì dentro – visibile solo dal di dentro – è l’accesso alla verità di sé, che è poi l’accesso al possibile ascolto/incontro con Dio.
È lì dentro che, smascherati dalla vita, disincantati da ciò che non sazia, affiora l’autenticità dell’identità umana e insieme della propria personalissima: unico luogo in cui percorrere con veracità l’ascolto della Vita, che è ascolto di Dio.
È in questo stare nella vita in modo nuovo, come chi ascolta e non come chi dà risposte, come chi si fa trovare e non come chi cerca, come chi si affida e non come chi pretende di auto-salvarsi, che la sete degli assetati trova pace, fino alla persuasione di Paolo, «che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore». Alla persuasione cioè che c’è qualcosa, anzi Qualcuno, di affidabile su cui fondare la vita...
E fa sorridere scoprire – ancora una volta dentro alla storia e non in una serie di definizioni asettiche – che questo Qualcuno, un giorno alla notizia della morte del suo cugino e amico Giovanni e sentito il bisogno di ritirarsi in disparte, si fa però muovere le viscere dalla gente («vide una grande folla e sentì compassione per loro»), ne cura le ferite («guarì i loro malati») e soprattutto fa una cosa razionalmente inspiegabile: «Sul far della sera», invitato dai discepoli a congedare le folle, perché potessero cercare cibo... lui non le congeda.
Perché non le congeda?
Razionalmente si potrebbero addurre tante ragioni contro la sua scelta: gli aveva già dato retta, nonostante l’originario desiderio di star solo; aveva già guarito i loro malati; se ha fatto dei discorsi (nel vangelo non ce n’è traccia) a quell’ora doveva già averli finiti; non si può certo pensare che volesse tenerli per “far vedere” un miracolo; in questa versione di Matteo, tra l’altro, non è neanche un “miracolo necessario”, i discepoli stessi infatti suggeriscono una soluzione, alternativa al miracolo, percorribile per risolvere il problema della cena: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare»...
Non c’è un motivo dunque per tenerli lì: né espresso nel vangelo, né a cui potremmo arrivare noi con le nostre ipotesi... Ma allora perché li tiene?
Quale ragione guida il suo agire? Cosa ha in mente? Cosa ha in cuore? Come pensa (nel senso forte di “che orizzonte di senso ha”), per far questa scelta?
Io credo – stando a quanto detto prima – che sia necessario stare a macerarsi sopra a queste domande, per farci passar dentro la vita, l’umano, noi stessi... e solo così provare non tanto a dire, quanto a sentire la sua risposta, che ormai è più un vissuto empaticamente trasmissibile che una risposta...
Con un solo accorgimento: per com-prendere il vissuto non si può procedere con lo strumento della ragionevolezza, del rigoroso intelletto che viaggia sui binari della non-contraddizione e dell’unità sistematica; anzi il ridurre la com-prensione dell’uomo a questa prospettiva, vuol dire tradire l’uomo, sminuirne l’incommensurabilità... è un’altra la “ragione” da mettere in gioco, altri gli “organi di comprensione”, altri i percorsi dell’interiorità. Un alterità non escludente, bensì inclusiva i modi normali del conoscere e del sentire, eppure altra.
È un altro ordine di pensieri, un altro livello... tutta un’altra storia...
Non qualcosa di straordinario, ma umanissimo, che già attiviamo, forse non sempre consapevolmente, in tanti momenti della vita: in quelli fondamentali, quelli dove la vita fa esplodere l’ordinario e mascherato modo di essere: l’amore, l’odio, la nascita, la morte...
Perché solo imparando ad attivare questo modo altro di sentire e sentirsi, di com-prendere e com-prendersi, si può smettere di cercare il perché e il per come Gesù abbia fatto così o cosà; di pensare cosa avrà voluto dirci nel far questo o quello; cosa allora dobbiamo fare noi – mica che sbagliamo e poi andiamo all’inferno, ecc, ecc, ecc...
Solo così infatti, possiamo stare di fronte a un uomo – che è la rivelazione della faccia di Dio – che non aveva nessun motivo per non congedare la folla, come neanche nessuno determinante per congedarla, e ha scelto di star lì a mangiare con lei...
Che non voleva insegnarci nulla con questa sua scelta, né tanto meno indurci a far qualcosa...
Solo c’è stato. E questo dice chi è Dio.
Sarebbe forse più facile accettare, o Signore, un’opera definita, dai contorni precisi; sarebbe più facile marciare inquadrati e con precise consegne; sarebbe più facile, Dio mio, obbedire specialmente a coloro che hanno già pensato e pesato tutto in vece nostra. Ma non è questo che tu o Signore vuoi da noi. Oggi, tu o Signore, vuoi che ci immischiamo con tutte le folle. Vuoi che ci immergiamo nel mondo che va lontano dal retto cammino e dopo d’aver constatato noi stessi l’immensa angoscia dei tuoi figli sperduti, possiamo allargare i nostri cuori in proporzione alla loro miseria. O Dio fatto uomo, fa che i nostri cuori siano abbastanza umani affinché i nostri fratelli vi si trovino a loro agio quando vi sono accolti.
E chi non sente di essere incluso in questa chiamata? Chi non ha provato la sete? Sete di acqua (paradigma di ogni altra sete), sete di senso, sete di vita, sete di cura, sete di custodia, sete di approvazione, sete di giustizia, sete di riconoscimento, sete di leggerezza, sete di affetto, sete di sorrisi, sete di star bene, sete di coccole, sete di serietà, sete di passione, sete di libertà, sete di Dio...
Chi, addirittura, non ha rabbrividito di fronte alla percezione di questa come la natura stessa dell’uomo? Un essere, sempre, dovunque e comunque, assetato?
E ancora, chi non ha avvertito che tutti i tentativi in proprio di dissetarsi sono destinati a sfumare tra le mani? Che, pur con tutte le risorse che uno può mettere in campo, il mirino è sempre come puntato male, destinato a fallire il centro della questione, il ciò che veramente sazia? «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?».
E siccome sono domande, la cui profondità (quasi fisica) è tale da poter inficiare il tutto di noi, perché “per cosa – o per chi – viviamo” dà senso (o lo toglie) a ogni nostro agire, dire, pensare, sognare, esser-ci... siccome sono domande di tale portata, non ci si può porre di fronte ad esse con la risposta pronta, foss’anche quella più ortodossa. Farlo – come troppo spesso si è preteso di fare – vuol dire non aver accettato di farsi toccare dalla portata di ciò che c’è in gioco, non aver colto quale livello della coscienza è chiamato in causa.
Non si può dire immediatamente “Dio sazia la nostra sete” e pensare che questo chiuda il problema. La Chiesa per troppo tempo si è accontentata di queste risposte pre-confezionate, che acquietavano momentaneamente le coscienze, facilmente placabili da questo punto di vista anche per l’enorme dispendio di energie che richiedeva un'altra sete, quella della sopravvivenza, e che però non fondavano nessuna consistenza di un senso per cui valeva la pena...
Risposte pre-confezionate (si pensi al Catechismo di Pio X: «Chi è Dio?», «Dio è l’essere perfettissimo...») che falliscono il bersaglio perché impediscono di chiamare in causa la vita, la storicità del “prendere coscienza”, gli strati dell’interiorità che non siano il mettere in fila un soggetto e un predicato.
Che fare dunque «o voi tutti assetati»?
«Ascoltatemi. [...] Porgete l'orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete».
Bisogna porsi come chi ascolta... come chi ascolta Dio... senza che questo però voglia dire ricadere nel nominalismo delle risposte pre-confezionate... “ascoltare Dio” non è certo sentire una vocina, né fuori di noi, né in noi; ma non è neanche semplicemente “assolvere a tutti i doveri cristiani”... “ascoltare Dio” è avventurare la vita, incarnarsi nella storia, scandagliare le viscere dell’umano... perché lì dentro – visibile solo dal di dentro – è l’accesso alla verità di sé, che è poi l’accesso al possibile ascolto/incontro con Dio.
È lì dentro che, smascherati dalla vita, disincantati da ciò che non sazia, affiora l’autenticità dell’identità umana e insieme della propria personalissima: unico luogo in cui percorrere con veracità l’ascolto della Vita, che è ascolto di Dio.
È in questo stare nella vita in modo nuovo, come chi ascolta e non come chi dà risposte, come chi si fa trovare e non come chi cerca, come chi si affida e non come chi pretende di auto-salvarsi, che la sete degli assetati trova pace, fino alla persuasione di Paolo, «che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore». Alla persuasione cioè che c’è qualcosa, anzi Qualcuno, di affidabile su cui fondare la vita...
E fa sorridere scoprire – ancora una volta dentro alla storia e non in una serie di definizioni asettiche – che questo Qualcuno, un giorno alla notizia della morte del suo cugino e amico Giovanni e sentito il bisogno di ritirarsi in disparte, si fa però muovere le viscere dalla gente («vide una grande folla e sentì compassione per loro»), ne cura le ferite («guarì i loro malati») e soprattutto fa una cosa razionalmente inspiegabile: «Sul far della sera», invitato dai discepoli a congedare le folle, perché potessero cercare cibo... lui non le congeda.
Perché non le congeda?
Razionalmente si potrebbero addurre tante ragioni contro la sua scelta: gli aveva già dato retta, nonostante l’originario desiderio di star solo; aveva già guarito i loro malati; se ha fatto dei discorsi (nel vangelo non ce n’è traccia) a quell’ora doveva già averli finiti; non si può certo pensare che volesse tenerli per “far vedere” un miracolo; in questa versione di Matteo, tra l’altro, non è neanche un “miracolo necessario”, i discepoli stessi infatti suggeriscono una soluzione, alternativa al miracolo, percorribile per risolvere il problema della cena: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare»...
Non c’è un motivo dunque per tenerli lì: né espresso nel vangelo, né a cui potremmo arrivare noi con le nostre ipotesi... Ma allora perché li tiene?
Quale ragione guida il suo agire? Cosa ha in mente? Cosa ha in cuore? Come pensa (nel senso forte di “che orizzonte di senso ha”), per far questa scelta?
Io credo – stando a quanto detto prima – che sia necessario stare a macerarsi sopra a queste domande, per farci passar dentro la vita, l’umano, noi stessi... e solo così provare non tanto a dire, quanto a sentire la sua risposta, che ormai è più un vissuto empaticamente trasmissibile che una risposta...
Con un solo accorgimento: per com-prendere il vissuto non si può procedere con lo strumento della ragionevolezza, del rigoroso intelletto che viaggia sui binari della non-contraddizione e dell’unità sistematica; anzi il ridurre la com-prensione dell’uomo a questa prospettiva, vuol dire tradire l’uomo, sminuirne l’incommensurabilità... è un’altra la “ragione” da mettere in gioco, altri gli “organi di comprensione”, altri i percorsi dell’interiorità. Un alterità non escludente, bensì inclusiva i modi normali del conoscere e del sentire, eppure altra.
È un altro ordine di pensieri, un altro livello... tutta un’altra storia...
Non qualcosa di straordinario, ma umanissimo, che già attiviamo, forse non sempre consapevolmente, in tanti momenti della vita: in quelli fondamentali, quelli dove la vita fa esplodere l’ordinario e mascherato modo di essere: l’amore, l’odio, la nascita, la morte...
Perché solo imparando ad attivare questo modo altro di sentire e sentirsi, di com-prendere e com-prendersi, si può smettere di cercare il perché e il per come Gesù abbia fatto così o cosà; di pensare cosa avrà voluto dirci nel far questo o quello; cosa allora dobbiamo fare noi – mica che sbagliamo e poi andiamo all’inferno, ecc, ecc, ecc...
Solo così infatti, possiamo stare di fronte a un uomo – che è la rivelazione della faccia di Dio – che non aveva nessun motivo per non congedare la folla, come neanche nessuno determinante per congedarla, e ha scelto di star lì a mangiare con lei...
Che non voleva insegnarci nulla con questa sua scelta, né tanto meno indurci a far qualcosa...
Solo c’è stato. E questo dice chi è Dio.
Sarebbe forse più facile accettare, o Signore, un’opera definita, dai contorni precisi; sarebbe più facile marciare inquadrati e con precise consegne; sarebbe più facile, Dio mio, obbedire specialmente a coloro che hanno già pensato e pesato tutto in vece nostra. Ma non è questo che tu o Signore vuoi da noi. Oggi, tu o Signore, vuoi che ci immischiamo con tutte le folle. Vuoi che ci immergiamo nel mondo che va lontano dal retto cammino e dopo d’aver constatato noi stessi l’immensa angoscia dei tuoi figli sperduti, possiamo allargare i nostri cuori in proporzione alla loro miseria. O Dio fatto uomo, fa che i nostri cuori siano abbastanza umani affinché i nostri fratelli vi si trovino a loro agio quando vi sono accolti.
[mons. Benson]
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