Il Vangelo di questa XXII domenica del tempo ordinario è il diretto proseguimento di quello di domenica scorsa, in cui Pietro faceva la sua professione di fede in Gesù «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» e Gesù a sua volta faceva la sua professione di fede nell’uomo «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa [...]. A te darò le chiavi del regno dei cieli».
Anche nel Vangelo odierno il dialogo è tra Gesù e Pietro, ma il tono è decisamente diverso; addirittura la risposta di Gesù è costruita da Matteo in modo tale da risultare opposta a quella di qualche versetto prima. Infatti mentre là si diceva «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», qui Pietro diventa la pietra d’inciampo (etimologicamente infatti scandalo vuol dire proprio questo); e mentre là la confessione di Pietro era attribuita «né a carne né a sangue, ma al Padre mio che te lo ha rivelato», qui si dice – all’opposto – che Pietro «non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Riguardo alla I parte di questo dialogo tra Pietro e Gesù, che il liturgista ha collocato nella domenica appena passata, dicevamo che, nell’interpretazione, si voleva prescindere dalla lettura che la storia della Chiesa ha fatto sedimentare strada facendo; quella cioè per cui Pietro sarebbe strettamente da identificare con il papa, il regno dei cieli con il paradiso, il legare-sciogliere con il sacramento della riconciliazione, e via discorrendo. Eppure, di fronte alla II parte di questo Vangelo viene la tentazione di chiedere a chi si attiene a quella interpretazione perché non inserisca in essa anche questo pezzo del discorso, attribuendolo alla chiesa istituzionale: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!»... se non altro per coerenza...
Ad ogni modo, preferendo lasciar da parte tali tentazioni, è bene cercare quale sia il punto di svolta che, nel dialogo finora “idilliaco” di Pietro e Gesù, scatena la dura reazione di quest’ultimo. Esso è identificabile chiaramente nel versetto 21: «Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno».
Ciò che Pietro rifiuta è dunque l’annuncio della passione di Gesù. Egli non può accettare che colui che ha appena confessato essere «il Cristo, il Figlio del Dio vivente», parli, a riguardo di se stesso, di persecuzione, sofferenza, morte; tra l’altro attuati ad opera del potere religioso costituito («anziani, sommi sacerdoti e scribi»), ad opera cioè dell’ortodossia ebraica, depositaria della verità su Dio. Questo è inconcepibile nel suo orizzonte di senso: il Messia è il salvatore di Israele, che tutta la tradizione biblica annuncia e fa sospirare, come potranno non riconoscerlo? E com’è possibile che proprio colui che deve salvare, soffra e addirittura muoia? Come può salvare se muore? E addirittura se muore ucciso? Ucciso con l’esecuzione riservata ai maledetti da Dio («Quando uno avrà commesso un delitto passibile di morte, e viene messo a morte, lo appenderai a un palo. Il suo cadavere non rimarrà tutta la notte sul palo, ma lo seppellirai senza indugio lo stesso giorno, perché il cadavere appeso è maledetto da Dio», Dt 21,22-23)? Che Messia è un Messia così? E che Dio è un Dio così? Per l’orizzonte di senso di Pietro tutto questo è impensabile («non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!»)…
Gesù invece ragiona diversamente… La sua prospettiva è un’altra, molto simile a quella presente anche nelle altre due letture che il liturgista, questa domenica, ha messo accanto al Vangelo: è quella per esempio di Geremia, il profeta che patisce, e che anche letterariamente ha saputo esprimere davvero efficacemente il suo patimento («Mi hai violentato, Signore, e io mi sono lasciato violentare; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me. Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: «Violenza! Oppressione!». Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno»); il profeta che patisce, ma che ciò nonostante scopre che rimane vero che vale la pena spendere / perdere la vita per questo Dio («Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo»).
È anche la prospettiva di Paolo, in questo dodicesimo capitolo della Lettera ai Romani, per il quale il culto spirituale (la vera relazione a Dio) è «offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio».
È il modo diverso di pensare la vita che Gesù propone nei termini del «rinnegare se stessi» / «perdere la propria vita»...
Dopo 2000 anni di Cristianesimo forse noi siamo abituati a sentire parlare di passione, crocifissi, morte del Figlio di Dio... ma come per tutte le cose, è necessario fermare un attimo la nostra attenzione su cosa significhi tutto questo, primariamente nella vita di Gesù (e dunque di Dio) e poi nella nostra.
Verrebbe da chiedersi: qual è l’orizzonte di senso di Gesù? Perché dentro all’annuncio festoso del Regno (cfr parabole - «Il Regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo» - Mt 13,44; o i miracoli, segni della venuta del Regno, che libera l’uomo dal male - «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» - Mt 11,4-5; o le beatitudini, ecc...) si insinua quella che pare l’inevitabilità della persecuzione, del patimento, addirittura della morte? Perché Gesù accoglie questo destino e ne parla apertamente, come di una realtà necessariamente implicata con la sua missione?
La storia della teologia ha sconfessato tutte quelle teorie che parlavano di un necessario riscatto che Gesù avrebbe dovuto pagare a Dio per la salvezza degli uomini e che gli uomini in qualche modo avrebbero continuato a pagare, aggiungendo le loro sofferenze a quelle di Cristo, per la salvezza delle anime. Una sconfessione che purtroppo però rimane ancora aliena in molti ambiti della mentalità cristiana, in modo che non solo alla base, ma anche ai vertici spesso si respiri ancora l’aria pesante di queste idee, che rendono Dio uno che per placare la sua ira ha bisogno del sangue dell’uomo; Gesù, la vittima sacrificale che paga per tutti il prezzo altrimenti irremissibile; e l’uomo colpevole a prescindere, e quindi destinato ad una vita di penitenza per guadagnarsi il paradiso).
L’approccio corretto invece (evangelicamente parlando) deve essere tutt’altro... non una teoria filosofica o metafisica che dimentica la storia concreta di Gesù e si lancia in sterili elucubrazioni su Dio, l’uomo, il paradiso, l’inferno... ma uno sguardo che cerca di interpretare il dipanarsi concreto della libertà storica del Figlio di Dio, unico luogo veritiero della rivelazione di Dio.
Perché fondamentale è il fatto che, ripercorrendo e riattualizzando la sua storia, si possono individuare le dinamiche umane che hanno implicato la necessità della sua morte e passione (ancora una volta, non nel senso di una necessità metafisica “Dio aveva prestabilito che...”, ma di una necessità storica: per parlare di Gesù e in lui di Dio, non si può non scontrarsi con quanto è avvenuto, la sua passione e morte!) e le dinamiche umane che sottostanno al patire e morire di ognuno dei suoi discepoli di allora e di oggi.
E queste dinamiche sono fondamentalmente due:
- Dal punto di vista delle infrastrutture costitutive del mondo si mostra chiaramente l’opposizione del pensare secondo Dio e del pensare secondo gli uomini;
- Dal punto di vista delle infrastrutture personali intra-umane, il fatto che “i privilegi si pagano”.
In questo senso, la prima dinamica messa in luce, rivela che la passione è strettamente implicata alla vita di Gesù e dei suoi discepoli, perché questi ultimi pongono in campo una mentalità che si scontra radicalmente con quella del mondo. Gli uomini infatti istintivamente si pensano nel mondo come orfani, senza qualcuno che tiene in mano la loro vita, cosicché essa è posta unicamente nelle loro mani, incapaci di salvarla. In questo sentirsi abbandonati è inevitabile la paura della morte (fisica, ma anche metaforica), che spinge a tentare sempre di “scamparla”, almeno ancora una volta, a scapito però degli altri... mors tua vita mea... Ed è inevitabile che questo oltre all’orfanità, crei anche inimicizia, competitività e aggressività fra gli uomini, dei quali “sopravvivono” i più forti, i più furbi, i più potenti, in un tentativo sempre reiterato di salvaguardare le proprie posizioni. Ed è invece proprio questo che Gesù mette in discussione. Egli ha un’altra mentalità, quella che guarda all’uomo come figlio (di Dio) e fratello (degli altri uomini). Gesù annuncia la lieta notizia che l’uomo non è orfano, gettato nel mondo e abbandonato a se stesso, ma che anzi la sua vita è tenuta da un Altro! Questo scioglie la paura che ci rende rivali: non c’è più bisogno di impegnarsi nel tentativo ad oltranza (ultimamente inutile) di un’auto-salvezza; e non c’è più bisogno che questo avvenga sulle spalle degli altri, che anzi proprio perché tenuti, come me, possono davvero essere guardati ed esperiti come fratelli...
Ma perché questo scontro di mentalità crea l’inevitabile (nel senso di inevitata) passione del Figlio di Dio e dei suoi discepoli? Perché con questa mentalità viene azzerata, proprio in un’ottica di fraternità vera, la possibilità di una legittimazione del potere di pochi sugli altri (potere religioso, politico, economico, affettivo...). E questo determina l’inevitabile (ed inevitata) reazione violenta dei potenti del mondo. Ecco la prima grande causa della passione.
Di altro tenore, la seconda, comunque altrettanto interessante... La dinamica cioè per cui l’orizzonte di senso di Gesù (cioè il suo guardare l’uomo come figlio e fratello), nell’inevitabile gioia, liberazione e comunione che crea fra chi vi aderisce, non può non suscitare l’invidia di chi invece le si oppone. Chi intuisce nella mentalità di Gesù e del suo Vangelo la promessa di una vita buona e per questo le dà credito e la pone in atto, scopre davvero il centuplo quaggiù, un senso per cui vale la pena, una liberazione da paure e fantasmi, una libertà interiore incancellabile... Ma tutto questo è quello che brama la gente... dispersa sui percorsi tortuosi che la vita gli ha insegnato, convinta che il denaro, il potere, «i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe», portino a quella pienezza della vita... E vederla in altri realizzata o almeno germogliata, non può non creare la reazione omicida di chi vede nel bene che capita a un altro, un bene tolto a se stesso... Chi è affamato di senso, di affetto, di libertà, di gioia, di vita piena, non può non guardare con una punta di veleno nel cuore chi tutto questo ha trovato o intuito... questo avviene nei rapporti della chiesa col mondo, delle relazioni normali degli uomini e all’interno della chiesa stessa.
E dentro a questa situazione, i “privilegiati”, discriminati perché invidiati, vivono la loro passione (per le botte che prendono), nella consapevolezza che in parte essa è giustificata (“Chi perseguita ha ragione a reagire di fronte a un dono che altri hanno e che lui brama”) e nel sofferente anelito che pian piano chi li perseguita si renda conto che se spendesse meno energie nell’invidia suicida e omicida, forse si accorgerebbe che, in Cristo, il centuplo che brama è già anche per lui. In quest’attesa i “privilegiati” si uniscono alla gemente attesa di Paolo: «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Rm 8,22-23).
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