Il testo del vangelo che la liturgia ci propone per questa XXI domenica del tempo ordinario (Mt 16,13-20) è uno di quelli che la storia della Chiesa ha maggiormente caricato di precomprensioni e pregiudizi (anche confessionali). Involontariamente, ma inevitabilmente, infatti anche noi, leggendolo, lo associamo alla fondazione del ministero petrino e del sacramento della confessione, così che l’espressione di Gesù «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» starebbe ad indicare l’istituzione del primato papale e quella «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» l’istituzione del sacramento della confessione come è oggi, quindi col sacerdote come ministro, la stola viola, ecc...
Questa immediatezza con cui la nostra testa legge una cosa e ne pensa un’altra, è frutto di quella sedimentazione culturale che l’umanità, e in essa anche la chiesa, porta avanti generazione dopo generazione e che noi introiettiamo semplicemente perché ne siamo impregnati fin da subito, è la cultura in cui nasciamo: “la succhiamo dal seno di nostra madre” direbbe mons. Brambilla.
Eppure oggi, alla luce del rinnovamento degli studi biblici e teologici del secolo scorso culminati nel Concilio Vaticano II con la sua Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum) – per i cui risultati la Chiesa tutta deve ringraziare decine di uomini che (sebbene spesso osteggiati, frenati e perseguitati dal Magistero stesso) hanno speso la vita a studiare, approfondire, capire –, non possiamo più accettare di accostarci ad un testo della Sacra Scrittura con queste precomprensioni. Dobbiamo toglierci le lenti distorte con cui guardiamo al testo e tornare a farlo parlare. Il Concilio dice: «Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole» (DV 12).
Anche perché se solo ci fermassimo un attimo a riflettere, già da soli capiremmo l’assurdità di quanto immediatamente ci verrebbe da pensare: davvero Gesù, in quel momento a Cesarea di Filippo, rivolgendosi a Pietro, ha in testa la storia dei papi? Davvero dicendogli «tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli», Gesù pensava ai nostri confessionali intarsiati e alle loro lucine verdi e rosse perché il fedele sappia se sono liberi o occupati?
Non voglio esagerare nella demitizzazione, e ovviamente è giusto che, chi oggi si occupa teologicamente o magisterialmente del primato petrino e del sacramento della riconciliazione, faccia riferimento a questi brani; ma, concesso questo, a noi rimane il dovere di evitare di distorcere il testo, ricollocandolo nel suo contesto e non riferendolo immediatamente ai problemi ecclesiali odierni.
Il contesto proprio del brano dunque è quello in cui Gesù, «giunto nella regione di Cesarèa di Filippo», dopo 16 capitoli in cui Matteo ha tentato di delineare il suo volto, pone la domanda su cosa la gente e poi i discepoli stessi hanno percepito della sua identità: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», «Voi, chi dite che io sia?».
La vita pubblica di Gesù è ormai ben avviata, a questo punto del vangelo: egli infatti ha già detto molte cose (Matteo nei capitoli precedenti ha infatti già riportato il discorso della montagna, il discorso missionario, il discorso in parabole), ne ha anche già fatte molte (a partire dai racconti sulla sua infanzia, l’inizio della sua vita pubblica, fino ai miracoli e alle controversie coi farisei) ed è come se volesse fermare un attimo il flusso degli eventi e fare il punto della situazione: cosa ha capito di me la gente? Cosa han capito di me i miei?
Ed ecco che arriva la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; risposta che fa sussultare le viscere di Gesù, al quale addirittura scappa detto «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Tenendo sempre presente quanto detto sulla necessità di liberarci dai pregiudizi nella lettura e interpretazione del testo, proviamo a guardare semplicemente alla dinamica che si sviluppa tra Gesù e Pietro.
Gesù sta tastando il terreno, vuole capire in che misura ciò che dice e fa, mostri effettivamente alla coscienza della gente chi lui sia. Questa è la sua preoccupazione fondamentale: che la sua vita, il dipanarsi della sua singolarità, la sua libertà storica, sia incontrata nella sua verità dai singoli uomini e donne che incontra.
Perché è così importante per Gesù che l’uomo non fallisca l’idea su di lui? Perché nello svolgersi della storia di quest’uomo, si rivela Dio. E Gesù sa bene che dall’idea di Dio che uno ha in testa dipende tutto l’orizzonte di senso in cui imposta la sua vita, la sua idea di uomo, di amore, di relazioni, di morte...
L’interrogazione di Gesù dunque non è un pour parler; mostra anzi il costruirsi storico della rivelazione di Dio: Gesù infatti non è solo l’occasione del rivelarsi di Dio, non è il portatore di una serie di norme o definizioni, piuttosto «Questi è Dio», cioè quella libertà storica (di Gesù) nel suo decidersi in nome del Padre!
Ecco perché è così importante anche la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; perché è il riconoscimento! Pietro ha capito che in quell’uomo lì si dà qualcosa che non è contenibile nella categorie solite della religiosità ebraica: Gesù non è Giovanni Battista redivivo o Elia o Geremia; la sua persona non è esauribile dalla categoria di profeta. Egli – dice Pietro – è il Messia, colui che deve venire a salvare gli uomini, e il Figlio di Dio, qualcuno che ha a che vedere direttamente con Dio (la Chiesa poi dirà Dio lui stesso, che per l’ambiente ebraico – da cui provenivano Pietro e tutti i primi cristiani – è una delle bestemmie peggiori, perché infrange in primo – e più importante – comandamento, fondante lo stretto monoteismo ebraico: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me» - Dt 5,6-7). Ecco perché a Gesù nasce come un guizzo di gioia interiore «Beato sei tu, Simone»! E ancora: «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!
Ma cosa vogliono dire queste frasi?
Anche qui, prima di lasciar scorrere il flusso dei pensieri, è bene fare una piccola pausa: perché associare – come ci verrebbe immediatamente da fare – la pietra su cui si edifica la chiesa, con la cattedrale di san Pietro o le chiavi del regno dei cieli, con l’accesso, permesso o vietato, al paradiso è, non solo banale, ma sbagliato!
Discorso molto più serio è piuttosto quello di soffermarsi sulle dinamiche che qui sono in gioco, su ciò che qui Gesù sta facendo: di fronte alla professione di fede di Pietro, cioè di fronte alla dichiarazione di Pietro di fidarsi di Gesù e, in lui, di Dio, Gesù risponde con la sua professione di fede nell’uomo: il Dio di Gesù Cristo è il Dio che si fida dell’uomo: «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!
Se è sconvolgente per la mentalità del tempo che Pietro dica di Gesù «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (dato che – al contrario di oggi – il problema dei cristiani di allora era evidenziare la divinità di Gesù più che la sua umanità, che vedevano tutti; sconvolgente poi per il fatto che Gesù non ha propriamente i tratti del Messia atteso da Israele...) ancora più sconvolgente è che Gesù dica a Pietro «A te darò le chiavi del regno dei cieli»! Che Dio, nel suo Figlio e attraverso il suo Spirito si fidi dell’uomo per la realizzazione del suo regno, cioè – per citare mons. Bettazzi – per la realizzazione del mondo come Dio lo vuole!
Ecco dunque la dinamica seria che c’è in questo testo: che la vita dell’uomo non è costituita solo da una fiducia anonima e infantile in un dio che sta nell’alto dei suoi cieli, ma che la vita dell’uomo è Vita proprio perché consiste nel dare credito che essa è possibile perché fondata su un Altro, che ha il volto di Gesù Cristo; e che – reciprocamente – la vita dell’uomo è Vita perché Dio a sua volta si fida di me, dà credito alla mia buona riuscita.
Tanto che recentemente un teologo della Facoltà Teologica di Milano – don Sergio Ubbiali –ha affermato che il male / il peccato per l’uomo è dire: “è impossibile per me la Vita” (con la “V” maiuscola); che indica la vita buona in tutte le sue forme (per cui male sarebbe ogni dis-umanizzazione della vita, cioè ogni scelta o non scelta che priva la vita della sua qualità umana, in senso forte)!Male è perciò rinunciare alla “Vita” quando la scopro impossibile per le mie forze... E invece questo vangelo ci mostra come la parola di Dio sull’uomo sia: “In me questo è possibile per te”.
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