Per evitare tale pericolo, focalizziamo l’attenzione in modo specifico sulla cosiddetta “parabola della zizzania” (Mt 13,24-30), stando bene attenti però a non scivolare immediatamente dalla parabola vera e propria alla sua spiegazione (Mt 13,36-43), che forse, per deformazione (cattolica), ci è più nota. Quest’ultima infatti ha tutt’altri intenti e tutt’altre finalità rispetto alla parabola e punta interamente l’interesse sulla tematica della fine del mondo; tematica che invece nella parabola occupa solo lo spazio di mezzo versetto (il 30b «al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio») e che dunque non ne costituisce di certo il centro.
Precisato l’intento di concentrarsi soprattutto sulla parabola della zizzania, va chiarita in primo luogo la sua collocazione; essa infatti non è casuale, ma davvero significativa per la comprensione: siamo al capitolo 13 del Vangelo di Matteo, ai versetti 24-30, e cioè immediatamente dopo la spiegazione della parabola di domenica scorsa: quella del seminatore. Ciò che risulta così interessante è il fatto che mentre quella terminava con il riferimento al terreno buono («Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta», Mt 13,23), questa inizia con la menzione del seme buono («Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo», Mt 13,24). Questo richiamarsi così evidente delle due parabole ha una motivazione ben precisa: il fatto cioè che la problematica della seconda è in qualche modo lo sviluppo dell’esito della prima. Mentre in quella infatti si concludeva sottolineando la responsabilità dell’uomo (dei terreni) per la fecondità del seme, in questa nasce una domanda nuova: perché da un seme buono e da un terreno buono, da cui dobbiamo aspettarci ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta, non viene solo un frutto buono, ma anche dell’altro?
Perché cioè, sembra domandare la parabola, neanche quando la Parola di Dio (il buon seme) si incontra in modo fecondo con l’uomo (il buon terreno), il problema dell’ambiguità della storia è risolto? Perché anche nel fruttuoso incontro dell’uomo con Dio rimangono zone d’ombra, interstizi imputriditi, spazi di aridità?
Ma non solo! La parabola infatti sembra suscitare anche tutta un’ulteriore serie di interrogativi: come va identificata la zizzania? Da dove viene? Chi è quello che Gesù chiama un nemico? E soprattutto: Che cosa bisogna fare?
Andiamo con ordine...
Innanzitutto va evitata quella lettura (ereticheggiante) secondo la quale grano e zizzania rappresenterebbero la divisione fra buoni e cattivi. Che non sia questa l’intenzione di Gesù lo si capisce aguzzando la vista e facendo una piccola osservazione: se Gesù qui avesse voluto parlare dei peccatori, avrebbe utilizzato sicuramente un’altra immagine, qualcosa di convertibile in altro. Gesù infatti quando parla dei peccatori o si rapporta con loro, li pensa sempre come convertibili, come coloro cioè che possono trasformarsi in figli della luce, in malati che con l’aiuto del medico possono trasformarsi in sani (Mt 9,12), in pecore perdute che con la ricerca del pastore possono essere ritrovate (Lc 15,4-7); la zizzania invece è un’immagine che non rimanda a questa convertibilità; è troppo statica: e infatti, per quanto possa assomigliare al grano, non potrà mai trasformarsi in esso!
Conoscendo perciò l’insistenza con cui il NT ribadisce la sempre possibile convertibilità del peccatore, non si può qui ammettere una lettura che interpreti l’immagine della zizzania come un simbolo dei peccatori. Il referente deve essere altro.
E la questione infatti è più radicale: la zizzania non sono i malvagi, ma il male in senso forte, quello che non può essere trasformato in bene, ma che resta male radicale.
Ecco dunque il problema vero: perché c’è il male, nonostante il seme buono e il terreno buono?
La parabola espone questo problema ponendo in bocca ai servi due domande: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?».
La prima questione cade nel vuoto. Il padrone infatti alla prima domanda, che metteva in discussione la bontà del seme (che cioè poneva la possibilità dell’origine del male in Dio stesso), non risponde: è già stato detto che il seme era buono.
La seconda questione riceve invece una risposta: «Un nemico ha fatto questo!»; ma è una risposta che non soddisfa; non scioglie la gravità del problema e anzi suscita ancora maggiori interrogativi: chi è questo nemico? È un nemico che si può sconfiggere? Cosa bisogna fare?
Ma la parabola di tutte queste problematiche sembra disinteressarsi. Essa non dà risposta. Il suo interesse è altrove, nella nuova domanda dei servi: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?».
È a partire da qui infatti che si snoda il proseguimento della parabola, facendo di questa domanda il centro di interesse vero di chi racconta e di chi ascolta: il problema è infatti che cosa fare di fronte al male che c’è? Di fronte al male che c’è nonostante terra buona e seme buono si incontrino?
La soluzione proposta dai servi – «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» – la soluzione cioè dell’eliminazione, è ancora nella prospettiva di chi divide il mondo in buoni o cattivi, in giusti e ingiusti, in puri e impuri, con l’implicita premessa di sapere distintamente chi sono i bravi (noi) e chi i cattivi (gli altri) e con la apparentemente ovvia e necessaria conseguenza dell’estirpazione... è la stessa logica dei discepoli quando, di fronte alla non accoglienza di Gesù da parte di un villaggio di Samaria, avevano esclamato: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54).
È la modalità che immediatamente verrebbe naturale anche a noi. Ed in effetti non manca di una sua coerenza interna: togliere la zizzania infatti appare inevitabile per la crescita del grano; essa rischia di soffocarlo, di rubargli nutrimento, luce, aria e dunque vita! Non è una proposta assurda dunque quella dei servi: per la vita del grano, perché possa crescere più vigoroso, solido, robusto, è meglio che gli sia strappata intorno l’erbaccia che lo opprime... anche a rischio di strappare un po’ di grano – ci verrebbe da dire...
Eppure... questo discorso che a noi pare così lineare riceve nella parabola un duro rifiuto: «No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme». Per il padrone di casa è meglio che zizzania e grano crescano insieme! Conosce di certo le nostre obiezioni: il rischio che il grano soffochi, che faccia più fatica a crescere e a svilupparsi... Eppure preferisce correre questo rischio che percorrere la strada dell’estirpazione. In essa infatti il pericolo è ancora più realistico: che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano.
È dunque la salvaguardia del grano il principio che guida la scelta del padrone!
Alla logica dei servi, così simile a quella di Caifa per cui «È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» (Gv 18,14), che una parte di grano sia strappata per la buona crescita del restante, Gesù contrappone quella della salvaguardia della singolarità preziosa di ciascuno. Il Dio di Gesù è fatto così: non ragiona secondi i calcoli economici del massimo profitto (per cui val la pena a volte anche sacrificare qualcosa/qualcuno per una rendita maggiore – come di fatto funziona il nostro mondo), ma secondo quelli della massima cura di ogni singolo uomo: «Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti» (Sap 12,13.16).
Ma resta ancora qualcosa da dire... infatti, fatta salva la cura della singolarità di ognuno, resta il problema di questo “rimanere” della zizzania...
Se la zizzania nella parabola rappresentasse i cattivi, i peccatori, i malvagi, si potrebbe ancora capire il desiderio di Gesù di non estirparli: dicevamo, per lui sono sempre convertibili.
Ma se – come abbiamo detto – la zizzania rappresenta il male (il male che c’è in ciascuno di noi e nel mondo in generale) perché non va estirpato? La nostra singolarità non sarebbe ancora più custodita se il male fosse eliminato? Gesù non era venuto proprio per liberarci da esso? Sicuramente sì...
E di fatti “tenere” la zizzania non vuol dire accettare un compromesso col male, un rassegnarsi inoperoso alla sua presenza (in noi e nel mondo), ma è un prendere coscienza serio della realtà: la zizzania che rimane nel campo è come una fotografia della storia, un invito a uno sguardo lucido su di essa che porti alla consapevolezza dell’ambiguità dei percorsi umani che accompagna tutta l’esistenza e che va assunta.
E l’ambiguità è questa: che come non si può dividere l’umanità in buoni e cattivi, allo stesso modo non si può neanche col bisturi separare nel nostro cuore il limpido dal torbido, il chiaro dall’ombroso... e non perché l’uno non possa esserci senza l’altro (quasi che il male fosse necessario al bene), ma perché ogni bene è bene storico, si dà cioè in una storia, che ha un prima e un dopo, una germinazione silente e un futuro incerto, che impedisce qualsiasi assolutizzazione o fissazione, foss’anche del momento più bello della vita.
Per usare un’immagine: non possiamo pensare la nostra vita personale e la vita del mondo in generale come una linea retta in cui, in una progressione continua, man mano estirpiamo questo male, questo difetto, questo limite... per arrivare ad “essere apposto”.
Ad ogni istante infatti si ripropone per l’uomo la questione fondamentale della sua esistenza: l’inevitabile domanda su chi egli sia e dunque l’inevitabile scelta su chi egli voglia essere. E seppure è vero che tale questione, nel procedere della vita, è posta in modo diverso, con soglie che come regali a volte si schiudono, e che dunque – come dice Paolo – man mano, «colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito», all’uomo rimane sempre comunque l’inesauribile problema di se stesso, di farsi e costruirsi, di scegliere se esser-ci o auto-distruggersi, di vivere o di morire...
Ecco cos’è dunque il campo di grano con la zizzania: la fotografia della realtà, di come siamo fatti, della storicità della costruzione della vita! Perché nessuna assolutizzazione (nel male e nel bene) interrompa il farsi dell’uomo...
E per concludere... e forse, per chiarire... un piccolo stralcio del libro L’ultimo giro di giostra di T.Terzani, il quale nelle pagine finali, dopo aver raccontato della scoperta di avere un cancro e di tutto il viaggio interiore che questo l’ha portato a fare, commenta:
«Un lieto fine per questo?.
E che cos’è lieto, in un fine? E perché tutte
le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia del
viaggio che ho appena raccontato? “... e visse felice e contento”? Ma così
finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il
tempo comunque consuma. E poi chi giudica ciò che è lieto e ciò che non è? E
quando?
A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un
bene o un male? È stato, e questo è l’importante. È stato, e con questo mi ha
aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto,
non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.
Questa non è
un’apologia del male o della sofferenza – e a me ne è toccata ancora poca. È un
invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista»
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