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giovedì 10 luglio 2008

«Perchè parli con loro in parabole?»

I testi che la liturgia ci propone per questa quindicesima domenica del tempo ordinario (Is 55,10-11; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23) sono ricchissimi e capaci di suscitare nel lettore tantissimi interrogativi.
Innanzitutto emerge come evidente e preliminare a qualsiasi altro discorso, la problematica riguardante la parola di Dio, in particolare la sua potenza.
Il libro di Isaia infatti ne dà una presentazione vigorosa, ricca di termini incalzanti, energici, entusiasti, tutti tesi a mostrarne l’assoluta efficacia: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata»...
Eppure nel Vangelo sembra comparire proprio un contraltare a questa certezza nella potenza della parola:
- In primo luogo il motivo stesso che occasiona la parabola; a detta degli studiosi infatti questo testo sarebbe il tentativo di rispondere all’angoscioso interrogativo dei discepoli (e della chiesa primitiva) sulla scarsa efficacia della predicazione di Gesù (prima) e degli apostoli (poi). La domanda che sottostà alla parabola suonerebbe infatti più o meno così: “Come mai la parola – che è di Dio – è rifiutata, poco forte ed efficace?”.
- Ed inoltre: perché Gesù stesso parlando coi suoi discepoli utilizza parole così dure nei confronti dei suoi interlocutori, tanto che arriva a dire che parla loro in parabole «perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono»?
Ma non ci avevano insegnato che Gesù non vuole fondare una setta esoterica, ma un gruppo di credenti dalla chiara impronta universalistica? E non c’avevano forse detto che usava le parabole, con il loro linguaggio semplice e quotidiano, proprio per farsi capire da tutti?
Come mai allora in questo brano Gesù ai discepoli che gli si avvicinano e gli chiedono «Perché a loro parli con parabole?», risponde sorprendentemente: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato»?
Forse qui, come domenica scorsa si aveva la sensazione che i misteri del regno dei cieli fossero solo per i piccoli e non per i sapienti e gli intelligenti, c’è un riferimento all’esclusività di alcuni nella comprensione del Regno? Esclusività sorprendente già di suo e tanto più in questo caso, se si pensa che quei loro a cui non è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, qui non sono né avversari, né nemici di Gesù, ma semplicemente, le folle; le stesse per cui Gesù spessissimo – ci dice Matteo – sente compassione...
La questione non è un semplice sfizio dell’intellettualismo accademico, ma è radicale: non si tratta di risolvere la problematica contingente riguardo al fatto che mentre Gesù raccontava una parabola qualcuno non capiva... Ma di andare a sviscerare il marchingegno (che è vero sempre, e dunque anche per noi) con cui “funziona” la parola di Dio o con cui “non funziona”... Compito fondamentale perché quella parola, come con veemenza ci ha riproposto il Vaticano II dopo decenni di oscurità, non è un insieme di dottrine o di verità (al plurale) su Dio, Gesù, gli angeli, la chiesa, ecc... per cui fallirne la comprensione non sarebbe così significativo per la nostra vita. Ma è l’autocomunicazione stessa di Dio, della sua interiorità, di se stesso (e per cui fallirne la comprensione, vuol dire fallire Dio!). Come ci ricorda il Concilio infatti: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare Se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé [Dei Verbum 2].
Ecco perché la questione non è banale: perché nel rapporto fondamentale e fondante la nostra vita, quello con Dio (perché è a partire dall’idea di Dio che uno ha in testa, che forma il suo orizzonte di senso, e quindi l’idea di uomo, di altro, di amore, di morte, di senso...), l’incontro (la comunione) avviene – come tra amici – nell’accedere l’uno all’altro, nello scoprirsi reciproco (rivelarsi), nella conoscenza, nell’amore.
Ma se è così importante accedere a questo reciproco comprendersi, perché Gesù in Mt 13,10-15 appare così duro: «a loro non è dato», «perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”».
Forse una chiave di lettura la si può trovare in quei verbi che Gesù riprende dalla citazione di Isaia, ma a cui cambia il modo verbale (dal congiuntivo all’indicativo): Gesù non dice «perché guardando non vedAno... non ascoltIno... non comprendAno», bensì «non vedOno, non ascoltAno, non comprendOno».
Perché questo cambio? Perché così la prospettiva muta radicalmente: mentre un congiuntivo lascia intendere che sia volontà di Dio la non comprensione, l’indicativo sposta l’accento sulla responsabilità umana.
Ecco allora la risposta alla problematica angosciata dei discepoli “Come mai la parola – che è di Dio – è rifiutata, poco forte ed efficace?”: perché essa, essendo parola di Dio, “funziona” come “funziona” Dio, e cioè acconsentendo a lasciarsi pervadere dalla logica della debolezza, del rispetto e della libertà. Essa non vuole/può (perché è di Dio e Dio è fatto così) imporsi, farsi accettare per forza, ma ha sempre i tratti del “se vuoi”, a costo di essere incompresa, disprezzata e addirittura inefficace! Isaia ha ragione, per chi l’accoglie, la Parola è come la pioggia e la neve, che scende dal cielo e non vi ritorna senza irrigare, fecondare e far germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia... Ma appunto: per chi la accoglie, per chi si decide per avventurar la vita nel rapporto col Signore.
Un avventurarsi per niente lineare o facilone, ma anzi che ha i toni “dell’impresa”, non adatta agli smidollati! E questo vale ogni volta che ci si confronta col Vangelo, sia esistenzialmente, che intellettualmente (che poi non sono approcci così lontani, come ci viene immediatamente da pensare... tant’è che chi pensa, non solo pensa l’esistenza, ma nell’esistenza). In questo senso va sfatato anche il mito della parabola come storiellina per i semplici, fatta di parole facili, con una morale chiara, affinché tutti possano comprendere. No! Il linguaggio parabolico non è per niente immediato; il nostro testo lo dice esplicitamente: le folle non capiscono la parabola!
Essa infatti, come la Parola tutta, come Dio stesso, richiede, per avere accesso ad essa, un acconsentire a lasciarsi coinvolgere. O ci lasciamo tirar dentro a una relazione o non capiremo nulla. È sbilanciandosi che si conosce (proprio come tra amici). E se si attua questo lasciarsi prendere, la parabola col suo meccanismo ci conduce in un percorso, dove è richiesta testa, passione, decisione: essa parte sempre da un aspetto quotidiano («il seminatore uscì a seminare»), introducendo però qualcosa di paradossale, strano, esagerato (questo seminatore è uno sprecone!); qualcosa che attira l’attenzione dell’ascoltatore/lettore e gli attiva la testa, che senza accorgersi inizia a porsi una carrellata di domande (Chi è questo seminatore? Perché agisce così? E il seme? E i terreni? E il frutto?), fino ad arrivare al disvelamento, che va ben oltre la storiella di un contadino strano, e che parla della sovrabbondanza indiscriminata (senza discriminazioni!!!) con cui il Signore getta la sua parola, anche dove un’analisi previa lascerebbe scarse possibilità (per non dire nulle) di raccogliere frutti; e la promessa che seppur andasse male, una, due, tre... volte, laddove si facesse anche solo una piccola breccia nel cuore dell’uomo, lì il frutto sarebbe sovrabbondante!
Ecco perché forse, la spiegazione seguente non va tanto intesa come una sorta di divisione dell’umanità in varie tipologie di terreni, in cui naturalmente i cristiani (anzi i cattolici) sarebbero identificati col “terreno buono”; piuttosto è il cuore di ogni uomo ad essere abitato da zone sassose, interstizi aridi, ombre spinose... eppure, pare dire Gesù spiegandosi, bisogna andare a cercare, quella piccola porzione di interiorità, dove uno, può ascoltare e comprendere la parola, può cioè riuscire ad acconsentire a lasciarsi tirar dentro ad una dinamica di liberazione interiore, che è irreversibile perché straripante.
A volte capitano questi miracolini nella gente: e allora vedi che l’ingrugnimento si scioglie in sorriso, il raggomitolamento in spensieratezza, l’essere bloccato dentro in libertà, la paura in affidamento, la durezza in coccole, il pianto in serenità...
Ma per molti invece il tempo è ancora quello che Paolo descrive con la semantica del gemere: «le sofferenze del tempo presente», «la caducità», «la schiavitù della corruzione», il gemere «interiormente»... è ad essi (che poi, in qualche modo siamo tutti) che il Signore getta sovrabbondantemente la sua parola, che è poi Lui stesso... perché tra tanti sassi, spine e terreni aridi, le zollette buone del nostro cuore possano dare il 30, il 60, il 100 per uno!

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